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Scienze Integrate - FISICA
secondo anno
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
1 TERMOLOGIA
CALORE E TEMPERATURA
Figura 1.0 Calore sviluppato da combustione e termometro (strumento di misura della temperatura)
http://it.wikipedia.org/wiki/files
La termologia è quella parte della fisica che studia i fenomeni termici, ovvero quei fenomeni in cui hanno una grande
importanza il calore e la temperatura.
Essa si può suddividere nelle seguenti branche:
- termometria che si occupa degli strumenti di misurazione della temperatura, delle scale termometriche e dei fenomeni
connessi con le variazioni di temperatura;
- calorimetria che si occupa dei metodi e degli strumenti di misurazione della quantità di calore e dei vari coefficienti
calorimetrici, della generazione e propagazione del calore;
- termodinamica che si occupa dei fenomeni connessi con lo scambio di calore tra sistemi a temperatura differente e
delle relazioni esistenti tra i fenomeni termici e meccanici.
TERMOMETRIA E CALORIMETRIA
n 1.1 - CALORE E TEMPERATURA
Calore e temperatura sono due concetti strettamente legati; tuttavia si tratta di due grandezze fisiche ben diverse e,
nonostante questo, tante volte si fa confusione e si usa il termine “calore” al posto di “temperatura” e viceversa.
Vediamo quindi di fare un po’ di chiarezza e definire bene le due grandezze fisiche, in modo da evitare confusione.
Per muovere i primi passi nel mondo di calore e temperatura, è necessario partire
dal principio dell’equilibrio termico, che è alla base di ogni ragionamento che
coinvolge queste grandezze: quando vengono messi a contatto due corpi A e B,
che inizialmente hanno un diverso stato termico, si nota che, dopo un po’ di
tempo, lo stato termico nei due corpi è uguale.
Il differente stato termico, legato alla sensazione di caldo-freddo che i corpi
provocano, può essere determinato con un termoscopio, che è un precursore del
termometro e del cui funzionamento parleremo dopo aver studiato la dilatazione
dei corpi.
Ora che conosciamo il principio dell’equilibrio termico, prendendo a soggetto
due corpi a contatto, possiamo affermare che:
- La temperatura è la misura quantitativa dello stato termico dei corpi ed è la
grandezza che va all’equilibrio (diventa uguale), quando i corpi vengono messi a Figura 1.1 Verifica dell'equilibrio termico con
l’uso del Termoscopio
contatto.
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La temperatura del corpo più caldo diminuisce, quella del corpo meno caldo aumenta.
La temperatura, che è una grandezza scalare ed intensiva (nel senso che assume sempre lo stesso valore,
indipendentemente da quanta materia stiamo considerando), si misura in gradi Celsius (°C).
- Il calore è ciò che si trasferisce da un corpo all’altro mentre, tra i corpi a contatto, si va creando l’equilibrio termico. Il
calore è una forma di energia e, come tutte le forme di energia, si misura in Joule (J).
Facciamo una similitudine per chiarire quanto abbiamo appena affermato.
Ricordiamo cosa afferma il principio dei vasi comunicanti: se due recipienti aperti, contenenti liquido a diversa altezza,
vengono messi in comunicazione, il liquido si ridistribuisce in modo che l’altezza diventi uguale.
Figura 1.2 Principio dei vasi comunicanti e principio dell’equilibrio termico
In questo caso l’altezza del liquido è la grandezza che va all’equilibrio, mentre il liquido è ciò che passa da un recipiente
all’altro, quando si va creando l’equilibrio. La differente altezza nei vasi è la causa e non si può confondere con il liquido che
passa da un vaso all’altro, che ne è l’effetto.
Allo stesso modo non bisogna confondere la temperatura dei corpi, la cui differenza è la causa, con il calore che fluisce da
uno all’altro di essi, che ne è l’effetto.
Per imparare a distinguere la temperatura di un corpo dal calore che possiede, e che può trasferire ad altri corpi, cominciamo
col dire che, se un corpo si trova ad alta temperatura, non è detto che possieda una gran quantità di calore, mentre una
gran quantità di calore può essere contenuta in un corpo a bassa temperatura.
Tutti sappiamo, infatti, che è sufficiente il calore liberato dalla combustione di un fiammifero per rendere incandescente la
punta di un ago che, per essere tale, deve aver raggiunto almeno la temperatura di 800°C.
È stata, quindi, sufficiente una piccola quantità di calore per aumentare di moltissimo la temperatura del corpo in questione.
Inoltre, se immergiamo l’ago in un bicchiere d’acqua e aspettiamo che si crei l’equilibrio termico, possiamo verificare che
la temperatura raggiunta da ago ed acqua è vicinissima alla temperatura iniziale di quest’ultima.
Possiamo allora concludere che dall’ago, ad altissima temperatura, è passata all’acqua una ben piccola quantità di calore.
Facciamo un altro esempio.
Se versiamo un cucchiaino di acqua bollente (100 °C) su un cubetto di
ghiaccio, non riusciremo a scioglierlo tutto, ma probabilmente solo una
parte (in prossimità della zona di versamento dell’acqua).
Se invece mettiamo il cubetto di ghiaccio in un bicchiere contenente
acqua prelevata dal rubinetto (15°C), riusciremo a scioglierlo tutto
(come facciamo d’estate per rinfrescare le bibite).
Bene, per sciogliere (“fondere” è il termine fisico corretto) il cubetto di
ghiaccio, così come per far passare qualunque corpo dallo stato solido
allo stato liquido, è necessario fornirgli una certa quantità di “calore”.
L’acqua bollente a 100 °C non è stata in grado di fondere il ghiaccio,
Figura 1.3 Combustione di un fiammifero
http://www.scatolepiene.it/linvenzione-del-fiammifero/fiammifero/ mentre l’acqua del rubinetto a 15 °C lo è stata; infatti l’acqua contenuta
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nel cucchiaino ha un’alta temperatura ma possiede una minor quantità di calore, rispetto all’acqua contenuta nel bicchiere
che si trova ad una temperatura minore.
In conclusione, il calore che un corpo possiede non dipende solo dalla sua temperatura!
Dipende sicuramente anche dalla sua temperatura ma, come vedremo più avanti, dipende da altri fattori, quali
principalmente la quantità della sostanza, o “massa”.
Che cosa accada a livello microscopico quando la temperatura di un corpo cambia, è rimasto a lungo un mistero! Solo a
partire dalla metà dell’800, si è riusciti a capire che le particelle che costituiscono i corpi, siano essi solidi, liquidi o gassosi,
sono in continua agitazione e che la temperatura è strettamente legata all’energia cinetica media con cui le particelle si
agitano.
Dire “corpo caldo” vuol dire allora che le sue particelle hanno una grande energia cinetica media, dire “corpo freddo” vuol
dire che le sue particelle si agitano debolmente.
L’energia totale posseduta dal corpo, e che quindi sarà in grado di trasmettere, sarà la somma delle energie possedute
dalle singole particelle; pertanto, un corpo con numerose molecole (massa), anche di bassa energia media, può possedere
più energia totale di un corpo che ha poche molecole (massa) anche se con energia media elevata.
Alla definizione data di temperatura possiamo, quindi, aggiungere che essa è indice dell’energia cinetica media (stato di
agitazione termica) posseduta dalle particelle, mentre il calore riguarda l’energia posseduta da tutto il corpo.
Un esempio per capire meglio: se sommiamo il denaro che una mattina gli alunni di una classe hanno in tasca, otteniamo
la ricchezza totale della classe (il calore), se dividiamo la cifra ottenuta per il numero di alunni otterremo la ricchezza media
di ciascun alunno (la temperatura).
Facile capire anche che in un’altra classe, decimata dall’influenza e in cui siano presenti la metà degli alunni rispetto a quella
precedente, può accadere che, nonostante il totale del denaro posseduto (il calore) sia inferiore, la ricchezza media (la
temperatura) risulti superiore.
n
1.2 - SCALE TERMOMETRICHE
Per misurare la temperatura di un corpo o di un ambiente occorre, come per ogni grandezza fisica, uno strumento ed una
unità di misura.
La sensazione di "caldo" o di "freddo" è inaffidabile, giacché può essere “soggettiva”; possiamo avere infatti:
- l’esquimese che, in una giornata primaverile, da noi dice “quanto fa caldo”, perché abituato alle sue temperature polari;
- l’africano che, nella stessa circostanza, dice “qui fa freddo”, perché abituato alle sue temperature equatoriali.
Altro esempio può essere quello di immergere per qualche secondo una mano in acqua fredda e l'altra in acqua calda;
successivamente, immergendole entrambe in acqua tiepida, la prima mano avrà la sensazione che l'acqua sia calda, la
seconda che sia fredda e questo perché la temperatura percepita è relativa a quella della mano che sta effettuando la
misura.
Inoltre, la sensazione che si prova toccando un corpo è determinata non solo dalla sua temperatura ma anche dalla
conducibilità termica del materiale di cui è composto. Infatti, toccando un pezzo di legno e uno di metallo, che siano nello
stesso ambiente da un tempo sufficiente perché abbiano raggiunto l'equilibrio termico, e quindi la stessa temperatura, si
ha la sensazione che quello di metallo sia decisamente più freddo, a causa della diversa conducibilità termica dei due
materiali. Questa diversa percezione dipende dal fatto che la nostra temperatura corporea è generalmente superiore a
quella dell’ambiente; quindi, quando tocchiamo il pezzo di ferro, dal nostro corpo fluisce rapidamente del calore verso di
esso, quando invece tocchiamo il pezzo di legno, che si lascia attraversare dal calore
molto più lentamente, dal nostro corpo, in uno stesso tempo, defluisce una minor quantità
di calore: per questo, il cervello, che è l’interprete delle nostre percezioni, conclude che il
primo corpo è più freddo del secondo.
Un termometro posto a contatto prima con il legno, poi con il metallo, misurerebbe invece
la stessa temperatura, coincidente con quella dell'aria nell'ambiente.
In conclusione, come già detto, occorre sempre uno strumento per misurare le grandezze
fisiche.
Figura 1.4 Anders Celsius
27 novembre 1701– 25 aprile 1744
La temperatura, in Italia, ha come unità di misura il grado Celsius (dal fisico svedese Anders
Celsius che la propose nel 1742); questa scala di temperature fissa il punto di
congelamento dell'acqua a 0 °C e il suo punto di ebollizione a 100 °C, in condizioni
standard di pressione.
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Si ha, di conseguenza la seguente definizione:
si definisce grado Celsius la centesima parte dell’intervallo di temperatura compreso tra quella del ghiaccio fondente (0°C
) e quella dell’acqua bollente (100°C).
Il termine comune grado centigrado è da abbandonare, dato che questa denominazione non è più accettata dal Sistema
Internazionale di unità di misura.
Oltre alla Celsius, sono state definite molte altre scale termometriche, ma solo due sono ancora in uso:
- La scala kelvin, o scala delle temperatura assolute
Abbiamo già detto che la temperatura è indice dell’energia cinetica media delle particelle; l’energia cinetica poi, per
definizione, è sempre positiva e non può, quindi, essere inferiore a zero. È facile allora comprendere che dare valori negativi
alla temperatura è scientificamente privo di senso: se fosse possibile sottrarre ad un corpo tutta l’energia di agitazione
termica delle sue molecole, si sarebbe giunti alla temperatura più bassa possibile. Questa temperatura, uguale per qualunque
corpo dell’universo, viene chiamata “zero assoluto” e, nella scala Celsius, corrisponde alla temperatura di -273,15°C.
La teoria mostra che lo zero assoluto, è una temperatura sia invalicabile, sia irraggiungibile. Allo stato attuale, la tecnica
del freddo (criogenia) è evoluta al punto da aver raggiunto temperature inferiori di meno di un milionesimo di grado dallo
zero assoluto.
Nella scala kelvin, il grado (K) è definito come nella scala Celsius (°C), quindi essenzialmente si tratta della stessa scala con
uno sfasamento delle temperature di 273,15 gradi.
Per convertire i gradi Celsius in kelvin, e viceversa, si possono utilizzare le seguenti relazioni:
T(K) = T(°C) + 273,15
T(°C) = T(K) – 273,15
- La scala Fahrenheit, usata negli Stati Uniti e nei paesi anglosassoni
Su questa scala, il punto di congelamento dell'acqua corrisponde a 32 °F e quello di ebollizione a 212 °F. Il grado Fahrenheit
è quindi definito come la 180a parte dell’intervallo di temperatura compreso tra quella del ghiaccio fondente (32°F ) e quella
dell’acqua bollente (212°F).
Per convertire i gradi Fahrenheit in gradi Celsius, e viceversa, si possono utilizzare le seguenti relazioni:
(T(°F) - 32)
T(°C) =
T(°F) = T (°C) • 1.8 + 32
1.8
(per la rappresentazione dei numeri decimali utilizzeremo indifferentemente i simboli “,” e “.” )
La scala Celsius, che nei mass media, fino agli
anni novanta, era ancora chiamata centigrada, è
utilizzata, nella maggior parte del mondo,
soprattutto per le previsioni del tempo.
Negli Stati Uniti e in Belize si utilizza invece la
scala Fahrenheit, ma anche questi due Paesi, per
applicazioni scientifiche o tecnologiche, utilizzano
la scala Celsius oppure la kelvin.
Da notare che "kelvin", anche se deriva dal
cognome di una persona, ha l’iniziale in
minuscolo perché è un'unità del S.I.
Di seguito sono riportate una rappresentazione
schematica delle scale di temperatura studiate e
una tabella riepilogativa delle formule di
conversione.
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Figura 1.5 Rappresentazione schematica delle scale termometriche
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Conversione da
A
Formula
grado Celsius
grado Fahrenheit
°F = (1.8 × °C) + 32
grado Fahrenheit
grado Celsius
°C = (°F - 32)/1.8
grado Celsius
kelvin
K = °C + 273,15
kelvin
grado Celsius
°C = K − 273,15
Tabella 1.1 Formule di conversione delle temperature
n
1.3 - LEGGE FONDAMENTALE DELLA TERMOLOGIA
Volendo comprendere la relazione tra il calore assorbito da un corpo e la sua variazione di temperatura, si possono fornire
quantità diverse di calore a corpi diversi ed osservarne l’effetto.
Si nota facilmente che:
1) La variazione di temperatura è inversamente proporzionale alla massa del corpo.
Due corpi di ugual materiale e massa una doppia dell’altra (m1 = 2m2), con lo stesso calore, subiscono una variazione di
∆t
temperatura con rapporto inverso (∆t1 = 2 ).
2
2) La variazione di temperatura è direttamente proporzionale alla quantità di calore.
Raddoppiando la quantità di calore che si fornisce ad un corpo (Q2 = 2Q1), raddoppia la variazione di temperatura del
corpo (∆t2 = 2∆t1).
3) La variazione di temperatura è inversamente proporzionale ad una costante che è caratteristica distintiva delle diverse
sostanze.
Fornendo ugual quantità di calore a masse uguali di sostanze diverse, si nota che la variazione di temperatura cambia
da sostanza a sostanza; ci sono, cioè, delle sostanze che si riscaldano con poco calore e ce ne sono delle altre più
refrattarie al riscaldamento, nel senso che ci vuole molto calore per variarne la temperatura.
Quest’ultima evidenza sperimentale rende necessaria la definizione di una costante, dal valore diverso per ogni sostanza,
che dia conto di come quel materiale si riscaldi assorbendo calore.
Si definisce perciò il calore specifico della sostanza come:
Il calore specifico di una sostanza dice, quindi, qual è la quantità di calore necessaria per cambiare di un grado la temperatura
di un kilogrammo di quella sostanza.
L’aver definito il calore specifico ci permette finalmente di inserire in una stessa formula calore e temperatura:
Q
∆t =
oppure
Q = cs • m • ∆t “Legge fondamentale della Termologia”
Cs • m
dove:
- Q = calore scambiato [J],
- cs = calore specifico del materiale
- m = massa del corpo [kg],
- ∆t = variazione di temperatura [K].
J
,
Es. : se il calore specifico del ferro è 480 J/Kg °C, vuol dire che per aumentare la temperatura di 1°C ad 1Kg di ferro
occorrono 480J; viceversa 1Kg di ferro cede 480J di calore quando si raffredda di 1°C.
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Sostanza
Stato
J/(kg·K)
Alluminio
solido
880
Acciaio inox
solido
502
Acqua
liquido
4186
Acqua (ghiaccio)
solido ( 0 °C)
2090
Anidride carbonica
liquido
Aria (secca)
gassoso
1005
Azoto
gassoso
1042
Diamante
solido
Elio
gassoso
5190
Etanolo
liquido
2460
Ferro
solido
444
Glicerina
liquido
2260
Grafite
solido
720
Idrogeno
gassoso
Mercurio
liquido
139
Olio
liquido
~ 2000
Ossigeno
gassoso
920
Oro
solido
129
Ottone
solido
377
Piombo
solido
130
Polisirene
solido
1450
Rame
solido
385
Silice
gassoso
Stagno
solido
228
Zinco
solido
388
838
502
14435
2020
Tabella 1.2 Calori specifici
Nella tabella precedente, il calore specifico delle sostanze gassose si intende determinato fornendo calore a pressione
costante (trasformazione isobara).
Dalla tabella si evince un dato molto interessante: il valore molto elevato del calore specifico dell’acqua. Il fatto che il
calore specifico dell’acqua valga circa 10 volte quello del ferro significa che, fornendo una stessa quantità di calore ad una
ugual massa di acqua e di ferro, quest’ultimo subisce una variazione di temperatura circa 10 volte maggiore.
Ecco spiegato perché il mare in estate si riscalda meno e più lentamente rispetto agli altri corpi (sabbia e tutto ciò che lo
circonda) e la sua temperatura più bassa dà “frescura” all’aria circostante; d’inverno, invece, si raffredda più lentamente e,
avendo una temperatura superiore a quella dell’aria circostante, restituisce il calore immagazzinato in estate. Questo è il
motivo per cui i paesi vicini al mare beneficiano di un clima più “mite” rispetto a quelli dell’entroterra (clima continentale).
Il mare viene definito come “il più grande scambiatore di calore al mondo”.
EQUIVALENTE MECCANICO DEL CALORE
Come già detto, il calore è una forma di energia e, nel Sistema Internazionale, si misura in Joule [J].
Esiste però, ed è tuttora utilizzata, un’altra unità di misura, definita quando ancora non era chiaro che il calore fosse una
forma di energia. Questa unità di misura è chiamata caloria e la si rappresenta con il simbolo cal.
“La caloria è definita come la quantità di calore necessaria per riscaldare 1g di acqua distillata di 1°C, e precisamente
da 14,5°C a 15,5°C”.
Più frequentemente della caloria (piccola caloria), si usa il suo multiplo Caloria (grande caloria o chilocaloria):
1Cal = 1kcal = 1000cal
A metà dell’800 ci si stava convincendo che il calore fosse una forma di energia.
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l fisico inglese James Prescott Joule, grande sperimentatore, si impegnò a dimostrarlo, cercando la corrispondenza tra
una quantità di energia meccanica nota e la quantità di calore in cui la si poteva far trasformare.
Per riuscirci progettò, realizzò ed utilizzò lo strumento in figura, chiamato da allora “mulinello di Joule”:
Figura 1.6 Rappresentazione grafica di un mulinello
simile a quello utilizzato da Joule
http://www.treccani.it/scuola/lezioni/fisica/
primoprincipiotd.html
n
Si tratta sostanzialmente di un particolare tipo di calorimetro contenente
acqua; le palette, solidali all’asse, sono soggette ad una coppia di forze
dovuta alla caduta di due grossi pesi, liberi di muoversi sotto l'effetto della
forza di gravità. Mentre i pesi scendono, ad una velocità pressoché
costante, l’asse e le palette ruotano incontrando l’attrito dell’acqua. Il
sistema va calibrato in modo che la velocità di discesa sia molto lenta,
affinché solo una parte trascurabile dell’energia potenziale iniziale diventi
energia cinetica di acqua e palette.
Quando i pesi raggiungono il suolo, si rileva un innalzamento misurabile
della temperatura dell'acqua contenuta nel calorimetro.
Si conclude quindi, a fronte dell'innalzamento di temperatura, che tutto è
avvenuto come se si fosse somministrato calore (cosa peraltro impossibile
perché il calorimetro è isolato termicamente).
L’esperimento consente di misurare sia l’energia meccanica consumata
(U0 = mgh), sia il calore che ha determinato l’aumento di temperatura
dell’acqua (Q = mH O · cs H O · ∆t).
2
2
La raggiunta consapevolezza che il calore fosse anch’esso una forma di
energia, consentì di ricavare il fattore di equivalenza tra l’unità di misura
del calore e quella dell’energia meccanica, denominato “equivalente
meccanico del calore”.
Con la precisione delle attuali misure sappiamo che 1Cal = 4186J , quindi,
indicando con la lettera Z l’equivalente meccanico del calore, possiamo
affermare che:
J
Z =4186
Cal
1.4 - EQUAZIONE DELL’EQULIBRIO TERMICO
Supponiamo di avere due corpi a contatto, aventi diverse temperature t1 e t2, con t1 > t2. In base al “principio dell’equilibrio
termico” sappiamo che si scambieranno calore fino a che non raggiungeranno la stessa temperatura.
Vediamo adesso di determinare il valore di tale temperatura di equilibrio.
Figura 1.7 Rappresentazione del raggiungimento dell’equilibrio termico
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Indicando con:
- t1, m1 e c1 = temperatura, massa e calore specifico del corpo a temperatura maggiore,
- t1, m1 e c1 = temperatura, massa e calore specifico del corpo a temperatura minore,
- te = temperatura di equilibrio,
- Q1 = calore scambiato dal corpo 1 (ceduto al corpo 2),
- Q2 = calore scambiato dal corpo 2 (acquistato dal corpo 1),
e, rendendo esplicita l’uguaglianza Q1 = – Q2 , si può scrivere “l’equazione dell’equilibrio termico”:
C1 • m1 • (t1 - te ) = C2 • m2 • (te - t2 )
C1 • m1 • (te - t1 ) = C2 • m2 • (te - t2 )
dalla quale possiamo ricavare un’incognita qualsiasi.
Per la temperatura di equilibrio otteniamo, per esempio:
Nel caso semplice di due corpi dello stesso materiale la formula precedente si riduce a:
ESERCIZI E QUESITI SVOLTI
1) Un pezzo di alluminio di 3 Kg e della temperatura di 200°C, viene immerso in una bacinella contenente 5 Kg di acqua
alla temperatura di 30 °C. Quale sarà la temperatura di equilibrio?
teq = c1 • m1 • t1 + c2 • m2 • t2 = 908 3 200+4186 5 30 = 544.800+627.900 = 1.172.700 = 49,58°C
c1 • m1 + c2 • m2
908 3 + 4.186 5
2.724 + 209.930
23.654
2) A quanti joule corrispondono 12 cal?
J = Q • 4,186= 12 • 4,186 = 50,232J
3) D. Che cos’è il calore?
R. Il calore è una forma di energia che si trasmette da un corpo ad un altro quando hanno diversa temperatura.
4) D. Qual è l’unità di misura del calore?
R. L’unità di misura del calore nel S.I. è il Joule.
5) D. Cosa succede a due corpi, aventi diverse temperature, se vengono messi a contatto?
R. Se due corpi di diversa temperatura si mettono a contatto tra di loro, raggiungono una temperatura costante che
viene detta d’equilibrio.
ESERCIZI E QUESITI PROPOSTI
1) Quante Calorie occorrono per riscaldare di 25°C una massa d’acqua di 2,5Kg?
[ 62,5Cal ]
2) Una massa di 2 Kg d’acqua, con temperatura iniziale di 4°C, viene miscelata con 4Kg d’acqua alla temperatura di
40°C. Calcolare la loro temperatura d’equilibrio.
[ 28°C ]
3) Cos’è il calore specifico?
4) Quanto vale l’equivalente meccanico del calore?
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n
1.5 - PROPAGAZIONE DEL CALORE
Come già detto, il calore è l’energia termica che si scambiano corpi a diversa temperatura; è opportuno allora
approfondire come possa realizzarsi il passaggio di calore da un corpo all’altro.
La propagazione del calore può avvenire in tre modi:
- conduzione
- convezione
- irraggiamento
1.5.1 LA CONDUZIONE
La propagazione del calore per conduzione avviene nei corpi solidi ed essa può aver luogo tra due corpi a contatto, quando
hanno diversa temperatura, o all’interno di un corpo stesso quando c’è una temperatura diversa tra i suoi estremi (es. se
poniamo una estremità di una sbarra metallica su una fiamma, dopo un po’ di tempo ci scotteremo la mano posta all’altra
estremità). Il calore “viaggia” (cioè si trasmette) all’interno del corpo sotto forma di “energia termica” (energia cinetica) delle
particelle.
Tanto per corpi a contatto di diversa temperatura, quanto per parti di uno stesso corpo a diversa temperatura, le particelle
più calde oscillano maggiormente attorno alla loro posizione di equilibrio (con maggiore energia) ed esercitano delle forze
sulle particelle più vicine, inducendole ad oscillare maggiormente. Ogni particella comunque rimane nella propria posizione;
quindi, nella conduzione c’è spostamento dell’energia senza spostamento di materia.
Tra parti diverse di uno stesso corpo, il calore si sposta più o meno rapidamente a seconda del materiale di cui è costituito.
Tale caratteristica prende il nome di “conducibilità termica” e ci permette di distinguere i materiali in “buoni conduttori”,
(in genere tutti i metalli), quando si lasciano attraversare rapidamente dal calore, e in “cattivi conduttori” o “isolanti”, (come
l’aria, il sughero, il vetro, il legno, ecc.), nel caso contrario.
La grandezza fisica conducibilità termica è propriamente definita come: “la quantità di calore che passa in 1h attraverso
la parete di un corpo dello spessore di 1m e della superficie di 1m2, quando tra le sue facce c’è una differenza di
temperatura di 1°C”.
In genere, la conducibilità termica va di pari passo con la conducibilità elettrica; ad esempio, i metalli presentano valori
elevati di entrambe. Fa eccezione il diamante, che ha un'elevata conducibilità termica ma una scarsa conducibilità elettrica.
Sostanza
diamante
argento
rame
oro
alluminio
ottone
platino
quarzo
vetro
acqua distillata
idrogeno
glicole etilenico
olio minerale
lana
vermiculite
polistirolo espanso
aria secca
poliuretano
W/(m·K)
1600
460
350
320
260
111
70
8
1
0,6
0,172
0,25
0,15
0,05
0,046
0,045
0,026
0,026
Tabella 1.3 Conducibilità termica
11
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1.5.2 LA CONVEZIONE
La propagazione del calore per convezione avviene nei fluidi, cioè nei liquidi e negli aeriformi.
Essa avviene per “spostamento di materia”, all’interno della sostanza. Il fluido, a contatto con una fonte di calore, si riscalda
e, dilatandosi, diminuisce di densità. Quindi, per il principio di Archimede, va verso l’alto e lo spazio che prima occupava
viene riempito dal fluido più freddo e più denso.
Si creano così delle vere e proprie “correnti ascensionali e discensionali”,
definite per l’appunto “moti convettivi”.
