Solidarietà è giustizia Parola di Hume e Kant

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Numero ottantuno – Novembre 2012
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te.i
Mensile di cultura e conversazione civile diretto da Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra
RACCONTI
DALLA CINA
Guglielmo
Chiolini
Personaggi
e avvenimenti
della storia
pavese
L’OASI
DEI DIECIMILA
LIBRI
ARRIVA IL NUOVO
LIBRO FOTOGRAFICO
A TIRATURA LIMITATA
Sisto Capra
ALLE PAGINE 10-11
A cura di
Socrate al Caffè
e Associazione
Pavia Fotografia
TUBERCOLOSI
Uno spettro
del passato
tornato alla ribalta
L’emigrazione dal Nord
Giovanna Riccardi
ALLE PAGINE 12-13
Prenotatelo
subito al
339.8672071
o scrivendo a
[email protected]
Mi ero consultato piuttosto
a lungo con il vecchio Socrate. Mi avevano chiesto
di tenere una piccola orazione sul tema della solidarietà. L’occasione era quella del Premio Il Ponte che
la Fondazione Guido Venosta dedica ogni anno a persone e istituzioni che abbiano come scopo il fare
bene ed efficacemente il
bene per altri, che si trovino
in condizioni di bisogno e
severo svantaggio. Persone e istituzioni che operano
nel mondo del non profit.
Guido Venosta, il fondatore
dell’Airc, aveva dedicato un
importante piccolo libro
proprio al tema: Dal profit al
non profit. Il Sileno ci ha
pensato su un po’ e, alla
fine, mi ha detto solo che è
tutta una questione di amicizia fra i membri della polis. E per quanto la faccenda del trasferimento dei
metodi di gestione delle
aziende sul mercato a organizzazioni di altruismo
Ermanno Fabio Greggio
ALLE PAGINE 2-3-4-5
civico
fosse un
argomento un po’
ostico per
il mio coach filosofico, il suo
invito a
riflettere sui legami e sui
vincoli dell’amicizia nella
città mi aveva aiutato. Così,
ho cominciato dicendo che
vi sono almeno due modi di
pensare la solidarietà nella
filosofia politica e morale
contemporanea, con tutta
l’eco dei dialoghi nell’agorà.
Il primo fa perno sulle nostre motivazioni. Il suo padre nobile è il grande David
Hume, secondo cui solo le
motivazioni motivano. È la
nostra esperienza del dolore o della sofferenza altrui
che innesca la risposta solidale, in virtù dell’empatia o
della simpatia.
Claudia Ambrosini
ALLE PAGINE 6-7-8-9
La giustizia
vale per chiunque. Essa
è dovuta a
chiunque, in
un’etica
dell’eguale
rispetto per
stranieri morali. Mi è venuto in mente, a
questo punto, che Guido
Venosta ci può aiutare a
chiarire le idee, che spesso
l’indagine filosofica può
rendere lontane e opache
nelle nostre vite. Nel suo
luminoso libretto ci racconta della sua condizione di
figlio che prova
l’esperienza della sofferenza dei suoi genitori, ammalati di cancro. Ciò ha a che
vedere con le motivazioni.
Ma poi, quando ci descrive
la genesi del progetto
dell’Associazione, a un certo punto ci dice, chiamando
in causa le ragioni, che solidarietà è giustizia. Chi è
avvantaggiato deve qualcosa a chi, senza sua respon-
Solidarietà è giustizia
Parola di Hume e Kant
Questioni di sentimenti
morali, avrebbero detto i
moralisti inglesi e scozzesi
di SALVATORE VECA
del Settecento. Cose da
neuroni specchio, ci dicono
oggi le neuroscienze cognitive. Alla base dell’etica
della cura e della sollecitudine per altre persone, persone biografiche. Il secondo fa perno sulle nostre
ragioni. Il suo padre nobile
è, questa volta, Immanuel
Kant. La solidarietà si converte in questo caso in giustizia, nel riconoscimento
razionale di quanto ciascuno di noi deve a ciascun
altro. Sullo sfondo di
un’etica della reciprocità
del rispetto. Ma le ragioni
funzionano, hanno effetti
solo se ci riconosciamo
sulla stessa barca, partner
di una qualche comunità.
la Feltrinelli a Pavia,
in via XX Settembre 21.
Orari:
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Domenica 10:00-13:00 / 15:30-19:30
sabilità, versa in condizioni
di svantaggio, di severo
svantaggio. Ecco come
pensare, in tempi difficili,
che motivazioni e ragioni
per la solidarietà debbano,
per così dire, andare in tandem. E questo, alla fine,
potrebbe essere il promemoria per un modo di convivere solo più civile e meno indecente, in cui non sia
raro il semplice e prezioso
gesto di umanità.
MINERVA
D’ARTISTA
A PAGINA 13
Collegio
Ingegneri
e Architetti
La bisaccia
di Protagora
A PAGINA 14
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
Quand’ho finito la mia piccola orazione, il vecchio
Socrate mi si è avvicinato
e, piuttosto soddisfatto, mi
ha detto che me l’ero cavata abbastanza bene, ma
soprattutto che gli erano
venute in mente due o tre
domande e che era già
pronto per un dialoghetto
sul volontariato e
l’altruismo. Grazie di cuore,
Sileno, ma questo lo riserviamo per un prossimo giro
alle nostre lettrici e ai nostri
lettori.
Walking
Art
GIORGIO FORNI
PAGINA 15
Numero ottantuno - novembre 2012
Pagina 2
L’ITALIA IN SUDAMERICA
L’emigrazione dal Nord
Storie di una famiglia
veneta del ‘900.
Il Veneto e la miseria
della sua gente.
Al posto degli schiavi
in Brasile.
Nelle risaie
della Lomellina.
di ERMANNO FABIO GREGGIO - [email protected]
C’è un’Italia in Sud America. Centotrenta anni
fa iniziò un flusso migratorio di italiani, in larga
maggioranza proveniente dalle regioni del Nord,
verso quelle terre della
mitica “Merica”. Il libro
che ho in cantiere si
chiamerà “Talian”, in altre parole il nome in cui
si riconosce gran parte
degli oriundi italiani negli
stati del Sud Brasile, attorno ai quali si sviluppa
il pretesto della storia
della mia famiglia di origine veneta, per affrontare un fenomeno sconosciuto nei numeri,
nell’influenza sociologica, culturale e linguistica, che in Italia è quasi
completamente ignorato.
Allora parliamo di numeri. Negli stati del sud
del Brasile (São Paulo,
Espìrito Santo, Paranà,
Santa Catarina, Rio
Grande do Sul) oggi vi
sono ventotto milioni di
oriundi italiani, di cui diciotto milioni di origine
triveneta. Lo stato di Sao
Paulo conta quarantuno
milioni di persone di cui il
35% di origine italiana.
La città di Sao Paulo,
IN ALTO, RIPETUTO IN TUTTE LE PAGINE DEL SERVIZIO: MANIFESTO DEL 1886,
TRATTO DALLA PUBBLICAZIONE DI LORENZA SERVETTI,
VADO NELLA MERICA. È LÌ DI LÀ DALLE COLLINE, MARSILIO, VENEZIA 2003.
QUI SOPRA: PARTENZA DI EMIGRANTI PER IL BRASILE DAL PORTO DI GENOVA AGLI INIZI DEL ‘900.
A DESTRA: LOCANDINA DI PUBBLICITÀ “NAVI PER L’AMERICA” DEL 1926
una delle più grandi del
mondo, conta circa sei
milioni di oriundi italiani,
cosa che ne fa la città
più italiana nel modo davanti a Roma.
Gli italiani, in maggioranza veneti, che scesero
dai vapori arrivati nel
porto di Santos, nelle
ultime decadi del secolo
XIX, andavano a sostituire gli schiavi negri resi
liberi cittadini da una legge del 1885. Si partiva
dai porti italiani e dopo
un mese di vapore in
condizioni quasi disumane si arrivava in Brasile,
dove ad aspettare gli
immigrati vi erano spesso milizie private armate
di fucile.
Il percorso per chi aveva
già un contratto di lavoro
per le piantagioni di caffè
dell’entroterra, si faceva
a piedi, a tappe. Spesso
erano alcune centinaia di
chilometri.
Le condizioni di lavoro
erano pessime, si dormiva in enormi casermoni
con aree separate da
lenzuola. Il costo del viaggio era trattenuto dal
salario, ma il padrone
era anche il detentore
dello spaccio dei viveri:
in pratica diveniva impossibile tornare in Italia.
Molti italiani ritornarono
invece in patria verso gli
ultimi anni dell’800 a
causa della crisi del
commercio del caffè.
Diversa la storia nel Rio
Grande do Sul. RGS era
uno stato poco abitato,
terra di rivoluzioni garibaldine, contesa con
l’Argentina, di lingua
spagnola oltre al portoghese. Le terre pianeggianti, quindi migliori,
furono occupate dai tedeschi che vivevano in
comunità chiuse senza
contatto con il mondo
brasiliano.
Lo stato brasiliano favorì una colonizzazione
massiccia di quelle terre
per reclamarne in modo
definitivo l’autorità.
L’immigrato veneto era
privilegiato perché bianco, cattolico, latino, euro-
peo, prolifico e grande
lavoratore della terra. La
cosa più sovrapponibile
a un portoghese. Ai contadini veneti che lasciavano le loro terre a partire dal 1870 a causa della crisi dei piccoli latifondi alla volta del Rio
Grande, era regalato il
viaggio e promessa terra
da coltivare.
Si arrivava alle terre
promesse, vergini e in
piena foresta, attraverso
il guado di fiumi e vie
create con il macete. Qui
i coloni erano abbandonati a se stessi, fra animali feroci, terre da bonificare, alimentandosi con
serpenti e animali sconosciuti, fra sofferenze i-
Il giornale di Socrate al caffè
Direttore Salvatore Veca
Direttore responsabile Sisto Capra
Editore: Associazione “Il giornale di Socrate al caffè”
(iscritta nel Registro Provinciale di Pavia delle Associazioni senza scopo di lucro, sezione culturale)
Direzione e redazione via Dossi 10 - 27100 Pavia
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Redazione: Mirella Caponi (editing e videoimpaginazione), Pinca-Manidi Pavia Fotografia
Stampa: Tipografia Pime Editrice srl via Vigentina 136a, Pavia
Comitato editoriale: Paolo Ammassari, Silvio Beretta, Franz Brunetti, Davide Bisi, Giorgio Boatti,
Angelo Bugatti, Claudio Bonvecchio, Roberto Borri, Roberto Calisti, Gian Michele Calvi, Mario Canevari,
Mario Cera, Franco Corona, Marco Galandra, Anna Giacalone, Massimo Giuliani, Massimiliano Koch,
Isa Maggi, Arturo Mapelli, Anna Modena, Alberto Moro, Federico Oliva, Davide Pasotti, Fausto Pellegrini,
Aldo Poli, Vittorio Poma, Paolo Ramat, Carlo Alberto Redi, Antonio Maria Ricci, Giovanna Ruberto,
Antonio Sacchi, Dario Scotti.
Autorizzazione Tribunale di Pavia n. 576B del Registro delle Stampe Periodiche in data 12 dicembre 2002
Ecco dove viene distribuito gratuitamente
“Il giornale di Socrate al caffè”
naudite. È qui che si forgia la mitica figura rude
e impavida del gaucho
veneto-brasiliano, caparbio, tenace, sempre a
cavallo fra le sue terre,
fra bestiame e praterie.
Una figura di cui Garibaldi ne riporterà
l’iconografia incorniciato
nel suo poncho in azione
durante la Rivoluzione
Farroupilha. Nelle colline
fra il Rio Grande e Santa
Catarina si sviluppò un
nuovo Veneto, ricreando
un bacino architettonico
e culturale simile al Trevigiano. Oggi laggiù, a
distanza di 130 anni,
l’italianità resiste in città
di centinaia di migliaia di
abitanti, in cui il 90% dei
cognomi sono tipicamente veneti. Nei primi villaggi sorti dal nulla la
predominanza veneta
prevaleva sugli immigranti di altre regioni italiane, di altri stati europei, di autoctoni indio o
ex schiavi. E tutti finirono
con il comunicare in uno
strano veneto, una koinè, risultante dalla fusione di vari dialetti triveneti, con infiltrazioni di parole portoghesi venetizzate, e con un forte accento tra il veneto e il
brasiliano. È stata definita l’ultima lingua neolatina nata, il Talian o Vêneto brasileiro.
