Indice
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Lomax l’irregolare di Sergio Torsello
Alan Lomax, fotografo di Anna Lomax Wood – Goffredo Plastino
Il Salento: storia e tradizione orale di Luisa Del Giudice
1954, luoghi e volti di Luigi Chiriatti
In Salento foto di Alan Lomax
Lomax l’irregolare
di Sergio Torsello*
Per la prima volta, questo volume ci offre la possibilità di vedere l’insieme delle
fotografie (quasi tutte inedite) realizzate da Alan Lomax durante la sua ricerca sul
campo in Salento, nel 1954. Si tratta di immagini straordinarie per bellezza e attenzione ai dettagli. In queste fotografie Alan Lomax sembra essere innanzitutto interessato a fissare i movimenti e le “poetiche” del corpo dei cantori, e le varie fasi
della performance musicale nel suo svolgimento. C’è poi un’attenzione significativa
al “contesto” in quanto scenario più ampio della performance, dal quale emerge lo
stretto legame tra universo sonoro e sfondo sociale. Particolarmente esplicative in
questo senso sono le immagini dei gruppi di cantori impegnati in esecuzioni polifoniche, che ribadiscono quella sequenza/incastro (quasi pirotecnica) delle voci
che il grande Antonio Bandello ha suggestivamente definito l’aria de li fochi. Le
fotografie dei cantori ripresi durante il lavoro (quasi “alberi di canto” immersi in
un “paesaggio sonoro” che da lì a poco non sarà più lo stesso), o le altre che mettono in evidenza il ruolo delle donne (dal lavoro domestico alla gestualità del cordoglio rituale), rappresentano un’importante documento antropologico. Alcune
sequenze (le lamentatrici come avvolte in tenebrosi sudari, le stradine sterrate con
le “quinte” di case imbiancate a calce, il duro lavoro dei cazzatori o di quelli che
lavoravano alle calcare) ci consegnano uno straordinario spaccato delle durissime
condizioni di vita nelle campagne del Sud alle soglie di grandi mutamenti.
La cultura di massa e il sogno modernista sono nel 1954 ormai alle porte, e
spazzeranno via in un colpo solo miseria e privazioni (sarà poi del tutto vero?), ma
anche storie di vita e di comunità, culture materiali e saperi tradizionali, senza
interrogarsi troppo su ciò che è stato e su ciò che sarà.
Queste foto non sono reperti di un’archeologia meridionalista, o le icone venerabili di un nuovo culto della memoria nostalgico e regressivo che si appoggia ai
suoi miti e ai suoi numi tutelari. Diventano materiali per un’antropologia del presente, documenti per un nuovo “meridionalismo” che tende la mano al passato e
si proietta con più forza verso il futuro. Frammenti di memorie, insomma, che
reclamano ancora pensieri, azioni e scritture.
*Istituto “Diego Carpitella”
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Alan Lomax, fotografo
di Anna Lomax Wood – Goffredo Plastino
Durante la sua ricerca sul campo in Salento, insieme a Diego Carpitella (dal 12
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al 17 agosto 1954), Alan Lomax effettua oltre 170 registrazioni sonore, e oltre 70
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fotografie in bianco e nero, quasi tutte riprodotte in questo volume. La fotografia,
così come la scrittura, è stata per Alan Lomax una reale vocazione, e la macchina
fotografica molto più che una tecnologia da usare insieme al registratore. Alan
Lomax, più noto come etnomusicologo, scrittore e documentarista, non è comun3
que altrettanto conosciuto come fotografo. Ciò si deve al fatto che egli ha sempre
usato alcune delle sue fotografie per illustrare didascalicamente le sue registrazioni, riproducendo le sue immagini per lo più come corredo iconografico delle note
ai brani pubblicati sui dischi, oppure sulle loro copertine. Durante le sue ricerche
sul campo, tuttavia, Alan Lomax ha sempre fotografato i musicisti e i cantori, la
gente e i luoghi, con un’intensità e un coinvolgimento che raramente si riscontra,
anche nel lavoro dei più grandi fotografi.
Alan Lomax ha realizzato dei “diari fotografici” durante le sue ricerche in
Spagna (1952) e in Italia, che dimostrano come egli sia stato sempre interessato a
ritrarre e documentare i momenti salienti delle performances musicali, il paesaggio
naturale e urbano e l’ambiente sociale nel quale i musicisti operavano.
Soprattutto, nelle sue fotografie italiane si nota un’attenzione costante al mondo
del lavoro – e alla povertà, quale risultato di condizioni di vita precarie e spesso
insostenibili, condizioni descritte e sottolineate nelle sue annotazioni sul campo.
Uno dei tratti caratteristici della metodologia sul campo di Alan Lomax è stato
quello di ottenere performances musicali esemplari dai musicisti e dai cantori: in un
certo senso egli ha adoperato un approccio “a campionamento”, registrando ciò
che poteva essere ritenuto l’“essenziale” in aree geografico-culturali circoscritte
(una pratica che sembra aver preceduto la consuetudine contemporanea della
documentazione estensiva di alcune culture musicali). Questa tecnica di lavoro sul
campo era anche resa necessaria dalla relativa scarsità di apparecchiature e di materiale a sua disposizione. Tuttavia, non soltanto per necessità Alan Lomax sembra
essersi “limitato” all’essenziale: egli pensava che le informazioni importanti riguardo l’esperienza umana erano codificate nelle canzoni e nelle melodie tradizionali,
e che queste informazioni si sarebbero potute comprendere meglio considerando
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canzoni e melodie come un’“incarnazione” di un ideale all’interno di una comunità.
Le fotografie di Alan Lomax mostrano come egli abbia continuamente provato, molto spesso con eccellenti risultati, a catturare i comportamenti del corpo e le
posture, i gesti e le espressioni del volto, il modo di stare insieme dei suonatori e
dei cantori che ha incontrato e registrato. La sua indiscutibile capacità quale fotografo, insieme ad un rimarchevole gusto per la composizione, e alla simpatia ideologica e politica nei riguardi delle donne e degli uomini incontrati “sul campo”,
fanno delle sue fotografie – anche di queste, realizzate in Salento – una documentazione preziosa per capire l’Italia del passato e del presente.
