Menano duro i monaci buddisti

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ESTERO - LE NOTIZIE MAI LETTE IN ITALIA
Sabato 3 Maggio 2014
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È una nuova specie sorta in Birmania. Predicano la violenza contro i musulmani
Menano duro i monaci buddisti
Contraddicono i loro princìpi combattendo una minoranza
I
DI
ETTORE BIANCHI
n Birmania c’è un gruppo di monaci buddisti
che, contrariamente alla
loro filosofia di pace,
combattono apertamente i
musulmani. Il loro capo è il
quarantacinquenne U Wirathu, che vive nel monastero
di Mandalay, una grande città nel nord del paese asiatico. Egli incarna la nuova
corrente ultra nazionalista
del movimento buddista che
predica la resistenza contro
la minaccia islamica, ma si
presenta come una persona
mite.
«Alcuni dicono che sono il
nuovo Hitler birmano», ha
affermato, aggiungendo ironicamente di essere invece
il Bin Laden della nazione.
Per poi aggiungere subito di
voler proteggere l’interesse
comune contro l’islamizzazione. L’anno scorso U Wirathu si era guadagnato la
copertina del Time Magazine, che l’aveva descritto
come «il volto del terrore
buddista».
Nella primavera del 2011
la Birmania uscì da una
lunga dittatura militare
e si instaurò un governo
formato da vecchi generali
con l’obiettivo di varare un
piano di riforme liberali. Il
programma è ancora lontano dall’essere realizzato,
ma in quel momento fu interpretato come una novità
dirompente in tutto il mondo. L’eliminazione della censura, la liberazione di quasi
tutti i prigionieri politici, la
possibilità di manifestare
pubblicamente hanno avuto però il loro rovescio della
medaglia: un antico sentimento di diffidenza, se non
di ostilità nei confronti della
minoranza musulmana, che
ufficialmente corrisponde
al 4% della popolazione birmana, ha preso piede anche
grazie alle reti sociali online.
U Wirathu, che finì in
prigione per nove anni ai
tempi della dittatura, nega
che i suoi proclami espliciti
(come «il sangue dei buddisti sta per bollire») rappre-
Il monaco U Wirathu
sentino un incitamento alla
violenza. Eppure oltre 250
persone, in gran parte musulmane, sono state uccise
durante sommosse scoppiate in tre occasioni fra il 2012
e il 2013. Il monaco si limita
a osservare che, quando un
elefante furioso entra in un
villaggio, per i buddisti esso
non viene ucciso, perché si
rispetta la vita, ma bisogna
erigere delle barriere per
impedirgli di nuocere.
Colpisce, peraltro, la retorica dei suoi discorsi. In un
paese nel quale i seguaci
di Maometto non propendono per correnti radicali,
U Wirathu propugna un
boicottaggio delle attività
commerciali dei musulmani, accusati di arricchirsi a
spese dei buddisti. E quando
gli si chiede come può una
minoranza arrecare danno
all’80% della popolazione,
il monaco si difende così: in
una foresta basta una sola
tigre per divorare le gazzelle. Non c’è alcuna contraddizione, aggiunge, tra gli
insegnamenti del Buddha
e la difesa della razza e
della nazione. Non bisogna
mescolare tutto: un conto
è applicare i precetti della
compassione buddista per
gli esseri viventi, un altro è
limitarsi a essi nel momento
in cui si viene attaccati.
Il movimento fondato da
U Wirathu è stato denominato «969», che sono le cifre
simboliche delle qualità del
Buddha e della sua comunità monastica. E in molti
raccolgono le provocazioni,
affermando che è possibile
andare d’accordo con cristiani e indù, ma non con i
musulmani. C’è anche chi,
all’interno dei monasteri,
non condivide questi atteggiamenti e afferma che i discorsi di U Wirathu son in
netto contrasto con la dottrina buddista, rischiando
di spingere la gente alla
violenza.
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Intervenuti contro Gheddafi hanno creato una polveriera Fece nel 1918 da 25 a 50 mln di morti
Libia destabilizzata da Usa, Febbre spagnola
ora deve rimediare l’Italia partì dal Kansas
DI
PIETRO DI MICHELE
L
a crisi in Libia si acuisce. Il silenzio
dei media occidentali ed europei in
particolare (apparentemente disinteressati a quanto accade poco oltre
i loro confini) contrasta con l’escalation di
violenza nel Paese.
pretato questo avvertimento come un preludio
a un passo che può mettere la Libia sotto la
tutela di un «mandato internazionale», che
possa aiutare Tripoli a uscire fuori dal caos
istituzionale, economico e sociale che la affligge dalla caduta di Muhammar Gheddafi.