(Continua a pagina 3)
Numero ottantuno - novembre 2012
Pagina 3
L’emigrazione dal Nord
(Continua da pagina 2)
Una lingua oggi parlata
da circa cinque milioni di
persone e capita da almeno dieci milioni, che
ha recentemente ottenuto dal governo di Brasilia
il titolo di idioma autoctono brasiliano, uno dei più
personaggio talian Nanetto Pipetta pubblicati a
puntate sul Correio Riograndense di Caxias do
Sul, capitale dell’enclave
veneto brasiliana fra il
nord Riograndense e il
sud dello Stato di Santa
Catarina. Nella città di
Sao Paulo
ste comunali sono state
scritte in italiano e portoghese), nello stile delle
case. Per le strade si
sentiva più italiano (o
dialetti) che portoghese.
Il governatore dello stato
affermò che se sul tetto
di ogni casa fosse stata
esposta la bandiera del
L’ITALIA IN SUDAMERICA
ne verso la città di Brasiliani provenienti da altre
aree del paese, quasi
l'85% della popolazione
fosse discendente almeno in parte da italiani
[Wikipedia].
In Sao Paulo si andava
delineando quel fenome-
lo stato brasiliano era
assente. Sorsero paesi e
città veneto-brasiliane
dei nomi inequivocabili:
Nova Brescia, Nova Padova, Garibaldi, Montebelluna, Nova Venezia.
Fu solo dopo il 1937 con
la messa a regime
dell’Estado Novo, che il
se, ma solo il Talian, in
famiglia, per strada, sul
lavoro.
“Talian” non tratterà
solo del Brasile. Metà
dei quaranta milioni di
argentini è di origine italiana con forte prevalenza ligure soprattutto nella zona di Baires
IN ALTO A SINISTRA: NUOVA EUROPA, STATO DI SAO PAULO (BRASILE). INSTALLAÇÀO DE UMA FAMILIA. A DESTRA: DOURADO-ARATIBA, RIO GRANDE DO SUL (BRASILE). NUOVI INSEDIAMENTI DI COLONI, 1920.
QUI A SINISTRA: CRAXIAS DO SUL, PRIMI INSEDIAMENTI ITALIANI. QUI A DESTRA: CAXIAS DO SUL OGGI. 400 MILA ABITANTI, 90% TALIAN.
usati dopo il portoghese.
Il Talian è la lingua usata in molte radio locali,
giornali, Tv. È la lingua
della cittadina di Serafina Correa, che una settimana l’anno impone
l’uso obbligatorio per
decreto ai cittadini.
Era la lingua parlata da
cremaschi e liguri, da
calabresi e napoletani,
da polacchi e negri: un
veneto ibrido con tanto
di vocabolario Talianportoghese, libri, storielle
per i bimbi del famoso
l’immigrazione fu più
qualificata: mentre solo
l’uno per mille dei nostri
immigranti parlava
l’italiano, i tecnici e i
commercianti in Sao
Paulo parlavano la lingua madre.
Nei primi anni del Novecento, São Paulo è stata
vista come una "città italiana". Si vedeva subito il
carattere italiano della
città: in cucina, gli annunci (anche avvisi di
pagamento delle impo-
Paese di origine del proprietario, San Paolo, vista dall'alto, poteva sembrare una città italiana.
La città di San Paolo è
cresciuta rapidamente in
seguito ad una massiccia immigrazione, tanto
che, nel 1920, quasi due
terzi dei suoi abitanti erano stranieri o figli di
immigrati e gli italiani
rappresentavano oltre la
metà della popolazione
maschile della città. Si
dice che nel 1974, prima
della grande immigrazio-
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no di italianità autoctona,
autonoma, evoluzionisticamente originale, fuori
dal contesto nazionale,
fenomeno tipico, per esempio, delle città americane o australiane nei
confronti della madre
patria inglese, da cui si
inizia a differire nel linguaggio, negli usi e nei
costumi pur mantenendone il substrato culturale di base.
Nel sud del Brasile gli
italiani erano abbandonati dalla madre patria, e
governo brasiliano cancellò molti di quei nomi
italiani per uniformare
l’eterogeneità eccessiva
dovuta all’apporto di diverse culture e fu proibito l’uso del Talian: in
pubblico o persino nella
propria casa era considerato offensivo e antipatriottico e meritevole di
severe punizioni.
Si riscontrarono situazioni paradossali di gente
che viveva da generazioni in Brasile e non aveva
mai parlato il portoghe-
(Buenos Aires).
L’italianità in Argentina
si evince anche dalla
lingua che ricorda un
castigliano parlato da un
italiano, con suoni tipicamente familiari, dove
sparisce la esse dolce,
quasi bolognese, tipica
dello spagnolo, per essere sostituita dalla
squillante esse ligure. A
Baires si parla con una
cantilena italiana, si usa
il “ciao”, il superlativo
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Pagina 4
Numero ottantuno - novembre 2012
L’emigrazione dal Nord
L’ITALIA IN SUDAMERICA
(Continua da pagina 3)
assoluto e molte altre
parole del Bel Paese. Gli
italianismi si catturano
anche nel Lunfardo, la
lingua del Tango.
Il Tango è l’evoluzione
musicale della milonca
suonata dai negri sui
battelli che risalivano il
Rio Plata. I Francesi lo
integrarono con il bandoneòn, la fisarmonica parigina.
Ma furono gli italiani dei
quartieri malfamati di
Boca, vicino al porto,
che nei postriboli fra coltelli e prostitute, iniziarono a regalare al tango le
parole. Parole che inizialmente erano parte di
un idioma goffo, uno
spagnolo parlato dai liguri, la cui risultante era
un comico pidgin italo
ispanico detto Cocoliche.
IN ALTO A SINISTRA: CASE TIPICHE NEL QUARTIERE BOCA.
A DESTRA: DIZIONARIO LUNFARDO-CASTIGLIANO.
SOTTO: SOUTHITALIANS USA 1905.
Il Cocoliche può essere
paragonato al milanese
parlato dai primi meridionali immigrati a Milano
nel boom economico.
Tale varietà linguistica fu
usata nel teatro popolare
argentino, il Sainete, in
cui nacque il personaggio comico di
"Cocolicchio", caricatura
di un italiano del sud che
si rende ridicolo con il
suo modo di parlare, vestire e comportarsi.
L’evoluzione di questo
linguaggio portato nelle
galere malfamate fu il
Lunfardo, da lumbard,
l’aggettivo dispregiativo
sostitutivo di “ladro” con
cui gli immigrati francesi
identificavano gli italiani.
Nel Lunfardo confluirono parole di dialetti italiani del nord, sud, Yiddish,
anagrammi per confondere i questurini nelle
carceri. Termini come
pelandrùn, polènta, fiàca
o di gerghi italiani come
abotonàdo (sposato),
campàna (palo nella
banda), garfignàr
(rubare), malandrino
(delinquente), minga (no,
nessuno), belinùn
(tonto), festichola (festa)
riconducono ai dialetti a
piene mani.
Lo stesso Caminito, uno
dei più celebri tanghi, è
parola sconosciuta in
spagnolo: deriva da
“caminetto”, in altre parole piccolo camino, appunto caminito. Oggi il
Lunfardo è l’idioma di
Buenos Aires.
Nei primi anni del ‘900
al quartiere Boca, dove
vivevano 500 mila immigrati italiani, in prevalenza liguri, fra casette di
latta colorate che ricordano ancora oggi gli edifici della Riviera che si
affacciano sul mare, un
candidato alla Presidenza della Repubblica di
origine spagnola tenne
un comizio tradotto per
l’occasione in genovese.
Genovese è la cantilena
dei Portegni (Buenos
Aires) che assomiglia
vagamente a quella di
Chioggia vicino a Venezia, non a caso
anch’essa popolata in
passato da liguri.
Maradona, mito argenti- O l’incredibile enclave
no, fu definito in patria
“El pibe de oro”. Pibe
deriva dal genovese pivèl, in altre parole
“ragazzo”, direttamente
dal Lunfardo di Baires.
E poi ancora in Uruguay, dove un uruguaiano su tre è di origine italiana e la capitale Montevideo è una città garibaldina per antonomasia.
veneta nel cuore del Mexico, Chipilo, dove 120
famiglie provenienti da
Segusino nel Feltrino
bellunese, da
centoquarant’anni vivono
in una cittadina di 15mila
anime, tutte discendenti
da quegli immigrati. Il
loro isolamento ha prodotto la conservazione di
un veneto arcaico, og-
getto di studio di glottologi statunitensi che osservano l’evoluzione linguistica parallela fra la terra
d’origine e quella mexicana. Ebbi in passato un
carteggio via mail con un
professore di linguistica
di Chipilo. Mi chiese di
scrivere in lingua veneta,
perché a lui più comprensibile dell’italiano.
Conservo per documen(Continua a pagina 5)
Pagina 5
Numero ottantuno - novembre 2012
L’emigrazione dal Nord
L’ITALIA IN SUDAMERICA
(Continua da pagina 4)
tazione quegli scritti di
veneto arcaico, che curiosamente ha diverse
inflessioni lombarde.
Arrivando agli Stati Uniti, dove fino al 1920 gli
immigranti italiani erano
classificati in base
all’origine rispetto al punto geografico di Firenze,
in Northitalians e Southitalians. I Southitalians
non erano considerati di
razza bianca e quindi
trattati come tali. I primi
immigrati italiani negli
States furono Norditaliani, lombardi, piemontesi,
tecnici professionisti che
arrivarono in oltreoceano
prima dell’unità d’Italia.
Essi erano più colti
dell’americano medio, il
quale quindi aveva
un’immagine dell’Italia
come di un paese culturalmente avanzato e progredito. Quando arrivarono i primi immigranti
analfabeti e incolti
dell’Italia meridionale, i
primi provarono vergogna e si spinsero verso
ovest, partecipando attivamente alla conquista
del West, la cui epopea
LITTLE ITALY, NEW YORK, AI PRIMI DEL NOVECENTO. SOPRA A DESTRA: LO SBARCO A BUENOS AIRES, 1912.
è ricca di cognomi italiani spesso trasformati per
opportunismo in traduzioni Inglesi, come Ca-
stelbianco che divenne
Whitecastle.
In “Talian” ripercorrerò la
storia della mia famiglia:
i miei trisnonni, bisnonni
e nonni partiti da Boara
Pisani sulla sponda padovana dell’Adige la
mattina del primo ottobre
1894 e sbarcati a Santos
(Sao Paulo) il 27 ottobre,
poi tornati in Italia nel
1899 dopo la crisi del
caffè, ma senza Paolina,
la mia trisnonna e il tri-
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snonno Campion Domenico (partito clandestino
dall’Italia forse per via di
debiti che andava lasciando), di cui ho cercato le tracce ottenendo da
una ricercatrice italo brasiliana i documenti eccezionali di sbarco a Santos. Ne hanno parlato
anche i giornali brasiliani
del Rio Grande e da allora sono rimasto in contatto con quell’umanità
semplice e desiderosa di
ricontattare la madre patria, che coltiva lingua e
costumi, ricordi e cultura.
Viaggiare nelle colline
limitrofe a Caxias o Montebelluna sembra di trovarsi nel trevigiano, con
quei filari di uva da vino,
quei monumenti nella
piazza principale dedicati al leone alato che al
posto della Bibbia porta
un “graspo de ua” o sculture di paioli di polenta.
Colline dove può anche
nevicare, dove si svolgono sagre paesane simili
alle nostre, con antichi
costumi ricchi di pizzi e
merletti e canzoni di
montagna, posti dove
l’Italia è totalmente e incomprensibilmente assente da sempre. Gli
italiani non conoscono
né l’entità numerica, né
l’impatto culturale in quei
luoghi, né l’importanza
storica. Un’importanza
che altre nazioni come la
Gran Bretagna o la Francia coltivano da sempre
in modo doveroso ma
anche proficuo e spesso
conveniente. “Talian” è
in parto da tempo e sarà
un omaggio a tutti quelle
donne e uomini che
guardano, inosservati,
ancora con orgoglio le
loro terre di provenienza,
dopo anni e generazioni
di sacrifici inenarrabili,
epopee sconosciute, storie dimenticate, culture
perse per sempre. Anime affogate in una struggente nostalgia per un
Paese che non esiste
più e si nega.