Note
1. Si tratta di una “tappa” del lungo viaggio di ricerca sulla musica tradizionale italiana, che vede
impegnati Alan Lomax e Diego Carpitella (con l’etnomusicologo americano per alcuni mesi) dal
luglio del 1954 al gennaio del 1955. Su questa giustamente celebre ricerca sul campo si vedano: Alan
Lomax, “Ascoltate, le colline cantano!, in Santa Cecilia, n. 4, 1956, pp. 81-87; Diego Carpitella, “Un
ritratto dal vivo”, in Conversazioni sulla musica. Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche 1955-1990,
Ponte alle Grazie, Firenze, 1992, pp. 216-217; Anna Lomax e Goffredo Plastino, “Introduction” al
CD Folk Music & Song of Italy, Rounder Records, 1999 (collana Italian Treasury della Alan Lomax
Collection). Le registrazioni originali realizzate da Alan Lomax e Diego Carpitella vengono pubblicate
dalla Rounder records, a partire dal 1999, nella collana Italian Treasury: sono disponibili finora (febbraio 2006) undici compact discs (see: www.rounder.com/series/lomax_alan/italian.html). Su Alan
Lomax, si veda : Alan Lomax, Selected Writings 1934-1997, a cura di Ronald D. Cohen, Routledge,
New York e Londra, 2003; e le informazioni nel sito www.alan-lomax.com.
2. Le fotografie realizzate da Alan Lomax in Puglia sono oltre 250 (in Italia oltre 1.300).
3. Sull’importanza dell’opera fotografica di Alan Lomax, si veda tuttavia: Daniel Wolff,
“Tomorrow, When It Will Be Too Late”, in Double Take n. 12, 1998, pp. 44-49. Questo breve testo
contiene anche cinque riproduzioni di fotografie italiane di Alan Lomax (su un totale di otto immagini).
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Il Salento: storia e tradizione orale
di Luisa Del Giudice
Il Salento (o terra d’Otranto, secondo la designazione bizantina) rappresenta
un’area culturale ben delineata all’estremo sud-est della penisola italiana, in una
regione, la Puglia, che attraverso millenni ha costituito un crocevia tra Oriente e
Occidente. In quelle terre i coloni dell’antica Grecia si sovrapposero ai Messapi,
per venire poi, a loro volta, assoggettati dai Romani alla ricerca di rotte mercantili
marittime nell’oriente del Mar Mediterraneo. Dopo lo scisma del nono secolo
(scissione ecclesiastica resa definitiva nel 1054), il Salento divenne campo di battaglia nei conflitti politico-religiosi tra Bisanzio e il Sacro Romano Impero
d’Occidente. Durante le crociate, la zona fornì a cavalieri di tutta l’Europa un
punto di passaggio verso Gerusalemme, e così fu esposta a ripetute rappresaglie dei
Saraceni. Oggi, come risultato delle riconfigurazioni dell’Unione Europea e degli
spostamenti demografici sempre in aumento, la regione è tornata a fungere da
ponte sul Mediterraneo. Nelle sue tradizioni orali, vari aspetti di queste traversie,
antiche e meno antiche, hanno lasciato echi audibili.
La città illirico-greca di Brindisi costituì il terminus della via Appia e fu un porto
sull’Oriente dell’Impero Romano. Data la sua importanza strategica, la regione fu
ripetutamente soggetta ad incursioni da parte dei vari poteri, dai tempi antichi
fino ai più recenti. Dopo la caduta dell’Impero Romano, Longobardi, Franchi,
Normanni, Saraceni, poi Angioini, Aragonesi, e Borboni, hanno tutti, a loro volta,
primeggiato. Durante l’epoca greca, la città di Taranto dominò la regione, mentre
Brindisi regnò suprema sotto i Romani, e poi Bari in epoca bizantina; e nel
Duecento, sotto l’imperatore normanno-svevo Federico II, Foggia per breve periodo fu la sede del Sacro Romano Impero. Attraverso queste vicissitudini, il Salento
godette di brevi e modesti periodi di pace e benessere: Federico II (lo Stupor Mundi)
fu artefice di una fugace fioritura artistica ed architettonica, oltre che di una co-esistenza tra cultura greca, latina, e, per importazione sua propria, araba. Perfino
sotto il giogo spagnolo fiorì un modesto e anche dilettevole periodo barocco, incoronato dal gioiello che fu Lecce (il barocco leccese). Queste creste spuntano contro
lunghe e notevoli vallate, colmate dalle devastazioni e miserie causati da disastri sia
naturali sia per opera umana. Tra queste ultime, acuitesi durante il regime aragonese, ci furono: il feudalesimo protratto, con la consuetudine baronale di avarizia,
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e i grandi ed inerti possedimenti (i latifondi), frequentemente proprietà di padroni assenteisti. La stragrande maggioranza dei pugliesi meridionali, un popolo di
tradizione agro-pastorale, spalleggiò guerre, depredazioni e oppressioni sociali, e
formando una classe abbandonata a sé, e dunque alla sussistenza – fino al ventesimo secolo.1 Né l’Unificazione con il suo rapporto Jacini, né la Riforma Fondiaria,
né i vari progetti civili (idrici, ferroviari, di viabilità, e di bonifica) del Dopoguerra,
tutti intesi a rispondere alla questione meridionale locale, migliorarono in misura
significativa il destino del contadino pugliese.
Fu quest’“altra” Italia, e specificatamente il Salento, che Ernesto de Martino
descrisse in maniera eloquente nella sua etnografia seminale sul fenomeno del
tarantismo, La terra del rimorso.2 I contadini sopravvivevano nelle condizioni più
pietose e marginalizzanti. Le ingiustizie, radicate ed istituzionalizzate, lasciarono
larghe fasce della popolazione emarginate da ogni progresso socio-economico (nei
migliori dei casi comunque, la scarsa e sporadica industrializzazione ebbe un
impatto solo su alcuni punti del triangolo Taranto-Brindisi-Bari,3 e collegò questi
ad economie settentrionali anziché locali). Le riforme fondiarie poi, istituite negli
anni Cinquanta, non furono, sulla maggior parte del territorio, né di grande
sostanza, né inclusive. La grande maggioranza continuò bracciantile, analfabeta,
malnutrita, e senza la dovuta assistenza sociale. Infatti, la Puglia rimase una delle
regioni più svantaggiate in tutta l’Italia, dal punto di vista socio-economico, con
un alto tasso di emigrazione verso altre regioni italiane e verso l’estero, perfino
negli anni Settanta e Ottanta, quando la maggior parte delle altre regioni avevano
già cessato di esportare manodopera.