Reazione necessaria. Seppur rivolte ai
leader libici, le parole di Burns sono suonate
come una sveglia all’Europa, e in particolare
all’Italia, cui gli Usa chiedono da tempo di
impegnarsi maggiormente per assumere un
ruolo di guida nell’area mediterranea. Finora Roma, malgrado abbia ospitato a marzo
la Conferenza internazionale per discutere
del futuro del Paese e nonostante l’appello
di Barack Obama durante il suo ultimo
incontro con Matteo Renzi, ha fatto poco.
Anche se, a dire il vero, il caos libico è stato
provocato proprio dall’incauto intervento militare imposto dagli Usa e da Gran Bretagna
e Francia contro il volere di un’Italia a lungo
contraria e che fino all’ultimo aveva cercato
Le preoccupazione. La comunità inter- di fermare l’aggressione bellica della Nato.
nazionale, da tempo preoccupata per quanto Un aggressione indebita ed illegale, perché
accade a Tripoli, potrebbe ora intervenire. Nel è stata scatenata dalla Nato contro un paese
corso di una recente visita a sorpresa in Libia, che, non avendo aggredito nessun paese adeil vicesegretario di stato americano, William rente alla Nato, non avrebbe potuto essere
Burns, ha avvertito le forze politiche e il go- aggredito in base al Trattato della Nato stesverno che se l’instabilità politica del Paese sa. Gli altri paesi quindi che, in difesa dei loro
non venisse risolta entro i prossimi due mesi, interessi nazionali (che erano stati intaccati
il presidente americano Barack Obama, in dagli accordi fra la Libia di Gheddafi e l’Italia
coordinamento con l’Unione europea, invie- di Berlusconi, hanno combinato il disastro e
adesso vorrebbero che fosse
rà un rappresentante speciale
Le due pagine di «Estel’Italia, con i suoi mezzi e i
per prendere in carico la transuoi pochi soldi, a impegnarsizione politica nel Paese.
ro - Le notizie mai lette
si a risolverlo.
in Italia» sono a cura
Commissariamento in
di Sabina Rodi
www.formiche.net
vista. Gli esperti hanno interViolenza senza sosta. Eppure le cronache
di queste ore sono piene di avvenimenti degni
di nota. Ieri sera uomini armati hanno fatto
irruzione nella sede del Congresso generale nazionale, il Parlamento libico, a Tripoli,
costringendo l’Assemblea a interrompere i
lavori. L’Aula stava votando per designare
il nuovo premier (la scelta era tra l’imprenditore 40enne di Misurata, Ahmed Mitig, e
l’accademico di Bengasi, Omar Al Hassi).
Durante la sparatoria diverse persone sono
rimaste ferite, mentre i deputati sono fuggiti
dall’edificio.
DI
SIMONETTA SCARANE
L
a devastante febbre
spagnola del 1918,
una pandemia che
fece da 25 a 50 milioni di morti nell’autunno del
1918, alla fine della prima
guerra mondiale, in realtà
fu importata in Europa dai
soldati americani provenienti dal Kansas, secondo i
risultati di un recentissimo
studio appena pubblicato
dall’Accademia americana
delle scienze. L’aggettivo
«spagnola» l’influenza se
lo guadagnò perchè fu la
Spagna per prima a parlare pubblicamente di questo
virus mortale, senza per
questo rivelare un segreto
militare. I ricercatori Usa
finalmente fanno chiarezza
sull’origine misteriosa del
temutissimo virus. L’agente
infettante, è la tesi, è stato
originato da un ceppo umano
(H1) e da gene dell’influenza
aviaria che colpisce gli uccelli. L’evoluzione di questo
virus generò un nuovo ceppo
particolarmente letale per i
giovani adulti tra i 25 e i 29
anni. Tradizionalmente le
vittime delle influenze sono
i neonati e gli anziani. Il virsus della «spagnola è stato
riprodotto in laboratorio in
occasione di questa ricerca
ed è risultato 10 mila volte più forte del ceppo di influenza aviaria che circolava
nel 2005. Per il biologo, Michael Worobey, dell’Università dell’Arizona, caporicerca,
la vulnerabilità dei giovani
adulti di allora alla febbre
spagnola si spiega non tanto con le caratteristiche del
virus quanto piuttosto con
gli antenati delle vittime.
Gli individui che avevano
fra i 20 e i 40 anni alla fine
della prima guerra mondiale erano nati fra il 1880 e il
1890. A quell’epoca l’influenza che circolava era di ceppo
diverso e dunque quella generazione non era stata immunizzata nei confronti del
virus H1. A questo fattore si
aggiunsero circostanze favorevoli alla circolazione del
virus. L’influenza spagnola
apparve per la prima volta,
con un ceppo meno virulento
rispetto alla quello mortale
dell’autunno 1918, nello stato Usa del Kansas, dove nella primavera 1918 contagiò
50-70 mila giovani soldati
americani, che si trovavano
nei campi di formazione e
che dopo tre mesi presero la
via del mare per sbarcare in
Europa.
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