In fondo siamo tutti soffi
nell’universo.
Pagina 6
RACCONTI
DALLA CINA
Numero ottantuno - novembre 2012
TIANJIN è una città della Cina nordorientale, costituisce una municipalità autonoma di circa 10 milioni di
abitanti. Sorge alla confluenza di
numerosi fiumi e del canale imperiale con il fiume Hai, ed è la terza città
del Paese dopo Shanghai e Pechino. È il principale sbocco portuale
della Cina settentrionale e in particolare della non lontana Pechino,
grazie sia al suo porto sia agli avanporti di Tanggu e Dagu, presso la
foce. Molto attiva è l’industria, con
impianti metallurgici, metalmeccanici, chimici, tessili e alimentari. È
sede di due università. Fu aperta al
traffico internazionale in base ai
trattati lì stipulati nel 1858 e nel
1860, che istituirono le prime concessioni straniere (inglese, francese, americana e russa) a cui si aggiunsero, dopo la rivolta dei Boxers
nel 1900, quelle italiana e giapponese. Le varie concessioni straniere
attivarono gli scambi commerciali di
Tianjin (fino ad allora centro di modesta importanza), che cominciò a
progredire. Durante la rivolta dei
Boxers, la città subì gravi danneggiamenti e furono abbattute le vecchie mura, poi sostituite da grandi
viali periferici. Nel corso del conflitto cino-giapponese venne occupata
dalle truppe nipponiche (1937); nel
1949, infine, entrò a far parte della
Repubblica Popolare Cinese.
Tianjin
è la città morta.
Un incredibile silenzio
percorre le strade e i negozi, disanima le vie,
interrotto solo da qualche colpo di clacson che
non serve a denunciare
un allarme, ma semplicemente significa “sto
arrivando”, perciò non
desta preoccupazione
tra i passanti o gli automobilisti. Nulla di importante da vedere, niente
vestigia storiche di portata nazionale, solo vie,
giardini, palazzi e un inquinamento che rende
buie le giornate di nebbia autunnale in pieno
agosto. La quieta, grigia,
sonnolenta Tianjin.
Ma
l’impressione è fasulla.
È,
appunto,
un’impressione, che tiene conto più dei ricordi
della Cina degli anni
passati, dei luoghi già
visitati e a volte ritrovati,
più che tenere nella dovuta considerazione la
verità che non si può mai
parlare di Cina, ma di
“Cine”, sia nello spazio
che nel tempo. Questo
paese è così vasto che
trovano luogo diversità
significative a parità di
pelle gialla, anche se
di CLAUDIA AMBROSINI, insegnante di lingua cinese
l’occhio scorge ovunque
caratteri asiatici e scritte
indecifrabili per chi non
abbia studiato la lingua,
che sembrano sempre le
stesse. Ma uno sguardo
più attento vede i tratti
delle minoranze sui volti,
vede occhi non a mandorla nei visi di bimbi
musulmani e carnagioni
quasi nere nelle donne
dalle iridi caffè e dai piedi stagni delle campagne. Questo è un paese
che ancora conserva
tutti
gli
stadi
dell’evoluzione dalla civiltà contadina alla società maoista, industriale
e, poi, ancora, all’era
della tecnologia e
dell’informatizzazione di
massa. La stessa città
cambia connotati nei
mesi in cui si rincorre il
benessere per tutti, prima che il partito unico
molli le redini del gover-
no e libertà nuove si facciano desiderare tra la
popolazione.
Così ora Tianjin appare
forse più vera, come il
“porto di Pechino”, dalla
quale dista mezz’ora di
treno ad alta velocità
(306 chilometri all’ora),
la città che ha ospitato i
giochi olimpici per ciò
che riguarda le gare
d’acqua, perché Tianjin
ha il mare ed è percorsa
dal fiume, ed è questa la
sua cifra: l’acqua.
L’acqua dei proverbi cinesi, che scorre e fa
passare anche il cadavere del tuo nemico, se lo
sai aspettare. Perché i
suoi abitanti hanno
l’anima dei pescatori,
strateghi che applicano
la magia del wu wei
(“non agire”), che altro
non è che l’astensione
da un’azione precipitosa,
che non si accorda con il
corso naturale degli eventi. Loro hanno imparato ad aspettare e ad
agire secondo corrente,
non per servilismo o
mancanza di coraggio,
ma per quella sapienza
che suggerisce di capire
prima di intraprendere,
perché l’azione efficace
abbisogna di un tempo
calcolato sul risultato e
non sulla fretta. È la forza dell’acqua, che trascina tonnellate senza che
ci si possa opporre alla
sua violenza, pur scorrendo quieta.
E
in verità il fiume è il
fulcro di attività continue.
Di giorno non si rinuncia
a nuotare nelle sue acque: vere e proprie
squadre di signori di
mezza età, qualche ragazzo, bambini col salvagente. E si pesca,
sempre, a qualsiasi ora
del giorno e della notte,
poi i pesci si vendono ai
due lati del ponte
d’acciaio, e finiranno in
padella,
contro
l’opposizione dei nuovi
vegetariani, che a volte
spendono i loro kuai per
comprare bacinelle di
pesciolini che poi, a
manciate, restituiscono
alle acque del fiume in
cui sono stati catturati,
causando lo sbigottimento del pescatore. La nuova coscienza ecologica,
il rinnovato rapporto con
gli animali, fa sì che molte famiglie abbiano un
gatto o un cane, che viene inesorabilmente deposto nel cestino della
bicicletta o dei dian che,
le moto elettriche, che
dominano ormai il panorama cittadino. Ed ecco
un’altra delle ragioni che
rende Tianjin quieta: le
moto elettriche. Assolutamente silenziose, rendono ancora più arduo
l’attraversamento delle
strade, non bene regolato dai semafori e
dall’alternanza del rosso
col verde. È una specie
di “giochi senza frontiere”, una prova di abilità
in cui le macchine si
muovono a velocità costante senza cercare di
schivare il pedone, sulle
cui spalle grava il compito di non causare incidenti, ma soprattutto, di
portare a casa la pelle. Il
dian che arriva di soppiatto, spesso contromano, a tutta birra, solo
l’aria spostata dal suo
venirti incontro ti permette di scansarlo all’ultimo
minuto, peraltro suggellato, a quel punto, da
una potente scampanata
di clacson.
Ma
c’è un’ultima ragione che rende Tianjin silenziosa. Tutti stanno
pensando al modo di
comprarsi una casa. Ovunque ci sono cantieri
che costruiscono grattacieli o complessi residenziali più o meno ampi. I prezzi sono altissimi,
ma la caccia alla casa è
diventata un’ossessione
tale che in tv hanno passato tre sceneggiati di
fila che avevano proprio
questa come tematica
principale. La prima si
chiamava Fang Zhan,
lotta per l’appartamento,
già dal nome è tutta un
programma. Basti dire
che il figlio più giovane di
una classica famiglia
cinese litiga con tutti i
suoi membri proprio perché compra un appartamento di stile occidentale. Poi perde la figlia (nel
senso che non la trova
più), sua moglie impazzisce per il dolore e alla
madre viene un ictus,
con il risultato che per il
resto delle puntate è costretta a recitare biascicando, quasi una ventriloqua. Grazie a dio leggo
i sottotitoli e riesco dunque a tenere il filo del
saggio discorso che
sempre rivolge agli astanti. Nel secondo sceneggiato l’amica della
protagonista si suicida
perché è finita in mano
agli strozzini per comprarsi una casa e lascia
l’incombenza di restituire
il prestito esorbitante agli
anziani genitori che
mangiano a stento con
ciò che è rimasto dei loro
risparmi. Infine, il terzo
sceneggiato, vede una
giovane coppia intenzionata a sposarsi rompere
il suo legame perché la
madre di lei ha giurato
che darà in moglie la
figlia solo a colui che
porterà in dote un appartamento. Il lui in questione fa doppi turni al lavo(Continua a pagina 7)
Numero ottantuno - novembre 2012
Pagina 7
RACCONTI
DALLA CINA
(Continua da pagina 6)
ro e mangia solo cinque
piccoli mianbao (panini
al vapore) al giorno, per
risparmiare il più possibile, e così facendo, muore di stenti.
Il
fiume, si diceva. La
sera è tutto un viavai di
persone che cantano al
karaoke improvvisato nel
bagagliaio di un furgone,
di ambulanti che vendono bibite, di famiglie che
trovano l’occasione di
giocare con i bambini, di
giovani che fanno attività
fisica, di coppie in pigiama che prendono il fresco, di poveri che dormono sulle panchine. E
di gruppi di donne di
mezz’età, organizzate,
che ballano una o due
ore balli di gruppo. Si
tratta di una vera forza
sociale, queste signore
che mollano tutto a casa
e si radunano sul lungofiume, ogni sera, per ascoltare musica e muoversi a ritmo. Si dispongono in file ordinate, a
distanza di un braccio
l’una dall’altra, e danzano canzoni da discoteca,
balli popolari e delle minoranze etniche. Talvolta sollevano appena i
piedi, anche perché mol-
te hanno problemi di
cuore. Ma non si fermano un momento, mettendo in partica i consigli
del medico che ha raccomandato loro di non
fare sforzi intensi, ma
continui. Con un piccolo
registratore dotato di usb
per chiavetta con mp3,
fanno musica a tutto volume che si sente a un
chilometro di distanza.
te belli. Cantano poprock, suonano di fila una
ventina di pezzi, senza
pause. Tra una ventina e
l’altra, vengono a conoscere il pubblico, già
stranito dal vedere i camerieri vestiti con calzettoni bianchi, pantaloni al
polpaccio con bretelle, di
fustagno verde, che li
fanno somigliare più a
hobbit che a bavaresi.
Poco distante dal ponte Ma
sotto al quale si dispongono per ballare se piove, c’è il quartiere italiano. Il locale più gettonato
si chiama Bavaria, fa
cibo tedesco, non è proprio chiaro qui il concetto
di Italia, se è vero che
una cinese, saputo che
sono italiana, mi ha detto
orgogliosa: «Sono stata
in Italia!”» «Davvero? E
cos’hai visto? Venezia,
Milano…», ho chiesto io.
«No, no, in Italia: ho visto l’Olanda, la Svizzera»...
Al
Bavaria si esibisce
un gruppo di due cantanti donne, un cantante, un
tastierista, un chitarrista,
un batterista e un bassista. Tre di loro appartengono alle minoranze etniche e sono decisamen-
al Venezia si mangia italiano, una pasta al
basilico niente male, dove si esibisce Jim, un
omosessuale sulla trentina, biondo platino, che
indossa sempre jeans
corti e camicie scollate.
Intonato, ma dalla voce
piuttosto banale, è oggetto di fotografie a ripetizione da parte di qualsiasi cinese si avvicini,
anche per caso, al locale. Quando canta Xiang
Xin (Credere, avere fiducia), un evidente hit cinese del momento, tutti i
camerieri e le cameriere
si mettono in fila, battono
le mani (rigorosamente
fuori tempo), cantano, e
qualche volta piangono. I
flash si sprecano su questo pezzo.
E
infine c’è la cioccolateria, un negozio di praline e cioccolatini davvero
ottimi, che costano un
occhio della testa; giustamente si chiama Tiffany. Confesso, ho comprato anch’io due pezzi
di cioccolato fondente
che sapeva di maionese
e li ho mangiati su una
panchina che dietro aveva una gigantografia con
la riproduzione della galleria di Milano.
Qualche volta la nostalgia di casa si fa sentire e
persino un clamoroso
falso può aiutare a farla
passare.
La
tenera, sonnacchiosa Tianjin mi ha accolta
col cotone, mi ha abbracciato con i suoi silenzi e con il volo delle
libellule che, puntuali,
sono arrivate con la metà di luglio. E poi
quest'anno c'è stato un
tempo eccezionale, un'estate fresca come non
se vedevano da tempo,
perché un tifone si è abbattuto su gran parte del
paese, provocando morti
a Pechino, tanto che il
sindaco si è dovuto dimettere. Il tifone è passato a Hangzhou e
Shanghai: erano pronti.