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Fin dai tempi antichi, popoli autoctoni (Iapigi, Dauni, Peucezi, Messapi) e quelli che giunsero successivamente (specialmente i Greci e poi i Romani), lasciarono
il loro segno sulle culture della Puglia, una regione dove risiedono ancora minoranze etniche con lunghe radici nel territorio: Greci dall’antichità, Provenzali dal
Medioevo, poi Albanesi dal Rinascimento. Tra di essi, è la presenza culturale e linguistica ellenica, di gran lunga la più notevole. L’antica Magna Grecia (l'insieme
delle colonie greco- italiote) si estese su di un vasto territorio che comprendeva
parti della Calabria, della Sicilia e della Campania, oltre che della Puglia. Oggi la
zona ellenica della Puglia del sud viene riconosciuta come Grecía salentina, e il suo
dialetto come grecanico o griko. Benché le origini della Grecía siano ancora dibattute,4 la presenza grika, fu, fino a tempi recenti, facilmente riconoscibile da segni linguistici, culturali, religiosi, e da tradizioni espressive orali. Rappresentò sulla carta
etnoculturale salentina un’isola distinta e integra. Nonostante ciò, da quando le
fotografie qui pubblicate sono state scattate (agosto del 1954) a oggi, si è constata-
ta un’erosione linguistica e culturale decisiva. Benché il censimento del 1964 affermasse che più della metà degli abitanti della Grecía parlavano ancora la loro lingua originaria, oggi solo una minoranza, anziana ed esigua, è ancora in grado di
parlarla correntemente.
A parte la sua storia, è senza dubbio la natura che più ha plasmato la vita pugliese. Consideriamo solo i fattori meteorologici e topografici: piogge persistenti in
autunno si alternano a lunghi periodi di siccità in primavera e d’estate; una topografia di terreni calcari caratterizzati dal carsismo, e quindi da un’abbondanza di
aree costiere rocciose e cavernose, e inoltre, una mancanza di qualsiasi fonte permanente di acque di superficie in tutta la regione.5 Solo un laborioso sistema di
acquedotti e cisterne, risultato di fatica umana, ha permesso ai contadini di sopravvivere seppure in maniera assai modesta, in una zona così poco ospitale.
L’Acquedotto Pugliese (1906-1939) solo in parte risolse il problema dell’irrigazione. Fu anche la carenza d’acqua a limitare la crescita e la grandezza dei paesi del
Salento. Dedicandosi ai mestieri agricoli, i pugliesi favorirono insediamenti nel
retroterra, lontani dalle zone costiere – pur belle che fossero – infestate dalla malaria (nelle zone paludose), ed esposte alle invasioni da Oriente.6 Per essere una
regione costiera sui tre lati, il Salento vanta pochissimi porti: Taranto, Gallipoli,
Otranto e Brindisi.
Le giustapposte e successive realtà storiche si notano sull’ambiente umano oltre
che naturale. Accanto ai dolmen e menhir dell’età del bronzo, si alzano numerose e
magnifiche le chiese, le fortezze, le cripte in tufo, romaniche e barocche, insieme
alla ricca e impressionante varietà d’architettura vernacolare, soprattutto in pietra
calcarea, spesso a secco. Benchè l’aspetto più notevole tra questi ultimi sia il trullo
(che ha permesso a paesi pugliesi come Alberobello di essere annoverati sul registro UNESCO fra i luoghi storici di grande rilevanza umana), ci sono vari altri:
migliaia di chilometri di muri a secco, masserie,7 una varietà di costruzioni rupestri di pietra quali ripari per animali, e pozzi, mulini ipogei, e poi, naturalmente, i
paesaggi selvatici, pietrosi, e appena abitati giù, verso Santa Maria di Leuca de
Finibus Terrae.
Benchè oggi gran parte della Puglia appaia verdeggiante e addomesticata, terrazzata da vitigni e da secolari e nodosi oliveti, furono le smisurate fatiche di un
“popolo di formiche” (come disse giustamente lo scrittore pugliese, Tommaso
Fiore, per descrivere la sua gente) – che lo rese tale.8 Questo esercito dall’infinita
pazienza sgomberò il terreno dalle pietre con enorme fatica, costruì interminabili
muri, e pian piano trasformò un paesaggio ruvido e incoltivabile in un giardino
murato, di austera bellezza. Molti latifondi furono riassegnati ai contadini nella
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Riforma Fondiaria di 1951 ma spesso le impressionanti “fortezze” salentine, cioè le
masserie, una volta al centro di potenti e vasti possedimenti, restarono poi come
tante solitarie sentinelle, testimoni di un passato costruito su oppressione economica e sociale. Molte masserie furono abbandonate mentre altre si sono trasformate in siti agro-turistici, e hanno simili usi secondari.
La sfida dell’ambiente naturale pugliese (e altre create da una storia di privazioni e oppressione politica) ha segnato la gente, la sua mentalità, finanche le sue
espressioni di cultura materiale e orale.
Quest’ambiente culturale s’intravede nei canti di lavoro: quelli delle raccoglitrici, nei canti di trebbiatura e in quelli della vendemmia. In alcuni, il suono del martello contro la pietra ci ricorda quello che doveva essere un suono assai comune
nel paesaggio acustico pugliese. Le masserie rurali, una volta densamente abitate,
furono anche l’ambiente del contesto collettivo di lavoro (per es., infilatura delle
foglie di tabacco, battitura del grano) e delle occasioni sociali e celebrative, ma
anche di rituali più oscuri di musica e danza, perché fu anche questo l’ambiente
che creò il fenomeno del tarantismo.
Tarantismo, detto brevemente, era quella forma di meloterapia, praticata
soprattutto da contadine che si dicevano “pizzicate” da ragni (tarantole vern.