Ad esempio, se abbiamo una certa quantità d’acqua contenuta in un
recipiente posto sulla fiamma, le particelle situate sul fondo, a contatto con la
fonte di calore, si riscaldano prima e salgono verso l’alto con una corrente
ascensionale, le particelle più fredde scendono, invece, verso il basso con
una corrente discensionale.
Fenomeno analogo è quello della formazione dei “venti” (aria calda che sale
su, si sposta e ridiscende seguendo poi spostamenti orizzontali).
Figura 1.8 Moto convettivo
http://it.wikipedia.org/wiki/Convezione
Figura 1.9 Formazione dei venti
1.5.3 L’IRRAGGIAMENTO
Tutti i corpi emettono onde elettromagnetiche, in misura tanto maggiore quanto maggiore è la temperatura. I corpi sono
anche in grado di assorbire parte delle onde elettromagnetiche che li colpiscono. Le onde elettromagnetiche portano con
sé dell’energia, quindi i corpi che le emettono perdono energia e si raffreddano, i corpi che le assorbono guadagnano
energia e si riscaldano.
La propagazione del calore per irraggiamento (di onde elettromagnetiche) è una trasmissione che avviene “a distanza”
(anche nel vuoto), quindi senza contatto tra i corpi né spostamento di materia.
Il Sole, irraggiando la Terra (anche se separati dal vuoto e da un’enorme distanza), le trasferisce continuamente energia
termica e questo permette il ripetersi del ciclo della vita.
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n
1.6 - PASSAGGI DI STATO
Come è noto la materia si presenta in tre diversi stati di aggregazione:
- solido
- liquido
- aeriforme (gas e vapori)
Quando un corpo viene sottoposto ad una variazione di temperatura, riscaldamento o raffreddamento, può cambiare il
suo stato di aggregazione.
Lo schema dei passaggi da uno stato di aggregazione ad un altro è il seguente:
Figura 1.10 Schema e terminologia dei passaggi di stato
http://ww2.unime.it/cclchim/generale/luc_02.htm
Ma cosa succede a livello molecolare che spieghi tali passaggi di stato?
Per cominciare, occorre dire che gli atomi o le molecole, che costituiscono un corpo
solido, sono distribuiti ordinatamente, seguendo uno schema che si ripete e che
forma quello che si chiama reticolo cristallino.
I reticoli cristallini possono avere le forme più varie, ma ciò che li caratterizza è che gli
atomi scambiano, con quelli più prossimi, forze di tipo elastico, quasi che fossero
separati da minuscole ed ipotetiche molle.
Per questa ragione gli atomi oscillano armonicamente in tutte le direzioni con
un’ampiezza che aumenta con la temperatura; vale a dire che l’energia termica
posseduta dal corpo è contenuta Figura 1.11 Reticolo cristallino a
nelle sue particelle come energia disposizione cubica
vibrazionale.
All’aumentare della temperatura, aumenta l’ampiezza dell’oscillazione e
gli atomi si allontano, anche se di pochissimo. I legami tra gli atomi, o tra
le molecole, come nelle “molle” reali, hanno un limite di rottura e, quando
questo limite viene raggiunto, le particelle si svincolano dalla loro posizione
di equilibrio e cominciano a scivolare le une sulle altre.
Il corpo solido sta fondendo. Nello stato liquido, le particelle, anche se
sono libere di muoversi per via delle forze di attrazione che si scambiano,
non riescono ad allontanarsi reciprocamente e la loro distanza media
rimane costante (incomprimibilità di solidi e liquidi).
Figura 1.12 Atomi in vibrazione attorno alla posizione
di equilibrio
13
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Aumentando ancora la temperatura, aumenta l’energia cinetica con cui le molecole si muovono all’interno del liquido.
Anche se la velocità media, ad una data temperatura, rimane costante, la velocità delle singole particelle ha, invece, una
grande variabilità a causa dei reciproci e continui urti.
Quando una particella particolarmente veloce arriva alla superficie del liquido, accade che essa abbandona il liquido. La
particella è evaporata. Da notare che, mano a mano che le particelle più veloci, quindi più calde, evaporano, il restante
liquido si impoverisce di energia e ciò vuol dire che, mentre un liquido subisce l’evaporazione, esso si raffredda. Un
brodo fumante sta liberando, allo stato di vapore, moltissime molecole e, come sappiamo, il brodo pian piano si raffredda.
Continuando ad aumentare la temperatura del liquido, aumenta l’energia cinetica media e l’evaporazione diventa via via
più intensa. Giunti ad una determinata temperatura, il liquido comincia a bollire. L’ebollizione consiste nel passaggio
allo stato di valore non solo attraverso la superficie; infatti, le molecole del liquido diventano vapore anche in profondità,
formando delle bolle che si dirigono ovviamente verso l’alto. Nelle bolle non c’è aria, c’è solo vapore della sostanza che
si sta riscaldando.
Diminuire la temperatura è come vedere al contrario il film appena raccontato.
Dopo esserci fatti un’ idea di quanto accade a livello molecolare, osserviamo da vicino ciascuno dei passaggi di stato,
avendo cura di seguirne gli sviluppi attraverso il grafico seguente. Nel grafico, in ordinate è riportata la temperatura del
corpo, in ascisse il calore che assorbe per unità di massa.
Figura 1.13 Grafico dei passaggi di stato
14
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1.6.1 LA FUSIONE
La fusione è il passaggio di stato di aggregazione da solido a liquido.
Essa dipende da due fattori:
- la temperatura, infatti ogni sostanza ha una sua temperatura di fusione, indicata con Tf , alla quale essa passa dallo
stato solido a quello liquido;
- la pressione, infatti la temperatura di fusione di una sostanza può variare, lievemente, in funzione della pressione alla
quale essa si trova.
Come si può notare dal grafico (fig. 1.13):
• il corpo, quando si trova allo stato solido, aumenta la propria temperatura in proporzione al calore assorbito, calcolabile
come ∆Q = m • cs • ∆t;
• il corpo, giunto alla temperatura Tf , comincia a fondere e, nota bene, durante tutto il processo di fusione, pur
somministrandogli calore, la sua temperatura rimane costante. Il corpo, infatti, non diventa interamente liquido all’istante
(ricordiamo il lento sciogliersi del ghiaccio immerso in una brocca d’acqua), quindi il calore fornito alla temperatura Tf è
utilizzato per fondere dell’altro solido e non per far aumentare la temperatura;
• terminato il processo di fusione, se si continua a fornire calore, la temperatura riprende a salire.
Il calore fornito durante la fase di fusione, non essendoci stata variazione della temperatura, non è calcolabile con la formula
∆Q = m • cs • ∆t, per questo lo si chiama calore latente.
In particolare si definisce calore latente di fusione di una sostanza la quantità di calore necessaria per far fondere 1Kg
∆Q
della sua massa, alla temperatura Tf : CL =
.
m
Figura 1.14 Similitudine idraulica del calore latente
Una similitudine idraulica può essere vista in un recipiente cilindrico con un vaso laterale. Fintanto che il liquido non giunge
al vaso, la sua altezza nel recipiente cresce in proporzione al liquido versato. Quando il liquido giunge al vaso (temperatura
del passaggio di stato), fintanto che il vaso non si riempie (completamento del passaggio di stato), pur versando del nuovo
liquido, l’altezza del liquido non cresce. Il liquido nel vaso è il corrispettivo del calore latente.
Il fenomeno della costanza della temperatura si ripete durante tutti i passaggi di stato; di conseguenza, il calore latente è
assorbito dal corpo durante la fusione e l’ebollizione (riempimento del vaso in figura); è, invece, il corpo a cederlo durante
la condensazione e la solidificazione (svuotamento del vaso in figura).
Generalmente la temperatura di fusione di una sostanza cresce al crescere della pressione cui è sottoposta; fa eccezione
15
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a questa regola l’acqua, infatti essa, sottoposta a pressione, fonde ad una temperatura inferiore a 0°C. Altra eccezione
è costituita dalle sostanze “amorfe” : vetro, paraffina, catrame, ecc. Tali sostanze, infatti, non hanno una temperatura di
fusione ben definita, ma un intervallo di temperatura all’interno del quale subiscono un “rammollimento continuo” (fusione
pastosa), fino a passare allo stato liquido.
1.6.2 LA VAPORIZZAZIONE
La vaporizzazione è il passaggio di stato da liquido ad aeriforme.
Essa può avvenire in due modi:
- evaporazione
- ebollizione
L’evaporazione interessa solo lo strato superficiale del liquido ed avviene per distacco di molecole da tale strato; essa può
verificarsi senza particolari condizioni di temperatura e di pressione (l’acqua evapora dal pavimento, dalla bacinella, ecc.,
anche in condizioni normali ambientali); quando si forma una situazione di equilibrio, in un ambiente chiuso, tra un liquido
ed il suo vapore sovrastante si dice che si è raggiunta la condizione di saturazione, ed in questo caso la pressione del
vapore saturo si chiama tensione di saturazione.
L’ebollizione interessa tutta la massa del liquido ed avviene solo in particolari condizioni di temperatura e di pressione; ogni
sostanza ha infatti una sua temperatura di ebollizione che dipende anche dalla pressione, generalmente in modo
direttamente proporzionale (es. l’acqua bolle a 100 °C alla pressione atmosferica 1 atm, la sua temperatura di ebollizione
aumenta però all’aumentare della pressione).
Il calore latente di ebollizione di una sostanza è la quantità di calore che è necessario fornirle per far bollire 1 Kg della sua
∆Q
massa alla temperatura Te: CL =
.
m
Calore latente e temperatura di alcune sostanze (P=1atm)
Calore latente
di fusione
[kJ/kg]
Temperatura
di fusione
[°C]
Calore latente
di ebollizione
[kJ/kg]
Temperatura
di ebollizione
[°C]
Alcool etilico
108
-114
855
78,3
Ammoniaca
339
-75
1369
-33
Biossido di carbonio
184
-78,5
574
-56,56
Elio
1.25
-269,7
21
-268,93
58
-259
455
-253
Azoto
25,7
-210
200
-196
Ossigeno
13,9
-219
213
-183
Mercurio
11
-39
294
357
Sostanza
Idrogeno
Toluene
Zolfo
Acqua
351
54
115
1406
445
333,5
0
2272
100
Tabella 1.4 Calori latenti e temperatura di fusione ed ebollizione
16
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1.6.3 LA LIQUEFAZIONE O CONDENSAZIONE
La liquefazione, o condensazione, è il passaggio di stato da aeriforme a liquido. Essa può avvenire per abbassamento di
temperatura (raffreddamento) o per compressione. Premesso che gli aeriformi comprendono sia i gas (aeriformi in condizioni
normali) che i vapori (aeriformi di sostanze la cui natura normalmente è liquida o solida), esiste una temperatura, detta
“temperatura critica”, al di sopra della quale un aeriforme non può essere liquefatto per compressione.
Poiché i vapori hanno temperature critiche abbastanza elevate, mentre i gas hanno temperature critiche molto basse, i
primi possono essere liquefatti più facilmente ricorrendo alla sola compressione, mentre i secondi hanno bisogno anche di
un forte raffreddamento.
Sostanza
Temperatura critica (°C)
Pressione critica (°atm)
Agon
−122,4
48,1
Bromo
310,8
102
Cloro
143,8
76,0
Fluoro
−128,85
51,5
Elio
−267,96
2,24
Idrogeno
−239,95
12,8
−63,8
54,3
Neon
−228,75
27,2
Azoto
−146,9
33,5
Ossigeno
−118,6
49,8
CO2
31,04
72,8
Xeno
16,6
57,6
Litio
2.950
65,2
1.476,9
1.587
Kripton
Mercurio
Ferro
8.227
Oro
6.977
Allumino
7.577
Tungsteno
15.227
Acqua
373,936
5.000
217,7
Tabella 1.5 Temperatura critica
Notando la temperatura critica dell’acqua di 374°C, possiamo affermare che l’acqua allo stato aeriforme è un vapore sulla
Terra (temperatura media di circa 14°C), è un gas su Venere (temperatura media di circa 450°C).
17
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1.6.4 LA SOLIDIFICAZIONE
La solidificazione è il passaggio di stato da liquido a solido.
Essa avviene per sottrazione di calore (raffreddamento) di un liquido fino alla temperatura di fusione (anche temperatura di
solidificazione) e segue il grafico della fusione in senso contrario.
Il calore latente di solidificazione di una sostanza è la quantità di calore che bisogna sottrarre ad 1Kg della sua massa
per farla solidificare.
1.6.5 SUBLIMAZIONE E BRINAMENTO
La sublimazione è il passaggio diretto da solido ad aeriforme; essa consiste praticamente nella vaporizzazione di un solido
(es. naftalina)
Il brinamento è il passaggio diretto da aeriforme a solido; esso è il procedimento inverso della sublimazione (es. il vapore
d’acqua presente nell’aria, quando d’inverno la temperatura scende bruscamente sotto lo 0°C, passa dallo stato aeriforme
a quello solido, formando quei piccoli cristalli di ghiaccio che comunemente chiamiamo “brina”).
n
1.7 - DILATAZIONE TERMICA
Un fenomeno di enorme importanza risiede nel fatto che tutti i corpi, siano essi solidi o liquidi (per i gas va fatto un
discorso a parte), all’aumentare della temperatura, subiscono una dilatazione; aumenta cioè il loro volume.
La variazione di volume, detta dilatazione termica è sempre assai piccola e mantiene inalterate le proporzioni del corpo,
che quindi non si “deforma”. La ragione della dilatazione termica, capiamo bene essere legata all’aumento dell’energia
di vibrazione delle molecole, che di conseguenza si allontanano leggermente, come se le “molle” che li separano si
allungassero un po’.
Come vedremo, è proprio sul fenomeno della dilatazione termica che si basa il funzionamento dei termometri.
1.7.1 DILATAZIONE TERMICA DEI CORPI SOLIDI
La dilatazione termica dei corpi solidi, si può distinguere in:
- Dilatazione lineare
- Dilatazione volumetrica ( o cubica)
- DILATAZIONE LINEARE
Premesso che i corpi solidi, soggetti ad un incremento di temperatura, subiscono una dilatazione sempre volumetrica, cioè
in ogni direzione (lunghezza, larghezza ed altezza), si parla di “dilatazione lineare” quando essi hanno una dimensione molto
prevalente rispetto alle altre due, per cui si trascurano le dilatazioni lungo tali dimensioni e si considera solo quella lungo la
direzione prevalente ( es. barra di ferro molto lunga e sottile, rotaia dei binari dei treni, ecc.).
La dilatazione lineare dipende da tre fattori:
- il tipo di materiale, infatti materiali diversi subiscono dilatazioni diverse;
- la lunghezza iniziale, infatti la dilatazione termica è direttamente proporzionale alla lunghezza iniziale del corpo;
- la variazione di temperatura, infatti la dilatazione termica è direttamente proporzionale alla variazione di temperatura cui
il corpo è soggetto.
Tutto ciò si esprime mediante la seguente “legge della dilatazione lineare”: ∆L = l • L0 • ∆t
dove:
- ∆L = dilatazione lineare [m],
- l = coefficiente di dilatazione lineare [°C-1] (v. tabella),
- L0 = lunghezza iniziale [m],
- ∆t = variazione di temperatura [°C].
18
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La tabella seguente mostra alcuni valori del coefficiente di dilatazione termica lineare per i materiali più comuni:
Materiale
Acciaio
Alluminio generico
Alluminio puro
Ferro
Oro
Ottone
Platino
Pyrex
Quarzo fuso
Rame
Silicio
Tungsteno
Vetro
Coefficiente di dilatazione
termica lineare
(in K−1)
1,2 x 10-5
2,3 X 10−5
2,4 X 10−5
1,2 X 10−5
1,432 X 10−5
1,9 X 10−5
9,0 X 10−6
4,0 X 10−6
5,9 X 10−7
1,7 X 10−5
3,0 X 10−6
5,0 X 10−6
8,0 X 10−6
Tabella 1.6 Coefficienti di dilatazione lineare
Uno strumento che consente di verificare l'aumento di lunghezza di una barra di qualsiasi materiale è il dilatometro, o
dilatometro lineare; questo strumento è provvisto di un ago (o indice) che, scorrendo su una scala graduata, indica il
progressivo aumento di lunghezza della barra.
Proprio per questo fenomeno, in alcune costruzioni, vengono
lasciati i così detti “giunti di dilatazione”, cioè spazi vuoti tra
un elemento costruttivo ed un altro, al fine di evitare che le
loro dilatazioni causino deformazioni degli stessi e
conseguenti collassi delle strutture.
Alcuni esempi possono essere:
- tra le rotaie dei binari dei treni vengono lasciati i “giunti di
dilatazione” (piccoli spazi vuoti) per evitare che, in seguito alle
loro dilatazioni (specialmente d’estate con le alte
temperature), si deformino, si accavallino e facciano
deragliare i treni;
- negli impalcati dei viadotti vengono lasciati, per lo stesso
fine, i “giunti di dilatazione” tra le travi e tra i solai (gli impalcati).
Figura 1.15 Dilatometro lineare
http://www.museocrescenzipacinotti.it/dati-scheda.asp?id=113
Nell’uno e nell’altro caso infatti, quando viaggiamo sui treni o in macchina sui viadotti, sentiamo ogni tanto un “rumore”,
proprio quando passiamo in corrispondenza dei “giunti di dilatazione”.
- DILATAZIONE VOLUMETRICA ( o CUBICA)
Il discorso sulla dilatazione volumetrica è simile a quello sulla dilatazione lineare, solo che
anziché occuparci di dilatazioni in lunghezza, ci occupiamo di dilatazioni in volume in
quanto i corpi in oggetto hanno le tre dimensioni pressoché equivalenti.
La legge della “dilatazione volumetrica”, che ha forma del tutto simile a quella della
dilatazione lineare, è la seguente:
∆V =K · V0 · ∆t
dove: - ∆V = dilatazione volumetrica [m3],
- K = coefficiente di dilatazione volumetrica [°C-1],
- V0 = volume iniziale [m3],
- ∆t = variazione di temperatura [°C].
Il coefficiente di dilatazione volumetrica dei materiali è il triplo di quello lineare: K = 3l.
Figura 1.16 Anello di ‘s Gravesande
http://www.museocrescenzipacinotti
.it/dati-scheda.asp?id=114
19
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1.7.2 DILATAZIONE TERMICA DEI LIQUIDI
La dilatazione termica dei liquidi è regolata dalla stessa legge dei corpi solidi: ∆V =K · V0 · ∆t
I coefficienti di dilatazione cubica dei liquidi hanno generalmente valori molto superiori a quelli dei solidi, come si evince
dalla tabella seguente:
Coefficiente di dilatazione
Materiale
termica cubica
(in K−1)
Acciaio
Etanolo
Etere etilico
Benzolo
Petrolio
Glicerolo
Argento
Mercurio
0.21 × 10−3
1.1 × 10−3
1.1 × 10−3
1.21 × 10−3
0.9 × 10−3
0.5 × 10−3
19 × 10−6
0.18 × 10−3
Tabella 1.7 Coefficienti di dilatazione cubica per alcuni liquidi
Dilatazione dell’acqua
L’acqua costituisce un caso particolare: essa, infatti, non segue rigorosamente le
leggi della dilatazione termica. Partendo da un volume iniziale Vo di una certa massa
di acqua a 0°C, se si aumenta la temperatura, si osserva che il volume, anziché
aumentare, diminuisce progressivamente, fino a raggiungere il minimo valore a 4°C.
A questo punto, aumentando ancora la temperatura, il volume comincia a crescere,
cioè l’acqua comincia a comportarsi come la generalità delle sostanze e a 8°C il
volume riprende il valore Vo.
volume
Volendo valutare la dilatazione termica di un liquido, misurando, cioè, di quanto aumenta il volume occupato in un recipiente,
bisogna prestare attenzione al fatto che, riscaldando il liquido, si riscalda inevitabilmente anche il recipiente che lo contiene
e, di conseguenza, si dilata anch’esso.
La dilatazione reale del liquido si ottiene, quindi, aggiungendo, a quella apparente, la dilatazione cubica del recipiente. Si
può, pertanto, scrivere:
dilatazione reale del liquido = dilatazione apparente + dilatazione cubica del recipiente.
Vo
Interessante diventa anche la variazione della densità dell’acqua in funzione della
O
2 4 6 8 10
temperatura.
temperatura (°C)
Infatti, per quanto detto prima, la densità assoluta dell’acqua, essendo inversamente
Figura 1.17 Relazione tra volume e
m
proporzionale al volume ( p =
), raggiunge un massimo a 4°C, mentre a 8°C temperatura per l’acqua
V
ha lo stesso valore che aveva a 0°C.
Tale comportamento termico dell’acqua ha in natura una importanza enorme, addirittura determinante ai fini dell’esistenza
degli animali acquatici.
I ghiacciai marini hanno infatti una densità inferiore a quella dell’acqua e quindi, per il principio di Archimede, galleggiano,
consentendo così la vita al di sotto degli stessi.
TERMOSCOPIO E TERMOMETRO
Ora, che conosciamo il fenomeno della dilatazione termica, siamo in grado di comprendere il funzionamento sia del
termoscopio che del termometro.
Il termoscopio, ideato da Galileo, è uno strumento con cui si riesce a confrontare temperature; quindi, ci si possono rilevare
cambiamenti della temperatura di un corpo o confrontare le temperature di più corpi.
Il termoscopio consiste in un tubicino di vetro, che all’estremità superiore presenta un bulbo chiuso. Se, dopo aver riscaldato
il bulbo, si immerge, come in figura, il tubicino in un recipiente di vetro contenente un liquido (es.: acqua colorata), si nota
che al raffreddarsi del bulbo corrisponde un innalzamento dell’acqua all’interno del tubicino. Se ora si mette a contatto il
recipiente con un corpo, il liquido nel tubicino salirà per dilatazione se la temperatura del corpo è superiore a quella del
termoscopio, scenderà per contrazione nel caso contrario. Facile allora capire come si possa confrontare la temperatura
di più corpi o rilevare una variazione di temperatura di uno stesso corpo.
20
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Il termoscopio non è però in grado di fare una misura quantitativa della temperatura; occorre fare un passo ulteriore, occorre
tarare il termoscopio per farlo diventare un termometro.
Come sappiamo, per tarare uno strumento è necessario fargli misurare almeno due valori noti della grandezza in questione;
risulta, perciò, necessario disporre di almeno due temperature certe e
facilmente riproducibili.
Come abbiamo visto, nel passaggio di stato la temperatura dei corpi
non cambia e, inoltre, la temperatura di fusione del ghiaccio e quella di
ebollizione dell’acqua (a pressione atmosferica) sono facilmente
riproducibili e uguali dovunque le si produca.
“Segniamo” allora sul termoscopio la posizione del liquido in
corrispondenza della prima temperatura e quella in corrispondenza
della seconda temperatura. Rimane un’ultima operazione: assegnare
un valore numerico in corrispondenza dei segni e stabilire in quante
parti uguali dividere lo spazio tra di essi; stabilire, cioè, che scala
termometrica utilizzare. In quella Celsius, come sappiamo, si è
assegnato il valore 0°C alla temperatura del ghiaccio fondente e 100°C
alla temperatura dell’acqua bollente, vale a dire che si è diviso in 100 Figura 1.18 Termoscopio di Galileo
http://catalogo.museogalileo.it/oggetto/Termoscopio.html
parti uguali lo spazio tra la prima e la seconda temperatura.
Ecco che disponiamo finalmente di uno strumento con il quale poter misurare la temperatura ed è a questo strumento che
si dà il nome di termometro.
Il termometro a dilatazione appena descritto presenta ovviamente dei limiti. Non si possono misurare temperature inferiori
a quella di solidificazione del liquido scelto (il più delle volte mercurio) e non si possono misurare temperature superiori a
quella di fusione del vetro (se il termometro è di vetro).
Esistono, per questa ragione, termometri in grado di valutare altri effetti, determinati dalla variazione di temperatura, e
utilizzare questi effetti per fare delle misure.
Figura 1.19 Termometro a mercurio (a dilatazione) e termometro elettrico (a termocoppia)
ESERCIZI SVOLTI
1) Trasformare la temperatura di 50°C nelle altre scale termometriche.
°K) t°k = t°C + 273t°k = 50 + 273 = 323°k
°R) t°C : 100 = t°R : 80
50 : 100 = t°R : 80
°F) t°C : 100 = (t°F-32) : 180
t°F = 50 1,8 + 32
t°R = 50 80/100 = 40°R
t°F = 50 1,8 + 32 = 122°F
2) Calcolare l’incremento di temperature a cui è soggetta una sbarra di ferro lunga 10 m che subisce una dilatazione
lineare di 5 cm.
3) Determinare l’allungamento subito da una sbarra di ferro lunga 40 m soggetta ad un incremento di temperatura
di 100°C.
λ =12,1 ·10-6 °C-1∆t = 100 °C
L0 = 40 m.
∆L = λ L0 · ∆t
∆L = 12,1 · 10-6 40 · 100 = 48.400 10-6 = 0,0484 m = 4,84 cm.
4) Calcolare l’aumento di volume subito da un cubo di rame avente lo spigolo di 10 cm e soggetto ad un aumento
di temperatura di 100°C.
∆V = K · V0 · ∆t
∆V = 16,8 · 10-6 · 0,001 · 100 = 0,00000168 m3 = 1,68 cm3
21
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5) Con i seguenti dati:
Vo = 50 cm3
to = 0°C
t1 = 80°C
V1 = 52 cm3,
determinare il coefficiente di dilatazione volumetrica del corpo.
∆V = K · Vo · ∆t
∆V
2
K =
K =
= 0,0005 = 5 · 10-4 °C-1
Vo· ∆t
50 · 80
ESERCIZI PROPOSTI
1) Trasformare la temperatura di 20°C nelle altre scale termometriche.
[293°K, 16°R, 68°F]
2) Determinare il giunto di dilatazione necessario tra due rotaie ferroviarie lunghe 12m al fine di evitare le loro deformazioni,
considerando un incremento di temperatura estivo di 50°C.
[1,45 cm]
3) Calcolare l’aumento di volume subito da una sfera di rame avente il raggio di 5 cm soggetta ad un incremento di
temperatura di 100°C.
[0,88cm3]
4) Determinare il coefficiente di dilatazione lineare di un corpo, con i seguenti dati:
Lo = 200 m L = 200,15 m t1 = 24°C t2 = 100°C
[λ = 9,87*10-6 ]
n
1.8 - LEGGI E TRASFORMAZIONI DEI GAS
In merito alla dilatazione termica, come abbiamo visto, solidi e liquidi si comportano nell’identico modo. I gas, però,
contrariamente a solidi e liquidi, non hanno un volume proprio. Le molecole di gas, non essendo vincolate da legami
chimici che le trattengano a distanze determinate, occupano tutto lo spazio del
contenitore.
Per capire allora cosa accade ad un gas di cui si faccia cambiare la temperatura,
è necessario comprendere preliminarmente che lo stato fisico di un gas è
determinato una volta che ne siano note le grandezze pressione (P), volume (V)
e temperatura (t). Queste tre grandezze sono dipendenti le une dalle altre; di
conseguenza, se una di esse cambia, cambierà almeno una delle altre due.