Il tifone è passato a Pechino: non erano preparati - muoiono delle persone - il sindaco si dimette. Sembra tutto logico e semplice. Non voglio fare paragoni.
A Tianjin il fiume è quietamente e semplicemente straripato, per la gioia
degli abitanti, i quali, armati di reti da pesca e
retini, si sono fiondati
sulle passerelle piene
d'acqua con stivali più
alti dei loro stessi figli a
pescare qualunque cosa
si muovesse o galleggiasse, compreso pesci
morti. L'acqua alta, che
sembrava di essere a
Venezia; la gioia dei
bambini che sguazzavano nel fiume uscito dal
suo letto, come per gioco; i fuochi nella notte,
d'artificio e delle lanterne
di carta lasciate volare in
alto con i desideri scritti
sopra, guidate dal fuoco
di una candela che non
si pensava le potesse
portare più in alto dei
grattacieli; il suono di
una zucca dalla quale è
stato ricavato un flauto,
che una donna sulla cinquantina suona all'imbrunire regalando melodie popolari… insomma
tutto questo mi ha un po'
distratto; coccolato e distratto. Così ci ho messo
un po' a capire che abito
nel quartiere delle puttan
e
.
Me ne sono accorta il
giorno in cui , vincendo
la pigrizia, sono andata
al supermercato che,
guarda caso, si chiama
"Milano". Al ritorno, camminando dalla parte del
marciapiede che non
percorro mai, per il solo
gusto di cambiare, mi
sono accorta che i piano
terra, come fossero bassi napoletani, ospitano
negozi di "cura del piede" o "massaggi ai piedi". Questi negozi mostrano le lavoranti mollemente adagiate su divani
che danno sulla strada e
file di asciugamani appesi ad una corda tirata tra
due alberi fra il marciapiede e la strada. Le ragazze in questione, con i
capelli dei colori e dei
tagli più strani, dall'aria
perennemente annoiata,
si dilettano a consultare
il cellulare o il pc, a
chiacchierare o a fare il
puntocroce, pronte ad
accoglierti cerimoniosamente, passato il primo
minuto di incredulità,
quando chiedi informazioni circa un reale massaggio ai piedi, rompendo così la monotonia
dell'attendere clienti più
che altro serali o notturni. Vivono sui divani,
mangiando tutte insieme
con puntualità ossessiva
alle 6-12-18 e magicamente svegliandosi la
notte, quando padri di
famiglia e manager rampanti con borsello e camicia alzata sulla pancia,
per avere più fresco, si
presentano per il servizio. Osservando meglio
il quartiere, c'è un gran
viavai, fra i negozi di
"massaggi", di riparazione elettrodomestici, elettrauto, drogherie, sarti,
ristoranti, negozi di miele, parrucchieri, estetisti,
agenzie per l'acquisto di
appartamenti e luoghi
che offrono metodi infallibili per dimagrire. Una
mattina ho provato, dietro suggerimento di un'amica, la colazione cinese: frittata in brodo, maxi-frittella dalla forma di
manganello, pane al sesamo: una bomba, che è
rimasta nel mio stomaco
per mezza giornata abbondante. E mi ha costretto a vagare in lungo
e in largo per il mercato,
dove, la mattina, si compra tutto meglio. È così
che ho scoperto il huolong guo, il frutto del drago di fuoco, che in effetti
è fucsia, della grandezza
di un cocco, ha una
spessa buccia con lingue che sembrano fiamme e dentro ha la consistenza del kiwi, ha la
polpa bianca disseminata di semini neri che
sembrano sesamo. Il
frutto è quasi insapore,
ma dà soddisfazione
scavarlo con il cucchiaio
e scoprirne l'appena percettibile dolcezza. Tianjin
continua a coccolarmi.
La signora dei baozi un
giorno mi ha fatto lo
(Continua a pagina 8)
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RACCONTI
DALLA CINA
IN ALTO: LA CITTÀ DI TIANJIN DI NOTTE.
(Continua da pagina 7)
QUI: I GRATTACIELI DEL DISTRETTO DEL TONGGU
sconto su un prezzo già di per
sè misero. Le signore alla bancarella del mercato dove compro sempre la frutta mi avvisano
se ci sono i manghi buoni, mi
suggeriscono di comprare le
mele bacate, perché se c'è stato l'insetto vuol dire che ci sono
meno robacce chimiche dentro;
e in effetti posso constatare in
prima persona che sono più dolci, ma meno costose, perché
nessuno le vuole. Le signore
tengono conto di quante volte
mi presento al mercato come se
avessero un registro e ogni volta che mi avvicino al banco mi
dicono: «Ah, ieri non sei venuta!
Le banane erano ottime!». Una
mattina mi presento, ma c'è solo il marito di una delle due, ignoro quale, che deve conoscermi di fama, perché mi dice:
«Ah, è venuta stamattina! Mia
moglie oggi non c'è, mi spiace,
ma dica pure a me di che cosa
ha bisogno!». Mi sento adottata.
E anche se ho già una famiglia
e so bene qual è, mi lascio coccolare; almeno fino a quando
saprò, per certo, che questa
città, e il suo quieto calore, mi
mancheranno.
A DESTRA: LA RIVOLTA DEI BOXERS IN UNA
STAMPA DELL’EPOCA; LE TRUPPE DEI BOXERS
ENTRANO A TIANJIN. TRA LE DUE IMMAGINI,
IL MANIFESTO DEL FILM STORICO AMERICANO
“55 GIORNI A PECHINO”, DEL 1963,
CHE RICOSTRUISCE LA BATTAGLIA DI PECHINO
DURANTE LA RIBELLIONE DEI BOXERS NEL 1900.
INTORNO AGLI IDEOGRAMMI: LA TORRE DEL
TAMBURO, L’OPERA, IL TEMPIO DI MAZU, UNA
CASA DECORATA CON OLTRE 7OO MILIONI DI
PEZZETTI DI CERAMICA
Giornata
di primavera meravigliosa, la fine agosto e il settembre qui sono i mesi migliori
quanto a tempo atmosferico. Le
pesche profumano il mercato, il
cielo è limpido e fa l’acqua del
fiume inquinato uno specchio
tirato a lucido. È arrivata l’uva
senza semi, quella bianca, dagli
acini non più grandi di
un’unghia, ad affiancare quella
americana. L’uva bianca è dolcissima, la preferisco. Preferisco sempre le cose piccole a
quelle che si mostrano in piena
evidenza. Un dian che mi si affianca e il diligente lavoratore
che lo guida, senza scendere,
raccoglie una cartaccia con le
pinze e la mette nel carretto della sporcizia che si porta dietro.
Penso che se rinascerò, con il
dono di avere l’esperienza che
ho oggi, cercherò di fare lo
spazzino. Non voglio ripulire
questa parola, cambiandola con
operatore ecologico. Che cosa
siamo noi, se non ci confrontiamo con la sporcizia, con la merda, con lo sputo, con il muco,
con il sangue? Se non ci ricordiamo della bruttezza e le brutture, che siamo difettosi, manchevoli, invidiosi, cattivi, deboli,
pelosi, unti? Non possiamo fare
finta di essere solo puliti, esseri
TIĀN
civili e vicini alla perfezione, che
mangiano animali, ma solo certe parti e solo senza sangue,
come se non fossero cadaveri
feriti a morte e cancellati
dall’esistenza per nutrire le nostre case lustrate di candeggina. Qui ho imparato ad apprezzare il mercato perché mi macellano la carne davanti e questo non mi permette di dimenticare che ogni cosa ha un prezzo e a volte questo prezzo è
sacrificio, sacrificio della vita.
Credo che lo spazzino apprezzi
la pulizia perché ogni giorno
entra in contatto con i nostri
scarti, con la noncuranza di cit-
tadini distratti. E il suo lavoro
offre un contributo enorme alla
vita di tutti, è puro senso civico
e questo può metterlo tranquillo
a godersi ogni minuto del suo
tempo libero.
Decido di intervistarne uno, per
capire se la pensa così. Li
Yuanming* ha quarantaquattro
anni. Fa lo spazzino da quando
ne aveva trenta, prima lavorava
in campagna. Ha partecipato ad
una selezione governativa, perché fare lo spazzino è un lavoro
sicuro, è per la vita, è la famosa
“scodella di ferro”: lo stipendio
non è alto, ma è tutti i mesi ed è
per sempre. Yuanming ha superato tutti i gradi della selezione,
dal villaggio alla provincia e si è
assicurato in un solo colpo vita
e carriera. A trent’anni, infatti,
anche se non era un brutto ragazzo, non aveva ancora il coraggio di chiedere una ragazza
in moglie. «Ora mi posso sposare, ho pensato, ho una posizione. E così è stato», dice con
orgoglio. Deve molto al suo lavoro e lo sa. L’ha sempre fatto
con impegno e dedizione. Ma
non deve essere facile passare
sempre inosservati, essere addirittura un fastidio: d’altra parte
chi vuole ricordarsi dei rifiuti?
Chi può negare l’intima soddisfazione che regala alleggerirsi
di fazzoletti sporchi, cartacce, e
resti di cibo, per non parlare
della soddisfazione che regala
vedere la cartaigienica sparire
in un vortice d’acqua? Ci si aspetta che chi si occupa di ripulire la città lo faccia senza clamore, con riserbo, senza disturbare, perché sia più facile dimenticare cosa rappresenta il
suo lavoro: cancellare le tracce
dell’imperfezione. Dico a Yuanming la mia teoria sul fare lo
spazzino. Mi fa un grande sorriso. Mi offre una sigaretta, che
accetto. Come al solito è come
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RACCONTI
DALLA CINA
proietti sceneggiati con sessantenni felici di trovare amici, assistenza, attività quotidiane e
possibilità di rendersi utili nelle
residenze per anziani. «Stiamo
facendo il possibile per nostro
figlio. La sera, mentre Xiao Li
studia, dopo avergli ricordato
che contiamo su di lui, ci mettiamo in pigiama e andiamo a fare
una passeggiata lungo il fiume,
portando con noi tè e semi di
girasole. È il nostro momento di
riposo, un’altra giornata è passata bene: siamo tutti in salute
e a Xiao Li piace studiare, anche se a volte ho l’impressione
che lo faccia solo per essere
all’altezza dei compagni di classe con padri che hanno una
professione diversa. Comunque
si impegna e non si lamenta.
Nessuno di noi si lamenta».
Non posso fare a meno di vergognarmi.
天津
NJīN,
ovvero Passaggio Celeste
mangiarsi un pezzo di catrame,
mi arriva una specie di pugno
nello stomaco, poi comincia a
girarmi la testa come se stessi
per perdere i sensi. Ma tengo
duro: primo, perché non voglio
dispiacere colui che me l’ha offerta; poi, per una sorta di orgoglio narcisistico da donna che
fuma misto all’occidentale che
non può essere più debole di un
cinese.
E
Come al solito mi sono lasciata
mentre mi perdo in queste
assurde categorie che vengono
fuori in tutti, ma proprio tutti,
quando meno ce lo aspettiamo,
Yuanming ha soppesato le pa-
role. Per non offendermi a sua
volta e trovare comunque il modo di essere sincero. Così alla
quarta boccata, mentre ammiro
il cerchio perfetto che lui è riuscito a fare con il fumo, Yuanming assume un’aria seria e
comincia a parlare. «Mia moglie
lavora per mezza giornata come
fuwuyua(inserviente) in un ristorante, non è facile far quadrare i
conti anche se lavoriamo tutt’e
due». Perché i due hanno un
figlio e i figli sono pozzi senza
fondo. Sulle spalle dei figli unici
si riversano le speranze di una
vita migliore, il riscatto di una
generazione che il pane se l’è
sudato e non ha modo di smettere di farlo. Solo un figlio, una
sola possibilità di riuscita: scelte
che non possono essere sbagliate, una scommessa che non
può non essere vinta, un sogno
che deve realizzarsi. Bisogna
mandarli nelle scuole migliori fin
dall’inizio, perché è come una
catena, se inizi male finisci peggio. Ma frequentare le scuole
migliori non basta, almeno dai
sei anni i bambini devono partecipare ai corsi pomeridiani: calligrafia, arte, pianoforte o un altro
strumento musicale; e poi danza, nuoto o comunque una disciplina sportiva, una lingua
straniera, innanzitutto l’inglese,
e così via. La pressione sui piccoli è altissima. Ai genitori non
importa “mangiare grano e buttare le verdure”, “fare il bue, fare il cavallo”, purché il figlio abbia successo nella vita, il che
automaticamente si traduce
nell’avere “un sacco di soldi”.