“tarante”) velenosi, di solito mentre lavoravano nei campi sotto il sole bruciante e
accecante del mezzogiorno. Per guarire l’afflitta dal pizzico “mitico” si richiedeva la
musica del tamburello (e a volte anche di altri strumenti quali il violino), nei ritmi
della “pizzica tarantata”. Ballavano per giorni. La malattia spesso tornava, a intervalli di un anno; e gli afflitti compivano il loro pellegrinaggio annuale alla chiesa
barocca di Galatina, nel giorno della festa dei santi Pietro e Paolo (28-29 giugno;
quest’ultimo patrono dei tarantati), dove si ritrovavano per ballare, per rendere
omaggio al santo, e per essere liberate tanto dalla ragnatela della tarantola quanto
dalla maledizione del santo. Era un rituale segnato dalla sofferenza e dal dolore, e
non si può negare il fatto che fu un’aspra storia socio-economica a creare le condizioni perché fenomeni rituali quali il tarantismo attecchissero. Il tarantismo è,
infatti, storicamente inseparabile dal Salento. Anche dopo che il tarantismo “classico” si era più o meno spento (ai primi anni Settanta), il rituale della pizzica rimase una matrice culturale simbolica che continua ancor oggi a rappresentare parti
significative dell’esperienza salentina.9
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Si soleva dire che gli orgogliosi Messapi, i più etnicamente compatti e conservatori degli antenati salentini Iapigi, resistettero sia ai Romani che ai Greci.10 Anche
oggi, i salentini continuano ad essere culturalmente omogenei e conservatori e,
come i loro antenati, sono ancora largamente un popolo agro-pastorale (ma in
misura minore). All’interno della regione, la zona di Lecce sud rappresenta una
distinta sotto-regione dialettale e culturale. Com’era il caso del promontorio del
Gargano più a settentrione, così anche l’isolamento della penisola salentina può
spiegare il suo arcaismo culturale. La grande pianura salentina, costeggiata da una
ripida costa frastagliata e punteggiata da paesini mediterranei biancheggianti, ci
appare anche oggi come una rete (una ragnatela?) labirintica, dalla viabilità poco
logica, di strade con scarsi collegamenti lineari tra di esse.
Eppure, una prospettiva micro-culturale rende il Salento anche eterogeneo, poiché comprende sia l’area linguistica romanza che quella divenuta minoritaria
grika.11 Benché oggi il griko si presenti come una lingua moribonda (malgrado gli
sforzi di farla rivivere), le prime registrazioni sul campo degli anni Cinquanta offrono una preziosa testimonianza di una tradizione vitale fino a poco fa, e ora appena distinguibile da quella dei paesi romanzi circostanti. Tra le forme più singolari
della tradizione orale grika, ci furono i moroloja (lamenti funebri), e il canto di questua pasquale, la Passione (che si trova tuttavia anche in varianti salentine romanze). Significativi in quella tradizione orale erano i canti religiosi, e tra questi la
Passione, orazioni, canti e leggende dei santi – molti dei quali conservano la forma
medievale della lauda (e dunque sono cantati e drammatizzati).12 C'erano pure
canti d’amore (serenate, matinate, canzuni), contrasti (per es., tra madre e figlia, tra
amanti), stornelli – che esprimevano tutta la gamma degli atteggiamenti amorosi:
il fuggitivo e lirico, l’amaro e tagliente, l’apertamente sensuale). L’usanza arcaica
del lamento funebre, una volta ben diffusa, sopravvisse nel Salento fino al secondo Novecento, ancora praticata da lamentatrici di professione (prefiche o repute).
Sembra ormai un parere condiviso (in molti settori) che il secondo Dopoguerra
rappresentò uno spartiacque storico nella cultura tradizionale italiana. Per migliaia
di persone attraverso tutto il Meridione, l’unica via d’uscita da un’esistenza intollerabile divenne l’emigrazione. Malnutriti, analfabeti, con scarse risorse di qualsiasi genere, con poca speranza di trasformazione sociale, un gran numero di pugliesi emigrarono in questo periodo. L’esodo di massa causò un dissanguamento delle
campagne, lacerando il tessuto sociale e dunque le sue tradizioni culturali. Le registrazioni (e altra documentazione) fatte negli anni Cinquanta colgono costumi e
tradizioni di una generazione ancora vigorosa, antecedente al boom economico, per
la quale fare musica in ambiente familiare, in raduni urbani spontanei, oppure nei
luoghi di lavoro (nei campi, nelle masserie e nei furnieddhi), ancora era di norma.
I profondi cambiamenti sociali che seguirono ebbero un impatto diretto e decisivo
sulle tradizioni orali e musicali salentine. Già negli anni Settanta, per esempio, le
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ultime sopravvivenze del tarantismo “classico” furono più o meno disperse. Non si
vuole affermare, però, che i tarantati sparirono del tutto, anche se un rituale pubblicamente condiviso non fu più praticabile. Infatti, malgrado l’ambiente socioeconomico radicalmente cambiato, aspetti culturali del tarantismo, così radicati
nella storia e mentalità locale, sopravvivono ancora oggi.13
Nel Salento oggigiorno si riscontra una nuova generazione che ha trasformato
profondamente una prassi culturale di sofferenza in un’affermazione pubblica e
celebratoria dell’identità culturale salentina. La pizzica, la musica del tarantismo,
è divenuta la musica emblematica del Salento (a scapito d’ogni altro genere musicale e canoro). Molti affermano che la pizzica è l’essenza stessa del Salento, il suo
(letterale) battito del cuore – atavico e sacro.14 Il tamburello (lu tamburieddhu) primeggia. Alcuni gruppi musicali hanno creato intorno alla pizzica quasi l’intero
repertorio (per es., gli Alla Bua).