Al fine di comprendere al meglio le relazioni che intercorrono tra pressione, volume
e temperatura di un gas, è opportuno, volta per volta, tenere costante una delle
grandezze e osservare la relazione di cambiamento delle rimanenti due:
ricaveremo così le tre leggi empiriche dei gas.
Terminologicamente si dice che, al variare di almeno due di queste grandezze, il
gas subisce una “trasformazione termodinamica”.
Figura 1.20 Le molecole di gas in agitazione
Andiamo allora a studiare le trasformazioni termodinamiche in cui una delle tre termica
grandezze rimane costante.
TRASFORMAZIONE ISOTERMA
Una trasformazione particolare è la trasformazione isoterma, cioè a temperatura costante; essa è regolata dalla seguente
“legge di Boyle”:
se un gas subisce una trasformazione e la sua temperatura rimane costante, pressione e volume sono inversamente
proporzionali tra di loro.
In simboli:
oppure
P · V = Kost
P1 · V1 = P2 · V2
22
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dove:
P1 e V1 = valori di pressione e volume prima della trasformazione
P2 e V2 = valori di pressione e volume dopo la trasformazione
In figura, così come per le successive leggi empiriche dei gas, è rappresentato come, almeno in teoria, si potrebbe
realizzare una trasformazione isoterma per un gas. Approfondiremo questi esperimenti nello studio della termodinamica;
per ora basti sapere che il contenitore cilindrico del gas è lateralmente e superiormente isolato termicamente ed è
appoggiato su una grande piastra termica di cui si può far cambiare a piacere la temperatura.
Figura 1.21 Realizzazione di una trasformazione isoterma
TRASFORMAZIONE ISOBARA
Si definisce trasformazione isobara, una trasformazione che avviene a pressione costante; essa è regolata dalla “prima
Legge di Gay–Lussac”:
in una trasformazione a pressione costante, la variazione di volume che un gas subisce è direttamente proporzionale alla
variazione della temperatura.
∆V = a · V0 · ∆t
oppure, rendendo esplicite le variazioni: Vt = V0 [1+a · (t -t0 )]
In simboli:
dove:
- Vt = volume alla temperatura t,
- V0 = volume a 0°C,
- a = coefficiente di dilatazione termica,
- ∆t = variazione di temperatura.
Figura 1.22 Realizzazione di una trasformazione isobara
TRASFORMAZIONE ISOCORA
La trasformazione isocora, o isovolumica, è una trasformazione che avviene a volume costante; essa è regolata dalla
“seconda Legge di Gay–Lussac”:
in una trasformazione a volume costante, la variazione di pressione di un gas è direttamente proporzionale alla variazione
della temperatura.
23
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
In simboli:
∆P = P0 · b · ∆t
oppure, rendendo esplicite le variazioni:
Pt = P0 [1+b · (t -t0 )]
dove:
- Pt = pressione alla temperatura t,
- P0 = pressione a 0°C,
- b = coefficiente di pressione a volume costante,
- ∆t = variazione di temperatura.
Figura 1.23 Realizzazione di una trasformazione isocora
GAS PERFETTO E ZERO ASSOLUTO
Il coefficiente di dilatazione termica ( a ) e il coefficiente di pressione ( b ) hanno valore diverso per i diversi gas, ma non sono
propriamente costanti. Infatti, via via che i gas vengono resi rarefatti (grande volume e bassa pressione) e caldi (alta
temperatura), i valori di a e b dei diversi gas si avvicinano sempre più al valore comune 1/273. Questo è il motivo per cui
si dà il nome di gas perfetto ad un gas ideale che, in ogni condizione, presenta
1
1
a=
e b=
.
273
273
Osserviamo, allora, da vicino le leggi di Volta-Gay Lussac, nell’ipotesi che a subire la variazione di temperatura sia un gas
perfetto:
La prima legge dice che quando la temperatura diminuisce a volume costante, diminuisce la pressione e questa arriva ad
azzerarsi alla temperatura di t = - 273 °C.
La seconda legge dice che quando la temperatura diminuisce a pressione costante, diminuisce il volume e questo arriva
ad azzerarsi alla temperatura di t = - 273 °C.
Già il fatto che pressione e volume possano diventare nulli è scientificamente incomprensibile, ma c’é di peggio. Per
temperature inferiori a t = - 273 °C, la pressione e il volume diventerebbero addirittura negativi e questo è scientificamente
inaccettabile.
Ecco come gli scienziati dell’800 arrivarono a capire che la temperatura di t = - 273 °C costituiva un limite teorico invalicabile,
ma anche irraggiungibile. É a questa temperatura che oggi diamo il nome Zero assoluto e costituisce il limite inferiore
della scala kelvin.
EQUAZIONE DI STATO DEI GAS PERFETTI
Le tre leggi empiriche dei gas, applicate al gas perfetto ( a = b = 1/273), possono condensarsi in un’unica formula che
viene per questo detta “equazione di stato dei gas perfetti”; in formula si ha: PV = nRT
24
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dove:
- P = pressione [pascal],
- V = volume [m3],
- T = temperatura [K] nella scala kelvin, chiamata temperatura assoluta,
- n = numero di moli (o grammomolecole); una mole rappresenta una quantità di sostanza in grammi,
numericamente uguale al peso molecolare,
- R = costante universale dei gas.
Joule
Il valore numerico di R, quando nella formula si utilizzano unità di misura del S.I., è: R = 8.31
;
mol · K
atm · l
utilizzando invece i litri, per il volume, e le atmosfere, per la pressione, il valore di R è: R = 0.0821
.
mol · K
Nell’equazione di stato dei gas perfetti (o legge dei gas perfetti), la temperatura deve essere la temperatura assoluta,
vale a dire espressa nella scala kelvin. L’equazione di stato, infatti, vale solo a questa condizione e, da ora in avanti, per
la temperatura assoluta utilizzeremo il simbolo T, lasciando al simbolo t di esprimere la temperatura in una della altre
scale termometriche.
Come detto, i gas reali si comportano tanto più da gas perfetti quanto più sono rarefatti e caldi e questo fa pensare che
per essere perfetto un gas dovrebbe avere particelle che non si scambiano alcuna forza (la distanza rende trascurabili le
forze intermolecolari), quindi non hanno energia potenziale, ma solo energia cinetica.
ESERCIZI E QUESITI SVOLTI
1) In una trasformazione isoterma, con i seguenti dati:
V1 = 2 litri
V2 = 4 litri
T = 200 K
P1 = 2 atm
quale sarà il valore della pressione finale?
P ·V
2·2
P1 · V1 = P2 · V2
da cui: P2 = 1 1 =
= 1 atm
V2
4
2) n.3 moli di un gas si trovano alla pressione di 3 atm e occupano un volume di 5 dm3. A che temperatura si trova
questo gas?
PV
3·5
15
PV = nRT
da cui: T =
=
=
= 60,9°K
nR
3 · 0,0821
0,2463
3)
D. Quali sono le variabili di stato di un gas?
R. Le variabili di stato di un gas sono 3: temperatura, pressione e volume.
4)
D. Che cos’è un gas perfetto?
R. Un gas perfetto è un gas che rispetta rigorosamente le leggi dei gas.
5)
D. Che cos’è una trasformazione isoterma?
R. Una trasformazione isoterma di un gas è una trasformazione durante la quale la sua temperatura rimane
costante, mentre pressione e volume cambiano.
6)
D. Cosa afferma la legge di Boyle?
R. La Legge di Boyle afferma che in una trasformazione isoterma, pressione e volume sono inversamente
proporzionali tra di loro.
25
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ESERCIZI E QUESITI PROPOSTI
1) Un gas perfetto, che occupa un volume di 4l, viene riscaldato di 50°C a pressione costante. Calcola il volume finale
del gas.
[4,73 l]
2) I pneumatici di un automobile, alla temperatura ambiente di 20°C, vengono gonfiati fino a 2,2 atm. Se l’auto viene
lasciata al sole e la temperatura dei pneumatici sale a 40°C, a quale pressione si troverà l’aria in essi contenuta?
[2,36 atm]
3) Che cos’è una trasformazione isocora?
4) Che cos’è una trasformazione isobara?
5) Enuncia la prima legge di Gay–Lussac.
6) Enuncia la seconda legge di Gay–Lussac.
26
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2 TERMODINAMICA
Figura 2.0 Una mcchina termica
http://it.wikipedia.org/wiki/Termodinamica
n
2.1 - INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA TERMODINAMICA
All’inizio del 1700 esistevano, già da secoli, “macchine” che, per realizzare il loro lavoro, sfruttavano energia “naturale”,
non “animale”.
Si pensi alle navi a vela, ai mulini a vento, ai mulini a caduta d’acqua; tutte queste macchine però utilizzavano l’energia
così come disponibile in natura, senza cioè alcuna trasformazione.
Nel 1705 Thomas Newcomen costruì la prima pompa a pistone azionata da un motore a vapore. Si trattava, nonostante
nella storia precedente fossero stati fatti numerosi tentativi, della prima macchina realmente funzionante che utilizzava
energia estratta dalla materia attraverso la combustione: era nata la macchina a vapore.
Figura 2.1 Pompa a vapore di Newcomen
http://it.wikipedia.org/wiki/Macchina_a_vapore_di_Thomas_Newcomen
27
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Questa macchina, che contribuì alla prima rivoluzione industriale, era però assai inefficiente e per poter realizzare pompaggi
significativi, doveva avere grandi dimensioni ed essere di conseguenza molto pesante, dunque di fatto intrasportabile.
Un decisivo passo in avanti fu fatto da James Watt che, nel 1765, introdusse vari miglioramenti che rendevano la macchina
più efficiente (realizzava più lavoro con lo stesso calore).
Uno dei nuovi dispositivi introdotti da Watt fu la biella, capace di trasformare il movimento rettilineo alternato del pistone in
un rotazione continua.
La macchina a vapore di Watt era molto più piccola e leggera di quella di Newcomen, quindi, giacché trasportabile, poteva
essere riutilizzata in varie località.
La macchina a vapore di Watt dette una spinta
straordinaria al processo di industrializzazione.
Le macchine a vapore si diversificarono rapidamente e
ne furono costruite per le più varie esigenze industriali,
ma tutte utilizzavano un combustibile (legna o carbone)
che, bruciando, liberava calore. Il calore riscaldava il
liquido di una caldaia producendo del vapore il cui
utilizzo permetteva di realizzare il lavoro per cui la
macchina era stata progettata.
Figura 2.2 Macchina a vapore di Watt
http://it.wikipedia.org/wiki/James_Watt#mediaviewer/
File:JamesWattEngine.jpg
Una macchina era allora tanto più efficiente, quanto più
lavoro riusciva ad estrarre da una stessa quantità di
carburante, ma non esisteva uno studio teorico che
suggerisse come meglio comportarsi, tanto che nella
costruzione delle prime macchine a vapore si
utilizzavano le conoscenze empiriche di artigiani ed
ingegneri.
Questo spiega come accadde che, a partire dagli inizi dell’800, si intensificassero le riflessioni e gli studi sul fenomeno della
trasformazione di calore in lavoro da parte degli scienziati.
Fu Sadi Carnot che, nel 1824, dimostrò che si poteva produrre lavoro attraverso lo scambio di calore tra due sorgenti a
diversa temperatura e a ideare una macchina termica ideale, capace di dare il massimo rendimento possibile.
Come abbiamo visto, nel 1850 Joule dimostrò definitivamente che il calore era una
forma di energia. In seguito, lo studio teorico dei fenomeni accennati arrivò ad uno
straordinario livello di sviluppo, grazie in particolare a Kelvin, Clausius, Gibbs, Maxwell,
Boltzmann. Allo studio della relazione tra scambi di calore e lavoro, ed alle conseguenze
teoriche che derivano da questo studio, viene dato il nome di termodinamica. Le
applicazioni tecnologiche delle leggi della termodinamica alle macchine termiche sono
tutt’intorno a noi: frigoriferi, pompe di calore, motori a scoppio, centrali termoelettriche
e nucleari, ecc.
Ma la termodinamica non ha prodotto solo applicazioni tecniche e, anche se il nostro
approccio a questa disciplina sarà “leggero”, ci renderemo conto che i suoi concetti e
le sue leggi hanno un’applicabilità straordinariamente larga, che, partendo dalle
macchine termiche, arriva alle stelle, ai buchi neri e all’intero Universo.
É per questa ragione che la TERMODINAMICA viene ritenuta la branca della Fisica
Figura 2.3 Sadi Carnot (1796-1832)
utilmente applicabile al maggior numero di fenomeni.
28
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n
2.2 - PRIMO PRINCIPIO DELLA TERMODINANICA
Ricordiamo cosa afferma il principio dell’energia cinetica: l’energia meccanica di un sistema fisico diminuisce di quanto
lavoro esso compie verso l’esterno e cresce di quanto lavoro viene compiuto dall’esterno su di esso.
∆Em = - L,
In sintesi matematica:
dove si è scelto di intendere positivo il lavoro compiuto dal sistema e negativo quello compiuto sul sistema.
Questo principio, facendone parte integrante, ha convissuto col principio di conservazione dell’energia meccanica:
l’energia meccanica di un sistema si conserva se il sistema è isolato (se la somma delle forze esterne è nulla) e se nel
sistema non agiscono forze d’attrito.
Pensiamo ad una sfera o a un disco lanciati con grande velocità iniziale su un piano orizzontale liscio e lunghissimo.
All’inizio il corpo lanciato possiede energia cinetica, che si conserverebbe se tra il corpo ed il piano non vi fosse alcun
attrito (esperimento mentale di Galileo).
Figura 2.4 Carrello spinto su una rotaia a cuscino d'aria
In realtà, per quanto minimizzabile, una forza d’attrito c’è sempre e, quindi, il corpo finirà per fermarsi.
Anche se evidentemente corpo e piano si sono riscaldati, per l’azione reciproca della forza d’attrito, a corpo fermo
l’energia meccanica (cinetica) iniziale è scomparsa.
Il calore era allora immaginato come un fluido contenuto nei corpi, che potesse passare da un corpo all’altro, ma che,
come per ogni altro fluido, non se ne potesse cambiare la quantità totale.
La dimostrazione (di Joule) che il calore era una forma di energia cambiò la situazione. Se era una forma di energia,
allora il calore poteva trasformarsi in un’altra forma di energia o un altro tipo di energia poteva diventare calore. La quantità
totale di calore, dunque, non era predeterminata ma poteva cambiare.
Questo è quanto avvenuto nel caso del corpo lanciato, la cui energia meccanica si è trasformata in calore, un calore che
prima non esisteva.
Ecco allora che il principio di conservazione dell’energia meccanica si trasformava: non c’era bisogno di evitare le forze
d’attrito e la conservazione si estendeva dalla sola energia meccanica all’energia generalizzata.
In sintesi matematica il principio generalizzato di conservazione dell’energia afferma che: ∆E = Q - L
È implicito che, in questo modo di scrivere, oltre ad intendere positivo il lavoro se fatto dal sistema e negativo se fatto
sul sistema, si intende positivo il calore che entra nel sistema e negativo quello che ne esce.
29
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Il principio generalizzato di conservazione dell’energia, contenendo il calore nell’enunciato, è anche noto come primo
principio della termodinamica.
n
2.3 - CONDIZIONI DI LAVORO E TERMINOLOGIA TERMODINAMICA
Il modo migliore per avvicinarsi alla termodinamica è quello di realizzare (idealmente)
degli esperimenti su un sistema termodinamico e studiarne le conseguenze.
Il sistema termodinamico a cui faremo riferimento consiste in un gas, che supporremo
comportarsi come un gas perfetto, contenuto in un recipiente cilindrico con area di
base S. Questo sistema ci consentirà di comprendere sia il funzionamento di una
macchina termica, sia concetti, leggi e conseguenze teoriche della termodinamica.
Il gas nel contenitore costituisce un sistema chiuso, dato che non può entrarci nuova
materia, né uscirne. In realtà tutte le macchine termiche sono sistemi aperti, con
ricambio di materia, cionondimeno, quanto capiremo essere valido per il nostro
sistema chiuso, è poi facilmente estensibile ai sistemi aperti.
Il recipiente cilindrico (nel seguito solo cilindro) ha le pareti laterali costituite da
materiale termicamente isolante e dello stesso materiale è costituito il pistone che
sovrasta il gas. Il calore può entrare o uscire dal sistema solo attraverso la base,
poggiata su una piastra termicamente conduttrice, che si immagina molto grande in
maniera che la piccola quantità di calore che scambia con il gas non alteri per nulla
la sua temperatura.
Nei casi in cui anche la base sarà termicamente isolante, diremo che il sistema è in Figura 2.5 Sistema termodinamico
situazione adiabatica (Q=0).
Se il gas nel cilindro è a riposo (il pistone è fermo) e non scambia calore con l’esterno
da molto tempo, la pressione del gas e la sua temperatura, che all’inizio potevano
avere valori diversi nei diversi punti del gas, hanno avuto modo di uniformarsi e lo
stato del sistema è determinato dalla terna P, V, T: vale a dire il volume, un valore
unico di pressione e un valore unico di temperatura.
Alla terna precedente, sufficiente a individuare lo stato del sistema nell’ipotesi che sia
presente una mole di gas, occorre aggiungere la quantità di materia n (numero di moli)
quando ve ne sia presente una quantità generica.
“Pistone fermo” vuol dire che il suo peso (FPP), sommato alla forza della pressione
atmosferica (FPA ), è esattamente equilibrato dalle forze di pressione (FPG = P · S)) che
il gas esercita sulla parete interna del pistone: FPP +FPA = - FPG
Se il gas non scambia calore con l’esterno vorrà dire che la sua temperatura è identica
a quella della piastra, oppure che anche la base del cilindro è termicamente isolante
(situazione adiabatica).
Figura 2.6 Sistema in equilibrio
termodinamico
Nello stato descritto, diremo che il nostro sistema fisico è:
- in equilibrio meccanico, giacché le forze si equilibrano ed il sistema è fermo;
- in equilibrio chimico, perché supponiamo che nel gas non avvengano reazioni chimiche;
- in equilibrio termico, dato che non avviene scambio di calore né tra il gas e l’ambiente esterno, né all’interno
del gas, dal momento che la temperatura è uguale dovunque.
A queste condizioni si dice che il sistema è in equilibrio termodinamico.
30
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n
2.4 - TRASFORMAZIONI QUASISTATICHE E REVERSIBILI
Quando nel sistema in equilibrio entra del calore o ne esce (si è spostato il cilindro su una piastra a temperatura più alta
o più bassa), il sistema smette di essere in equilibrio perché la temperatura del gas cambia prima nella parte più vicina
alla piastra per poi estendersi a tutto il resto. E lo stesso vale per la pressione, strettamente legata alla temperatura.
Dopo un po’ anche la forza di pressione sullo stantuffo cambia e lo stantuffo si muove: sale, se il calore è entrato nel
sistema, perché la temperatura aumenta, quindi aumenta l’energia cinetica media con cui si muovono le molecole di
gas e, di conseguenza, gli urti contro le pareti sono più energetici (e questo corrisponde ad un aumento di pressione),
scende in caso contrario.
L’equilibrio è rotto anche dall’intervento di forze esterne che premano sul pistone o lo tirino verso l’alto. In questo caso
r r
il pistone scende o sale e, dato che esercita una forza sul gas, compie su di esso lavoro positivo o negativo L = F · s.
Il lavoro subito (lo spostamento del pistone) cambia il volume del gas, ne cambia l’energia e cambiano di conseguenza
temperatura e pressione.
Figura 2.7 Passaggio di calore in una trasformazione quasistatica
Figura 2.8 Il gas compie lavoro sul pistone
Noi però abbiamo bisogno di sapere il sistema in continuo stato di equilibrio, perché solo in quel caso gli si può applicare
l’equazione di stato dei gas perfetti PV = nRT che prevede valori unici di pressione, volume e temperatura.
È per tutto questo che immagineremo di realizzare trasformazioni quasistatiche.
Una trasformazione è quasistatica se il calore entra o esce con estrema lentezza, cosa realizzabile non spostando il
cilindro direttamente dalla piastra con temperatura iniziale a quella con temperatura finale, bensì spostandolo un numero
grandissimo di volte su piastre a temperature intermedie ed il tutto realizzato in tempi molto molto lunghi. In tal modo il
calore fluirà con estrema lentezza nel sistema (o dal sistema) che, perciò, non si sposterà mai di molto dallo stato di
equilibrio.
Una trasformazione è quasistatica se il sistema compie o subisce del lavoro con estrema lentezza, se cioè con estrema
lentezza si muove il pistone. Questo, che si può realizzare avendo la pazienza “biblica” di aggiungere o togliere qualche
granello di sabbia per volta, consente di pensare che le forze agenti sul pistone siano sempre equilibrate (o quasi).
Ci occuperemo, perciò, di trasformazioni in cui gli scambi di calore e le quantità di lavoro siano estremamente piccoli e
realizzati con estrema lentezza. Questo ci consentirà di immaginare che il sistema durante la trasformazione passi da
uno stato di equilibrio ad un altro e potremo, quindi, applicare l’equazione di stato in ogni istante. Per di più un gas che
compia una trasformazione attraversando stati di equilibrio, si può farlo tornare sui suoi passi, vale a dire percorrere la
trasformazione in senso opposto e, quando questo avviene, si dice che si tratta di una trasformazione reversibile.
Si capisce bene che una trasformazione può essere solo “artificialmente” reversibile.
Tutte le trasformazioni che avvengono in natura sono inevitabilmente irreversibili e irreversibile è anche ogni
trasformazione che avviene negli esperimenti di laboratorio e nelle macchine termiche reali, per il semplice fatto che tali
trasformazioni, anche quando molto lente, sono sempre eccessivamente rapide.
31
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n
2.5 - CALCOLO DI LAVORO E CALORE
2.5.1 LAVORO
Quando un pistone si sposta, variando l’altezza di un cilindro gassoso, viene compiuto del lavoro (positivo o negativo).
Dalla definizione di lavoro, per un lavoro infinitesimo possiamo allora scrivere:
dL = F · ds = P · S · dh = PdV
in cui si sostituisce allo spostamento la variazione d’altezza (ds = dh), alla forza esercitata dal gas il prodotto pressione
per superficie (F = P · S) ed infine al prodotto sezione per variazione d’altezza la variazione di volume (S · dh = dV).
In conclusione, il lavoro infinitesimo è sempre uguale a: dL =P · dV.
Mentre viene compiuto lavoro sul gas, la pressione può rimanere costante oppure variare.
Figura 2.9 Lavoro a pressione costante
Figura 2.10 Lavoro con variazione di pressione
Ora, se durante l’intero lavoro la pressione
rimane costante, sommare tutti gli infinitesimi
lavori porta a: L = P · ∆V. Il lavoro è dato dal
prodotto tra la pressione, sempre uguale, e
la variazione macroscopica di volume. Se
invece durante il lavoro la pressione cambia,
sommando tutti gli infinitesimi lavori
dL = P · dV, occorre tenere conto che ad
ognuno di essi compete una diversa
pressione. Questa operazione viene detta
“fare la somma integrale” o, semplicemente,
“fare l’integrale” di dL = P · dV e si scrive nel
seguente modo: L = ∫P · dV
Non è qui il caso di approfondire questo
concetto matematico, basti sapere che la
risoluzione è piuttosto facile.
2.5.2 CALORE
Q
Q
. Per cominciare è opportuno ridefinirlo come: Cm =
m∆T
n∆T
chiamato calore specifico molare: il calore necessario a variare di 1K la temperatura di una mole di sostanza (invece di
1kg di sostanza).
La ragione di questa opportunità consiste nel fatto che mentre il calore specifico ha una grande variabilità da sostanza a
sostanza, il calore molare varia in maniera trascurabile (da sostanza a sostanza). Evidentemente è il numero delle molecole
che conta (1mole di qualunque sostanza contiene lo stesso numero di Avogadro di molecole) quando il calore si trasforma
Ricordiamo la definizione di calore specifico: Cs =
32
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in energia cinetica, non la loro massa.
Riscriviamo allora la legge fondamentale della termologia nella forma: Q = ncm∆T .
Questa forma è applicabile ai solidi e ai liquidi perché hanno un solo valore del calore specifico.
Calore specifico
molare
(J mol-1 K-1)
Sostanza
Simbolo
Calore specifico
(J kg-1 K-1)
Piombo
Pb
128
26,5
Argento
Ag
236
24,8
Rame
Cu
386
24,5
Alluminio
Al
900
24,4
I liquidi, a causa della loro specificità, possono
assorbire il calore in due modi diversi: a
volume costante o a pressione costante.
Mentre nel primo caso, non variando il
volume, quindi essendo nullo il lavoro, tutto il
calore contribuisce all’aumento della
temperatura, nel secondo caso una parte del
calore si trasforma in lavoro e non
contribuisce all’aumento di temperatura.
Capiamo da qui che, per avere la stessa
variazione dT, a pressione costante è
necessario fornire più calore che a volume
costante.
Tabella 2.1 Calori specifici e calori molari
Conseguenza di questo fenomeno è che i gas presentano due valori per il calore molare: CV calore molare a volume
costante e CP calore molare a pressione costante.
Affermiamo, senza dimostrarlo (per brevità) che:
3
➢
se il gas è monoatomico si ha: CV =
R
2
➢
se il gas è biatomico si ha: CV =
5
R
2
e
e
CV =
CP =
5
R.
2
7
R.
2
Notiamo infine che, in entrambi i casi: CP - CV = R.
Capito questo, sappiamo come calcolare il calore scambiato in una trasformazione isocora: Q = ncV ∆T
e in una trasformazione isobara: Q = ncP ∆T.
É molto importante ricordare che ∆E = ncV ∆T. Questa affermazione, immediatamente comprensibile per una
trasformazione isocora (∆V = 0
L=0
∆E = Q = ncV ∆T), è anche valida in qualunque altra trasformazione.
SINTESI
Approssimandoci a studiare le varie trasformazioni termodinamiche e i loro effetti sul gas, facciamo la sintesi degli strumenti
a nostra disposizione.
- La relazione appena studiata: ∆E = ncV ∆T
ci consente di conoscere la variazione di energia del sistema, conoscendo semplicemente la variazione di temperatura. E
viceversa.
- L’ equazione di stato dei gas perfetti: PV = nRT
ci consente, nota la quantità di gas, di determinare una delle tre variabili, quando si conoscano le altre due.
Possiamo perciò rappresentare graficamente lo stato, o i successivi stati di un gas, in un piano cartesiano P,V, chiamato
piano di Clapeiron.
33
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Ogni punto del piano ci dà l’informazione di pressione e volume e da
questi possiamo ricavare la temperatura.
- Il primo principio della termodinamica: ∆E = Q - L
Questa relazione diventa:
➢ ∆E = 0 in una trasformazione in cui non cambi la temperatura
(isoterma), dato che l’energia del gas perfetto è solo cinetica e la
temperatura vi è strettamente legata;
➢ ∆E = – L quando non c’è scambio di calore (trasformazione
adiabatica);
Figura 2.11 Piano di Clapeiron
➢ ∆E = Q quando il lavoro è nullo (trasformazione isocora).