Ci si aspetta che i genitori comprino ai figli un appartamento,
poi i figli ricambieranno occupandosi della loro vecchiaia,
non lasciando che siano estranei a curarli e non permettendo
che finiscano nelle case di riposo, per quanto la tv nazionale
trasportare dal romanticismo di
un’occidentale che pensa con
categorie da occidentale: quasi
mai hanno a che fare con la Cina e con la vita dei cinesi. Ma
non è questo l’incontro fra le
culture? Avere un’opinione ed
esprimerla, solo per averne solo
parziale conferma o totale
smentita. Come ci si confronta
altrimenti? Come si può capire,
se tutti stanno zitti? E poi chissà, magari gli ho dato un argomento da usare con suo figlio;
una spinta oppure soltanto
un’idea, ammesso che ne abbia
bisogno, per capire quanto sia
importante ciò che fa, per tornare a essere orgoglioso del suo
lavoro. Che nessuno del nuovo
esercito di laureati, giovani rampanti del mondo del business,
aspiranti manager, che mangiano da Mc Donalds e gettano le
confezioni degli hamburger per
strada, che fumano e buttano
noncuranti le cicche per terra,
tanto qualcuno poi raccoglie
tutto, si prenderà mai la briga di
fare. Ma forse a qualche cinese
questa idea è già venuta. Mi
torna in mente l’immagine del
carretto di uno spazzino che ho
fotografato tempo fa; hanno
sempre tutti una scritta in caratteri sopra e questa recitava:
“Amo ardentemente la vita”.
*Il nome dello spazzino è stato
cambiato, per ovvie ragioni.
Claudia Ambrosini
Numero ottantuno - novembre 2012
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A LOMELLO NASCE LA FONDAZIONE DI GIANFRANCO E TINA MAGENTA
di SISTO CAPRA
Un’oasi
del libro. Un
paradiso della cultura
testimoniata. Un dono
agli amanti della letteratura,
della
storia,
dell’arte, delle tradizioni.
È tutto questo la Biblioteca “Romeo Giovannini”, di proprietà dei coniugi Gianfranco e Tina
Magenta, sita a Lomello
in via Castrovecchio 11.
Un luogo dove si respira
la bellezza dei secoli.
Aperta al pubblico dal
2007. Appassionati, ricercatori, studenti che lo
desiderano possono rivolgersi a Gianfranco e
Tina Magenta e, previo
accordo telefonico, accedere ai circa diecimila
volumi della loro biblioteca, settemila dei quali
donati loro con un lascito
t e s t a m e n t a r i o
dall’intellettuale toscano
e lomellese d’adozione
Romeo Giovannini, morto nel 2005 all’età di 91
anni. «Presto daremo
vita a una Fondazione annunciano Gianfranco
e Tina Magenta - e istituiremo una borsa di studio annuale di 500 euro
rivolta agli studenti delle
scuole locali per fare conoscere l’opera e il pensiero di Romeo Giovannini, uno dei letterati
maggiori del Novecento
italiano».
Ai
libri
dell’eredità Giovannini
nella biblioteca si aggiungono i circa tremila
volumi posseduti dai Magenta. Una grande opportunità e una situazione non comune, quella
di una ricchissima biblioteca privata che da cinque anni è aperta al pubblico, come segno di
continuità con un patrimonio che non poteva e
non doveva languire sotto la polvere dell’oblio.
Un segno di condivisione
importante sotto il profilo
della diffusione culturale.
Quel
patrimonio di migliaia di libri catalogati,
ripartiti per epoche e temi, è stato il lascito testamentario del giornalista, letterato, grecista e
critico letterario Romeo
Giovannini, per vent’anni
amico dei Magenta. La
sua straordinaria libreria,
una collezione di testi
risalenti anche al Cinquecento, è da anni nelle mani dei coniugi lomellesi Gianfranco e Tina Magenta, entrambi
appassionati di storia
locale, saggisti e cultori
dell’ottima lettura. Gianfranco Magenta, laureato
in giurisprudenza, 80
anni di età, di cui la metà
trascorsi come funzionario nel Comune di Lo-
mello, e Tina ricordano:
«Prima di morire, Giovannini ci confidò di voler perpetuare il sapere
contenuto nella sua straordinaria raccolta. Cinque anni fa noi abbiamo
deciso di favorirne la
continuità permettendo a
chi ne abbia necessità,
per studio o per diletto,
di accedere alla grande
biblioteca. Soprattutto in
primavera e in estate
acconsentiamo a molte
visite, tutte ovviamente
gratuite. La biblioteca è
nata nel 2007, quando
abbiamo trasportato i
libri dalla dimora di Giovannini alla nostra. Romeo Giovannini in vita è
stato un critico letterario
anche molto temuto, perché la sua penna era
affilata e non risparmiava nessuno. Romeo Giovannini volle lasciare a
noi i suoi libri perché temeva che questo patrimonio, alla sua morte
venisse disperso».
«Egli
aveva per Gianfranco una stima profonda - ricorda Tina - Diceva spesso: tu sai tutto e
se avessi bisogno di
qualcosa sicuramente
verrei da te. Il suo affetto
per noi era grande. Nel
lascito testamentario Romeo Giovannini ha scritto: non voglio che questi
libri diventino merce di
commercio, ecco la ragione per cui li lascio a
voi». Agli inizi degli anni
Ottanta, Giovannini,
stanco della metropoli e
in cerca di quiete, comprò casa nei pressi della
stazione di Lomello, dove, salvo i mesi invernali
che andava a trascorrere
nella sua casa di Lucca,
visse gli ultimi anni della
sua esistenza di letterato
e studioso, insieme al
cane (sempre di razza
cocker, chiamato Bobby
o Bella in base al sesso)
e pochi amici di Lomello.
Oltre ai coniugi Magenta,
Giuseppe e Cristina Fassardi, Carlo Campari e
Donatella
Donarini .
Gianfranco e Tina si
guardano sorridendo:
«Ora all’inizio della bella
stagione affiggiamo un
cartello fuori di casa e
annunciamo “La biblioteca è aperta”. Le persone
vengono a visitarla. Il
nostro rammarico è che
le istituzioni pubbliche
locali non prestano grande attenzione, ed è un
vero peccato. Ora vorremmo
dare
vita
all’associazione culturale
“Biblioteca Giovannini Magenta” e istituire una
borsa di studio di 500
euro rivolta agli studenti
delle scuole locali per
favorire la conoscenza
del lascito e dell’opera di
Romeo Giovannini. Egli
non è stato solo un grande letterato e un testimone, ma anche un amante
dell’ambiente, un tema
davvero scottante. Ed è
giusto affiancare nella
Fondazione il nostro cognome Magenta a quello
di Romeo Giovannini.
Possiamo permetterci di
istituire la borsa di studio
annuale anche perché
non abbiamo figli, riduciamo al minimo le nostre spese e questa biblioteca è per noi tutta la
vita». Romeo Giovannini
ha lasciato in eredità al
Centro Manoscritti della
Fondazione Maria Corti
dell’Università di Pavia
113 documenti epistolari,
che si conservano nel
Fondo Guglielmo Petroni. Si tratta di 74 lettere,
38 cartoline e un biglietto
Gianfranco Magenta è
autore di diverse opere
di storia locale e letteratura. Ecco i titoli. Lomello nella storia è uscito
per la prima volta nel
1995 e nel 2010 ha visto
la quinta edizione, riveduta e ampliata. Il libro
cala Lomello nella storia
d’Europa e d’Italia, ripercorrendo la storia delle
origini, dal quinto secolo
prima di Cristo in avanti,
e poi la Lomello romana,
quella longobarda, i
Franchi, i Conti, gli avvenimenti dal Quattrocento
all’Ottocento e le guerre
mondiali del Novecento.
Il tutto arricchito da tavole, fotografie e una galleria di monumenti e personaggi. Con Tina, Gianfranco Magenta ha scritto San Rocco e Lomello, uscito nel 2007, dedicato alla figura del santo
indissolubilmente legato
al paese. Vi si ripercorre
la figura, il culto, la fondazione e la storia della
chiesa e della Confraternita. Nel 1981 è uscito
Ultimo viandante, raccolta di poesie: motivi
lirici
intrecciati
all’osservazione
del
mondo e della natura,
liberazione dello spirito,
desiderio di luce. Vi è
infine il volume Fontana
vivace, che ripercorre la
storia e gli avvenimenti
legati ai diciotto santuari
mariani della Lomellina.
I
diecimila libri della biblioteca spaziano nei più
vari campi: letteratura
antica e moderna, teatro,
musica, filosofia, religione, arte. I testi più antichi? Tre volumi che risalgono a metà del secolo
(Continua a pagina 11)
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Numero ottantuno - novembre 2012
A LOMELLO NASCE LA FONDAZIONE DI GIANFRANCO E TINA MAGENTA
TINA E GIANFRANCO MAGENTA, CON SISTO CAPRA, TRA I LIBRI
DELLA LORO BIBLIOTECA INTITOLATA A ROMEO GIOVANNINI.
FOTOSERVIZIO PINCA-MANIDI/PAVIA FOTOGRAFIA
ROMEO GIOVANNINI (Santa
Maria a Colle, presso Lucca, 14
agosto 1913 – Lomello 24 marzo
2005) è stato giornalista, scrittore e
critico letterario. Nato in un paese a
tre chilometri dalle mura di Lucca,
presto si trasferì a poche centinaia
di metri dalle mura, in una corte che
era allora contadina. All'età di undici
anni decise di entrare in seminario
per diventare prete. Ciò gli permise
di affrontare gli studi classici dimostrando un particolare interesse per
il greco e per la letteratura italiana
del Medioevo e del Rinascimento.
Nel 1931, completato il liceo, decise di abbandonare il seminario e,
rientrato in famiglia, partì per il servizio militare. Approfondì le sue
conoscenze della letteratura frequentando la biblioteca di
Lucca e iniziò ad avvicinarsi
agli scrittori contemporanei
leggendo tra gli altri Giovanni Papini. A 18 anni
rientrò in famiglia e, appena
ventenne, frequentò il Caffè
Di Simo, luogo di incontro
già di Giovanni Pascoli,
Giacomo Puccini e Alfredo
Catalani divenuto poi sede
del circolo culturale "Renato
Serra". Giovannini trovò un
luogo accogliente dove poter discutere e scambiare
opinioni. Al caffè di Simo
conobbe Guglielmo Petroni
con il quale si recò a Roma
nel 1935. Guglielmo e Romeo ebbero la fortuna di
conoscere abbastanza presto Mino Maccari, allora già
famoso e ben introdotto.
Conobbe Vasco Pratolini,
che ne parla a Petroni in
una lettera, evidenziando
l'insicurezza di Giovannini a
muoversi nel mondo letterario. «… Giovannini non si
confida con me perché sì vergogna
e terme io lo giudichi, da questo
punto di vista è un fesso, orgoglioso
ecc. Sta facendo un brutto affare
ma non sono cose che si possono
sanare dall'esterno. Io non so nulla
di preciso, e le notizie più precise
me le ha portate Macrì (L'indirizzo di
Calamandrei è: Pensione Margherita'. via Cimarosa, Vomero - Napoli)». Giovannini iniziò un lungo periodo di collaborazione con diverse
riviste letterarie che gli permise di
pubblicare racconti e poesie. Le
poesie saranno pubblicate nel 1941
con la prima edizione delle Anacreontiche, raccolta di poesia liberamente ispirata al modello del grande maestro greco. Il volume si colloca nel solco e sulla scia di quella
cultura ermetica, che diventa un
modo di esistere per tanti intellettuali ed artisti, in alcuni casi l'unico:
una sorta di isolamento, nel culto di
un passato glorioso, evitando accuratamente pericolose contaminazioni con il regime, una sorta di
"Aventino" della letteratura.