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Le prime registrazioni sul campo di musica tradizionale salentina rese pubbliche
furono incluse nell’antologia LP a cura di Alan Lomax e Diego Carpitella
(Columbia World Library of Folk and Primitive Music: Southern Italy and the
Islands) del 1957, seguito poi nel 1978, da Musica e canti popolari del Salento (Dischi
Albatros), a cura di Brizio Montinaro. Negli anni Settanta, il Canzoniere Grecanico
Salentino (con Bucci Caldarulo, Luigi Chiriatti, Daniele Durante, Rina Durante,
Roberto Licci e Rossella Pinto) divenne il primo gruppo di riproposta musicale del
Salento.15 Dopo un periodo d’inattività relativa negli anni Ottanta, per quel che
riguarda la musica di tradizione, molti degli stessi musicisti protagonisti della prima
ondata compirono vari passaggi alla più recente riproposta dei primi anni Novanta
(per es., Chiriatti nel Canzoniere di terra d’Otranto e poi Aramirè; Licci in
Ghetonìa; Durante nel Canzoniere Grecanico), e insieme a loro si aggiunsero molti
nuovi musicisti, ballerini e promotori culturali. Questa seconda ondata del “folk
revival” resta in pieno sviluppo.
Gli anni Novanta, infatti, hanno visto una proliferazione di gruppi musicali.
Mentre alcuni si presentavano come più o meno radicati sul territorio, cioè intesi
alla ricerca delle radici storiche, addetti alle registrazioni sul campo e alla riscoperta di fonti autentiche tradizionali (quail, ad. es., Uccio Aloisi e Uccio Bandello),
altri invece si davano a nuove ed esotiche fusioni, integrando suoni mediorientali,
sudamericani, e anche giamaicani (per es., il tarantamuffin dei Sud Sound
System,16 oppure i concerti Taranta Power di Eugenio Bennato). Alcuni hanno fuso
insieme sonorità tradizionali delle varie regioni meridionali italiane, come per
esempio le tammorriate napoletane con pizziche salentine (si veda il repertorio dei
Terra de Menzu), mentre altri ancora si sono interessati più a “tecno-pizziche”,
spesso mixate nelle discoteche stesse dai DJ. Nomi che richiamavano l’universo
simbolico del tarantismo, o che si ricollegavano alla putativa origine culturale
greca del fenomeno, si moltiplicavano: Arakne Mediterranea (ragno mediterraneo),
Ghetonìa (vicinato, in griko), Novarakne (nuovo ragno), Zoè (vita). La riproposta ha
dato alla sempre più esigua minoranza grika, un nuovo “caché”. Dalla pubblicazione del testo fondamentale sul tarantismo, La terra del rimorso, di Ernesto de
Martino (del 1961), fiumi d’inchiostro sono stati versati su quest’argomento, creando una sorta di piccola industria locale. Convegni, festivals, concerti, cd e pubblicazioni si sono susseguiti, spingendo diversi musicisti salentini ad allontanarsi sempre di più dal Salento, come pure dalla stessa Italia nella ricerca di nuovi mercati,
dando alla pizzica sempre maggiore rilievo sul palcoscenico della World Music.
Oggi tanti coraggiosi sforzi per il rinnovamento (alcuni fuorvianti) sono presenti un po’ ovunque nel Salento, nel tentativo di salvare il salvabile, così come grandi progetti di svilippo economico, sempre più mirati al turismo. La questione che
preme porsi tuttavia resta: che forma prenderà questo sviluppo, e, dal punto di
vista etno-culturale, a che prezzo? Così come le riforme fondiarie del passato hanno
avuto scarsa efficacia nella vita dei contadini e della gente comune, oggi, la politica poco eguale dell’Unione Europea si è rivelata largamente inefficace, poichè, al
contrario di quanto poteva sembrare a prima vista, l’agricoltura rimane linfa vitale dell’intera regione. Di conseguenza, sarà tramite una soluzione equa dei problemi della terra, che si affronteranno questioni anche di natura socio-culturale. Se,
in effetti, il turismo si presenta alle autorità civili come viadotto dello sviluppo economico, quale forma di turismo sarà privilegiato: un turismo decentralizzato, equilibrato ed ecologico, benevolo alla gente del luogo, oppure un gretto turismo di
massa e del puro profitto, a scapito d’ogni salvaguardia delle bellezze ambientali,
come il turismo sfrenato ha già sciupato irrimediabilmente tante altre zone balneari ed ambienti geo-culturali italiani? Ci si può solo augurare che, nel ricondurre
l’attenzione sul patrimonio della musica di propria tradizione, questo unico ed
immenso panorama culturale non sia annullato per sempre, cioè, che non finisca
come mera reliquia del passato, bensì continui nel presente come valore vivo e
ricco di autentiche risonanze storiche.
Questo testo è la versione rivista e ampliata dell’introduzione (in lingua inglese) al cd Puglia: The Salento, a cura di Goffredo Plastino, con note di Sandra
Tarantino, Rounder Records, 2002 (collana Italian Treasury della Alan Lomax
Collection). Inoltre, è anche il risultato dell’integrazione di vari altri miei scritti:
“The Folk Music Revival and the Culture of Tarantismo in the Salento,” in
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Performing Ecstasies: Music, Dance, and Ritual in the Mediterranean, a cura di Luisa
Del Giudice e Nancy Van Deusen, Claremont Cultural Studies, Institute for
Medieval Music, Ottawa, 2005; “Introduzione” al cd: Canto d’amore: canti, suoni,
voci nella Grecia salentina, Edizioni Aramirè e del Dipartimento d’Etnomusicologia
dell’Università della California, Los Angeles (UCLA), Lecce, 2000; “Prefazione” al
cd: Bonasera a quista casa: Antonio Aloisi, Antonio Bandello “Gli Ucci” Pizziche, stornelli, canti salentini, Edizioni Aramirè, Lecce, 1999.
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Note
1. Infatti, con la morte di Federico II, a metà del Trecento, ebbe inizio un lungo periodo di decadenza della nobiltà e di impoverimento delle classi medie, non contraddetta dal fiorire del “barocco
leccese” e salentino.
2. Ernesto de Martino, La terra del rimorso, Il Saggiatore, Milano, 1961.
3. Notevoli sono due vasti progetti ma solo parzialmente riusciti: le fonderie di Taranto, e gli
impianti chimico-industriali di Brindisi. La maggior parte della Puglia rimane agricola, producendo
specialmente: grano (pasta), olio d’oliva, uva, tabacco. La Puglia produce un terzo dell’olio d’esportazione da etichetta italiana, e il Salento rappresenta ancora uno dei maggiori produttori nazionali
del tabacco, in un paese dove, come si sa, il tabacco è monopolio dello Stato. Il settore del turismo
tuttavia è in aumento.