Infine ricordiamo che, grazie al primo principio ∆E = Q - L , si può sempre calcolare uno dei fattori, conoscendo gli
altri due.
- Calore a volume costante: QV = ncV∆T
- Calore a pressione costante: QP = ncP∆T
- Lavoro a pressione costante: L = P · ∆V
- Lavoro per trasformazione generica: L = ∫P · dV
n
2.6 - TRASFORMAZIONI TERMODINAMICHE
2.6.1 TRASFORMAZIONE ISOBARA
Figura 2.12 Trasformazione isobara e relazioni termodinamiche
In una trasformazione isobara la pressione rimane costante e il lavoro vale: L = P∆V.
Come si nota dalla figura il lavoro corrisponde all’area tratteggiata e questa relazione vale in generale; quindi, per ogni
trasformazione, il lavoro compiuto sul gas equivale all’area coperta dalla trasformazione nel piano di Clapeiron ed è
34
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positivo se la trasformazione sposta lo stato del sistema verso destra (espansione), negativo in caos contrario
(compressione).
Il calore vale: QP = ncP∆T
ed entra nel sistema se la trasformazione va da sinistra a destra, esce dal sistema da destra a sinistra e questo significa
che spostandosi orizzontalmente verso destra si attraversano stati a temperatura crescente, verso sinistra decrescente.
2.6.2 TRASORMAZIONE ISOCORA
Figura 2.12 Trasformazione isobara e relazioni termodinamiche
In una trasformazione isocora il volume rimane costante, quindi il lavoro è nullo: L = ∫P · dV = 0,
come nulla è l’area coperta dalla trasformazione nel piano di Clapeiron.
Il calore vale: QV = ncV∆T
ed è uguale alla variazione di energia, inoltre entra nel sistema spostandosi verso l’alto, esce dal sistema spostandosi
verso il basso.
Di conseguenza possiamo affermare che la temperatura spostandosi verticalmente nel piano di Clapeiron, aumenta se
si sale, diminuisce se si scende.
2.6.3 TRASFORMAZIONE ISOTERMA
In una trasformazione isoterma la temperatura non varia e, di conseguenza, non varia l’energia: ∆T = 0
∆E = 0
Dal primo principio della termodinamica ricaviamo Q = L e si ottiene il lavoro risolvendo l’integrale:
V
L = ∫PdV = nRT in f .
V
Quando si tratta di una espansione isotermica (ci si muove verso destra), il volume finale è maggiore di quello iniziale e
lavoro e calore sono positivi; in una compressione isotermica lavoro e calore sono negativi.
K
Le isoterme sono tratti di curva iperbolica, come si può desumere dalla formula che le rappresenta P =
.
V
35
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Figura 2.14 Trasformazione isoterma e relazioni termodinamiche
Se in un piano di Clapeiron sono rappresentate più isoterme la temperatura di ciascuna cresce spostandosi verso
l’alto o verso destra:
Figura 2.15 Isoterme a diversa temperatura
36
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2.6.4 TRASFORMAZIONE ADIABATICA
Figura 2.16 Trasformazione adiabatica e relazioni termodinamiche
In una trasformazione adiabatica il sistema è termicamente isolato, non c’è scambio termico e quindi:
Q=0
∆E = – L.
Quando si tratta di una espansione adiabatica il lavoro è positivo, quindi la variazione di energia è negativa (la temperatura
diminuisce). In una compressione adiabatica avviene il contrario.
A ben guardare seguendo la via di una trasformazione isoterma si scende (diminuzione di temperatura) tanto quanto si
va verso destra (aumento di temperatura) e la temperatura rimane costante. In una adiabatica, che è verticalmente più
pendente, in una espansione si scende più di quanto si vada verso destra e la temperatura (e l’energia) diminuisce, il
contrario se si tratta di una compressione.
Si potrebbe dimostrare un’altra relazione importante, valida per la sola trasformazione adiabatica:
C
PV g = Kost con g = p .
CV
Applicata allo stato iniziale e finale di una trasformazione adiabatica diventa: P0P0g = PƒVƒg.
2.6.5 TRASFORMAZIONE CICLICA
Si dice ciclica una qualunque trasformazione che, dopo vari passaggi, riporta il gas allo stato iniziale. Dato che il gas si
ritrova nelle condizioni di partenza, quindi alla stessa temperatura (ed energia), per questa trasformazione vale:
∆E = 0
Q = L.
Il lavoro totale compiuto dal gas è pari alla somma algebrica dei calori scambiati dal sistema e, nel piano di Clapeiron,
corrisponde all’area compresa all’interno della trasformazione.
Se il gas percorre la trasformazione ciclica in senso orario, il lavoro compiuto sarà positivo, o, meglio, nel sistema è entrato
del calore che il gas ha trasformato in lavoro.
Se il percorso è in senso antiorario il lavoro e il calore scambiato risultano negativi, come dire che è stato compiuto
dall’esterno lavoro sul gas, il quale ha poi liberato all’esterno questo eccesso di energia, sotto forma di calore.
37
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Figura 2.17 Trasformazione ciclica
Nella trasformazione in figura, chiamata ciclo di Stirling e formata da due isoterme alternate a due isocore, risulta evidente
che i calori scambiati durante le due trasformazioni isocore sono uguali e di segno contrario, dato che le variazioni di
temperatura sono uguali e contrarie. Quindi il lavoro è dato dalla differenza tra il calore scambiato nella prima isoterma e
quello scambiato nella seconda isoterma.
Se il percorso è in senso orario, come generalmente accade, si ha: L = QAB – QCD = nRT(T2 –T1)
e il lavoro (positivo) sarà stato compiuto dal gas, in senso antiorario sarà stato compiuto sul gas.
n
2.7 - MACCHINA TERMICA E RENDIMENTO
Il termine generico macchina indica un qualunque apparato, dal più semplice al più complesso, costruito per realizzare un
particolare tipo di lavoro: un elevatore usa l’energia chimica del carburante per sollevare dei pesi, un trapano usa l’energia
elettrica della rete per realizzare dei fori, una radio usa l’energia elettrica per emettere suoni, un phon portatile usa l’energia
chimica delle pile per sparare aria calda.
Una macchina generica è rappresentabile secondo il semplice schema:
Figura 2.18 Schema semplificato di una macchina
Risulta evidente che, qualunque sia lo scopo costruttivo della macchina, è necessario introdurre un tipo di energia per
ottenere energia di tipo diverso. Inevitabilmente, però, accade che la quantità di energia utile (Eu energia in uscita) sia inferiore
all’energia introdotta nella macchina (Ee in entrata). Questo accade perché in ogni macchina deve realizzarsi qualche tipo
di movimento e gli attriti, per quanto riducibili, sono inevitabili. Di conseguenza una parte dell’energia in entrata (Ei energia
inutilizzata) viene sprecata rispetto allo scopo che si vuole raggiungere.
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Eu
.
Ee
Il rendimento, quindi, rappresenta la frazione di energia che la macchina utilizza per raggiungere lo scopo.
E
Il rendimento ideale varrebbe perciò: h = u = 1,
Ee
caso nel quale l’intera energia immessa è trasformata in energia utile e non vi sarebbe energia sprecata.
Seppure il rendimento unitario sia di fatto irraggiungibile, si può, con vari accorgimenti tecnici, cercare di minimizzare l’energia
sprecata. Molte macchine raggiungono un rendimento molto vicino all’unità.
L’indice di efficienza di una macchina viene chiamato rendimento ed è definito come: h =
Una macchina termica è una macchina che utilizza la ripetizione continua di una trasformazione ciclica di un gas per ottenere
lavoro: i motori a caldaia dei vecchi treni a vapore e delle navi a vapore, i motori a scoppio utilizzati per mille diversi scopi
ne sono degli esempi.
In una macchina termica l’energia entra sotto forma di calore per uscirne come movimento rotatorio (lavoro), utilizzabile per
lo scopo da raggiungere: far girare le ruote di un’automobile, la punta di un trapano, una turbina per la produzione di energia
elettrica, ecc.
L
E
Il rendimento di una macchina termica perciò si può scrivere come: h = u =
Ee
Qe
e tenendo conto che, in una trasformazione ciclica, il lavoro è pari alla differenza tra il calore entrato e quello uscito
Q
L
Q – Qu
(L = Qe – Qu), perveniamo alla formula: h =
= e
= 1– u .
Qe
Qe
Qe
Si comprende, quindi, che, per massimizzare il rendimento, occorre minimizzare il calore uscito dal sistema durante la
trasformazione ciclica.
n
2.8 - CICLO DI CARNOT E RENDIMENTO MASSIMO
In una trasformazione ciclica, la macchina termica lavora con due sorgenti di calore: c’è la sorgente calda, da cui il calore
entra nella macchina e la sorgente fredda, alla quale viene rilasciato il calore non utilizzato.
Il francese Sadi Carnot, negli anni venti dell’800, ideò una trasformazione ciclica (o macchina termica) e dimostrò che
nessuna macchina reale, che lavorasse tra le stesse sorgenti di calore, poteva avere un rendimento maggiore.
Il ciclo di Carnot consiste in due isoterme alternate a due adiabatiche. Il calore entra nella macchina attraverso la isoterma
a temperatura superiore e, la parte non trasformata in lavoro, esce attraverso la isoterma a temperatura inferiore.
Figura 2.19 Ciclo di Carnot
39
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Il rendimento di questa macchina perciò vale:
e si dimostra facilmente che: h = 1 –
T2
T1
con T2 temperatura della sorgente fredda e T1 temperatura della sorgente calda.
Da tutto questo si trae che, per una macchina che lavora tra le temperature T1 e T2, il rendimento massimo realizzabile
(e solo da una macchina ideale) vale:
T
hmax = 1 – 2
T1
Se, allora, per una macchina generica si può pensare di avvicinare il rendimento all’unità, sforzandosi di diminuire il più
possibile attriti e sprechi, questo non vale per una macchina termica, per la quale gli stessi sforzi avvicinerebbero il
T
rendimento a hmax = 1 – 2 e non all’unità.
T1
n
2.9 - MOTORE A SCOPPIO
In particolare il motore a scoppio, o a combustione interna, è una
macchina termica a sistema aperto, vale a dire che la materia al suo
interno viene continuamente rinnovata. Consiste, semplificando, in
una camera (il cilindro) con pistone scorrevole, con degli sfiati
superiori protetti da valvole.
La prima fase del ciclo (aspirazione) è quella in cui il pistone scende
richiamando nella camera una miscela di aria e combustibile (benzina
o gas).
Il pistone risale comprimendo la miscela esplosiva (seconda fase:
compressione) e nel punto di massima compressione la candela fa
scoccare una scintilla che innesca l’esplosione della miscela (terza
fase: esplosione ed espansione).
Figura 2.20 Motore a scoppio in sezione
http://www.inftub.com/tecnica/tecnologia/Il-motore-ascoppio-COME-FUNZI62621.php
Il pistone è rimandato violentemente in basso, producendo
energia di movimento lineare che, attraverso la biella,
diventa movimento rotatorio dell’albero motore. La forte
spinta dell’esplosione fa in modo che il pistone non si fermi
nella parte bassa della camera ma risalga spingendo fuori,
attraverso gli sfiati superiori, i gas combusti (quarta fase:
scarico).
Il motore è, quindi, pronto per il ciclo successivo.
Figura 2.21 Fasi di un motore a scoppio
La generalità delle macchine termiche oggi utilizzate sono
http://www.inftub.com/tecnica/tecnologia/
a sistema aperto e a combustione interna.
Il-motore-a-scoppio-COME-FUNZI62621.php
Questo significa che, mentre la sorgente di calore primaria
è determinata dalla trasformazione di energia chimica (o nucleare) in energia termica, attraverso una combustione (alta
temperatura), i prodotti di scarto, contenenti ancora del calore, vengono rilasciati nell’ambiente (temperatura bassa).
L’ambiente è, quindi, la sorgente fredda delle macchine termiche teoriche.
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
n
2.10 - SECONDO PRINCIPIO DELLA TERMODINAMICA
Il rendimento massimo di una macchina termica ideale vale:
T
Q
hmax = 1 – u = 1 – 2 .
Qe
T1
Per rendere alto il rendimento occorre rendere piccola la quantità di calore rilasciata in ogni ciclo, ma è possibile non
rilasciare affatto del calore?
T
Qu
Dalla precedente uguaglianza possiamo scrivere:
= 2
Qe
T1
da cui è evidente che per rendere nulli i due rapporti dovrebbero azzerarsi i numeratori Qu = T2 = 0.
Come però sappiamo, la temperatura assoluta non può azzerarsi, quindi, non si può in alcun modo realizzare un ciclo in
cui sia nulla la quantità di calore rilasciata. Peraltro, come abbiamo visto, generalmente la sorgente fredda è l’ambiente,
con la sua temperatura. Se si volesse diminuire la temperatura della sorgente fredda occorrerebbe spendere energia per
raffreddarla, e il rendimento non ne trarrebbe vantaggio.
Sembrava che, presa una certa quantità di calore, se ne potesse trasformare in lavoro solo una parte, quella restante
dovendo essere rilasciata nell’ambiente. Dietro questo ragionamento c’è una domanda che assillò gli studiosi dei fenomeni
termici della prima metà dell’800.
Ogni forma di energia, che non sia quella termica (energia chimica, meccanica, nucleare), può essere trasformata
interamente in altra forma di energia o in lavoro; ci domandiamo: possibile che questo non valga per l’energia termica? Ed
in qualche modo legata a questa, c’è un’altra domanda di estremo interesse: si può sfruttare l’immensa quantità di calore
immagazzinata nell’acqua del mare per produrre lavoro utile?
Lo sviluppo teorico della termodinamica aveva portato, con disillusione di tutti, a dare una risposta negativa ad entrambe
le domande, rilevando un impedimento insito nella natura del calore.
Ne risultò una legge fisica, nota come secondo principio della termodinamica che fu enunciato in forma diversa, ma
equivalente, da Kelvin e Clausius.
Formulazione di Kelvin:
È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di tutto il calore assorbito da
una sorgente omogenea.
Formulazione di Clausius:
È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno
più caldo.
Per la corretta interpretazione dei due enunciati è necessario porre l’attenzione sull’espressione unico risultato.
In una trasformazione isoterma, il calore assorbito da una sorgente omogenea è trasformato interamente in calore, ma non
è l’unico risultato, visto che lo stato finale del gas non coincide con quello iniziale.
Un frigorifero è una macchina termica (a ciclo antiorario) che toglie calore a corpi più freddi (i cibi all’interno) e lo cede a un
corpo più caldo (l’ambiente), ma non è l’unico risultato, visto che è stato necessario consumare dell’energia presa da
un’altra fonte (la rete elettrica) per realizzare il passaggio.
Attenzione:
➢
alla domanda: “può passare calore da un corpo più freddo ad uno più caldo?”, occorre rispondere “no”;
➢
alla domanda: “si può far passare calore da un corpo più freddo ad uno più caldo?” occorre rispondere“si”.
(Si pensi, appunto, a quello che accade nel frigorifero).
Il secondo principio della termodinamica, oltre a sancire l’impedimento esistente in natura di trasformare in lavoro un’intera
quantità di calore (senza rilasciarne una parte), mise una croce definitiva sull’illusione che, con il progresso tecnologico,
41
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
sarebbe stato possibile costruire navi che, per viaggiare, utilizzassero il calore dell’acqua del mare o di aerei che, per volare,
potessero sottrarre calore all’aria attraversata. Entrambe le cose sono impossibili per la semplice ragione che la temperatura
di una nave e quella di un aereo sono superiori (per la presenza all’interno di varie sorgenti di calore) a quella dell’acqua e
dell’aria.
n
2.11 - VARIABILI DI STATO, FUNZIONI DI STATO ED ENTROPIA
Nota la quantità di materia di un gas, le grandezze
macroscopiche pressione, volume e temperatura ne
determinano in maniera univoca lo stato termodinamico. Non
esiste nessuno stato diverso dal primo che ne abbia la stessa
terna di valori. Per questa ragione vengono chiamate variabili
di stato o grandezze di stato.
Ci sono poi grandezze che dipendono dalle variabili di stato, e
vengono chiamate funzioni di stato, se il loro valore è
univocamente determinabile una volta conosciuto lo stato
(P,V,T) o, che è la stessa cosa, se la loro variazione in una
qualunque trasformazione dipende solo dal punto iniziale e da
quello finale.
Per capire meglio pensiamo all’energia interna di un gas
(perfetto). L’energia interna è solo cinetica e l’energia cinetica
media è legata alla temperatura dalla relazione:
Figura 2.22 Uno stato termodinamico nel piano
di Clapeiron
quindi, se è nota la temperatura, il valore dell’energia interna è univocamente determinato.
Se viene realizzata una qualunque trasformazione, sappiamo che la variazione di energia si trova come: ∆E = ncV (Tƒ – Ti)
e questo soddisfa anche la seconda condizione, dato che Tƒ e Ti dipendono solo dallo stato iniziale e da quello finale.
Lo stesso ragionamento non vale per il calore e per il lavoro. Intanto, calore e lavoro non sono grandezze associabili ad uno
stato, ma grandezze di scambio; si
realizzano, cioè, nel corso di una
trasformazione. Né vale la seconda
condizione dato che, come sappiamo,
un gas può spostarsi da uno stato A ad
uno stato B in vari modi, ma la quantità
di entrambe le grandezze varia tra un
modo ed un altro.
Ce ne rendiamo conto guardando
l’esempio riportato in figura.
Il sistema passa dallo stato A allo stato
B attraverso due percorsi diversi: quello
blu, consistente in una trasformazione
isoterma e quello rosso, consistente in
una isobara seguita da una isocora.
Si può verificare, con semplici calcoli,
che nei due percorsi varia sia la quantità
di calore scambiato, sia il lavoro
compiuto.
42
Figura 2.23 Calore e lavoro attraverso due cammini diversi
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Esiste un’altra grandezza, oltre all’energia interna,
che è funzione di stato di un sistema gassoso.
Pensiamo ad una trasformazione isoterma. Se si
tratta di una espansione, nel gas entra del calore
a temperatura costante.
Il rapporto:
ha un valore univoco e dipendente solo dallo stato
iniziale e da quello finale.
In ogni altra trasformazione la temperatura è
variabile e T non ha un unico valore. Ma se si
frammenta la trasformazione in tratti piccolissimi,
in ciascuno di essi la temperatura può
approssimativamente considerarsi unica e
determinata e questa approssimazione
si
avvicina alla realtà tanto più quanto più i tratti sono
piccoli e quindi numerosi.
Figura 2.24 Scambio termico in una isoterma
Sommando allora i contributi
si ottiene
se il numero di divisioni è un numero finito,
se il numero di divisioni
è infinito. In quest’ultimo caso non si tratterebbe di una approssimazione, ma del valore reale.
Si può dimostrare che in ogni trasformazione, così come valeva per la isoterma, la grandezza definita come
ha un
valore che dipende dallo stato iniziale e da quello finale, ma non dal percorso che ha unito i due stati.
Come sappiamo questa è la caratteristica che individua una grandezza funzione di stato; definiamola, allora, in modo da
poterle assegnare un valore unico ad ogni stato, anche se non ci sarà modo di conoscere quel valore, ma solo di calcolarne
la variazione tra uno stato ed un altro:
A questa grandezza si dà il nome di entropia. Ad ogni stato corrisponde un valore unico dell’entropia, ma non ci
occuperemo di come questo valore è calcolabile; ci basterà saper valutare la variazione di entropia tra due stati, come nella
formula di definizione.
In una trasformazione adiabatica reversibile, non essendoci scambio di calore (Q = 0), la variazione di entropia è nulla. Le
trasformazioni adiabatiche reversibili sono perciò isoentropiche
Figura 2.25 Isoterme (curve rosse) e isoentropiche (curve blu)
43
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Questa grandezza, definita nel 1864 da Clausius, mostra caratteristiche estremamente importanti ed estendibili, peraltro,
ad ogni sistema fisico.
Si può dimostrare che, in un sistema isolato, l’entropia può rimanere costante o aumentare, ma non può diminuire: ∆Si ≥ 0
Se il sistema isolato subisce trasformazioni reversibili l’entropia rimane costante: ∆S = 0,
se il sistema isolato subisce una trasformazione irreversibile l’entropia aumenta: ∆S ƒ 0.
In un sistema non isolato l’entropia può diminuire. Per esempio, in un gas che subisce un’espansione isoterma, l’entropia
aumenta:
ma se si tratta di una compressione isoterma la variazione di entropia risulta negativa. Se però consideriamo il sistema
allargato che comprende il gas e l’ambiente esterno da cui proviene il calore e il nuovo sistema è isolato, la sua entropia
può solo aumentare.
Figura 2.26 Variazione di entropia di sistema, laboratorio e dell'insieme, in una trasformazione isoterma
Vuol dire allora che, se in un sistema qualunque (non isolato) l’entropia diminuisce di una certa quantità, l’entropia all’esterno
del sistema aumenta di una quantità uguale o maggiore.
Figura 2.27 Variazione di entropia di sistema, laboratorio e dell'insieme, in una trasformazione isocora
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n
2.12 - CONSIDERAZIONI FINALI
Ecco che una determinazione teorica, derivata dallo studio che ha per obiettivo di rendere più efficienti le macchine termiche,
assume valore universale. Universale perché valida per qualunque sistema fisico e universale in senso letterale, giacché
applicabile all’intero Universo: l’entropia dell’Universo, in quanto sistema isolato e nel quale avvengono solo trasformazioni
irreversibili, aumenta continuamente.
Le considerazioni sulla variazione di entropia dei sistemi fisici, diventano ancora più interessanti, tenendo conto della
successiva associazione all’entropia di una particolare caratteristica dei sistemi.
Con il contributo particolare di Ludwig Boltzmann si pervenne a capire che l’entropia era strettamente legata al grado di
disordine dei sistemi fisici. Il significato fisico di grado di disordine è legato alla quantità di informazione necessaria per
descrivere il sistema. Diremo ordinato un sistema del quale bastano poche informazioni per descriverlo chiaramente,
disordinato se occorre dare molte informazioni.
Con questo concetto di disordine possiamo, quindi, affermare che nell’Universo il disordine cresce continuamente.
In effetti, a ben pensarci, ci vuol poco a descrivere l’Universo primordiale; descrivere l’Universo attuale è enormemente più
complesso.
C’è un’altra associazione importantissima, che oggi si fa, al particolare modo di evolvere dell’entropia.
Le leggi fisiche sono tutte simmetriche rispetto al tempo: valgono se al tempo si danno sia valori positivi che valori negativi.
Cionondimeno, sappiamo che il tempo scorre sempre e soltanto in avanti e questo non ha spiegazione scientifica, a meno
che non si pensi che lo scorrere del tempo sia associato all’aumento dell’entropia.
Il tempo scorre soltanto nella direzione in cui l’entropia dell’Universo aumenta.
RELAZIONI TERMODINAMICHE
Tabella 2.2 Tavola completa delle relazioni termodinamiche
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2.13 - ESERCITAZIONI
Dimostrare che, nel ciclo di Carnot, è:
h= 1 –
46
T
Q2
=1– 2.
Q1
T1
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Trovare il rendimento del ciclo di Stirling
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Risolvere il seguente problema
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Risolvere il seguente problema
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3 STRUTTURA DELLA MATERIA
TEORIA ATOMICA
Figura 3.0 Rappresentazione dell’atomo
http://www.adesso-online.de/in-primo-piano/notizie/nasce-il-gran-sasso-science-institute
Immaginiamo di prendere un campione di varie sostanze comuni: sale da cucina, zucchero, legno, acqua, ferro, oro,
alluminio.
Immaginiamo, ancora, di essere in grado di dividere i campioni in due parti e di gettarne una delle due metà. Questo
dimezzamento, realizzato con una ghigliottina estremamente sottile, può essere ripetuto quante volte si voglia.
Ad un certo punto accadrà che per alcune delle sostanze (ferro, oro, alluminio) giungeremo ad una parte piccolissima
che, con la nostra ideale ghigliottina, non riusciremo più a dividere. Le caratteristiche fisiche e chimiche di questa
piccolissima parte sono le stesse che la sostanza aveva all’origine.
Per le altre sostanze si arriverà ad una piccolissima parte, che mantiene le caratteristiche chimiche e fisiche originali, ma
che, dividendola ulteriormente, perderà queste caratteristiche per cui ci si troverà davanti a più frammenti, ora indivisibili.
Le prime sostanze vengono chiamate sostanze semplici o elementi e le particelle indivisibili che le compongono sono
chiamate atomi (dal greco antico àtomos: indivisibile).
Le altre sostanze vengono chiamate sostanze composte e le particelle di cui sono costituite sono chiamate molecole.
Le molecole, una volta frammentate, mostrano di essere costituite da un insieme di atomi diversi tra loro.
Tutta la materia, quindi, è formata da atomi. In natura esistono 92 sostanze semplici, ciascuna costituita da atomi uguali
fra loro. Gli atomi sono differenti da elemento ad elemento: è come dire che in natura esistono 92 tipi di atomi diversi.
Un aggregato di atomi uguali forma le sostanze semplici; atomi diversi, legati in qualche modo fra loro, formano le
molecole che costituiscono le sostanze composte il cui numero è enormemente grande.
Sarebbe naturale pensare che la teoria atomica della materia è un’acquisizione della scienza moderna e, invece, ha
origini antichissime. I filosofi dell’antica Grecia hanno il merito di essere stati i primi a chiedersi come avvenissero i
51
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
fenomeni naturali. Furono, infatti, i primi a cercare le cause materiali dei fenomeni, svincolandosi dalle precedenti visioni
animistiche o deistiche: le cose non avevano più un anima e un destino e i fulmini non cadevano più perché Zeus era
incavolato.
Presso di loro, l’idea prevalente di come fosse costituita
intimamente la materia, consisteva nell’immaginare che
tutto fosse costituito da un diverso mix di acqua, aria, terra
e fuoco. É importante rendersi conto che, già questo, era
una straordinaria conquista dell’intelletto umano: aver
immaginato che poche sostanze semplici, messe insieme
in varie proporzioni, potessero dar vita alla straordinaria
varietà di sostanze che vediamo intorno a noi.
Intorno al 450 a.c., il filosofo Leucippo ed il suo allievo
Democrito proposero un’idea veramente straordinaria
(visto che gli esseri umani hanno impiegato altri 2500 anni
per esser certi che quell’idea fosse vicinissima alla realtà
della natura): immaginarono, cioè, che tutta la materia
fosse costituita da un piccolo insieme di particelle diverse
tra loro, che mescolate in varie proporzioni formavano le
varie sostanze.
Figura 3.1 Molecole e atomi
http://www.link2universe.net/2012-09-09/alma-scoperte-nellospazio-molecole-di-zucchero-fondamentali-per-la-vita/
Questi semini primordiali differivano tra di loro per forma e dimensioni, ma tutti erano immutabili e indivisibili (da cui il
termine atomo).
Questa straordinaria teoria, che non divenne mai quella dominante, ebbe alterne fortune e finì per scomparire del tutto
durante il medioevo. La ragione principale di questo abbandono risiedeva nella convinzione che mai si sarebbe potuto
dimostrarne la veridicità.