Nel 1944 Romeo Giovannini curò
la traduzione in italiano del libro
L'ultimo Medico di Napoleone,
arricchita da numerose note esplicative e nel 1945 Fuga dai Piombi
di Casanova. Nel 1946, per le edizioni di Astrolabio fu fatta una ristampa di Anacreontiche, con l'aggiunta di altre liriche ispirate al modello bucolico. Nel 1950 iniziò la
sua collaborazione con il settimanale “Il Mondo” di Mario Pannunzio,
che si batteva per una cultura laica
e libera da dogmi di chiesa e di par-
tito e per un'analisi rigorosa dei problemi della società italiana. Su questa rivista, come pure su "Botteghe
oscure" di Bassani, Romeo Giovannini pubblicò ancora racconti, versi
e traduzioni. "Il Mondo", l'"Orto",
"Primato", nonché "Il Selvaggio" di
Maccari, "Letteratura" di Bonsanti,
"Primato" di Bottai e "Campo di
Marte" di Gatto sono tra le testate
che hanno portato all'attenzione del
vasto pubblico la prosa di Giovannini. Tra il 1947 e il 1956 Giovannini
fu redattore de L'Europeo di Arrigo
Benedetti e si specializzò nel settore della critica letteraria collaborando a "Il Giorno" per diciassette anni,
fino al 1971 quando abbandonò la
professione, pur mantenendo un'amicizia con intellettuali e giornalisti
come Benedetti, Pannunzio, Canco-
NEL SEGNO DI ROMEO GIOVANNINI
gni, Ardinghi, Pea, Petroni. Cancogni, tra gli altri letterati contemporanei e amici, lo ricorderà nel suo libro
Metelda. Giovannini frequentò il
Novecento letterario italiano e fece
parte di quella generazione di lucchesi che ha saputo affermarsi nel
giornalismo e nella letteratura italiana introducendovi elementi innovativi e originali.
Nel 1972 scrisse la recensione
all'Io Minerale per il catalogo della
mostra "Geologie dell'Io" di Tullio
Pericoli. Le sue immagini poetiche
fresche e pure, anche nelle allusioni
sensuali, le ritroviamo nelle pagine
dei suoi Stornelli di Matraia pubblicate nel 1992 dalla casa editrice
Pacini Fazzi con il contributo della
Provincia di Lucca. Romeo Giovannini è stato anche amico di Eugenio
Montale, Alfonso Gatto,
Gianni Brera, Carlo Emilio
Gadda e Salvatore Quasimodo. È stato tra i collaboratori di Enrico Mattei, fondatore del “Il Giorno”. Lavorando
a Milano, come giornalista
de "Il Giorno", Giovannini si
era trasferito a Lomello, dove stava per alcuni periodi
dell'anno. Aveva ancora la
casa a Lucca, e vi tornava
spesso per ritrovare i fratelli,
i nipoti e tanti vecchi amici; a
Lucca la sua casa era nel
centro storico, in una piazzetta accanto alla maggiore
Piazza San Romano. Romeo ha avuto quattro donne fra
mogli e compagne; l'ultima
sua compagna fu Antonia
Iriu, cugina di Gramsci. Ebbe
quattro figli, di cui uno morto
a 20 anni in un incidente
stradale. Si è spento a Lomello nel tardo pomeriggio di
mercoledì 24 marzo 2005.
domandiamo: ma li stiamo trattando bene i libri
di Romeo? Il fatto che
abbia lasciato a noi i
suoi libri dimostra tutto
l’affetto che nutriva per
noi».
(Continua da pagina 10)
sedicesimo, uno dei
quali dedicato al Concilio
di Trento. Poi ci sono
libri del diciassettesimo
secolo. Potremmo citare
mille titoli, ci limitiamo ad
alcuni grandi scrittori.
Per esempio, le opere di
Ludovico Antonio Muratori, opere storiche di
Curzio Malaparte in francese. Libri dell’Ottocento
e dei primi del Novecento. Molti sono toscani, in
omaggio all’origine di
Giovannini. Tantissimi
testi sono dedicati a Milano: pensiamo al Porta,
al Cattaneo per citare
alcuni autori. Il patrimonio lasciatoci da Romeo
Giovannini è di incredibile ricchezza. Egli aveva
un mondo in testa, ama-
va i libri e gli autori.
L’insieme dei volumi è di
commovente bellezza.
Alcuni sono un po’ rovinati per via del trasloco
dalla casa di Giovannini
a questa. «L’inventario
- concludono - è stato
molto complicato, ma
abbiamo salvato questo
patrimonio e questo è
ciò che conta. A volte ci
Sisto Capra
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Numero ottantuno - novembre 2012
LA MALATTIA RIAPPARE IN TUTTO IL MONDO: ECCO COME E PERCHÈ
LA MALATTIA NELLA
LIRICA, NELLA PITTURA E
NELLA LETTERATURA.
NELL’ IMMAGINE
IN BASSO:
THE DEAD MOTHER AND
CHILD DI EDVARD MUNCH.
NELLE IMMAGINI SOTTO:
VIOLETTA VALERY NE LA
TRAVIATA (MYRTÒ PAPATANASIU ALLO SFERISTERIO DI MACERATA); LA
Uno spettro del passato tornato alla ribalta
di GIOVANNA RICCARDI
LOCANDINA DELLA PRIMA
DE LA BOHÈME DI PUCCINI
(1 FEBBRAIO 1896).
Professore Ordinario di Microbiologia Generale, Università di Pavia
Presidente della Società Italiana di Microbiologia Generale e Biotecnologie Microbiche ( SIMGBM)
La terapia prevede un
trattamento di due mesi
con 4 farmaci di prima
linea (isoniazide, rifampicina, pirazinamide ed
etambutolo) più altri
quattro mesi con isoniazide e rifampicina. È universalmente noto che i
batteri possono sviluppare diversi meccanismi di
resistenza ai farmaci
quali: inattivazione dell’
antibiotico, modificazione del bersaglio, ridotta
permeabilità o attivazione di pompe di efflusso
che espellono la molecola.
Dall’inizio degli anni ’90
La
tubercolosi (TBC) è
una malattia infettiva che
colpisce soprattutto i polmoni (tubercolosi polmonare), ma può diffondersi
anche ad altri organi
(tubercolosi
extrapolmonare). Il patogeno
responsabile è Mycobacterium tuberculosis scoperto dal microbiologo
tedesco Robert Koch nel
1882 (donde il nome
“bacillo di Koch”). A quei
tempi la TBC era di fatto
incurabile, non essendoci farmaci a disposizione.
lattia, produsse celebri
opere nella lirica, nella
letteratura e nella pittura.
Ricordiamo, ad esempio,
Violetta, l’eroina di Verdi
nella Traviata e Mimì
nella Bohème di Puccini
che muoiono entrambe
di tubercolosi. Thomas
Mann ambienta il suo
romanzo La Montagna
Incantata nel sanatorio
di Davos ed Edvard
Munch nel dipinto The
dead mother and child
ritrae la madre morente
per TBC, un evento che
influenzerà tutta la sua
produzione artistica.
Il mondo dell’arte, oltre a M.
essere colpito dalla ma-
tuberculosis è trasmesso per via aerea da
individuo a individuo e
solo nel 5% dei soggetti
l’infezione evolve in malattia tubercolare conclamata, in quanto nella
maggioranza dei casi la
robusta risposta immunitaria riesce a impedire lo
sviluppo della malattia,
mantenendo però il patogeno in uno stato di latenza, in grado di
“risvegliarsi” se le difese
i m m u n i t a r i e
dell’individuo dovessero
abbassarsi.
S
e c o n d o
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS)
a oggi nel mondo si registrano per anno circa 9
milioni di nuovi casi e 3
milioni di morti. Inoltre,
circa 2 miliardi di individui presentano la forma
latente. La TBC quindi è
tornata prepotentemente
alla ribalta non solo nei
Paesi in via di sviluppo
(dove non ha mai smesso di mietere vittime),
ma anche nei Paesi industrializzati. Le ragioni
di questa ricomparsa
sono fondamentalmente
tre: aumento del flusso
migratorio da Paesi dove
la TBC è endemica,
stretta associazione con
l’Hiv, comparsa di ceppi
multi-resistenti ai classici
farmaci antitubercolari.
sono state segnalate
infezioni causate da ceppi MDR di M. tuberculosis. Per MDR (“multi
drug-resistant”) si intendono quei ceppi di M.
tuberculosis resistenti
almeno a isoniazide e
rifampicina. Il trattamento dei pazienti con MDR
è molto difficile e si avvale soprattutto dei farmaci di seconda linea
(fluorochinoloni, aminoglicosidici). Sfortunatamente negli ultimi anni
sono stati riscontrati ceppi MDR resistenti anche
ad almeno tre delle sei
classi di antibiotici di seconda linea. Tali ceppi
NELLA PAGINA ACCANTO:
DAVOS, IN SVIZZERA. NEL
SANATORIO DELLA LOCALITÀ, THOMAS MANN AMBIENTÒ IL ROMANZO “LA
MONTAGNA INCANTATA”.
sono
detti
XDR
(“ext en siv ely
dr ug resistant”). Infine, sono
stati segnalati in diversi
Paesi (Italia compresa)
isolati
clinici
TDR
(Totally Drug Resistant),
praticamente impossibili
da trattare. Di conseguenza, per limitare la
diffusione di questi ceppi
multi-resistenti c’è un
urgente bisogno di nuovi
farmaci antitubercolari
come pure di nuovi bersagli terapeutici. Per
questo scopo si possono
perseguire due strategie:
dal farmaco al bersaglio
e dal bersaglio al farmaco.
Nella
lotta alla tubercolosi il primo metodo ha
p e r m e s s o
l’identificazione di alcune
molecole che sono recentemente entrate nella
sperimentazione clinica.
Val la pena ricordare che
a monte della sperimentazione clinica c’è un
lungo percorso di ricerca
che prevede: sintesi del
farmaco e valutazione
della sua efficacia; identificazione del suo meccanismo d’azione e del
corrispondente bersaglio; valutazione della
(Continua a pagina 13)
Numero ottantuno - novembre 2012
Pagina 13
LA MALATTIA RIAPPARE IN TUTTO IL MONDO: ECCO COME E PERCHÈ
(Continua da pagina 12)
sua efficacia e di una
eventuale tossicità mediante esperimenti in
vivo (modelli animali);
studi di farmaco-cinetica
(distribuzione della farmaco nei tessuti…); ed
infine sperimentazione
clinica (prima su volontari e poi su pazienti). Tutto questo in passato richiedeva anni ed anni di
lavoro e per passare dal
primo “step”, identificazione di un nuovo farmaco, fino all’immissione
sul mercato erano necessari anche 10 anni.
Da diversi tempo il Laboratorio di Microbiolo-gia
Molecolare del Dipartimento di Biologia e Biotecnologie è inserito in
un network europeo il cui
ruolo è quello di trovare
nuovi farmaci antitubercolari (titolo dei progetti
finanziati dalla Commissione Europea: “New
Medicines for Tuberculosis” e “More Medicines
for Tuberculosis”). Il
network è costituito da
diversi gruppi internazionali, operanti in accademia o nell’industria, con
competenze in tutti i settori necessari per partire
dall’identificazione di una
nuova molecola e arriva-
re alla sperimentazione
preclinica. Grazie a questo, in soli tre anni siamo
riusciti a identificare un
nuovo farmaco antitubercolare, appartenente alla
classe dei benzotiazinoni
(BTZ), e il suo relativo
bersaglio. Tale farmaco
è ora in sperimentazione
preclinica a opera di una
industria farmaceutica
internazionale. È importante sottolineare che i
benzotiazinoni sono attivi non solo sui ceppi tubercolari sensibili agli
antibiotici, ma anche sui
ceppi MDR e XDR.
togeno e non nell’uomo.