4. Cioè, furono discendenti diretti dell’antica colonia greca, oppure ri-ellenizzati da greci bizantini? Si veda la mia introduzione al cd Canto d’Amore: Canti, Suoni, Voci nella Grecìa salentina (cit.).
5. Il suo nome antico, “Iapygia,” come un gran numero di toponomi pugliesi (e così forse il nome
stesso “Apulia”: a-pluvia, senza pioggia), si riferscono, a quanto pare, all’acqua. Si veda Francesco
Carofiglio, Apulia: A Tourist’s Guide to the Culture of Apulia, Mario Adda Ed., Bari, 1988, pag. 9.
6. Ancora viva nella memoria collettiva degli Otrantini è il massacro di 800 abitanti, insieme al
loro vescovo, dalle mani dei Turchi nel 1480, una scena vivamente commemorata nella cattedrale di
Otranto (come pure in Santa Caterina a Napoli).
7. Si veda lo splendido libro illustrato sulle masserie di Antonio Costantini, Le masserie del
Salento: dalla masseria fortificata alla masseria-villa, Congedo, Galatina, 1995.
8. Fiore, da Altamura, fu scrittore e attivista politico nei dibattiti attorno alla Questione
Meridionale. Scrisse Un popolo di formiche (Laterza, Bari, 1951), vincitore del premio Viareggio nel
1952.
9. Per uno studio più approfondito sul “neo-tarantismo,” e sulla riproposta musicale nel Salento,
si veda: Luisa Del Giudice, “The Folk Music Revival and the Culture of Tarantismo in the Salento”
(cit.). Altri scritti sul tarantismo, nello stesso volume sono: Andromache Karanika, “Ecstasis in
Healing: Practices in Southern Italy and Greece from Antiquity to the Present”; Karen Lüdtke,
“Dancing towards Well-being: Reflections on the pizzica in Contemporary Salento, Italy”; Luigi
Chiriatti, “For Luigi Stifani”; e Roberto Raheli, “Pizzica Tarantata: Reflections of a Violin Player”.
10. Quest’area, una volta denominata Calabria, era separata dalla Puglia (conosciuta durante l’epoca romana come il secondo Regno, Apulia et Calabria); cfr. Antonella Caforio, Vita e lavoro nei proverbi di Latiano, Schena, Fasano, 1986, pag. 12.
11. Sulla tradizione orale dei griki: Canto d’Amore Canti, Suoni, Voci nella Grecìa Salentina (cit.);
Brizio Montinaro, Canti di pianto e d’amore dall’antico Salento, Bompiani, Milano, 1994 e 2000; e i
dischi: Musica e canti popolari del Salento (volume 1: Canti rituali e di questua, stornelli, contrasti, canzoni
satiriche e d’amore) a cura di Brizio Montinaro, Albatros VPA 8405, 1978; Musica e canti popolari del
19
Salento (volume 2: Ninne nanne, invocazioni e filastrocche, canti di lavoro, moroloja, canzoni narrative), a
cura di Brizio Montinaro, Albatros VPA 8429, 1978.
12. Ettore Vernole “Folklore salentino,” in: AAVV, Poesie storie e leggende nell’arte popolare del
Salento, Pajano, Galatina, 1956, pag. 15-19.
13. Sul tardo tarantismo, si veda Luigi Chiriatti, Morso d’amore: viaggio nel tarantismo salentino,
Capone, Lecce, 1995. Una mostra delle fotografie riprese durante gli anni Settanta (e fino agli anni
Novanta, che documentano il rituale pubblico), dal titolo: Il luogo del culto: Galatina: Immagini del
tarantismo 1970–1992 (a cura di L. Chiriatti) è stata realizzata durante il convegno/festival Performing
Ecstasies: Music, Dance, and Ritual in the Mediterranean (Los Angelese, ottobre 2000). Si vedano anche:
Del Giudice, Ludtke, Karanike, in Performing Ecstasies, cit.
14. Come ritengono alcuni musicisti anziani, il battito del tamburello riprende il battito del
cuore, e per imparare a suonare il ritmo della pizzica, basta solo mettersi la mano sul cuore (Luigi
Cervelli “tarantato” in L’ultima ronda di Anna e Luigi Chiriatti, Pietre, 1999). (A chiunque abbia fatto
esperienza diretta di ecografia fetale, la similitudine risulta davvero sorprendente.) Si presenta tuttavia un paradosso: se il battito del tamburello salentino ripete infatti il ritmo del cuore, il ritmo (della
pizzica) apparirebbe dunque più universale che attinente particolarmente al Salento.
15. Sulla storia del “folk revival” o di “riproposta musicale” nel Salento e sulle attività attuali
intorno alla musica di tradizione salentina, si veda: Luigi Chiriatti, Opillopillopìopillopillopà: Viaggio
nella musica popolare salentina 1970-1998, Edizioni Aramirè, Calimera, 1998.
16. Sull’etno-rap e tarantamuffin, con interviste fatte ai Sud Sound System (che negano ogni conoscenza di o interesse per i fenomeni del tarantismo), si vedano i capitoli intitolati “Tarantamuffin,”
“L’etnorap,” “Lo stile salentino,” “Una conversazione,” in: Goffredo Plastino, Mappa delle voci: Rap,
ragamuffin e tradizione in Italia, Meltemi, Roma, 1996.
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1954, luoghi e volti
di Luigi Chiriatti
Immagini in bianco e nero: paesaggi, chiese, strade, bambini, volti di donne e
uomini che sorridono e cantano intorno a un microfono, oppure mentre lavorano
il tabacco o cazzanu (spaccano) le pietre. È il Salento che Lomax fotografa nel 1954,
quando con Carpitella va in giro a registrare le melodie e i canti di questa parte
d’Italia.