All’inizio dell’800, fu merito di John Dalton la riscoperta e la riedizione di una teoria atomica della materia. Egli, per riuscire
a spiegare le modalità con cui avvenivano le reazioni chimiche e le proporzioni relative tra reagenti e prodotti, arrivò a
concludere che fosse necessario immaginare la materia organizzata secondo questi presupposti:
- Tutta la materia è fatta da particelle microscopiche indistruttibili e indivisibili
chiamate atomi.
- Tutti gli atomi di uno stesso elemento sono identici e hanno uguale massa.
- Gli atomi di un elemento non possono essere convertiti in atomi di altri elementi.
- Gli atomi di un elemento si combinano, per formare un composto, solamente
con numeri interi di atomi di altri elementi.
- Gli atomi non possono essere né creati né distrutti, ma si trasferiscono interi da
un composto ad un altro.
Questa teoria si consolidò nel corso del diciannovesimo secolo, sebbene ancora
all’inizio del ‘900, scienziati di gran nome affermassero che si dovesse fare a meno
degli atomi, giacché non se ne sarebbe mai potuto dimostrare l’esistenza. Ma fu
proprio nei primi anni del ‘900 che si pervenne alla certezza scientifica della loro
realtà.
Figura 3.2 John Dalton 1766-1844
https://the-history-of-the atom.
wikispaces.com/John+Dalton
52
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n
3.1 - STRUTTURA DELL’ATOMO
3.1.1 SCOPERTA DEGLI ELETTRONI
Tra il 1895 e il 1897 furono fatte tre straordinarie scoperte: i raggi X, la radioattività, gli elettroni. In quegli anni si faceva
intensivamente ricerca sul passaggio della corrente nei gas utilizzando tubi a vuoto.
Figura 3.3 Wilhelm Rontgen - J.J. Thomson - Henry Becquerel
http://it.wikipedia.org/wiki
Fu proprio durante questo tipo di esperimenti che Wilhelm Rontgen, nel 1895, scoprì i raggi X e, nel 1897, J.J. Thomson
scoprì i raggi catodici. Nel 1896, Henry Becquerel aveva scoperto casualmente la radioattività.
In tutti i casi si trattava di “raggi” prima sconosciuti.
Per primi vennero i raggi X e lo stesso nome, datogli dallo scopritore, la dice lunga sulla momentanea misteriosità di questi
raggi, che venivano fuori come prodotto non desiderato durante l’utilizzo di tubi a vuoto. Avevano una capacità mai rilevata
prima: attraversavano con facilità molti corpi opachi.
Lo stesso Rontgen, fisico tedesco, si accorse che potevano essere utilizzati nella “quasi magica” operazione di spingere lo
sguardo all’interno dei corpi viventi.
La scoperta della radioattività, da parte del fisico francese Henry Becquerel, è il tipico
caso di serendipity, che nella scienza non è raro. Si intende per serendipity la
scoperta casuale di qualcosa, mentre se ne sta ricercando un’altra. Non si pensi
però che lo scopritore non abbia meriti: se si accorge del nuovo fenomeno vuol dire
che la sua mente era pronta. Nella scienza sono anche comuni i casi di persone
che si trovano davanti a fenomeni nuovi, ma che non li riconoscono come tali.
Becquerel stava studiando il fenomeno della fosforescenza da parte di alcune
sostanze, sali di uranio nel suo caso. La fosforescenza è quel fenomeno per cui una
sostanza, illuminata dalla luce per un certo tempo, mostra di emettere essa stessa
della luce. Becquerel si accorse che delle lastre fotografiche, conservate in un
cassetto assieme ai sali di uranio, risultavano bruciate, anche se ben protette nel
loro involucro. Anche in questo caso c’era qualcosa che riusciva ad attraversare
corpi opachi.
Dal successivo studio di ciò che queste particolari sostanze mostravano di emettere,
vennero fuori tre diversi tipi di raggi che furono chiamati alfa (a), beta (b) e
gamma (g).
Figura 3.4 Radiografia realizzata da
Rontgen
http://it.wikipedia.org/wiki/Raggi_X
53
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Infine, nel 1897 J.J. Thomson si accorse che, creando un forte campo elettrico all’interno di un tubo a vuoto e forando la
piastra positiva, come in figura, all’estremità opposta del tubo, si rilevava un puntino luminoso, segno che qualcosa, partendo
dal polo negativo (catodo) lo stava colpendo. Questi raggi furono chiamati raggi catodici.
Figura 3.5 Radioattività
Figura 3.6 Raggi catodici
https://www.youtube.com/watch?v=NZ4-YJWjZ4s
Non si impiegò molto per accertare che i raggi catodici e i raggi b fossero la stessa cosa: particelle cariche negativamente
che furono chiamate elettroni. I raggi a erano anch’essi costituiti da particelle materiali, molto più massive delle b e
mostravano carica positiva. Per i raggi x e g , che non mostravano le caratteristiche di particelle materiali, occorse più tempo
per capirne la natura. Ne parleremo più avanti.
La cosa importante, ai fini della nostra storia, era che i raggi b mostravano di avere una enorme quantità di carica in relazione
alla loro massa e se ne poté dedurre che fossero molto più piccoli (in volume e in massa) di quanto non si ritenesse essere
il più piccolo degli atomi.
Era il primo indizio che gli atomi non fossero particelle elementari, che non avessero, cioè, una struttura interna, formata da
particelle ancora più piccole.
3.1.2 MODELLI ATOMICI DI THOMSON, RUTHERFORD E BOHR
Fu lo stesso J.J. Thomson, che aveva battezzato elettroni le particelle che costituivano raggi catodici e raggi b , ad
azzardare la prima ipotesi di struttura dell’atomo. Egli ipotizzò che l’atomo fosse costituito da materiale, a forma sferica,
carico positivamente (il panettone), con all’interno distribuiti gli elettroni (l’uvetta) carichi negativamente. La carica positiva
complessiva della pasta dell’atomo equivaleva a quella degli elettroni al suo interno. Questa ipotesi rimase in piedi dal 1897
al 1911.
In quella data, il neozelandese Ernest Rutherford, uno tra i più grandi
sperimentatori della storia della scienza, realizzò un esperimento che
affossò l’atomo di Thomson. Egli diresse, verso un sottilissimo foglio d’oro,
dei raggi a provenienti da un campione radioattivo. Il modello atomico di
Thomson prevedeva che, all’interno di un atomo, la carica fosse distribuita
in maniera uniforme. Quindi, visto che le particelle a erano molto più piccole
di un atomo, si aspettava che, nonostante fossero cariche positivamente,
non dovessero essere deviate più di tanto. Il risultato dell’esperimento fu
ben diverso. Le particelle, non solo venivano deviate in misura notevole,
ma alcune di esse tornavano addirittura indietro.
Figura 3.7 Modello atomico a panettone di
J.J. Thomson
54
Questo dimostrava agli occhi di Rutherford che, se la carica positiva
all’interno di un atomo era capace di respingere all’indietro una particella
positiva, doveva necessariamente essere localizzata in uno spazio molto
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Figura 3.8 Risultato atteso da Rutherford
Figura 3.9 Risultato dell'esperimento di Rutherford
http://mused.uniroma1.it/lezioni/modelli%20atomici/Rutherfordil
modelloplanetario.html
più piccolo del volume dell’atomo.
Egli, nel 1911, per dare conto di quanto il suo esperimento aveva messo in evidenza, propose per l’atomo un modello
planetario. La carica positiva doveva essere concentrata in uno spazio piccolissimo al centro dell’atomo e il resto del volume
era determinato dagli elettroni in rapida rotazione attorno a questo nucleo centrale: esattamente come accade per il sistema
solare. La rapida rotazione era necessaria perché altrimenti gli elettroni negativi cadrebbero immediatamente sul nucleo
positivo.
Quello di Rutherford fu un atto di coraggio, giacché già era noto un impedimento teorico all’esistenza di una simile struttura
atomica. Quando un elettrone ruota su una circonferenza, trattandosi di un moto accelerato, deve necessariamente emettere
onde elettromagnetiche e le onde elettromagnetiche, pur non essendo particelle materiali (sono prive di massa), contengono
energia. L’elettrone (negativo) di conseguenza dovrebbe perdere rapidamente velocità e finire per cadere con un moto
elicoidale sul nucleo.
A questo impedimento mise mano il grande teorico danese Niels Bohr che, nel 1913 propose il suo modello di atomo.
Il suo modello, oltre a confermare la struttura ipotizzata da Rutherford, precisava che dovevano esistere attorno al nucleo
delle orbite particolari (a distanze particolari dal centro), tali che, gli elettroni che si trovassero a ruotare su quelle orbite, non
emettevano alcuna radiazione elettromagnetica. Gli elettroni, in ciascuna orbita, avevano un preciso valore di energia ed
emettevano onde elettromagnetiche solo quando, per qualche ragione, saltavano da una all’altra di queste orbite speciali.
Figura 3.10 Ernest Rutherford
1871-1936
http://it.wikipedia.org/wiki/Ernes
t_Rutherford
Figura 3.11 Niels Bohr
1885-1962
http://it.wikipedia.org/wiki/Niels_
Bohr
Occorre sapere che le onde elettromagnetiche sono
costituite da particelle (senza massa) chiamate fotoni e
ciascuna ha un’energia legata alla propria particolare
frequenza. Gli elettroni, allora, emettevano un fotone se
passavano da un orbita più esterna (livello di energia
maggiore) ad una più interna (livello di energia inferiore).
L’energia del fotone emesso era pari alla differenza tra
l’energia dell’orbita di partenza e l’energia dell’orbita
d’arrivo. Se invece erano investiti da un’onda
elettromagnetica esterna, gli elettroni potevano saltare da
un’orbita più interna ad una più esterna. Il modello
prevedeva, inoltre, che gli elettroni non potessero assorbire
qualunque tipo di onda elettromagnetica, ma solo quelle i
cui fotoni avessero energia corrispondente alla differenza
di energia tra le orbite.
55
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Normalmente gli elettroni di un atomo occupano i livelli energetici più
interni; quando poi qualcuno di essi è stimolato a saltare su livelli
energetici superiori si dice che l’atomo è eccitato. Nello stato eccitato,
l’atomo non è stabile perciò, prima o poi, l’elettrone si libera
dell’energia in eccesso tornando sulla propria orbita ed emettendo
l’energia di troppo sotto forma di fotone.
É così che i corpi emettono luce: per qualche ragione gli atomi sono
eccitati, per esempio a causa dell’alta temperatura, poi tornando allo
stato naturale (di minima energia) emettono l’energia in eccesso sotto
forma di fotoni di luce (che è un’onda elettromagnetica).
Figura 3.12 Salti orbitali degli elettroni
Quando uno o più elettroni vengono completamente strappati
all’atomo, oppure se momentaneamente l’atomo ha acquisito un
elettrone di troppo, si dice che l’atomo è ionizzato ed in questo caso
non è neutro bensì elettricamente carico positivamente nel primo
caso, negativamente nell’altro.
Il modello atomico di Bohr ebbe grande successo, perché dava perfettamente conto di quanto sperimentalmente si era
imparato negli anni precedenti, proprio in merito all’assorbimento e all’emissione di fotoni da parte della materia.
n
3.2 I MODELLI NELLA SCIENZA
Finora abbiamo parlato di modelli atomici. Verrebbe da pensare che chiamiamo modello un’idea superata, dopo aver
scoperto come stanno in realtà le cose. Non è così; in realtà la conoscenza della natura, e delle leggi che la regolano,
avviene proprio attraverso la costruzione di modelli. I quali modelli, all’aumentare delle conoscenze, sia sperimentali, sia
teoriche, vengono via via affinati o sostituiti da nuovi modelli e questo avviene quando quello nuovo dà spiegazione di
fenomeni, prima sconosciuti o semplicemente non spiegabili col vecchio.
Gli scienziati sanno bene che, il modello in vigore nella propria generazione, non è quello definitivo, rimarrà in vigore fino a
quando riuscirà a spiegare tutti i fenomeni noti. Poi si passerà al nuovo modello.
Questo non deve far pensare che la scienza non asserisca mai cose vere, visto che un modello successivo dice verità
diverse da quello precedente. Ogni nuovo modello infatti, non cambia in modo significativo i risultati ottenibili col modello
precedente, nella gran parte dei casi i nuovi risultati giungono solo ad un livello di precisione superiore, sono veri, per così
dire per un maggior numero di cifre decimali.
Chiariamo questo concetto con degli esempi.
La teoria della gravitazione universale di Newton, della
metà del ‘600, è stata sostituita dalla teoria della relatività
generale di Einstein, del 1916.
La teoria di Newton funzionava perfettamente bene per
spiegare tutti i fenomeni noti del sistema solare. Tutti meno
due, in realtà. Con la legge della gravitazione universale non
si riusciva a spiegare un’apparente ritardo nell’apparizione dei
satelliti di Giove, quando passavano dietro al gigante gassoso
e non si riusciva a capire come mai l’orbita di Mercurio non
fosse un’ellisse perfettamente chiusa, come accadeva per gli
altri pianeti.
56
Figura 3.13 Precessione del perielio di Mercurio
http://www.treccani.it/enciclopedia/gravitazione_%28
Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
La teoria della relatività generale, spiega questi fenomeni e consente di studiare aggregati di materia enormemente grandi
come le galassie, gli ammassi di galassie e l’Universo intero. Per quanto riguarda, però, i fenomeni che accadono a livello
planetario, non ne migliora i calcoli in maniera significativa, né consente di fare previsioni molto più precise di quanto
consentito dalla legge di Newton. Tant’è vero che, essendo la legge della gravitazione universale, molto più semplice a
livello matematico, della teoria della relatività, nei computer che regolano e controllano i voli delle sonde
interplanetarie viene implementata proprio la gravità newtoniana.
Altro esempio. Il modello atomico attualmente in vigore non è quello di Bohr e nemmeno una versione aggiornata di quel
modello. Negli anni 20/30 del novecento si pervenne ad un modello chiamato “teoria ondulatoria della materia”, negli anni
30/40 si studiò la composizione del nucleo, negli anni 50/60 nacque la “teoria dei campi” e la “cromodinamica quantistica”,
per giungere negli anni 60/70 al modello attuale, che ha nome “modello standard della materia-energia”.
I modelli atomici, successivi a quello di Bohr, sono molto complessi ed estremamente matematicizzati; per questa ragione
non ci attarderemo ulteriormente nella loro descrizione, rimandando il loro studio a corsi di fisica superiori al nostro.
In questo corso utilizzeremo un modello ibrido, aggiornando il modello atomico di Bohr con le scoperte sperimentali venute
dopo il 1913 e prendendo a prestito, dalle teorie successive, solo i concetti e i termini che ne facciano un modello completo.
Questo modello sarà in grado di spiegare perfettamente tutti i fenomeni che affronteremo in questo corso e riesce a dare
conto anche di tutti i fenomeni chimici.
Sia di conforto il fatto che il modello aggiornato dell’atomo di Bohr è, comunque, una straordinaria conquista dell’intelletto
umano.
3.2.1 MODELLO DI BOHR AGGIORNATO (IBRIDO)
L’atomo ha forma sferica ed ha una struttura a cipolla. Vale a dire che attorno al nucleo ci sono diversi strati (o gusci)
concentrici via via più distanti. Da uno strato all’altro c’è un salto energetico considerevole. Gli elettroni di uno stesso strato,
si trovano poi su livelli energetici molto vicini, comunque distinti. Nel primo strato, quello più vicino al nucleo, trovano posto
due elettroni, nel secondo otto elettroni, nel terzo diciotto, ecc …
Numero
dello Strato
Lettera
simbolo
Max numero di
elettroni ( )
1
L
2
1
K
8
1
M
18
1
N
32
1
O
50
1
P
72
1
Q
98
Tabella 3.1 Numero di elettroni in ogni strato
Figura 3.14 Modello a cipolla
http://digilander.libero.it/kems/gradienti_Tempo.htm
La somma di tutte le possibilità elettroniche nella colonna a destra fa 280 e non sono riportati tutti gli strati possibili. Come
sappiamo, però, il numero di elettroni dell’atomo più massiccio è 92. Per capire, si pensi ad un grande teatro con 500
posti, ma con solo 92 spettatori. Di norma gli spettatori occupano i posti più vicini al palcoscenico, ma possono intervenire
delle ragioni per cui qualche spettatore decida di occupare momentaneamente un posto più lontano, per poi tornare
rapidamente al proprio posto.
57
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
La figura a lato serve sia per mostrare gli atomi che ci sono in ogni strato,
sia per far capire che il livello energetico degli elettroni (legato al raggio delle
orbite) aumenta di una quantità sempre maggiore mano a mano che si
passa dall’interno verso l’esterno. Essa può risultare, però, assai
ingannevole. Questo perché gli elettroni non viaggiano tutti su un'unica orbita
per strato, come la figura sembrerebbe suggerire; ognuno ha la propria
distinta orbita. Né, in realtà, hanno tutti lo stesso livello energetico, anzi ogni
elettrone ha il suo proprio valore di energia.
Figura 3.15 Atomo a strati
Questa figura giustifica la precedente: rappresentare tutti gli
elettroni con una propria orbita, rischia di creare un’immagine di
grande confusione.
In realtà oggi non si parla di orbite ma di orbitali. La differenza è
sottile. Un’orbita è una traiettoria possibile sulla quale un
elettrone, immaginato come una particella localizzata, può
ruotare, come nelle curve tratteggiate a lato.
Un orbitale è invece la rappresentazione vera e propria
dell’elettrone, che si immagina delocalizzato su una superficie
tridimensionale. Importante sottolineare che, sia che si parli di elettroni in rotazione su delle orbite, sia che si parli di orbitali
atomici, ad ogni elettrone compete, all’interno dell’atomo, un preciso livello energetico.
Il principio detto di aufbau asserisce che, se ad un nucleo nudo, aggiungessimo un elettrone alla volta, fino a pareggiare
carica positiva e carica negativa, ogni elettrone andrebbe via via ad occupare il livello energetico più basso non ancora
occupato.
Figura 3.15 Orbite dei primi due strati
Figura 3.16 Forme degli orbitali http://www.chimicare.org/
58
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Cosa accade quando un elettrone salta da un’orbita all’altra, lo abbiamo già detto; ora è importante parlare della regola
dell’ottetto. Questa regola non vale per tutti gli atomi, ma vale di sicuro per tutti gli elementi più comuni, per tutti quelli che
si incontrano in un corso di chimica e per tutti quelli che compongono le molecole organiche.
Per comprendere questa regola, procediamo come farebbe un ricercatore medico per comprendere la natura di una
malattia: studiare le caratteristiche delle persone che risultano immuni a quella malattia.
Andiamo allora a guardare, su una tavola periodica, il numero atomico (numero di protoni nel nucleo e di elettroni quando
l’atomo è neutro) dei gas nobili e la loro configurazione elettronica. I gas nobili sono gli elementi più stabili in natura ed
hanno la particolare caratteristica di essere refrattari a formare legami chimici, ad unirsi cioè ad altri elementi per formare
molecole.
Elemento
ELIO
(He)
NEON
(Ne)
ARGON
(Ar)
KRIPTON
(Kr)
XENO
(Xe)
RADON
(Rn)
N. Atomico
2
10
18
36
54
86
Configurazione
elettronica
Tabella 3.2 Configurazione elettronica dei gas nobili
Si nota immediatamente che, a parte l’elio che ha solo due elettroni, tutti gli altri hanno 8 elettroni sullo strato più esterno.
Facile concludere che avere otto elettroni sullo strato più esterno è condizione di massima stabilità.
Dato che tutti gli atomi mostrano la tendenza ad assumere la configurazione più stabile possibile, capiamo perché, quando
si uniscono in una molecola, gli atomi che hanno meno di quattro elettroni sullo strato più esterno hanno la disposizione a
liberarsene, quelli che ne hanno più di quattro tendono invece a procurarsene quanti ne mancano a otto. Gli atomi che
hanno quattro elettroni sullo strato più esterno si comportano come i primi in alcuni casi, come i secondi in altri.
n
3.3 - IL NUCLEO ATOMICO
Il nucleo atomico è composto da protoni (carichi positivamente) e neutroni (neutri). Protoni e neutroni hanno in pratica la
stessa massa. L’esistenza dei neutroni fu dimostrata nel 1932 da James Chadwick e questo chiarì il rapporto tra numero
atomico e peso atomico (la massa relativa di un atomo, riferita all’atomo più leggero).
Infitti, prima di allora, pensando che nel nucleo ci fossero solo protoni, risultava chiaro
perché la carica del nucleo fosse un numero intero di volte quella del nucleo dell’idrogeno,
ma non si capiva perché la massa non fosse maggiore lo stesso numero di volte. Ora
diveniva chiaro che la massa in eccesso era costituita da neutroni. Si intenda per massa
in eccesso quella del nucleo meno un numero di masse del nucleo dell’idrogeno pari al
numero atomico. Esempio: Il cloro ha numero atomico 17 e peso atomico 35, la massa
eccedente è 35 – 17 = 18, quindi, nel nucleo del cloro ci sono 17 protoni e 18 neutroni.
Il numero di neutroni, a partire dal litio, terzo elemento, eccede il numero di protoni e
l’eccedenza aumenta sempre di più mano a mano che si procede verso nuclei più pesanti.
Figura 3.17 Atomo con protoni
e neutroni nel nucleo
59
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Se ne comprende la ragione se i pensa che la presenza dei neutroni rende possibile lo sviluppo della forza nucleare. Questa
forza è quella che consente l’esistenza dei nuclei, giacché i protoni, carichi positivamente e vicinissimi, si scambiano una
forza di repulsione molto intensa. La forza nucleare è di attrazione ed essendo ancora più intensa, tiene insieme il nucleo.
Guardando la tavola periodica degli elementi si nota che il peso atomico degli atomi non è quasi mai un numero intero. Per
darcene ragione, ricordiamo che un atomo è caratterizzato dal numero atomico e che di uno stesso elemento esistono vari
isotopi. Si dicono isotopi atomi dello stesso elemento aventi nel nucleo un numero diverso di protoni. Il peso atomico
assegnato ad ogni elemento è la media tra i vari pesi, considerati ciascuno con la propria percentuale di esistenza in natura.
Il modello standard di materia ed energia ha mostrato che protoni e neutroni, contrariamente agli elettroni, non sono particelle
elementari. Essi sono, quindi, costituiti da un insieme di particelle più piccole, esse sì elementari. Queste particelle sono
chiamate quark e in natura ne esistono 2 tipi diversi: quark up e quark down. La teoria ne prevede in tutto sei e tutti e sei
sono stati rilevati in laboratorio. I due nominati sono quelli stabili, gli altri esistono solo per pochi istanti poi decadono in
particelle più leggere.
Il protone è formato da due quark up e un down, il neutrone da due down e un up.
Figura 3.18 Struttura interna di protone e neutrone
http://it.wikipedia.org/wiki/
n
3.4 - QUANTIZZAZIONE DI MATERIA ED ENERGIA
Si dice che qualcosa è quantizzato quando di quel qualcosa non se ne può avere una quantità qualunque. Intanto di quel
qualcosa ne esiste una quantità minima e meno di tanto non è possibile averne. Poi, quantunque se ne prenda, risulterà
essere una quantità multipla della quantità minima.
Si pensi alla sabbia e si pensi che i granelli non siano ulteriormente divisibili. Non si potrà avere una quantità di sabbia
inferiore ad un granello e qualunque quantità (in numero, in massa, in peso) risulterà essere un multiplo intero di granelli di
sabbia.
Come abbiamo visto la materia è quantizzata: di una qualunque sostanza semplice non se ne può avere meno della massa
di un atomo e di una composta non se ne può avere meno della massa di una molecola.
Per entrambe vale poi che una qualunque quantità risulterà avere una massa multiplo intero della quantità minima.
Anche la carica elettrica è quantizzata: il valore minimo è quello della carica di un protone o di un elettrone e qualunque
60
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
quantità di carica ne è un multiplo intero.
Ma non solo la materia è quantizzata, lo è anche l’energia. Approfondire questo argomento sarebbe troppo complesso per
gli obiettivi di questo corso, ricordiamo solo la quantizzazione dell’energia radiante, quella trasportata da una qualunque
onda elettromagnetica (luce, raggi infrarossi, ultravioletti, raggi X, raggi g). Ogni onda elettromagnetica è un insieme di
fotoni e ciascun fotone ha un’energia legata alla propria frequenza. Per ogni frequenza, i fotoni corrispondenti hanno energia
E = hv con h costante universale e v frequenza della radiazione. Non si può avere meno dell’energia di un fotone e una
qualunque radiazione elettromagnetica è formata da un numero intero di fotoni.
Della quantizzazione di materia ed energia non si è stati consapevoli fino al 20° secolo, ma non è difficile capirne la ragione.
Le unità minime di ogni grandezza quantizzata sono eccezionalmente piccole e la sensibilità degli strumenti era di gran
lunga lontana per poterle rilevare e misurarle: c’era la stessa impossibilità pratica che ci sarebbe nel rilevare la quantizzazione
della sabbia utilizzando una bilancia sensibile al quintale.
Grandezza quantizzata
Valore minimo
Massa del protone
1,672 621 71(29) × 10−27 kg
Massa dell’elettrone
9,109 382 6(16) × 10-31 kg
Carica del protone (elettrone)
± 1,602 176 53(14) × 10−19 C
Energia di un fotone
hv (con h=6.626 x 10-34Js e v variabile da 103 m a 10-12m)
Tabella 3.3 Valori minimi delle grandezze quantizzate
61
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
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4 ELETTROSTATICA
n
4.1 - INTRODUZIONE ALL’ELETTROSTATICA
L'ambra, resina fossile tutt'ora usata in oreficeria per la produzione di monili ed al cui interno possono trovarsi intrappolati
dei piccoli insetti, era già nota nell'antica Grecia per la proprietà che aveva, una volta strofinata con un panno di lana, di
attrarre dei piccoli oggetti.
Dato che, in greco antico, l'ambra si chiamava elektron, tale proprietà prese il nome di elettrizzazione.
Lo stesso esperimento può essere riprodotto semplicemente strofinando con un panno una bacchetta di plastica ed
osservando come quest'ultima acquisti temporaneamente la proprietà di attrarre dei piccoli pezzetti di carta. Questo
comportamento è comune a tutte le sostanze, ma in generale si tratta di un effetto tanto limitato da passare inosservato.
Con alcune sostanze, come ebanite, vetro, plexiglas, bachelite ed altre, l'effetto è tale da poter essere facilmente
sperimentato.
Avvicinando una bacchetta, preventivamente elettrizzata tramite strofinamento con un panno di lana, ad una piccola massa
appesa ad un filo, possiamo notare come la bacchetta attragga la massa, di qualunque materiale quest’ultima sia costituita.
Figura 4.1 Si strofina una bacchetta di bachelite...
Figura 4.2 ... e si nota che attrae dei pezzettini di carta
63
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Figura 4.3 Una bacchetta elettrizzata attrae qualunque
materiale neutro
Figura 4.4 Attrae però alcuni materiali elettrizzati,
ne respinge altri
Se però avviciniamo la bacchetta elettrizzata a delle sfere di materiale diverso, che siano state esse stesse strofinate, si
nota che alcune ne sono attratte, altre ne sono respinte.