La parete è l’involucro
che protegge la cellula
batterica (potrebbe essere paragonata alle pareti
ticolare classe di nitroreduttasi, è in grado di trasformare la forma attiva
della molecola in un derivato inattivo. Questo en-
Il
nostro Laboratorio,
mediante la caratterizzazione di due diversi meccanismi di resistenza ai
BTZ, ha permesso di
identificare il loro bersaglio come pure la possibilità di essere trasformati in una molecola
meno attiva, quando utilizzati in vivo. Tali risultati sono stati pubblicati su
Science nel 2009. Il bersaglio è l’enzima DprE1
coinvolto nella sintesi
dell’arabino-galattano,
un componente essenziale della parete cellulare di M. tuberculosis. Il
target è selettivo, in
quanto presente nel pa-
che DprE1 potesse essere considerato un
“target magico”. A questo punto diventava imperativo muoverci nella
seconda direzione, dal bersaglio
al farmaco, vale a
dire riuscire ad
ottenere la struttura tridimensionale
dell’enzima
per
poter disegnare
“ad hoc” dei nuovi
farmaci
ancora
più mirati e non
soggetti ad inattivazione, ad opera
della nitroreduttasi.
Gli
di una casa), se questa
viene a mancare la cellula muore. Non a caso,
l’isoniazide, farmaco antitubercolare per eccellenza definito ai tempi
della sua scoperta
“magic drug”, colpisce la
biosintesi degli acidi micolici, altre molecole fondamentali della parete.
Nel
nostro laboratorio
abbiamo dimostrato, inoltre, che un enzima,
appartenente a una par-
zima non è presente in
M. tuberculosis, e questo
spiegherebbe l’assoluta
efficacia del farmaco,
quando testato in laboratorio, ma è sicuramente
prodotto dai batteri che
costituiscono la flora intestinale dell’uomo. Infatti, nelle prove con animali si è visto che il BTZ
tende a perdere attività
nel tempo, molto probabilmente per un meccanismo di inattivazione.
Era comunque chiaro
sforzi combinati del Laboratorio di Microbiologia
Mole colare
(Gio-vanna Riccardi, Maria Rosalia Pasca, Silvia Buroni, Elisabetta Molteni, Laurent
Chiarelli) con quelli del
Laboratorio di Biologia
Strutturale (An-drea Mattevi, Claudia Binda) hanno permesso di ottenere
la struttura di DprE1 sia
nella sua forma nativa
che legata al farmaco
BTZ. Questo importante
risultato (pubblicato recentemente su Science
Translational Medicines)
porterà alla sintesi di
nuovi e promettenti farmaci antitubercolari.
A
questa ricerca hanno
partecipato attivamente
molti giovani precari, lavorando duro e con
grande entusiasmo e
passione. Alcuni di questi, volendo continuare a
fare
ricerca, sono
“fuggiti” all’estero trovando lavoro in istituti prestigiosi quali l’Institut Pasteur di Parigi e l’ École
Polytechnique Fédérale
di Losanna; altri accontentandosi
di
una
“misera” borsa di studio
tengono duro rimandando eventuale matrimonio
e programmazione figli.
Quando la classe politica capirà che investire in
ricerca vuol dire anche
investire in economia,
forse le cose miglioreranno. Nonostante tutto
continuo a sperare.
Giovanna Riccardi
Successo del progetto per rilanciare
l’immagine della città di Pavia
Il progetto nasce dal desiderio di Paolo Bellini d’incrementare l’immagine culturale Quaranta artisti di fama internazionali hanno gratuitamente rielaborato le statue che
della città di Pavia interagendo con la cittadinanza. L’iniziativa “Minerva d’Artista” è
stata ideata per celebrare il recente restauro della “Minerva Armata” opera dello scultore Francesco Messina. Tale iniziativa culturale ed artistica sarà supportata da attività imprenditoriali al fine di coniugare cultura e svago rivolte alla cittadinanza. La finalità del progetto è di incrementare nei giovani l’interesse per l’arte e valorizzare il proprio patrimonio culturale. A tale scopo la realizzazione delle quaranta statue riproducenti la “Minerva Armata” è stata affidata al cittadino liceo artistico “ A. Volta”
Minerva d'artista ha raggiunto il
primo obbiettivo con la tavola rotonda organizzata alla Sala delle Colonne: restituire un po' di verità alla
storia e svelare qualche mistero che
ancora circondava la creazione della statua della Minerva. Dalla relazione approfondita di Paolo Campiglio, che insegna storia dell'arte
contemporanea all'Università di
Pavia, sono emersi particolari che
chiariscono, ad esempio, il mistero
della lancia girata verso il basso. Al
contrario di quanto finora scritto,
esiste un bozzetto della statua del
Messina del 1937 in cui la lancia è
girata chiaramente verso l'alto.
Quindi fu errore umano e non, come
si è pensato, una scelta “pacifista”
dell'artista. Non esistono infatti nella
storia statue raffiguranti la Minerva
con la lancia verso il basso.
L'altro mistero che si è sciolto per
“testimonianza
oculare” è
quello del volto
della statua.
Fino a ora, nei
testi d'arte e di
storia, si era
parlato di una
modella. Sergio Alberti,
scultore pavese che fu allievo e amico di
Francesco
Messina, ha
invece svelato
che il volto era
quello della bellissima moglie dello
scultore, donna che lui conobbe di
persona e riconobbe nei tratti della
Minerva.
Mino Milani ha preferito rimanere
su tematiche più poetiche e meno
scientifiche nella descrizione della
verranno esposte in ottanta attività commerciali della città. I commercianti saranno la
forza trainante dell’iniziativa esponendo le opere all’interno delle loro vetrine nei mesi
di ottobre e novembre, vendendo i biglietti della lotteria e le agende “ Minerva
d’Artista 2013”; inoltre essi parteciperanno alla serata di Gala del 23 novembre ritirando le “Minerve d’Artista” estratte nel corso della serata. La lotteria è finalizzata alla
raccolta fondi destinati a “The children for Peace” onlus e all’istituto Superiore di studi
musicali “Franco Vittadini”.
UN MOMENTO DELLA CONFERENZA STAMPA
Minerva, ricordando come lui, bambino di 11 anni quando la statua fu
messa al centro della piazza, pensasse ad esempio che la lancia
«fosse un remo di un barcè e per
questo la statua guardava verso il
Ticino».
Qualche
cenno polemico è venuto dal professor Campiglio
sulle modalità
del restauro
della Minerva
eseguito di
recente
«senza - a
suo parere ricerca di
verità storica». Campiglio ha mostrato un
paio di foto d'epoca in cui si vede
chiaramente, ad esempio, che il
bronzo aveva delle parti chiare,
lucidate, sulle braccia a giocare con
chiaroscuri. Mentre il porfido, originariamente, era molto più scuro e
non chiaro come è stato restaurato
e riproposto. Campiglio, tra l'altro, si
è soffermato a lungo anche sulla
statua del Regisole, ancora di Messina.
Ci piace pensare che un progetto
come Minerva d'artista abbia contribuito a fare luce su un po' di storia
di Pavia e dei suoi monumenti. Didi
Gnocchi ha ricordato come, a differenza di altre iniziative simili - ad
esempio Sky Dish design
(rivisitazione delle parabole televisive da parte di artisti alla Triennale di
Milano) e Cow Parade, migliaia di
mucche reinventate dagli artisti di
tutto il mondo - Minerva d'artista ha
il merito di avere per la prima volta
chiesto a 40 artisti di intervenire su
un'opera d'arte. Questo ha creato
un circuito virtuoso che ha permesso di riparlare di uno dei monumenti
simbolo della nostra città.
Pagina 14
Numero ottantuno - novembre 2012
Se
la bellezza di una città
dipende dalla qualità dei
suoi spazi pubblici, dalla loro
capacità di favorire relazioni
sociali, la città antica è
l’unica città che ci è rimasta.
Il fascino che tutti le riconosciamo non è dovuto solo
alla bellezza dei monumenti,
ma alla percezione della capacità che le singole case,
gli spazi aperti e costruiti,
hanno di stare insieme, di
dare forma a quegli “interni
urbani” dove si condensa
l'abitare collettivo, dove una
data comunità di persone si
riconosce, avverte il senso
dell'appartenenza a un luogo, si sente a casa propria e
in mezzo agli altri contemporaneamente. Nella città di
oggi, mentre migliora lo
standard abitativo e la quantità dei servizi, peggiora la
qualità urbana complessiva,
la qualità dello spazio pubblico, dove pure tutti i giorni
abitiamo quando usciamo di
casa. Nelle periferie lo spazio aperto non è più in grado
di legare gli spazi costruiti
fra loro, di consentire relazioni sociali; svuotato di valori collettivi, lo spazio pubblico si disperde in una molteplicità di luoghi che diventano punti di riferimento indipendentemente da qualunque vincolo che non sia
quello dell'accessibilità automobilistica. Nell’ipermercato
le persone si incontrano in
un grande contenitore indif-
di MARIO MOCCHI
ferente al sito: dentro tutto
un mondo artificiale distribuito in modo preciso e funzionale alla logica del consumo, con finte strade, finte
piazze con finte fontane;
fuori spazi di risulta, infrastrutture. L'ordine di riferimento non è più l'uomo con
le sue necessità e le sue misure; è l’automobile con i
suoi problemi di sosta e di
circolazione. Fino alla metà
del secolo scorso c’è sempre
stata la volontà di un controllo formale dello spazio
pubblico. Ora in una società
in cui muoversi è più importante dello stare e quindi la
rotatoria serve più della
piazza, la periferia distrugge
la campagna senza costruire
una nuova città.
Quella
che si va formando
non è una città più grande,
è un nuovo modello insedia-
tivo che oltre un certo limite
mette in crisi l'idea stessa
di città nei suoi contenuti,
nel suo significato civile. È
una “città dispersa” che costa di più (per il consumo di
terreno agricolo, per lo spreco di tempo e di energia dovuto all’inutile mobilità) produce disgregazione sociale e
una perdita di identità dei
luoghi, una perdita di forma
dello spazio fisico. Non è la
quantità di spazio che manca, è il carattere urbano di
questo spazio. Che fare? La
città c’è già, non possiamo
progettarne e costruirne una
nuova completamente diversa da quella esistente; né
possiamo rifare le città
com'erano. Siamo più affascinati dal passato che dal
futuro, ma tornare indietro
nel tempo è impossibile,
questa sarebbe la vera utopia. È in atto un fenomeno
di dispersione; la città può
sopravvivere all’interno di
un progetto che intervenga
nel profondo del processo
diffusivo e ne capovolga la
tendenza, con l’obiettivo di
trasformare il rapporto centro e periferia nel rapporto
tra centralità storiche e nuove centralità, di progettare
centri alternativi moderni
che possano competere per
complessità e bellezza con i
centri antichi.
mezzo di trasporto individuale e quindi la dispersione, il
trasporto collettivo induce
nei punti di stazione fenomeni di riaggregazione e di
polarizzazione che, a loro
volta, rendono efficiente e
competitivo il mezzo di trasporto pubblico. Dall’altro
passare da una normativa
astratta, fatta di numeri e di
standard, a un’urbanistica
più attenta alla forma dei
luoghi. Più rivolta cioè a ricomporre le differenze, a far
stare insieme gli spazi: interni ed esterni, pubblici e
privati, antichi e moderni, a
coinvolgere lo spazio aperto
nel progetto. A partire dalla
consapevolezza che il progetto del vuoto è importante
come il progetto del pieno:
l’uno si dà come condizione
dell'altro.
Per
questo occorre una
strategia di “densificazione
intelligente”: costruire di più
e meglio dove è già costruito, favorire la complessità
tipologica e funzionale. Occorre conciliare gli interventi
urbanistici con l’agenda politica. Da un lato favorire una
diversa politica dei trasporti:
se la costruzione di nuove
strade favorisce l’uso del
LA BISACCIA DI PROTAGORA a cura di Pier Giuseppe Milanesi
di GIUSEPPE NAPPI e PIER GIUSEPPE MILANESI
Il soggetto
dell’evoluzione. Ma chi
e che cosa si sta realmente “evolvendo”? Stiamo tentando di
esplorare, in un contesto interdisciplinare,
con tecniche di approccio neuroscientifico, antiche problematiche tradizionalmente
affrontate con gli strumenti della riflessione
filosofica o psicologica. È in ogni caso importante conoscere
ciò che accade dentro
di noi, dentro la nostra
macchina cerebrale,
che costituisce comunque il supporto
delle nostre espressioni spirituali e di coscienza.