Ho cominciato a capire la gioia e la bellezza di quelle registrazioni grazie a mia
madre, grande cantrice di Martano: Eh, fiju, allora sì, che abbiamo cantato, quando
vinnera li americani (Eh, figlio, allora sì, che abbiamo cantato, quando sono venuti
gli americani). In quelle registrazioni le melodie, le arie, l’emissione delle voci sono
eccezionali. Ti prendono l’anima, ti introducono in un altro mondo sonoro; le
voci ti conducono per sentieri profumati che raccontano di un luogo, degli amori
e delle passioni di una comunità.1
L’americanu Lomax documenta e fissa la memoria salentina non solo con il suo
registratore, ma anche con la macchina fotografica. Le immagini che ci ha lasciato
sono dettagliate, e raffigurano le varie fasi di alcune registrazioni, di alcuni luoghi
e del viaggo che insieme a Carpitella fece per il Salento leccese. Sfogliare le immagini è come essere con loro nei luoghi di quella memoria.
I miei tentativi di identificazione dei luoghi e delle persone nelle fotografie di
Lomax sono iniziati nel centro anziani di Martano. Poche certezze, molti i dubbi
sulle identità delle persone nelle immagini. Cento opinioni, cento nomi. Ogni
anziano è sicuro di riconoscere i volti ritratti da Lomax.
– È quello… No, si tratta di quell’altro… Ma no… Sì, sì… – Una sera però, mentre mostro le foto, un certo Pasquale insiste, nello scetticismo generale, che una
donna tra quelle nelle foto è viva e che possiamo adare a trovarla: si tratta di Italia
Corlianò (foto 22, 23, 25). La stessa sera Paquale ci ha portati a casa di Italia.
Quando le spieghiamo il motivo della nostra visita, il suo volto esprime mille
sentimenti. Dapprima è diffidente, via via smarrita, poi confusa, poi gioia e emozione hanno la meglio quando si riconosce nelle foto, riconosce tante sue amiche,
e soprattutto la sorella maggiore morta da qualche anno. Ci racconta che durante
questi cinquant’anni di tanto in tanto ha pensato a quegli avvenimenti. Ricorda
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benissimo che due persone erano andate a trovarle mentre stavano infilando il
tabacco nei pressi di via Zaca, nei locali di Nzinu Masciullu, e che era stato chiesto
loro di cantare e loro lo avevano fatto; ricorda anche che mentre cantavano erano
state fatte delle fotografie.
Dopo un primo incontro, non molto lungo per via dell’orario e dell’emozione
di Italia, ci siamo incontrati nuovamente. Le abbiamo portato le foto e le registrazioni. Italia ha fatto venire le figlie della sorella e alcune amiche, con le quali da
sempre aveva parlato di quegli avvenimenti, ma che mai l’avevano presa sul serio.
L’emozione di questo secondo incontro è molto forte e palpabile. Italia è commossa e felice; le nipoti, le figlie di sua sorella, quando vedono la foto della madre e
ascoltano la sua voce comincino a piangere. Bisogna interrompere. Superata l’emozione Italia e le sue amiche cominciano a sfogliare le fotografie di Lomax e cominciano a dare nomi alle immagini. Poi piano piano cominciano ad affiorare i ricordi. Nha, lu Steu, lu Scorcia, la Caje-na, lu Consalimbici, la Ndrane-na... (Si tratta dei
soprannomi, ingiurie).
La discussione viene fatta su ogni volto, si cercano conferme. Ogni immagine
viene associata ad un nome e a storie. Come quella che riguarda la mamma di una
certa Antonietta.
Italia e una sua amica, con la quale cercano di identificare le persone ritratte,
ci raccontano che la mamma di Antonietta era una stiara (strega) (foto 25). Sulle
stiare le dicerie e i racconti si sprecano e si moltiplicano. Si racconta che alcune di
esse, durante i mesi estivi, si tramutassero in capre con sembianze umane e che
durante la notte andassero in giro per il paese, in cerca di giovani con cui giacere.
I malcapitati quando erano lasciati liberi avevano dei graffi profondi su tutto il
corpo, come se fossero caduti in un cespuglio di rovi. Si racconta anche che altre
volte erano queste donne ad avere la peggio. Gruppi di giovanotti spavaldi e pronti a tutto aspettavano il momento in cui le stiare riassumevano il loro aspetto di
donne, allora saltavano loro addosso, le violentavano e le picchiavano selvaggiamente.
Comunque andassero le cose, Italia ci racconta che appena loro vedevano la
mamma di Antonietta, correvano in casa per verificare se dietro la porta ci fossero
le forbici divaricate. Era uno dei tanti amuleti contro le stiare.
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Tra le fotografie di Alan Lomax ve ne sono alcune che raffigurano due chiangi
morti (prefiche) (fotografie 55-61). Immacolata, Vitapaola, Cesarea avevano imparato a reputare da bambine e da grandi avevano continuato a farlo come “mestiere”.
Per svolgere al meglio il loro mestiere avevano bisogno di affondare nel dolore della
casa e dei dolenti. Solo così riuscivano ad esprimersi al meglio e a rendere la morte
un fatto sociale, un dolore di tutti. Arrivavano a casa dei defunti come furie e si
impossessavano della scena. Capelli sciolti e spettinati, scialle nero sulle spalle,
occhi arrossati, gonna e mantile neri, l’inseparabile fazzoletto bianco fra le mani.
Al loro apparire l’aria si riempiva di singhiozzi, di grida disperate, di urla silenziose che uscivano dalle viscere. Il dolore si amplificava e si stemperava, in innumerevoli segreti sentieri dell’esistere.
Piangevano e lodavano il defunto. Le sue doti, le sue opere, le sue grazie, le sue
ansie, la sua quotidianità. Tutti i presenti ascoltavano, facendo cori silenziosi,
annuendo con il capo, riversando nello schema metrico dei moroloja (canti per i
morti) l’immane dolore della perdita, della morte. Ogni morto era un loro morto,
ogni dolore un loro dolore.
L’incontro delle chiangimorti con l’americanu fu in un certo senso inevitabile.
Lomax ci ha lasciato immagini rare e straordinarie di un rito di un Salento grico e
arcaico.
Altre fotografie ci raccontano del lavoro e dei rapporti di parentela delle persone raffigurate.