In particolare si nota che corpi dello stesso materiale elettrizzati si respingono.
Questo comportamento ci fa concludere che esistono due tipologie di sostanze, contenute nella materia, capaci di produrre
attrazione o repulsione. Avremmo potuto chiamarle sostanza di tipo rosso e di tipo verde, oppure sostanza di tipo A e di
tipo B ma è stato scelto di chiamarle cariche di tipo positivo (+) e di tipo negativo (-). Quindi, possiamo ipotizzare che,
strofinando dei corpi con un panno, andiamo ad alterare l'equilibrio delle cariche presenti, producendo un eccesso delle
cariche di un segno rispetto alle altre.
Due bacchette identiche, elettrizzate allo stesso modo, avranno entrambe un eccesso di cariche negative o positive e, dato
che esse si respingono, possiamo concludere che cariche dello stesso segno si respingono, mentre cariche di segno
opposto si attraggono. Due tipologie di comportamenti implicano due tipologie di cariche.
n
4.2 - METODI PER ELETTRIZZARE
A questo punto chiediamoci come sia possibile elettrizzare la materia. Esistono di fatto tre modi per produrre l'elettrizzazione:
•
per strofinio
•
per induzione
•
per contatto
La prima l'abbiamo già vista con l'effetto dello strofinamento del panno di lana sulla bacchetta di plastica.
Vediamo la seconda modalità.
Avvicinando un oggetto elettrizzato ad uno che non lo è (si dice elettricamente neutro) si produce attrazione in quanto,
nell'oggetto neutro, a causa della vicinanza con quello elettrizzato, si avrà uno spostamento delle cariche elettriche e,
precisamente, quelle dello stesso segno saranno respinte e si allontaneranno mentre quelle di segno opposto si
avvicineranno. Quanto appena detto vale per i corpi metallici; quello che accade nei corpi non metallici lo vedremo nel
paragrafo "Isolanti e Conduttori".
64
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Figura 4.5 Il caricamento per induzione diventa permanente se si scaricano a terra le cariche di un solo segno
A questo punto, dato che le forze elettriche decrescono con la distanza, la forza di attrazione tra cariche di segno opposto
supera la forza di repulsione tra cariche dello stesso segno e la risultante sarà attrattiva.
Ecco perché avvicinando la bacchetta elettrizzata, a quella che non lo è, si ha attrazione.
L'ultima modalità con cui si può elettrizzare la materia è quella denominata per contatto e si attua ponendo letteralmente
a contatto un oggetto elettrizzato con uno neutro.
In questo modo, l'oggetto elettrizzato cederà parte del suo eccesso di carica all'oggetto neutro e quest'ultimo si
elettrizzerà per contatto con carica dello stesso segno dell'oggetto elettrizzato.
Figura 4.6 Caricamento per contatto
L'unità di misura della carica elettrica nel sistema internazionale è il Coulomb.
Un semplice strumento per la verifica della presenza di cariche elettriche è
l'elettroscopio.
Esso è formato da due foglioline metalliche appese ad uno stelo, anch'esso
metallico, inserito in un contenitore di vetro.
Quando un oggetto elettrizzato viene messo a contatto con lo stelo, la carica
depositata andrà anche sulle foglioline che si respingeranno tra di loro.
Nei seguenti due video, realizzati in laboratorio, ne viene mostrato
il principio di funzionamento e viene spiegato come poterne
realizzare uno con materiale di semplice reperibilità.
• Link al video 1 introduzione elettroscopio
• Link al video 2 costruzione elettroscopio
Figura 4.7 Elettroscopio a foglie www.Sapere.it
65
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
n
4.3 - LEGGE DI COULOMB
Nel 1785 Charles de Coulomb, grazie alla bilancia di torsione, strumento di sua invenzione, riuscì a confrontare delle forze
scambiate tra corpi elettrizzati. Non solo notò che le forze tra le cariche elettriche dipendono dal valore delle cariche e dalla
distanza tra le stesse, ma riuscì a mettere in relazione queste grandezze in una formula chiamata legge di Coulomb.
Q ·Q
F=K 1 2 2
d
dove Q1 e Q2 sono le cariche, d è la distanza dai centri delle stesse e K è una costante, detta costante di Coulomb, che
Nm2
nel vuoto assume il valore K = 9 · 109
C2
Figura 4.8 Legge di Coulomb
Questa formula, pur essendo stata ricavata sperimentalmente, risulta esatta (le previsioni che consente di fare corrispondono
a quanto si rileva sperimentalmente) e ciò ci permette di chiamarla non formula bensì legge di Coulomb.
Osservando tale legge, si evince immediatamente come essa sia formalmente identica alla legge di Gravitazione
r
Universale:
dove, le cariche elettriche prendono il posto delle masse e la costante di proporzionalità , quello della costante di gravitazione
Nm2
universale G = 6.67 · 10-11
kg2
Ci sono però due differenze che meritano di essere sottolineate. La forza di gravità è sempre e soltanto di attrazione ed è
appunto questo il significato del segno negativo presente nella formula. La forza elettrica, invece, può essere di attrazione
o di repulsione e il segno della forza va desunto dal segno delle cariche (positivo-repulsione, negativo-attrazione).
L'altra differenza consiste nel fatto che, mentre la costante di attrazione universale G (come dice il suo nome) ha sempre e
dovunque un unico valore, la costante di Coulomb K, ha un valore diverso per ogni mezzo in cui i corpi elettricamente
carichi si trovano immersi (dielettrico). Il valore della costante nell’aria ha pressoché lo stesso valore che nel vuoto, in acqua
però il valore è 81 volte inferiore.
n
4.4 - IL CAMPO ELETTRICO
Come sappiamo, dobbiamo a Galileo Galilei l'aver compreso che, se i corpi non cadono sincronicamente, dipende dall'attrito
che su di essi esercita l'aria. Se però si elimina questo attrito, tutti i corpi cadono con la stessa identica accelerazione.
m
Questo, peraltro, è vero non solo nei pressi della Terra, dove sappiamo che l'accelerazione vale g = 9.8 2 , ma anche a
g
grandi distanze dalla superficie terrestre, dove l'accelerazione di gravità ha valore molto minore. Di fatto, in un punto
determinato dello spazio, l'accelerazione di caduta verso il centro della Terra, avrebbe lo stesso identico valore, qualunque
fosse la massa del corpo che vi si trovasse. Questa consapevolezza ha portato ad assegnare ad ogni punto dello spazio
un proprio valore dell'accelerazione di gravità e questa grandezza è stata chiamata intensità del campo gravitazionale
in quel punto..
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La definizione, come ben sappiamo, è
che resa esplicita per un corpo di massa qualunque:
mostra come l'intensità del campo in un punto dello spazio sia indipendente dalla massa del corpo che lo sta subendo e
dipenda invece dalla massa del corpo che lo genera e dalla distanza del punto da questa massa.
È allora possibile affermare che ogni massa genera attorno a sé un campo di forze gravitazionali di intensità tanto maggiore
quanto più la massa è grande e che l'intensità diminuisce rapidamente con la distanza
L'intensità del campo gravitazionale è una grandezza vettoriale, sempre diretta (come suggerisce il segno negativo) verso
il centro del corpo che lo sta generando.
Si può fare un discorso analogo per il caso delle forze elettriche. Se si ha una qualunque distribuzione di cariche elettriche
e si desidera assegnare ai punti dello spazio una grandezza che non dipende dalla carica del corpo che vi andiamo a porre,
possiamo definirla in questo modo:
Questa grandezza è chiamata intensità del campo elettrico e rappresenta la forza che in quel punto dello spazio subirebbe
una carica di valore unitario.
Rendiamo esplicita questa grandezza per il caso di una carica q posta in un punto dello spazio nell'intorno di una carica Q,
che genera il campo elettrico:
É evidente come l'intensità del campo in un punto dello spazio dipenda solo dalla carica che lo sta generando e dalla
distanza, del punto considerato, dalla carica generatrice.
Ricordiamo, però, sempre la differenza:
è la formula di definizione, valida quindi in ogni situazione;
è l'intensità del campo generato nello spazio da una carica puntiforme Q.
L'intensità del campo elettrico è una grandezza vettoriale positiva per
le cariche positive (il verso del vettore è uscente), negativa per le
cariche negative (il verso del vettore è entrante) e la sua unità di
misura è:
Se si volesse conoscere il valore dell'intensità del campo elettrico in
un punto qualunque dello spazio, si potrebbe inserire in quel punto
una carica di prova (convenzionalmente positiva) e misurare la forza
subita. Si ottiene poi il campo dalla formula di definizione:
Figura 4.9 Rappresentazione del campo elettrico di una carica
puntiforme attraverso i vettori e attraverso le linee di campo
Figura 4.10 Linee di campo per due cariche
di ugual segno www.luogocomune.net
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Al fine di rappresentare l'andamento del campo elettrico nello spazio, un metodo
grafico, più efficiente rispetto a quello che consiste nel disegnare moltissimi vettori,
è la rappresentazione attraverso le linee di campo (o linee di forza).
Si chiamano così le linee orientate disegnate in modo da risultare in ogni punto
tangenti al vettore campo elettrico.
Per le cariche, considerate singolarmente, le linee di campo sono radiali ed uscenti
dalle cariche positive e radiali ed entranti nelle cariche negative mentre se sono
presenti più cariche, tali linee di forza si incurvano, ma sempre in modo tale che il
vettore campo elettrico risulti tangente ad esse.
Figura 4.11 Linee di campo per due
cariche di segno opposto
https://argomentidifisica.wordpress.com/
4.4.1 ILCAMPO ELETTRICO DI ALCUNE CONFIGURAZIONI DI CARICA
L'elettrostatica studia la situazione fisica generata da un insieme di cariche che, avendo trovato la propria posizione di
equilibrio, sono ferme. A questo scopo è importante conoscere l'andamento del campo elettrico nelle più comuni e
interessanti distribuzioni spaziali di cariche elettriche. E questo, sia graficamente, sia in formula.
Per procedere, sono necessarie due premesse.
La prima è che la costante di Coulomb viene sostituita, il più delle volte, con il valore
un modo, apparentemente più complicato, di scrivere la legge di Coulomb:
e questo comporta
In effetti si tratta, invece, di un artificio utile a semplificare i calcoli che ci si trova ad affrontare nei problemi di elettrostatica.
La nuova costante che appare nella formula e0 viene chiamata costante dielettrica del vuoto. É questa costante, poi, ad
avere un valore diverso per ogni mezzo che separa le cariche.
Per la seconda premessa è importante riflettere sul fatto che le cariche elettriche in eccesso su un corpo metallico
(conduttore) sono libere di muoversi, quindi, respingendosi, si dispongono il più lontano possibile. Per questo le cariche in
eccesso finiscono per trovare una situazione di equilibrio solo posizionandosi sulla superficie esterna del conduttore. A
equilibrio raggiunto, l'intensità del campo elettrico, all'interno del conduttore, vale zero dovunque (altrimenti le cariche non
sarebbero ferme), non così per i punti dello spazio esterno che sono invece sede di campo elettrico.
La distribuzione delle cariche, uniforme per un conduttore sferico, non è uniforme per corpi di forma qualunque.
Le cariche amano disporsi più addensate dove la curvatura del corpo è maggiore e meno addensate dove la superficie del
corpo è più piana.
Definiamo perciò densità superficiale di carica la quantità di carica presente per ogni unità di superficie:
La densità superficiale di carica ha un unico valore
quando la carica è distribuita a simmetria sferica o
quando la carica è spalmata uniformemente su un
piano infinito, negli altri casi ha un valore diverso in
ogni punto della superficie.
Figura 4.12 Intensità del campo elettrico generato da una sfera conduttrice e da un piano infinito di cariche
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Figura 4.13 Campo elettrico generato da un piano conduttore uniformemente
carico e da due piani conduttoriaffacciati carichi di segno opposto
Figura 4.14 Distribuzioni di carica a simmetria sferica: sfera conduttrice piena, sfera conduttrice cava, sfera conduttrice cava con al centro
una sfera conduttrice piena. In ogni caso le cariche si dispongono sulla superficie esterna, il campo elettrico all'interno è nullo e quello
all'esterno è quello che creerebbe una carica puntiforme equivalente posta nel punto centrale
n
4.5 - CONDUTTORI ED ISOLANTI
Una volta che abbiamo caricato l'elettroscopio e vediamo le foglioline sollevarsi, indicando, così, la presenza di carica
elettrica, se proviamo a toccare l'elettrodo superiore dello strumento con un oggetto di plastica, possiamo notare che la
carica continua ad essere confinata nell'elettroscopio in quanto la fogliolina resta sollevata.
Se, invece, effettuiamo la stessa prova con un dito o un oggetto metallico, notiamo che, immediatamente, l'elettroscopio
si scarica.
Questo avviene perché attraverso il nostro corpo, o il metallo, le cariche elettriche sono libere di muoversi mentre attraverso
la plastica questo movimento non può avere luogo.
I materiali che si lasciano attraversare dalle cariche elettriche vengono definiti conduttori elettrici mentre quelli che, invece,
non consentono il loro transito, sono definiti isolanti elettrici.
Le due tipologie di materiali, con comportamenti estremi ed opposti, sono gli ottimi conduttori e gli ottimi isolanti.
Come non esistono solo il bianco ed il nero ma anche tante sfumature di grigio, così esistono anche molti materiali che non
sono né buoni conduttori né buoni isolanti.
69
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Sono cioè materiali che hanno proprietà intermedie alle due tipologie estreme. Tra questi citiamo i semiconduttori, di cui
un esempio è il silicio, con i quali si realizzano i transistor, necessari per costruire i circuiti elettronici.
Solitamente gli ottimi conduttori di elettricità sono anche ottimi conduttori di calore e gli isolanti elettrici sono anche isolanti
termici.
Tra i migliori conduttori vi sono metalli quali l'argento ed il rame.
Studiando la struttura della materia, abbiamo visto l'architettura degli atomi; qui occorre aggiungere che, passando dallo
stato liquido allo stato solido, le molecole dei corpi, o gli atomi per le sostanze semplici, si distribuiscono in forme
geometricamente simmetriche chiamate cristalli. I solidi hanno, quindi, struttura cristallina.
Figura 4.15 Alcune forme cristalline
Nel caso di sostanze metalliche avviene che gli elettroni dell'ultimo strato (meno di 4) si sganciano dal proprio atomo e si
muovono liberamente all'interno del cristallo, come le molecole di un gas. Questo fa dei metalli dei conduttori di elettricità
(a muoversi sono gli elettroni liberi, o di conduzione).
Contrariamente, nelle sostanze non metalliche, gli elettroni dell'ultimo strato (4 o più) rimangono prigionieri al loro posto e
questo impedisce una facile mobilità delle cariche elettriche.
Abbiamo già visto come i metalli (i conduttori in generale) si elettrizzino per induzione. Dipende appunto dalla presenza
degli elettroni liberi che, sottoposti ad una forza elettrica, possono spostarsi fino a raggiungere una posizione di equilibrio.
La ridistribuzione degli elettroni liberi spiega perché un corpo conduttore finisca per essere attratto da un corpo
elettricamente carico.
Ma cosa avviene se si avvicina una carica elettrica ad un corpo
di materiale isolante? Non ci sono elettroni liberi che si possono
spostare, ma le orbite degli elettroni più esterni si deformano,
come conseguenza della forza elettrica che li sollecita.
Come conseguenza della deformazione elastica degli orbitali in
un unica direzione, quella del campo elettrico, il corpo risulta
carico agli estremi opposti di carica di segno diverso.
Questo fenomeno viene chiamato polarizzazione elettrica.
Anche in questo caso, la forza di attrazione, che il corpo isolante
subisce da parte del corpo carico, dipende dal fatto che le
cariche di segno opposto sono più vicine di quelle di ugual segno
e ne risulta una forza attrattiva.
Figura 4.16 La deformazione degli orbitali comporta la
polarizzazione del materiale
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
n
4.6 - LA GABBIA DI FARADAY
Come abbiamo detto, all'interno di un conduttore il campo elettrico vale
sempre zero. E vale zero anche se il conduttore è cavo e, addirittura, se
è costituito da una semplice
gabbia metallica.
Questa proprietà viene normalmente utilizzata per la realizzazione delle
gabbie di Faraday che servono per proteggere l'interno dai campi elettrici
esterni, come, ad esempio, quelli potenzialmente mortali prodotti dalle
scariche atmosferiche durante i temporali.
In questo caso si imbracano gli edifici da proteggere con piattine di rame,
collegate tra di loro e con tutte le strutture metalliche dell'edificio stesso,
realizzando appunto la gabbia di Faraday che,
a sua volta, è collegata a terra da paline di messa a terra.
L'effetto finale sarà, nel caso un fulmine colpisca l'edificio,che all'interno
dello stesso le persone saranno protette dalla gabbia perché confinerà le
cariche elettriche all'esterno dell'edificio stesso.
Nel video sul pozzo di Faraday, realizzato in laboratorio, si evince
chiaramente come le cariche elettriche siano confinate esternamente alle
strutture metalliche chiuse.
Figura 4.17 Le ragazze, in una gabbia di Faraday,
sono protette dalle scariche elettriche esterne
• Link al video 3 costruzione bacchetta
• Link al video 5 costruzione pozzo di Faraday
n
4.7 - IL POTENZIALE ELETTRICO
Calcolare la forza agente su una carica elettrica, in presenza di molte cariche, magari distribuite senza alcun ordine, è molto
complicato. Conoscere il campo elettrico nei punti dello spazio, però, ci consente di non preoccuparcene, dato che
possiamo ottenere la forza agente su una singola carica dalla formula inversa di quella di definizione del campo:
L'intensità del campo elettrico è comunque una grandezza vettoriale; di conseguenza, per calcolare la forza determinata
da più campi elettrici, occorre ricorrere all'algebra vettoriale, anch'essa piuttosto complessa.
Sarebbe opportuno disporre di una grandezza che, come il campo elettrico, avesse un unico valore in ogni punto dello
spazio, ma che nel contempo fosse una grandezza scalare.
Vediamo come fare per costruirci una grandezza con queste caratteristiche.
Cominciamo col dire che un sistema di due cariche elettriche che si trovino a distanza d possiede energia potenziale. Le
due cariche non si scambiano una forza solo se sono a distanza infinita ed a questa situazione ipotetica assegniamo energia
potenziale nulla. Per avvicinare le cariche fino alla distanza d, a velocità costante, è necessario che un agente esterno
compia un lavoro
esercitando una forza uguale e contraria alla forza elettrica che le cariche si scambiano. Ma
come sappiamo, quando su un sistema viene compiuto un lavoro, se non cambia l'energia cinetica (velocità costante),
cambia l'energia potenziale.
Il lavoro necessario a portare due cariche da distanza infinita a distanza d è:
quindi il sistema delle due cariche ha acquisito un'energia potenziale di ugual valore
Una carica, posta in un campo elettrico qualunque, possiede energia potenziale pari al lavoro che un agente esterno
dovrebbe compiere per portare la carica dall'infinito fino a quel punto.
Per giungere alla grandezza che stiamo cercando, è sufficiente ripetere l'operazione già fatta per definire l'intensità del
71
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campo elettrico: assegniamo ad ogni punto dello spazio il valore di energia potenziale che avrebbe in quel punto una carica
di valore unitario:
La grandezza così definita prende il nome di potenziale elettrico.
Similmente all'intensità del campo elettrico, il valore del potenziale elettrico è unico in ogni punto dello spazio e non dipende
dal valore della carica Q che vi si possa trovare. Infatti, in un punto di cui si conosca il valore del potenziale elettrico, si può
determinare l'energia potenziale che vi avrebbe una carica qualunque:
Il potenziale elettrico generato nello spazio da una carica puntiforme Q si ottiene dalla definizione:
dove la carica q è la solita carica di prova.
Dalla formula precedente si vede che una carica positiva genera un potenziale elettrico positivo, di valore decrescente
all'aumentare della distanza. Dato che una carica positiva, posta nelle vicinanze, sarebbe respinta, possiamo concludere
che le cariche positive si muovono nel campo verso valori decrescenti di potenziale elettrico, il contrario avviene per le
cariche negative.
Generalmente è più importante conoscere la differenza del potenziale elettrico tra due punti, piuttosto che i singoli valori del
potenziale. La differenza di potenziale (ddp) rappresenta il lavoro che un agente esterno dovrebbe compiere per spostare
dal primo punto al secondo una carica di valore unitario:
Conoscendo la differenza di potenziale tra due punti è facile calcolare il lavoro necessario per portare da un punto all'altro
una carica qualunque:
Per determinare il lavoro compiuto da un generatore per spostare una carica q tra i suoi morsetti che si trovano ad una
differenza di potenziale ∆V, basta moltiplicare tale ddp per il valore della carica spostata.
Ad esempio, per spostare la carica di +1 C tra i capi di una batteria di automobile con differenza di potenziale di 12 V, si
dovrà compiere un lavoro pari a: L = ∆V · q = 12V · 1C = 12J.
n
4.8 - CAPACITA' DI UN CONDUTTORE SFERICO
Se si deposita una carica elettrica Q su di un conduttore sferico posto nel vuoto, per quanto detto prima, il potenziale nei
punti dello spazio vale:
In particolare per i punti della superficie sferica il potenziale elettrico vale:
(con R raggio della sfera).
Tutti i punti interni al conduttore hanno questo stesso valore di potenziale, dato che, essendo nullo il valore interno
dell'intensità di campo elettrico, non si compie lavoro a spostare una carica da un punto ad un altro.
Dalla formula si nota che, a parità di carica, il potenziale è tanto più grande
quanto più è piccolo il raggio della sfera, quasi che un più piccolo
recipiente di cariche comportasse un maggior riempimento
V2 f V1)
( R2 p R1
Per tenere conto della disposizione di un corpo caricato elettricamente
ad assumere valori di potenziale piccoli o grandi, si definisce la capacità
elettrica dei corpi come la quantità di carica necessaria per portarli al
valore unitario di potenziale:
Figura 4.18 Potenziale elettrico su un conduttore
sferico e nello spazio
Dato che questa unità di misura è molto grande, si usano i suoi sottomultipli come:
- il microFarad: 1mF = 10-6 F,
- il nanoFarad: 1nF = 10-9 F,
- il picoFarad: 1pF = 10-12 F.
72
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Dalla formula di definizione della capacità possiamo ricavare quella di un conduttore sferico di raggio R e caricato con Q:
Come si può notare, la capacità di un conduttore dipende solo dalle sue caratteristiche geometriche e dal mezzo (dielettrico)
in cui si trova.
n
4.9 - IL CONDENSATORE
Se affacciamo due superfici conduttrici (armature), interponendo tra di loro un isolante (dielettrico), realizzeremo un
componente che prende il nome di condensatore piano.
Quando le due armature vengono caricate una di +Q e l'altra di -Q, tra di esse si stabilisce una differenza di potenziale ∆V.
Si definisce capacità elettrica di un condensatore il rapporto:
vale a dire la quantità di carica necessaria a portare ad un volt la differenza di potenziale del condensatore.
Vediamo di rendere esplicita la capacità di un condensatore piano, determinando l'intensità del campo elettrico tra le
armature ed il conseguente valore della differenza di potenziale.
L'intensità del campo elettrico nelle immediate vicinanze di un qualunque conduttore carico vale:
e dato che la densità di carica è:
Per calcolare la differenza di potenziale partiamo dalla sua definizione e sostituiamo alle grandezze le loro espressioni:
A questo punto possiamo ricavare la capacità del condensatore piano:
Figura 4.19 Fisica del condensatore piano
Importante notare che la capacità elettrica di un condensatore, come accadeva alla capacità di un singolo conduttore,
dipende dalle sue sole caratteristiche fisico - geometriche (S,d) e dal dielettrico che separa le armature ( e ). Non dipende
dall'essere o meno carico elettricamente. Desiderando una maggiore capacità si può aumentare la superficie delle armature,
diminuirne la distanza o introdurre tra le armature un dielettrico con un valore della costante dielettrica superiore (più isolante).
Caricare un condensatore significa che, in qualche modo, si sposta una quantità di carica da un'armatura all'altra e per far
questo occorre compiere del lavoro. Un condensatore carico ha, quindi, acquisito una pari quantità di energia potenziale
elettrica, concentrata nel campo elettrico, creato appunto dalla carica delle armature.
L'energia immagazzinata in un condensatore vale:
Questa energia può essere utilizzata all'occorrenza.
Il flash delle macchine fotografiche ne è un esempio: prima il condensatore viene caricato con una pila, poi, quando occorre
che il flash scatti, si collegano i poli del condensatore alla lampadina del flash e l'energia potenziale elettrica diventa luce e
calore.
73
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I condensatori oggi in uso hanno varie forme e nel video segnalato è possibile vedere come realizzarle.
• Link al video 6 costruzione bottiglia di Leida
Con lo scopo di ridurne le dimensioni, normalmente le armature si realizzano con sottili strati di stagnola separate da un
dielettrico ed arrotolate in modo da inserire la struttura in un contenitore cilindrico.
Nelle figure seguenti si evince la tipica tecnica costruttiva di un condensatore e un tipico esempio di condensatore usato in
elettronica.
Figura 4.20 Struttura tipica
di un condensatore
n
Figura 4.21 Aspetto di vari condensatori in commercio
4.10 - CONDENSATORI COLLEGATI IN PARALLELO
Due o più condensatori sono collegati in parallelo quando le armature positive sono collegate tra di loro e tra di loro le
armature negative.
Per realizzare tale situazione, con due condensatori, è necessario collegare, con due distinti conduttori, le armature dei
condensatori (vedi figura ). Le armature positive, essendo collegate tra di loro, si trovano allo stesso potenziale elettrico e
lo stesso vale per le armature negative. Quindi, in questa configurazione, i condensatori hanno in comune la differenza di
potenziale ∆V.
La carica su ciascun condensatore è uguale se sono uguali le capacità, altrimenti ha valore diverso.
Come evidente in figura, le armature collegate tra di loro sono di fatto le due armature di un condensatore composto, che
hanno per carica la somma delle singole cariche.
In figura è anche reso esplicito il modo per giungere alla capacità complessiva di questa configurazione.
Figura 4.22 Calcolo della capacità di più condensatori in parallelo
La capacità di più condensatori collegati in parallelo è equivalente a quella di un unico condensatore che ha la capacità pari
alla somma delle capacità dei singoli condensatori: CP = C1 + C2 + C3 + ...Cn.
74
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n
4.11 - CONDENSATORI COLLEGATI IN SERIE
Più condensatori sono collegati in serie quando la polarità positiva di uno è collegata a quella negativa del successivo e
così di seguito.
In questa configurazione la carica complessiva si ripartisce in parti uguali sulle armature; di conseguenza, la differenza di
potenziale su ciascun condensatore dipende dalla propria capacità elettrica: se le capacità sono uguali, lo saranno anche
le differenze di potenziale, altrimenti ciascun condensatore avrà una propria differenza di potenziale.
Più condensatori in serie equivalgono ad un unico condensatore che ha per differenza di potenziale la somma delle singole
differenze di potenziale.