Questa visuale non
deve però scadere in
una petizione ideologica di tipo riduzionistico: è infatti necessario
conservare la consapevolezza che le veri-
tà universali e le risposte alle grandi questioni della vita non possono essere estratte
dalla neurologia, dalla
neuropsicologia e dalle neuroscienze, pur
essendo, queste discipline, indispensabili
per chiarire molti concetti in campo antropologico e filosofico e
delle scienze umane.
Diciamo questo, non
solo perché riteniamo
che la coscienza rappresenti una espansione del nostro cervello e non tanto una
fotocopia
dell’architettura neuronale, ma soprattutto
perché le risposte più
esaustive non vanno
mai cercate dentro
l’individuo o dentro la
singola forma organica. Infatti ciascun vivente è a sua volta
parte integrale di un
organismo ancora più
vasto, il quale è parte
di un altro organismo
più vasto ancora, e
così via.
La domanda è dunque: dove sta il vero
soggetto del processo? Parliamo sempre
di evoluzione, dimenticandoci di porci questa domanda: qual è il
soggetto principale
che si sta evolvendo?
Forse non è l’uomo, o
la singola specie, il
soggetto e il destinatario di questa evoluzione, ma piuttosto è la
natura stessa in quanto ecosistema, il sistema stesso nel suo insieme. Forse.
Ogni cosa vive dentro
lo spettro dell’Altro in
una sequenza di scatole cinesi o in un sistema di specchi. Perché cercare risposte
esaustive “dentro il
cervello” quando anche il cervello è parte
di un più ampio
“cervello” ai cui richiami e sollecitazioni esso obbedisce?
Noi non siamo creature intelligenti, bensì
siamo animali portatori
dei prodotti della intelligenza, o di una intelligenza universale, esattamente come sono le api che, volando,
sono inconsapevoli
portatrici di una sostanza che serve a un
fiore per impollinare
un altro fiore.
Parlando dell’uomo
dobbiamo pensare alle api e tenere in primo piano il grande
cerchio della vita, della cui riproduzione
l’uomo è solo inconsapevole strumento.
Se la natura ha sviluppato nell’uomo la
coscienza o
l’intelligenza è perché
essa aveva bisogno di
tali più potenti strumenti, più sofisticati
delle ali delle api, per
trasportare qualcosa,
o per saldare insieme
degli anelli lontani lontani nello spazio e
nel tempo.
Soprattutto nel tempo!
Pensiamo al tempo,
infatti! Come l’ape trasporta il polline dal fiore al fiore lontano, superando così i limiti
imposti dalla immobilità della pianta, così,
allo stesso modo, la
natura dota l’uomo di
una capacità di trasportare qualcosa in
grado di vincere anche la differenza abissale del tempo!
Non è forse magico
tutto ciò? Da questa
visione emerge che
noi non siamo soggetti
di nulla, ma siamo solo inconsapevoli operai della grande imperscrutabile macchina
della vita universale.
Ciò che ci è stato do-
nato non è nostro.
Siamo solo dei barcollanti portatori di codici,
di messaggi, di istruzioni che noi provvediamo a trasferire senza avere alcuna chiara
visione e nozione di
questo operare. Non
siamo infatti, noi, i
soggetti chiamati a
decifrare i messaggi
che andiamo trasportando, Perché sono
messaggi che qualcun
altro sarà qualificato e
autorizzato a leggere.
La natura ci ha fornito
di questa bisaccia, la
mente, piena di segni
e di cifre che nemmeno noi sappiamo comprendere, e ci ha detto. “Ecco, adesso vai!
Vai! Trasporta!”
Più scaviamo dentro
noi stessi e più non
troviamo cose che effettivamente ci appartengono, ma sempre
cose che altri ci hanno
donato.
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Numero ottantuno - novembre 2012
FONDAZIONE
SARTIRANA
ARTE
CARL LEWIS
Breve escursus sul passato
dell’”arte che cammina”
di GIORGIO FORNI
MARIA CALLAS
Italia un tempo caput
mundi (a quello del Romani ….) ora in una zona,
diciamo di penombra, fisiologica con il ciclico declino delle civiltà. Sembra
toccare all’occidente ora,
drogato dalla finanza di un
capitalismo liberista, selvaggio e crudele; parassitario nella disinvoltura dei
camuffamenti vuoi a Lussemburgo o Londra o, come più evidente in questi
giorni, in paradisi tropicali.
Sono da quelle parti le
isole Cajman? Detto ciò,
l’amarezza del declino da
un passato glorioso si documenta, cifre alla mano,
anche in settori come
quelli del “ ben fatto” creativo e innovativo, alto
artigianale e fashion.
Quelli del design e della
moda, di quelle produzioni
insomma che negli ultimi
60 anni alle spalle illuminavano i successi del made in Italy.
Universo della calzatura
compreso.
A furia di delocalizzare le
produzioni, fatto il business di cessioni allargate
alle tecnologie e ai macchinari ..., il banchetto dei
bilanci aziendali si è andato sempre più impoverendo di portate. I tracolli
rovinosi di antiche capitali
della scarpa, Vigevano e
Varese per tutte, non
compensati dallo sviluppo
di altri distretti, ci hanno
ridotti ad apparecchiare
finger food, sempre di alta
qualità, ma incapace di
impinguare i fatturati nazionali. Dobbiamo quindi
accontentarci ora di nicchie di eccellenza, di isole
di alta capacità, attrattive
per alcuni divi del mercato
che a esse approdano per
le loro produzioni di élite.
Lontani i tempi in cui Fer-
ragamo , dopo il sudore
transatlantico del tour autopromozionale del grande
Salvatore, custodiva le
forme in legno degli illustri
piedini che vestiva e faceva volare con le sue creazioni impareggiabili. Affiancato da Gucci in quella
Firenze che, sin da prima
degli anni magici del secondo dopoguerra, rafforzava nel mondo la propria
immagine di creatività e
splendore esecutivo dal
sapore e fascino rinascimentali. Come d’altra parte succedeva per Prada
sotto le vetrate milanesi
della galleria Vittorio Emanuele.
Nella Vigevano degli anni
‘50 era tutto un fiorire di
capannoni e cantine, in
cui il lavoro a domicilio,
avvelenato dal benzolo,
contribuiva all’affermarsi
di una miriade di marchi e
sottomarchi sostenuti dal
terzismo, il tutto ben illustrato da Lucio Mastronardi. Cosa è rimasto di quel
tempo imperiale? Nelle
vetrine degli aeroporti,
per non dire sulle strade
dello shopping di lusso
delle grandi città del mondo…, cosa leggiamo? Ormai solo i nomi di Toods e
Rossetti, ancora Prada,
Ferragamo, Gucci e talvolta Moreschi, insieme alle
altre griffes dell’abito che
trainano le produzioni di
anonimi licenziatari
dell’universo accessoristico, scarpe comprese, con
il fascino attrattivo dei
brands e dei loro testimonials. Non sono le dive di
sex and the city a miagolare il terrore di restare
senza le loro Manolo (fatte
a Vigevano perbacco)?
Non è forse l’immagine
mitica di Carl Lewis sui
blocchi di partenza con
due rosse tacco 12
(fotografato da Annie Liebovitz) a incidere
nell’immaginario collettivo
l’appeal del marchio Pirelli?
Poco altro ci rimane oltre
alle famose immagini delle
campagne pubblicitarie,
tanto da costringerci al
tuffo nel passato glorioso,
ormai museale, da usare
come traino civetta per
quelle aziende che ancora
trovano energie e mezzi
per resistere all’attacco
delle produzioni di massa
e di discutibile qualità.
Un passato colorato dai
fiori e dai decori animalier
sugli stivali e sulle ballerine anni ‘70 di Ken Scott
(nelle foto tutte sue creazioni, tranne quelle con
diversa indicazione).
VERSACE
MARIO VALENTINO
Passato reso celebre dal
ruggito di orgoglio delle
preziose e un po’ folli creazioni di Andrea Pfister,
che brillavano come stelle
made in Vigevano tanto in
Montenapoleone come in
Rodeo Drive o sulla Fifth
Avenue.
Marchi ahimè spariti dal
mercato, nei cui vortici in
pochi sono rimasti. A confermare il credito acquisito
negli anni e a fidelizzare
la loro platea di fan consumatori. Riuscendo però
a difendere posti di lavoro. Pagando le tasse e agitando con fermezza,
senza ridicoli canti del nostro improbabile inno nazionale, la bandiera tricolore.
MARTINOLI
PFISTER
VERSACE
NORA NICOLETTI
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MO YAN
SORGO ROSSO
EINAUDI
La
storia
epica,
grandiosa di questo
capolavoro della letteratura cinese
contemporanea si staglia sullo sfondo
degli sconfinati campi di sorgo “che in
autunno scintillano come un mare di
sangue”. Dal banditismo degli anni
Venti, alla cruenta invasione giapponese degli anni Trenta e Quaranta, fino al
periodo che precedette la Rivoluzione
culturale, Sorgo rosso racconta le avventure e gli amori del bandito Yu
Zhan’ao e della sua famiglia, in un affresco che ritrae un intero popolo, tutto un Paese. Un Paese dalle campagne
brulicanti di anime sperdute - contadini, soldati, monaci buddisti, maghi taoisti - in cui “un vento maschio spazza
una terra femmina” e il sangue versato
è “morbido e liscio come piume
d’uccelli”. Da questo romanzo Zhang
Yimou ha tratto il film omonimo, Orso
d’Oro al Festival di Berlino nel 1988.
MAURO SANGIORGI
NON È UNA CITTÀ PER AVVOCATI
ROBIN EDIZIONI
Marcello Prati è un avvocato pavese
che ha superato i quaranta. Vive la
professione con disincanto e amarezza, trascinandosi fra le incombenze di
studio, il bar dove è solito consumare i
suoi pasti e il rimpianto per la fidanzata che lo ha lasciato per un calciatore
molto più giovane di lui. Quando la
ragazza viene uccisa insieme al nuovo
compagno, Prati viene accusato degli
omicidi e capisce che l’unica occasione
che gli rimane per salvare se stesso e
il suo studio è quella di indagare personalmente per scoprire il vero assassino. La ricerca della verità si rivela
difficile e a Marcello viene in soccorso
Numero ottantuno - novembre 2012
Claudia, suo difensore, che lo aiuta nel
tentativo di fare luce
sull’intricata vicenda.
Attraverso
puntate
nell’Oltrepò pavese e
imprevisti ritorni a un passato più felice, la matassa verrà infine sciolta. Ma
la salvezza faticosamente conquistata
non sarà in grado di lenire l’amarezza
lasciata da una storia dove, in fondo, a
vincere non sono i buoni.
BIANCA GARAVELLI
LE TERZINE PERDUTE DI DANTE
BALDINI & CASTOLDI
Parigi, 1309. Dante, stanco e spaventato, sta attraversando un ponte sulla
Senna. Sente dei passi minacciosi alle
sue spalle, teme siano quelli di uno dei
suoi molti nemici. In realtà è Marguerite Porete, mistica accusata di eresia su
cui grava un peso terribile. Con lei il
sommo poeta riesce a sentirsi a casa
anche in esilio, ma ben presto scoprirà
di essere finito al centro di una guerra
spietata fra due ordini che agiscono
nell’ombra. In gioco c’è un grande segreto. Una profezia di cui l’Alighieri è il
depositario prescelto e che dovrà essere trasmessa alle generazioni future
per salvarle dalla minaccia di chi cerca
di violare il mistero della creazione.
Oggi. Riccardo Donati è un cultore di
filologia medievale e un insegnante
frustrato, eppure in lui arde ancora la
scintilla della curiosità. Studiando un
antico manoscritto si imbatte in quella
che ha tutta l’aria di essere la firma
autografa di Dante. Da questa scoperta prende il via una caccia all’uomo in
cui sarà coinvolta anche Agostina, attraente e determinata ragazza. I due
saranno costretti a una fuga che li porterà fino a Parigi, dove li attende la
soluzione di un enigma che dura da
settecento anni...
1928-2012