I cazzatori (spaccapietre) (fotografie 45-54) di pietre tutto il giorno frantumavano grandi massi per fare la breccia che serviva a spianare le strade, adoperando
pesantissimi martelli. I trainieri (guidadori di carri) erano al servizio del grande
mulino dei Lucinto, come Donato Maci. Con i loro grandi carri (fotografia 7) preprarati e costruiti da Mescju Pati de li traini (Maestro Ippazzio Antonaci dei traini)
(fotografia 37) percorrevano in lungo e largo le strade sterrate della provincia di
Lecce. Di solito partivano verso le tre della notte per essere sul luogo di destinazione all’apertura dei mercati. Durante i lenti e noiosi percorsi si accompagnavano
con dei canti e melodie ritmate sull’andatura dei traini che seguivano le carreggiate scavate nella roccia dalle grandi ruote ferrate: ce curpa lu trainiere ca trabucca, se
la strada non è tutta sozzia (che colpa ha il trainiere se il traino traballa, se la stada non
è tutta piana).
Italia si rivela una guida preziosissima. Ogni volta che nasce un dubbio, una
perplessità sull’identità di qualcuno, propone nuovi appuntamenti con i parenti
delle persone ritratte da Lomax. Italia vive una realtà ritrovata dopo cinquant’anni.
Ascoltare le persone che intorno alle foto cercano di identificare i volti ritratti
significa anche entrare e ascoltare una lingua arcaica e antica e immergersi in un
tempo altro. Quistu lu tiru, ma non me ricordu commu se tene (questo lo conosco, ma
non ricordo il cognome!). Il più delle volte il riconoscimento avviene attraverso i
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soprannomi che nei paesi sono tanti e tutti singolari: è la Paulone-na, lu Spirdella, la
Ballate-na, la Rocce-na, lu Piscarizzi, la Francese-na...). Fra i gruppi di persone che
Lomax ha fotografato siamo riusciti insieme a riconoscere non solo le prefiche, ma
anche suonatori di organetto diatonico e alcuni cantori della Passione di Cristo.
Tommaso Stomeo (fotografie 39 e 41) è stato uno dei più rappresentativi cantori di questa tradizione che narra e canta la vita e la morte di Cristo. Durante la
settimana delle Palme i contadini della Grecìa salentina si trasformavano in fini
cantori e si recavano di paese in paese a raccontare, cantando la Passione di Cristo.
Di solito due cantori, un fisarmonicista e un uomo che portava la palma, infiocchettata di nastrini rossi, arance e immaginette dei santi, tutti simboli di fertilità e
abbondanza. I due cantori narravano, cantando a turno, la vita e il dolore di Cristo
e di sua madre. Della disperazione di una donna, la Madonna, e dell'immane sofferenza di un uomo, Gesù, di fronte alla morte. A fine canto, dopo circa sessanta
quartine, i cantori chiedevano, sempre in rima, una ricompensa in natura: uova,
formaggio, vino.
A Galatone Lomax registra i canti di carnevale, che si eseguono solo lì. Si tratta di canti eseguiti sul suono della cupa-cupa (tamburo a frizione) e che trattano, in
maniera ironica, le vicende di personaggi importanti della vita pubblica. Il carnevale a Galatone negli anni ’50 era gestito da due famiglie, li camisa e li mangia foje.
Famiglie rivali non solo nell’organizzazione dell’evento, ma anche nella vita quotidiana. Gli uni e gli altri si consideravano i reali detentori della “vera” tradizione ed
espressione della musica popolare di Galatone. Erano comunque stornellatori e
verseggiatori genuini e infaticabili della quotidianità, ma soprattutto della vita di
uomini pubblici. Così nel loro repertorio finiscono per essere ritratti dei senatori:
Senape, De Viti De Marco, ma soprattutto il sindaco Rudelli che, eletto la prima
volta con i voti della Democrazia Cristiana, si presenta alle elezioni successive con
un suo simbolo (la croce con una ruota e una stella).2
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Alan Lomax, sulle strade tra Galatina e Galatone incontra e fotografa le carcare (calcare). Una specie di costruzioni a secco (furnieddhi) vuote all’interno, che venivano riempite di fascine e poi bruciate dai carcaruli (persone che svolgevano questo
duro e rischiosissimo lavoro). La pietra calcarea veniva cotta lentamente e trasformata, dopo un lungo e faticoso procedimento, in calce (fotografie 18-21)
Nelle immagini di Alan Lomax paesaggio, uomini e donne si incrociano e si
raccontano, nella loro bellezza estetica e nella loro miseria. Guardo volti e paesaggi che testimoniano di un Salento di cinquant’anni fa. Profili di uomini e donne,
di luoghi, alcuni persi, altri trasformati, altri ancora vivi. Queste immagini sono
come un’altra carrara (via) che ci permette di percorrere un’antica storia salentina.
E di non dimenticare.
Note
1. Puglia: The Salento. A cura di Goffredo Plastino, con note di Sandra Tarantino e un’introduzione di Luisa Del Gudice. Rounder Records, 2002 (collana Italian Treasury della Alan Lomax
Collection).
2. Da qui il canto che dice: e la rota e la rotella, prima la croce e poi la stella (e la ruota e la rotella
prima la croce e poi la stella): cfr Puglia: The Salento, cit., brano 8.
25
In Salento
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1 Cavallino, via Lecce / 2 Lecce, il Duomo / 3 A Lecce / 4 Paesaggio nei pressi di Martano
/ 5 Martano, via Giudeca. La donna a sinistra è Angela Carati / 6 Martano, piazza Assunta
con le parature (luminarie) per la festa / 7 Un traino (carretto) / 8 Lecce / 9 Diego Carpitella
(a sinistra) e Salvatore Mattia.
1
29
2
30
3
31
4
32
5
33
34
6
7
35
8
36
9
37
Calimera, 12 agosto 1954. Il canto durante la lavorazione del tabacco
10 A sinistra, Maria Vincenza Mazzei. Di spalle, Concetta Tommasi / 11-12 Maria
Vincenza Mazzei / 13 Concetta Tommasi / 14-17 Giuseppa Russo.
10
39
40
11
12
41
42
13
14
43
15
44
16
45
46
17
18-21 Galatone, via Galatina: una carcara (calcara).
18
49
19
50