Figura 4.22 Calcolo della capacità di più condensatori in parallelo
In figura è reso esplicito il calcolo della capacità equivalente: la capacità equivalente di più condensatori in serie è pari
all'inverso della somma degli inversi delle singole capacità:
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QUESITI ED ESERCIZI PROPOSTI
1) Tipi di elettrizzazione
2) Enuncia la legge di Coulomb
3) Cos’è un condensatore?
4) Definisci il potenziale elettrico in un punto, scrivi la sua formula ed indica la sua unità di misura.
5) Un corpo assume la carica di 16 x 10 –8C . Quanti elettroni ha ceduto ?
6) Due cariche Q1 = 5 x 10–5 C e Q2 = 4x 10–6 C sono poste nel vuoto ad una distanza di 10 cm.
Calcola la forza di Coulomb con cui interagiscono le due cariche.
7) Quanto vale l’intensità del campo elettrico in un punto dove agisce una forza di 5N su una carica elettrica
q =2 x 10–5 C ?
8) Quanto vale il lavoro necessario per spostare una carica elettrica q = 3 x 10–5 C di 30 cm in un campo elettrico avente
intensità di 20N/C ?
9) Determinare il valore del campo elettrico generato da una carica Q = 5 x 10–5 C in un punto alla distanza di 5 m da essa.
76
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5 LA CORRENTE ELETTRICA
n
5.1 - LA CORRENTE ELETTRICA NEI SOLIDI
Si definisce corrente elettrica un flusso collettivo di cariche elettriche, in moto nella stessa direzione.
Le cariche elettriche possono muoversi:
•
in un solido
•
in un liquido
•
in un aeriforme
Cominceremo ad analizzare il primo caso.
Sappiamo che nei solidi, ed in particolare nei buoni conduttori, come i metalli, i nuclei degli atomi sono fissi in quello che si
chiama reticolo cristallino, ossia una struttura geometrica ordinata nello spazio, mentre gli elettroni esterni hanno una certa
libertà di movimento all’interno del reticolo.
Questi elettroni liberi di muoversi si dicono elettroni di conduzione.
Nel reticolo gli elettroni di conduzione si spostano normalmente in modo caotico a causa dell’agitazione termica, urtando
tra loro e contro i nuclei degli atomi (i quali, avendo perduto elettroni, sono diventati ioni positivi).
In tale condizione di moto disordinato non si ha corrente
elettrica in quanto per ogni elettrone che si muove in un
verso ce ne sarà sempre un altro che si muove in verso
opposto.
Dunque dal punto di vista elettrico il conduttore resta in
equilibrio, il campo elettrico è complessivamente nullo ed il
potenziale è costante in ogni punto del conduttore stesso.
Figura 5.1 Rappresentazione del moto degli elettroni di conduzione
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Se si collegano con un filo metallico due corpi
elettricamente carichi, che si trovano allo stesso valore del
potenziale, non accade nulla, come nulla accadrebbe
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collegando con un tubo due recipienti con il liquido
allo stesso livello, o due corpi ad uguale temperatura.
Se però si collegano due corpi carichi elettricamente
ad un diverso valore del potenziale, possiamo
prevedere cosa accadrà: il tutto è ora un unico
conduttore, quindi, le cariche devono ridistribuirsi in
modo da azzerare l'intensità del campo elettrico in
ogni suo punto e sappiamo che questo significa che
il potenziale deve avere dovunque lo stesso valore.
In natura allora è lo squilibrio (differenza del valore di
alcune grandezze) a generare azione: il calore passa
dal corpo caldo a quello freddo fino a quando non
diventa uguale la temperatura, il liquido passa dal
vaso a livello più alto a quello a livello più basso fino
a quando i livelli non diventano uguali e le cariche
elettriche passano da un corpo ad un altro fino a
quando non diventa uguale il valore del potenziale.
Figura 5.2 I sistemi fisici passano da una situazione di squilibrio ad una di
equilibrio
Una volta che l'equilibrio è raggiunto il sistema si
quieta: Il calore smette di passare, il liquido di scorrere, le cariche elettriche di trasferirsi.
Ma come fare ad avere un movimento continuo di cariche?
Per fare in modo che il liquido continui a passare da un vaso all'altro,
sappiamo di dover inserire una pompa che prenda il liquido dal vaso a
livello inferiore e lo riporti in quello a livello superiore. Ricreando
continuamente lo squilibrio, la pompa fa in maniera che il liquido continui
a cadere. É necessario disporre di una pompa di cariche per avere un
flusso continuo di corrente elettrica e una pompa di cariche deve ricreare
continuamente la differenza di potenziale elettrico che è causa del loro
movimento. Un dispositivo con queste caratteristiche si chiama
generatore di tensione (tensione è sinonimo di differenza di potenziale).
Il primo generatore elettrico fu creato da Alessandro Volta nel 1800.
Gli si dette il nome di pila, perché era costituito da una serie di dischetti
di rame e zinco impilati alternativamente e separati da un sottile panno
imbevuto di acido.
Il generatore, dunque, mantiene costante la differenza
di potenziale ai suoi estremi, generando un campo
elettrico all'interno del conduttore al quale viene
applicato.
Le particelle cariche positivamente (gli ioni), essendo
fisse nel reticolo cristallino, non risentiranno della forza
Figura 5.3 Il generatore come pompa di cariche
esercitata dal campo; gli elettroni, invece, liberi di
spostarsi, cominceranno ordinatamente a muoversi verso l’estremo del filo a potenziale positivo
(essendo gli elettroni cariche negative). In tal modo si avrà una corrente elettrica.
Figura 5.4 Pila di
Volta
Figura 5.5 Moto ordinato di elettroni in direzione opposta a quella dell'intensità del campo elettrico
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É chiaro che la corrente elettrica ottenuta potrà continuare a manifestarsi nel tempo soltanto se ai capi del filo verrà
mantenuta una differenza di potenziale costante. Avremo in tal modo quella che viene detta una corrente continua. Come
la pompa idraulica, per svolgere la sua funzione, consuma energia, così anche un generatore di tensione consuma energia.
I generatori possono prendere energia da una fonte (la rete elettrica) o averne immagazzinata di propria. Le pile hanno
immagazzinata una certa quantità di energia chimica, che con l'utilizzo tende ad esaurirsi. Ecco perché le pile vanno sostituite
o ricaricate.
Ogni pila presenta due poli: Il polo positivo (+) a potenziale più alto e il polo negativo (-) a potenziale più basso.
Se si collegano i poli di una pila ad una lampadina mediante dei fili di metallo (usualmente di rame) e si chiude l’interruttore
gli elettroni cominceranno a muoversi nel conduttore dal polo negativo a quello positivo,costituendo una corrente elettrica
continua e la lampadina si accenderà.
Figura 5.6 Circuito aperto: lampadina spenta.
Circuito chiuso: lampadina accesa
Si noti, nella seconda parte della figura, il flusso degli elettroni di conduzione dal polo negativo verso quello positivo.
Un dispositivo come quello in figura, costituito da:
•
un generatore(pila)
•
un utilizzatore (nel nostro caso una lampadina)
•
una serie di conduttori di collegamento
si dice: circuito elettrico.
É dunque la pila che assicura, consumando pian piano la propria energia chimica, una differenza di potenziale costante nel
circuito, permettendo lo scorrere di una corrente elettrica. E quest’ultima è dovuta al flusso degli elettroni di conduzione
che “risalgono” il potenziale, ossia dal polo (-) si dirigono ordinatamente verso il polo (+) del generatore.
Tutto sembrerebbe molto semplice. Ed infatti lo è.
Bisogna soltanto far attenzione ad una convenzione risalente a molto tempo fa, addirittura alla fine del 1700.
Il fenomeno della corrente elettrica era appena stato scoperto ma gli scienziati dell’epoca non conoscevano del tutto la
teoria atomica.
Essi pensavano che fossero le cariche positive a mettersi in movimento sotto l’effetto di una differenza di potenziale. In
base a quella ipotesi, (dovuta a Benjamin Franklin), ancora oggi noi assumiamo convenzionalmente che la corrente elettrica
in un circuito vada dal polo positivo a quello negativo del generatore.
(Pur essendo una scelta che attualmente risulta poco comprensibile,
in quanto si è certi che soltanto gli elettroni possono muoversi
all’interno di un conduttore solido, si noti che, ai fini dello studio dei
circuiti, la strana convenzione non crea problemi pratici. Del resto
se si pensa all’energia ricavabile dall’acqua che scorre in un fiume
si comprende che è del tutto indifferente se l’acqua scorre da nord
verso sud o viceversa. L’importante è che scorra.)
Figura 5.7 Moto degli elettroni e verso convenzionale
della corrente
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Figura 5.8 Lo spostamento di una carica positiva verso destra o di una negativa verso sinistra è del tutto equivalente
Quindi, da ora in poi, adotteremo anche noi la convenzione di cui abbiamo parlato.
n
5.2 - L’INTENSITÀ DI CORRENTE
Dopo aver compreso cosa sia la corrente elettrica definiamo ora una nuova grandezza che ci consente di valutare quanto
sia “grande” la corrente che scorre in un circuito: l’intensità di corrente.
Si definisce intensità di corrente elettrica i in un punto del circuito la quantità di carica ∆q che transita in quel punto
nell’intervallo di tempo ∆t.
Per chiarire il concetto consideriamo un tratto di circuito alimentato da un generatore.
Fig. 5.9 Corrente elettrica convenzionale attraverso la sezione A del conduttore.
Se misuriamo quante cariche (∆q) attraversano la sezione A in un certo tempo ∆t possiamo scrivere: i =
∆q
∆t
L’intensità di corrente è una grandezza fondamentale nel S.I. É, altresì, una grandezza scalare.
L’unità di misura dell’intensità di corrente è l’Ampère.
Si ha la corrente di 1 A quando attraverso la sezione trasversale di un conduttore passa una quantità di carica pari a
1C
1 Coulomb in 1 secondo: 1A =
.
1s
Nelle applicazioni pratiche le intensità di corrente che possono
scorrere in un circuito possono variare considerevolmente da
pochi mA a centinaia di A; si ricordi che il prefisso m (milli) ha il
valore di 10-3.
Lo strumento per la misura della intensità di corrente elettrica è
l’Amperometro.
Figura 5.10 Amperometro digitale e amperometro analogico
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Esercizio:
Se in un circuito scorre per 10 minuti una corrente elettrica di 300 mA, quanti elettroni saranno passati attraverso i
conduttori del circuito in quell’intervallo di tempo?
In primo luogo sarà bene effettuare le necessarie equivalenze:
300 mA = 0,3 A
10 min = 60 ∙ 10 = 600 s
Dalla definizione di corrente ricaviamo: ∆q = i · ∆t = 0,3A · 600s = 180C .
Ricordando che la carica dell’elettrone ha intensità pari a e = -1,60 ∙10-19C, il numero di cariche (elettroni) che hanno
attraversato il circuito nell’intervallo di tempo dato sarà:
Curiosità
Quando premiamo l’interruttore per accendere una lampadina, l’accensione ci sembra istantanea e comunque
straordinariamente rapida. Ciò potrebbe far pensare che gli elettroni nei fili del circuito viaggino ad una velocità
straordinariamente alta.
Per quanto possa sembrare strano, invece, se misurassimo la velocità di spostamento dei singoli elettroni troveremmo
un valore molto basso (circa 6 cm/min), che non giustifica la rapidità di accensione della lampadina.
Questa bassissima velocità è dovuta al fatto che gli elettroni nel loro viaggio da un polo all’altro della pila urtano
inevitabilmente contro gli atomi del reticolo e sono quindi costretti a percorsi molto lunghi ed accidentati.
Come possiamo spiegare questa stranezza?
Il segnale elettrico (la generazione del campo nel circuito) viaggia alla velocità della luce, quindi, gli elettroni del circuito
subiscono la forza del campo praticamente nello stesso istante e si mettono contemporaneamente in marcia. Se
chiudiamo a Palermo l'interruttore di un circuito che arriva fino a Milano, è il moto degli elettroni milanesi ad accendere
la lampadina; quelli partiti da Palermo arriveranno tra qualche anno.
n
5.3 - LA RESISTENZA ELETTRICA
Sappiamo che i metalli in genere sono buoni conduttori di corrente elettrica ma non tutti lo sono allo stesso modo.
Consideriamo una serie di fili conduttori di eguale sezione ed eguale lunghezza ma di diverso metallo: argento, rame, oro,
alluminio, tungsteno, ferro, piombo, ecc.
T
–
Inseriamo ciascun filo in un circuito del tipo rappresentato in figura. Quando in uno schema si deve rappresentare un
generatore di tensione si usa il seguente simbolo: +
Se, a temperatura costante (più avanti comprenderemo il perché),
applicassimo ad ogni filo la stessa differenza di potenziale ∆V e con
l’amperometro A misurassimo la corrente i che passa nel circuito, ci
accorgeremmo che nel filo d’argento la corrente che transita è più
grande di quella nel rame che è maggiore, a sua volta, di quella
nell’oro, e via di seguito.
Dunque tra i buoni conduttori si può stilare una classifica dei migliori.
Per far ciò potremmo, per ogni metallo sperimentato, fare il rapporto
tra la differenza di potenziale applicata ∆V e la corrente misurata i.
Otterremmo un numero, che possiamo indicare con R, che è la misura
di quanto il metallo in esame si oppone al passaggio della corrente.
Figura 5.11 Circuito con generatore ed amperometro
∆V
Infatti, dalla relazione ipotizzata, avremo: R =
i
ed è facile convincersi che più grande sarà la corrente misurata, più piccolo sarà il valore di R (essendo i al denominatore).
Conduttore in esame
A
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R rappresenta una nuova grandezza fisica molto importante in campo elettrico: la Resistenza elettrica e la relazione prende
il nome di Prima legge di Ohm, dal nome del fisico tedesco Georg Simon Alfred Ohm che la scoprì nel 1827.
n
5.4 - LA PRIMA LEGGE DI OHM
La prima legge di Ohm che possiamo scrivere anche: ∆V = Ri
è valida in ogni circuito, comunque esso sia costituito, purché il valore della resistenza considerato si riferisca a quella parte
di circuito a cui sia applicata una ddp ∆V e che sia attraversato da una corrente i .Essa afferma che il rapporto tra la differenza
di potenziale e l’intensità di corrente resta costante al variare della differenza di potenziale stessa. La nuova grandezza R,
resistenza elettrica, è una grandezza scalare e derivata, dipendendo infatti dalla differenza di potenziale e dall’intensità di
corrente.
1Volt
Nel S.I., la resistenza elettrica si misura in ohm (Ω): 1Ohm =
1Ampere
Vale a dire che, se ad un filo conduttore si applica la differenza di potenziale di 1 V e l’intensità di corrente misurata è di 1
A, la resistenza vale 1Ω.
Se rappresentiamo in un sistema di assi cartesiani l’intensità di corrente in funzione della differenza di potenziale,(sempre a
temperatura costante), per un determinato conduttore avremo:
I
0
Figura 5.12 Relazione lineare tra corrente e tensione
∆V
C’è dunque proporzionalità diretta tra intensità di corrente e differenza di potenziale.
Ciò caratterizza i materiali ohmici.
Esistono anche materiali non ohmici, ad esempio i conduttori gassosi.
In tal caso la relazione tra intensità di corrente e differenza di potenziale non è lineare e la legge di Ohm non è applicabile.
In un circuito elettrico un conduttore che soddisfi la prima legge di Ohm si dice resistore o, più comunemente, resistenza.
Il simbolo con cui in un circuito elettrico si rappresenta una resistenza è il seguente:
Dunque un qualsiasi filo di metallo costituisce un resistore.
Comunemente, inoltre, nei circuiti elettrici sono presenti resistori realizzati appositamente per particolari esigenze di
elettronica e di elettrotecnica.
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Nella figura seguente possiamo osservare alcuni tipi di resistenze commerciali:
a)
b)
Figura 5.13 a) Resistore per circuiti elettronici. b) Resistore per elettrodomestici
Esercizio:
In un circuito elettrico è presente una resistenza del valore di 15 Ω e circola una corrente di 0,50 A. Qual è la differenza di
potenziale del generatore di tensione?
Per risolvere il problema schematizziamo il circuito elettrico:
e supponiamo, per semplicità, che i fili di
collegamento: A-C e B-D possano essere
considerati privi di resistenza, ossia costituiti da
metallo conduttore perfetto.
La risoluzione è semplice:
∆V = Ri = 15Ω · 0.5A = 7.5V
Figura 5.14 Schema del circuito elettrico in esame
n
5.5 - LA SECONDA LEGGE DI OHM
Abbiamo visto precedentemente che la resistenza di un conduttore dipende dal materiale. Ma anche altri parametri entrano
nella determinazione della grandezza R.
Infatti se, a parità di materiale,un filo sarà più lungo di un altro la resistenza complessiva sarà maggiore nel primo. Gli elettroni
infatti incontreranno maggiori ostacoli da superare per attraversarlo.
Se, a parità di materiale e di lunghezza un filo ha sezione maggiore di un altro, la sua resistenza sarà minore in quanto gli
elettroni potranno muoversi in maggiore quantità.
Quindi sono tre i fattori che intervengono per determinare la resistenza R di un conduttore:
1. il materiale
2. la lunghezza l
3. la sezione S
l
S
dove abbiamo indicato con r la Resistività, ossia una nuova grandezza che tiene conto del particolare materiale che si sta
Combinando le osservazioni fatte possiamo ipotizzare la seguente legge fisica: R = r
studiando.
83
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La relazione precedente, che è verificata sperimentalmente, esprime la Seconda legge di Ohm.
Da essa possiamo dedurre che la resistenza di un conduttore è direttamente proporzionale alla resistivitàρ, alla lunghezza
l ed è inversamente proporzionale alla sezione S.
1m
Se consideriamo 1 m di conduttore, della sezione di un m² avremo: R = r
1m2
da cui possiamo trarre la definizione di Resistività.
Per un dato materiale la Resistività è la resistenza presentata da un metro di filo di sezione pari a un metro quadrato.
La Resistività, come può desumersi dalla formula, si misura in Ωm:
Materiali
Resistività ρ (Ω m)
Argento
1.50 · 10-8
Rame
1.72 ·10-8
Oro
1.72 ·10-8
Alluminio
2.65 ·10-8
Tungsteno
5.60 ·10-8
Ferro
9.71 ·10-8
Piombo
22 ·10-8
Tabella 5.1 Valore di resistività di alcuni conduttori
L’esperienza mostra che la resistività dipende dalla temperatura.
Nei conduttori che seguono la legge di Ohm ad un aumento della temperatura consegue un aumento della resistività, cioè
il metallo si lascia attraversare dagli elettroni con maggiore difficoltà.
Ciò si spiega ricordando che all’aumento della temperatura aumenta la vibrazione degli atomi del metallo.
Conseguentemente aumentano gli urti con gli elettroni in transito e quindi le cariche elettriche avranno maggiore difficoltà
ad attraversare il conduttore.
In molti metalli la resistività aumenta proporzionalmente con la temperatura e questo consente di sfruttare il fenomeno per
realizzare termometri semplici e precisi. Si misura cioè la variazione di temperatura indirettamente, misurando la variazione
di resistività.
Altri materiali, come i semiconduttori, hanno invece la proprietà opposta: all’aumentare della temperatura diminuisce la
resistività. Anche in questo caso si sfrutta il fenomeno per realizzare termometri. Gli attuali termometri digitali utilizzati per
misurare la temperatura corporea si basano su questa caratteristica dei semiconduttori.
Un ultimo sorprendente fenomeno consiste nella superconduttività. Nel 1911 Kamerlingh-Onnes, un fisico olandese, scoprì
che il mercurio alla temperatura di 4,2 K, quindi molto vicina allo zero assoluto, presentava una resistenza nulla. Per la
scoperta della superconduzione Kamerlingh-Onnes ricevette due anni dopo il premio Nobel per la Fisica.
Oggi conosciamo molti materiali che presentano questa particolare caratteristica. Ognuno di loro è caratterizzato da una
temperatura Tc,detta critica, al di sotto della quale diventa superconduttore.
Quando un materiale diventa superconduttore assume caratteristiche straordinarie in quanto la corrente può attraversarlo
senza incontrare ostacoli. Una corrente indotta in un anello di materiale superconduttore può circolarvi per anni, senza
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diminuire la propria intensità.
Attualmente la più alta temperatura alla quale è stata osservata la superconduzione è di circa 120 K. La superconduzione
è utilizzata in astronautica, date le bassissime temperature presenti nello spazio.
La ricerca di materiali che presentino tale caratteristica a temperatura ambiente è una delle sfide della ricerca scientifica del
giorno d’oggi.
Se si riuscisse in tale intento avremmo immensi benefici in campo energetico.
Nei normali circuiti si trascura la resistenza dei fili di collegamento, perché, di norma, è molto più piccola della resistenza
degli altri elementi di circuito.
In figura è mostrato il rapporto tra la resistenza di un banale elemento di circuito e la resistenza dei fili di collegamento,
nell'ipotesi che il filo sia di rame, lungo 1m e di sezione di mezzo millimetro quadrato:
Figura 5.15 Rapporto tra la resistenza del resistore e quella dei fili conduttori
n
5.6 - ENERGIA E POTENZA IN UN CIRCUITO ELETTRICO
La differenza di potenziale tra due punti del
campo elettrico è, per definizione, il lavoro che
deve essere fatto contro le forze del campo per
spostare la carica di un Coulomb (carica
unitaria).
Tre quantità di carica diverse devono essere
spostate contro il campo elettrico da B ad A. La
loro posizione finale è rappresentata in Fig. 5.16 b).
La differenza di potenziale tra A e B
supponiamo sia ∆V = 1 V.
Il lavoro che dobbiamo fare per lo
Figura 5.16 Cariche a cui è fatta attraversare forzatamente una differenza di
spostamento,(e quindi l’energia potenziale potenziale (si muovono in direzione opposta alla forza del campo)
elettrica accumulata dalla carica),sarà:
∆U = Q ∙ ∆V = 1 ∙ 1 = 1 joule
• per la carica Q =1 C
• per la carica Q =1/2 C
• per la generica carica Q = q
∆U = Q ∙ ∆V = 1/2 ∙ 1 = 1/2 joule
∆U = q ∙ ∆V = q ∙ 1 = q joule
Il terzo esempio rappresenta la formula generale valida per una generica carica.
Prendiamo in esame la relazione: Le = ∆U = q · ∆V
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che spiega quanto lavoro deve compiere un agente esterno e, di conseguenza, di quanto varia l'energia interna del sistema,
per trasportare la carica q attraverso una differenza di potenziale ∆V. Questa energia in un circuito elettrico è fornita dal
generatore di tensione.
Ricordiamo poi che per definizione di corrente elettrica:
Sostituendo si avrà:
da cui:
Dividendo poi per ∆t il primo e il secondo membro:
Al primo membro abbiamo il rapporto tra il lavoro compiuto e l'intervallo di tempo nel quale è stato compiuto e sappiamo
che tale rapporto rappresenta la potenza della macchina che sta compiendo il lavoro.
Dunque possiamo scrivere:
La relazione scritta rappresenta la potenza elettrica del generatore ossia la rapidità con cui viene erogata energia nel
circuito. La formula precedente può comunque essere utilizzata per qualunque frazione di un circuito, quando se ne voglia
conoscere la potenza, vale a dire la quantità di energia consumata al secondo.
Essa si misura in watt. Infatti si misura in C/s e ∆V in J/C, per cui dal prodotto otteniamo J/s, ossia il watt.
Ogni macchina ha un valore di potenza massima, ma generalmente lavora a potenze inferiori. Un'automobile per esempio
sviluppa la massima potenza solo se si viaggia a pieno carico e a tavoletta. Questo vale anche per i generatori.
É opportuno notare che la potenza (massima) del generatore pone dei limiti all'applicabilità della legge di Ohm. Se, infatti,
la corrente richiesta dal circuito (quella calcolata con la legge di Ohm), moltiplicata per la tensione del generatore, supera
la potenza massima, la corrente realmente erogata è inferiore alla richiesta, valendo nei fatti:
valore massimo della corrente erogabile da un generatore.
n
5.7 - EFFETTO JOULE
In un circuito contenente una resistenza ed alimentato in corrente continua l’energia fornita dal generatore viene dispersa
dal resistore sotto forma di calore. La ragione è da ricercarsi nella struttura interna dei metalli. Gli elettroni, accelerati dalla
forza del campo (la ddp) urtano frequentissimamente contro gli ioni del reticolo cristallino cedendo loro parte della propria
energia cinetica. Gli elettroni vengono continuamente riaccelerati ma continuano ad urtare. Da questa situazione derivano
due notevoli conseguenze: la prima è che la velocità degli elettroni statisticamente risultante è costante (corrente continua),
la seconda che gli ioni del reticolo, continuamente colpiti
oscillano sempre di più e questo corrisponde ad un
aumento della temperatura del metallo.
Il riscaldamento di un conduttore a causa del transito di
una corrente si dice Effetto Joule.
Se si vuol conoscere il calore prodotto dal passaggio di
una corrente basta dividere il valore dell'energia per
l'equivalente meccanico del calore, di Joule, 1Cal = 4186J,
cioè:
Figura 5.17 Gli elettroni vengono accelerati dalle forze del campo
86
Svariati sono gli esempi di utilizzo dell’Effetto Joule. In
molti elettrodomestici sono presenti resistori che,
attraversati da corrente elettrica, producono calore e
provvedono a riscaldare: acqua (lo scaldabagno
elettrico,la lavastoviglie, la lavatrice); l’aria (l’asciugacapelli);
una piastra metallica (il ferro da stiro).
E poi l’esempio più noto: la lampadina in cui il filamento
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resistivo di tungsteno si riscalda per Effetto joule fino a diventare incandescente emettendo luce.
Attenzione al CORTO CIRCUITO!
Se analizziamo attentamente la prima legge di Ohm e la relazione che esprime la potenza in un circuito
ci accorgiamo che se nel circuito per qualsiasi motivo la resistenza diviene troppo bassa la corrente
che circola diventa molto alta e la potenza dissipata assume anch’essa un valore
estremamente alto.
Si genera in tal modo un elevato calore per effetto Joule che può provocare temperature tali da
provocare la fusione dei conduttori e l’esplosione del generatore.
Siamo nella condizione di Corto Circuito.
Esercizio:
Una lampadina in cui filamento ha resistenza R=24 Ω è alimentato da un generatore che fornisce la differenza di potenziale
di 12 V. Determinare: l’intensità delle corrente elettrica nel circuito e la potenza dissipata dalla lampadina.
Per prima cosa disegniamo il circuito utilizzando la rappresentazione simbolica:
Figura 5.18 Circuito in rappresentazione realistica e in rappresentazione simbolica
Applicando la legge di Ohm:
si potrà scrivere:
ottenendo la corrente nel circuito.
Utilizzando poi la formula della potenza elettrica si ha:
dando così risposta alla seconda richiesta dell’esercizio.
Notiamo che avremmo potuto ottenere la potenza in altro modo. Infatti, la formula della potenza, utilizzando la legge di
Ohm, può essere scritta nei modi seguenti:
utilizzando la prima di queste relazioni avremmo ottenuto:
utilizzando la seconda relazione avremmo ottenuto:
Esercizio:
Una pila che fornisce una differenza di potenziale ∆V = 4,5 V è collegata ad una resistenza di 470 Ω. Calcola l’energia
dissipata dalla resistenza in 2 minuti.
Figura 5.19 Circuito in esame
87
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Sappiamo che:
Ora:
e infine:
n
5.8 - IL CONSUMO DI ENERGIA
Il Kilowattora (Kwh) è probabilmente una delle unità di misura più conosciute in famiglia.
Infatti è utilizzando questa unità di misura che l’azienda fornitrice di energia elettrica ci indica sulla bolletta la quantità di
energia consumata nella nostra abitazione nell’arco di un bimestre.
Il Kilowattora non fa parte del Sistema Internazionale, che impone il joule quale unità di misura del lavoro e dell’energia, ma
è diffusamente utilizzato.
Per comprendere quanti joule corrispondono ad 1 Kwh possiamo procedere così:
1 Kw = 1000 w
1 h = 3600 s
1 Kwh = (1000 w) ∙ (3600 s) = (1000 j/s)∙(3600 s)= 3.600.000 j = 3,6∙106 j
n
5.9 - RESISTENZE IN SERIE E IN PARALLELO
Nei circuiti elettrici possono essere presenti molte resistenze disposte in vari modi.
Al fine di semplificare l’analisi delle grandezze elettriche del circuito è sempre possibile determinare una resistenza equivalente
a quelle date:
• Resistenze in serie
Quando due o più resistenze sono disposte di fila, come in figura, si dice che sono disposte in serie.
Figura 5.20 Resistori in serie
Ci proponiamo di trovare un circuito equivalente a quello dato, costituto da una sola resistenza:
Figura 5.21 Circuito equivalente
Osservando il circuito di Fig. 5.20 possiamo notare che i tre resistori sono attraversati dalla stessa corrente i.
Tutte le cariche, infatti, che escono da un polo della pila devono entrare nell’altro.
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Osserviamo poi che la somma delle differenze di potenziale ai capi delle resistenze deve essere eguale alla differenza di
potenziale fornita dal generatore. (per il noto principio di conservazione dell’energia).
∆V = ∆V1 + ∆V2 + ∆V3
e, per la prima legge di Ohm applicata ai capi delle singole resistenze, si avrà: ∆V1 = i · R1∆V2 = i · R2∆V3 = i · R3
per cui, sostituendo, potremo scrivere: ∆V = i · R1 +i · R2 +i · R3 = i(R1 + R2 + R3)
∆V
Se ora analizziamo il circuito di Fig. 5.21 ed applichiamo ad esso la prima legge di Ohm avremo: Req =
i
Confrontando le ultime due relazioni ci accorgiamo che i due circuiti, alimentati dalla stessa differenza di potenziale ∆V,
saranno percorsi dalla stessa corrente i se: Req = R1 + R2 + R3
Quindi la resistenza equivalente di n resistori in serie sarà data dalla somma delle singole resistenze:
Req = R1 + R2 + R3 ......Rn
• Resistenze in parallelo
Due o più resistenze sono disposte in parallelo quando la differenza di potenziale fornita dal generatore ai loro capi è la
stessa.
Figura 5.22 Resistori in parallelo
Osserviamo che in questo caso la corrente i fornita dal generatore si ripartisce, nei rami del circuito, nelle correnti i1, i2, i3
che, di norma, non sono eguali tra loro, mentre è uguale su ogni resistore la differenza di potenziale, essendo tutti collegati
direttamente al generatore.
Però, dato che tutte le cariche uscenti da un polo del generatore in un dato intervallo di tempo devono rientrare nell’altro
polo, potremo scrivere: i = i1 + i2 + i3
Applicando la prima legge di Ohm ai capi delle singole resistenze si avrà:
da cui:
sostituendo nella precedente uguaglianza si ottiene:
Considerando il circuito equivalente in figura, potremo applicare la solita legge di
Ohm e scrivere:
Pertanto dalle due ultime uguaglianze si avrà:
Figura 5.23 Circuito equivalente
da cui possiamo dedurre che i due circuiti si comporteranno allo stesso modo se l’inverso della resistenza equivalente Req
è eguale alla somma degli inversi delle singole resistenze.
Quindi in un circuito con più resistenze in parallelo la resistenza equivalente è pari all'inverso della somma degli
inversi delle singole resistenze:
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n
5.10 - STRUMENTI DI MISURA NEI CIRCUITI IN CORRENTE CONTINUA
Gli strumenti comunemente usati per la misura delle grandezze
caratteristiche di un circuito in corrente continua sono:
• Il Voltmetro per la misura della differenza di potenziale V
• L’Amperometro per la misura della corrente elettrica
A
Il Voltmetro misura la differenza di potenziale ai capi di un qualsiasi
elemento del circuito: generatore, resistenza, ecc.
Va disposto in parallelo al circuito, nei punti tra i quali si vuol misurare ∆V.
Figura 5.24 Amperometro analogico e voltmetro analogico
Figura 5.25 Disposizione tipica del voltmetro per la misura della ddp ai capi della resistenza R
L’Amperometro misura l'intensità di corrente in un ramo del circuito.
Va quindi disposto in serie
Figura 5.26 Disposizione tipica di un amperometro per la misura dell'intensità di corrente in un ramo del circuito
I Voltmetri e gli Amperometri possono essere digitali od analogici.
Approfondimento
I Voltmetri e gli Amperometri, come tutti gli strumenti di misura, “disturbano” il sistema in cui sono inseriti. Per il funzionamento
di questi strumenti è infatti necessaria, al loro interno, la presenza di un avvolgimento contenente molte spire di filo di rame.
Ciò costituisce un problema in quanto sappiamo che qualsiasi conduttore ha una propria resistenza dipendente da: tipo di
materiale, lunghezza, sezione.(Seconda legge di Ohm).
Allora se poniamo in serie un Amperometro in un circuito contenente una o più resistenze, la resistenza propria dello
strumento (detta resistenza interna), andrà ad aggiungersi a quelle del circuito. E quindi il valore misurato dell’intensità
della corrente circolante sarà alterato. Se invece nel circuito inseriamo in parallelo un Voltmetro un po’ di corrente
elettrica prenderà a scorrere nell’avvolgimento del voltmetro stesso. Ed anche in questo caso le grandezze elettriche
del circuito subiranno un’alterazione. Dunque un buon Amperometro dovrà avere una resistenza interna molto bassa
(il suo avvolgimento sarà costituito da filo di sezione molto grande!). Un buon Voltmetro, al contrario, dovrà avere una
resistenza interna molto grande; cosa che si ottiene mettendo in serie all'avvolgimento di rame un resistore con
resistenza molto alta.
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n
5.11 - FORZA ELETTROMOTRICE DI UN GENERATORE
Anche i generatori hanno una resistenza interna, anche se piccola. Questo ha come conseguenza che la differenza di
potenziale ai terminali di un generatore è diversa tra quando il circuito è aperto e quando è chiuso. La prima la chiameremo
forza elettromotrice ,la seconda differenza di potenziale.
Figura 5.27 Forza elettromotrice e differenza di potenziale
Sia fem la differenza di potenziale di un generatore non inserito in un circuito, r la sua resistenza interna (prima immagine). Se si
applica questo generatore ad un utilizzatore qualunque, di resistenza R, possiamo rappresentare la situazione fisica come se la
resistenza del generatore r fosse all'esterno ed in serie con la resistenza R (seconda immagine).
La corrente che passa nel circuito è, per la legge di Ohm:
Sull'utilizzatore allora la caduta di potenziale, sempre per la legge di Ohm, è:
Si vede chiaramente che l'utilizzatore avverte una differenza di potenziale inferiore alla forza elettromotrice; sarebbero uguali solo
se il generatore fosse ideale presentando resistenza interna nulla.
Generalmente si considera trascurabile la resistenza interna del generatore, facendo coincidere forza elettromotrice e differenza
di potenziale (terza immagine). Occorre fare però attenzione alla loro differenza quando il generatore fosse chiuso su un utilizzatore
con resistenza particolarmente piccola: nel caso estremo di una resistenza pari a quella interna del generatore, la differenza di
potenziale a disposizione dell'utilizzatore sarebbe solo la metà della forza elettromotrice:
n
5.12 - CIRCUITO RC
Se un condensatore fosse introdotto in un circuito, sarebbe una evidente interruzione che impedirebbe il passaggio della
corrente. Quando però si chiude l'interruttore del circuito, per un breve intervallo di tempo scorre una corrente che decresce
fino ad annullarsi.
Questo accade perché, all'atto della chiusura, il campo elettrico viene generato in tutto il circuito e le cariche di conduzione
si mettono in moto. Giunte al condensatore, si ammassano sulle sue armature, creando un campo elettrico di segno
opposto a quello del generatore. La corrente smette di passare del tutto quando la differenza di potenziale tra le armature
del condensatore pareggia quella del generatore.
Figura 5.28 Circuito RC nell'istante di chiusura dell'interruttore e quando la corrente ha smesso di passare
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Figura 5.29 Andamento della corrente, in un circuito RC,a partire dall'istante di chiusura del circuito
n
5.13 - LA CORRENTE ELETTRICA NEI LIQUIDI
Quando ci si chiede se un liquido possa condurre cariche elettriche è inevitabile pensare al comportamento dell’acqua, il
liquido più diffuso in natura.
Tutti sanno quanto sia pericoloso maneggiare apparecchiature elettriche con mani o piedi
bagnati per il grave rischio di “prendere la corrente”.
Da ciò si potrebbe dedurre che l’acqua sia un buon conduttore di cariche.
Questo è vero ma, come spesso accade, l’argomento è meno semplice di quello che sembra.
Consideriamo infatti la figura a lato.
In un recipiente contenente acqua distillata (è abbastanza facile reperirla anche in casa),
immergiamo due mine di matita (elettrodi), collegati con fili di rame ad una pila.
Nel circuito inseriamo anche un Amperometro (o una piccola lampadina).
Essendo la grafite delle mine conduttore di cariche elettriche, se l’acqua distillata fosse
anch’essa un buon conduttore l’Amperometro dovrebbe segnalare passaggio di corrente nel
Figura 5.30 Acqua distillata in circuito (oppure la lampadina dovrebbe accendersi). In realtà ciò non avviene, come se l’acqua
un circuito chiuso: corrente distillata non consentisse il passaggio di cariche elettriche.
bassissima
In effetti l’acqua è un pessimo conduttore di corrente elettrica.
Ha però una caratteristica molto particolare. Quando in essa viene versato un sale (o un acido
o una base) quest’ultimo subisce quella che si chiama: “dissociazione elettrolitica”, cioè si
scinde in particelle cariche positivamente (ioni positivi) e negativamente (ioni negativi).
L’animazione seguente illustra in maniera semplice, ma chiara, cosa accade quando un sale
viene posto in acqua.
Figura
5.31
Soluzione
acquosa
di
sostanza
"elettrolita" in un circuito
chiuso: corrente alta
La formazione di ioni fa si che, in presenza del campo elettrico generato dalla pila, gli ioni (+)
vengano attratti dal polo negativo del generatore (catodo) e quelli (-) dal polo positivo (anodo),
dando luogo in tal modo ad un passaggio di corrente.
Se, istante per istante, in un circuito che comprende una soluzione elettrolitica è applicabile la
legge di Ohm, nel lungo periodo questa legge darebbe risultati in contrasto con le misure.
Questo perché, con il passare del tempo, il numero di ioni presenti nella soluzione diminuisce
e diminuisce inevitabilmente anche la corrente.
Notiamo che in questo caso non si muovono soltanto le cariche negative, come nei solidi, ma anche quelle positive.
(Ricordiamo a tal proposito Benjamin Franklin!).
Dunque l’acqua diventa conduttrice di corrente elettrica quando in essa sono disciolti sostanze che si dissociano, dette
“elettroliti”.
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Il più comune elettrolita è il sale da cucina (cloruro di sodio).
L’acqua che noi utilizziamo giornalmente in casa non è acqua distillata in quanto contiene piccole quantità di vari sali
provenienti dalla dissoluzione delle rocce delle sorgenti ed è, dunque, un conduttore.
Se riflettiamo sul fatto che il nostro corpo è composto per circa il 70% di acqua in cui sono disciolti sali minerali (basti
pensare al sudore), deduciamo che anch’esso è conduttore di corrente elettrica.
Per tale motivo si deve assolutamente evitare di venire a contatto con fili o dispositivi posti a potenziali diversi. In tal caso
saremmo attraversati da corrente elettrica la quale, a seconda della intensità, potrebbe provocare danni gravissimi al
nostro corpo, fino all’arresto cardiaco!.
(Fortunatamente le pile che utilizziamo in casa hanno una piccola differenza di potenziale tra i poli (da 1,5 a 12 V), incapace
di far circolare molta corrente nel nostro corpo, ma quando tale differenza di potenziale supera i 50 V si corrono i rischi
ricordati in precedenza).
n
5.14 - LA CORRENTE ELETTRICA NEI GAS
Gli aeriformi non sono di norma buoni conduttori di carica elettrica, ma, sotto particolari condizioni, alcune molecole di gas
possono perdere elettroni ed offrire conducibilità elettrica sia per moto di ioni negativi, che positivi (ionizzazione).
Talvolta la conducibilità elettrica è notevole.
Consideriamo il caso classico dell’aria durante un temporale.
In queste particolari condizioni si crea tra nuvole e terra un notevole campo elettrico.
Gli elettroni normalmente presenti nell’atmosfera, accelerati
dal campo elettrico,urtano atomi di gas i quali perdono, a loro
volta elettroni, diventando ioni positivi. A loro volta gli ioni
positivi e gli elettroni prodotti urtano altri atomi che producono
ulteriori ioni e così via.
Si innesca, in tal modo, un meccanismo a catena e si ha una
violenta scarica: il fulmine. Anche le normali scintille elettriche
subiscono un processo analogo.
Il meccanismo alla base della nascita di un fulmine è molto
complesso, al di là della semplificazione illustrata. Di certo il
fenomeno riguarda il moto sia di cariche negative (come nei
solidi), che di cariche positive le quali viaggiano in senso
Figura 5.32 Fenomeno della formazione dei fulmini
contrario (verso la zona negativa del campo).
Dunque non è sbagliato affermare che i fulmini possono viaggiare anche dalla terra verso il cielo.
Un simile meccanismo è alla base del funzionamento di alcuni tipi di lampade. Ad esempio quelle ben note al neon laddove
un gas a bassa pressione,contenuto in un tubo di vetro, emette luce quando viene attraversato da cariche elettriche.
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QUESITI ED ESERCIZI PROPOSTI
1. Calcolare la corrente che passa nel circuito
2. Calcolare la potenza di esercizio del generatore
3. Calcolare l'energia sprecata in calore in 10 minuti di funzionamento
4. Calcolare la resistenza che occorrerebbe inserire in serie alla prima, perché circoli una corrente pari a i = 0.16A
5. Calcolare la resistenza che occorrerebbe inserire in parallelo alla prima, perché circoli una corrente totale pari a i = 16.7A
6. In quest'ultimo caso, calcolare la potenza di esercizio del generatore e l'energia sprecata in calore nel tempo di un'ora.
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6 ELETTROMAGNETISMO
n
6.1 - IL MAGNETISMO NATURALE
Esiste in natura un materiale chiamato magnetite in grado di attrarre materiali ferrosi o altre leghe.
Come si vede nella figura, se si mette una barra di magnetite
in contatto con della limatura di ferro, questa si disporrà in
maniera simmetrica concentrandosi alle estremità e
secondo linee uscenti da esse.
Si nota dunque che le azioni magnetiche sono concentrate
prevalentemente alle estremità.
La magnetite crea dunque un campo di forze, una zona
dello spazio in cui i materiali sensibili ad esse sono attratti o
respinti: tale campo di forze è chiamato campo
magnetico.
Figura 6.1 Evidenza del campo magnetico tramite limatura di ferro
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Il nome magnetite deriva, con ogni probabilità, dalla città greca Magnesia, nel cui territorio si estraeva questo particolare
minerale. A parte le credenze magiche che nell'antichità si associavano alla misteriosa caratteristica di questo minerale,
l'unico straordinario utilizzo che ne è derivato è la bussola.
L'invenzione della bussola, si crede sia opera dei cinesi intorno alla metà del primo
millennio. La bussola consiste in una sottile striscia di magnetite posizionata su un
ago, in maniera da poter liberamente ruotare. Si nota che la striscia magnetica
(chiamata ago magnetico per la forma che opportunamente gli si da) lasciata libera
si orienta sempre nella direzione nord-sud. Se si tiene conto che nell'antichità la
maggior parte dei viaggi in nave avveniva "a vista terra" e solo raramente ci si
avventurava in alto mare, si comprende come la disponibilità della bussola è stata
una rivoluzione nel campo della navigazione. Con la bussola si conosceva la
direzione verso cui si viaggiava, anche in alto mare, di notte e con il cielo oscurato
dalle nuvole.
Ma vediamo da vicino il comportamento della magnetite per meglio comprendere
le caratteristiche del campo di forza da essa generato.
Figura 6.2 Attrazione da parte di entrambe
La prima cosa da notare è che, similmente alla forza elettrica, la forza magnetica ha
le estremità magnetiche
la proprietà di attrarre o respingere. Dalla magnetite i materiali ferrosi subiscono solo
forza d'attrazione, così come un corpo elettrizzato mostra solo attrazione verso materiali neutri. Ma, come accade tra corpi
che siano entrambi elettrizzati, due pezzi di magnetite mostrano di attrarsi ma anche di respingersi.
Se si prendono due bacchette magnetiche e si vede che due delle loro estremità si attraggono, è sufficiente ruotarne una
di 180° per verificare che adesso le due bacchette si respingono. Anche in questo caso perciò si conclude la presenza di
due diverse "cariche magnetiche". Mettiamo le bacchette in condizione di orientarsi liberamente e ci accorgiamo che a
respingersi sono le estremità che si orientano nella stessa direzione, ad attrarsi quelle che si orientano in direzione opposta.
Si è scelto allora di chiamare “polarità nord” l'estremità di un magnete che si orienta verso il nord terrestre e “polarità sud”
quella che si orienta verso il sud.
Come per le cariche elettriche, polarità magnetiche uguali si respingono, polarità opposte si attraggono.
Se ci sono analogie tra le forze elettriche e quelle magnetiche, ci sono però anche delle differenze, anch'esse importanti. I
corpi possono essere elettrizzati di un solo tipo di carica, i magneti hanno sempre la doppia polarità: se si rompe una
bacchetta magnetica, si nota che entrambi i pezzi ottenuti hanno una polarità nord ed una sud.
Corollario di questa caratteristica dei magneti è la seconda importante differenza: le linee del campo elettrico generato da
una carica sono linee aperte, si chiudono solo in presenza, nelle vicinanze, di una carica di segno opposto. Le linee del
campo magnetico sono linee chiuse che vanno dal polo nord al polo sud di uno stesso magnete. Si disegnano seguendo
la direzione che in ogni punto dello spazio assumerebbe un minuscolo ago magnetico e convenzionalmente sono orientate
uscenti dal polo nord ed entranti nel polo sud.
Figura 6.3 Linee aperte e chiuse del campo elettrico. Linee solo chiuse del campo magnetico
Conseguenza di tutto questo è che una calamita (chiamiamo così pezzi di materiale magnetico), immersa nel campo
magnetico di un'altra calamita, subisce due coppie di forze: due d'attrazione (nord-sud, sud-nord) e due di repulsione
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(nord-nord- sud-sud). Inoltre, se le calamite sono sufficientemente lontane si orienteranno, senza attrarsi o respingersi.
Figura 6.4 Forze scambiate tra calamite in diverse disposizioni
É evidente dalla figura che ogni calamita, sottoposta a queste quattro forze, tende generalmente a ruotare e solo in condizioni
particolari (seconda e terza immagine) la somma delle forze è tale da produrre un movimento lineare.
Di fatto, per calamite sufficientemente lontane, tali da subire quattro forze praticamente di uguale intensità, si otterrà solo
una rotazione (orientamento), per calamite vicine, le quattro forze hanno valore diverso e oltre alla rotazione, ne risulterà
una forza d'attrazione o di repulsione.
La Terra è evidentemente un grande magnete, visto che è capace di orientare gli aghi magnetici, ma è opportuno fare una
considerazione. Avendo scelto di chiamare nord il polo della calamita che guarda al nord terrestre, vuol dire che il nord di
una calamita e quello terrestre non hanno la stessa polarità magnetica. Dato che si attraggono la polarità è evidentemente
opposta, quindi, il nord magnetico terrestre ha la polarità sud delle calamite e il sud la polarità nord delle calamite.
n
6.2 - MATERIALI DIVERSAMENTE MAGNETICI
Ci si è accorti che la calamita attira non solo il ferro, ma anche altri tipi di metallo, ad esempio il nichel, il cobalto, il cromo,
nonché leghe e composti di questi metalli. Tutti i materiali, attratti da un magnete, possono a loro volta esser fatti diventare,
con mezzi diversi, dei magneti artificiali: questi materiali sono detti ferromagnetici.
Naturalmente quando si afferma che la calamita attrae il ferro, si sottintende,
conoscendo la terza legge della dinamica, che anche il ferro attrae la
calamita. Occorre quindi concludere che, sottoposto ad un campo
magnetico, il ferro diventa anch'esso soggetto magnetico e non solo
oggetto: il ferro, vale a dire, genera un campo magnetico che interagisce
con quello della calamita.
Evidentemente, dato che ne risulta un'attrazione, la polarità del ferro più
vicina alla calamita assume polarità opposta, quella più lontana la stessa
polarità.
Figura 6.5 Induzione magnetica di una calamita su
un pezzo di ferro
Alcuni materiali si comportano in maniera opposta al ferro: le polarità indotte sono invertite, di conseguenza ne risulta una
repulsione che è generalmente molto debole. Questi materiali vengono chiamati diamagnetici. Sono di questo tipo il
mercurio, l’argento, l’oro, il rame, il bismuto e quasi tutte le sostanze organiche.
Ci sono, poi, materiali che, come il ferro, sono attratti da una calamita, ma, mentre il ferro, dopo essere stato a contatto
con una calamita, rimane magnetizzato per un po' di tempo, questo non accade a tali materiali che vengono chiamati
paramagnetici. Sono di questo tipo l’alluminio, il bario, il calcio, il cromo, il sodio ed altri.
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n
6.3 - CAMPO MAGNETICO E CORRENTI ELETTRICHE
Il campo magnetico, come il campo elettrico, è un campo di forze, quindi, un campo vettoriale la
cui intensità diminuisce con la distanza. Sarebbe opportuno definire una grandezza che tenesse
conto dell'intensità del campo magnetico in ogni punto dello spazio e se non lo abbiamo fatto
ancora dipende dalla problematicità che deriva dal conoscere solo il campo generato dai magneti
naturali (o permanenti).
Nel 1820 avvenne, con ogni probabilità casualmente, una straordinaria scoperta. Che ci fosse
una relazione tra campo elettrico e campo magnetico lo si sospettava, ma, in mancanza di
evidenza sperimentale, si poteva solo supporlo.
Figura 6.6 Hans Christian
Nel 1820 il danese Hans Christian Orsted scoprì che un ago magnetico, posto nelle vicinanze di Orsted
un’intensa corrente elettrica, veniva deviato dalla solita direzione nord-sud. In particolare l'ago si
disponeva perpendicolarmente alla direzione della corrente elettrica.
Dato che un ago magnetico è un soggetto attivo e passivo del campo magnetico, questa scoperta dimostrava che una
corrente elettrica generava attorno a sé un campo magnetico.
La notizia di questa scoperta fece rapidamente il giro del mondo scientifico e un gran numero di scienziati si tuffarono in
questo nuovo campo di ricerca.
Figura 6.7 Deviazione di un ago magnetico da parte di una corrente elettrica
http://it-it.abctribe.com/Wiki/articles/
Si studiarono, così, i campi magnetici generati da particolari disposizioni dei fili di corrente; si studiarono
le forze che i fili di corrente scambiavano con le calamite; si studiarono le forze magnetiche che si
scambiavano due fili percorsi da corrente elettrica.
Figura 6.8 André Marie Ampère
Cominciamo da qui: una corrente elettrica genera campo magnetico e subisce l'azione di una forza
da parte di un campo magnetico; quindi, una corrente, immersa nel campo generato da un'altra
corrente, deve subirne l'azione.
Un apparato, sufficientemente sensibile da misurare queste forze reciproche, fu ideato dal francese
André - Marie Ampère, che poté desumere empiricamente la seguente legge:
La forza magnetica che due correnti, parallele per una lunghezza l, si scambiano è direttamente proporzionale al prodotto
delle intensità di corrente e inversamente proporzionale alla loro distanza ed è tanto più grande quanto più lunghi sono i fili
affacciati. Alla formula occorre, infine,aggiungere una costante moltiplicativa che si usa scrivere
La costante m0, chiamata permeabilità magnetica, come nel caso della forza elettrica, ha un valore dipendente dal mezzo
che separa i due fili.
Nel vuoto m0 vale:
La forza magnetica tra due correnti è attrattiva se il verso della corrente è lo stesso nei due fili (da qui il segno negativo),
repulsiva se il verso è opposto.
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Disponiamo così della legge della forza magnetica, similmente alla legge della gravitazione universale (di Newton) e alla
legge di Coulomb. Questa legge prende il nome dal suo scopritore: legge di Ampère.
Se ora confrontiamo le tre leggi della forza note, abbiamo modo di renderci conto che, se nel caso della gravità oggetto e
soggetto della forza (carica gravitazionale) è la massa e nel caso della forza elettrica è la carica elettrica, nel caso della
forza magnetica oggetto e soggetto (carica magnetica) è l'intensità di corrente moltiplicata, però, per la sua lunghezza (il).
Figura 6.9 La forza magnetica, oltre che dalle intensità di corrente e dalla loro distanza,è determinata dalla lunghezza l dei fili paralleli
n
6.4 - DEFINIZIONE DELL'INTENSITÀ DI CAMPO MAGNETICO
Ora siamo in grado di definire l'intensità del campo magnetico
nei punti dello spazio. Similmente al caso gravitazionale
ed elettrico desideriamo definire una grandezza che, dando conto dell'intensità del campo, non dipenda, però, da cosa in
quel punto dello spazio sia presente.
L'intensità del campo magnetico in un punto dello spazio è, perciò, definita come il rapporto tra la forza magnetica ed il
soggetto magnetico che la subisce, cioè:
Questa definizione ha qualcosa di diverso dalle precedenti due
al denominatore non c'è una grandezza
scalare ma una vettoriale. Questo significa che, se calcoliamo la forza agente
su una corrente immersa in un campo magnetico:
è necessario fare un prodotto vettoriale; quindi, per ottenere il corretto
modulo della forza, bisogna tener conto anche dell’angolo q compreso tra
Figura 6.10 Regola della mano destra
www.oligoproject.org
l'intensità del campo magnetico
e la direzione della corrente .
Il modulo della forza è pari a :
mentre direzione e verso si ottengono con la regola della mano destra,
come in un qualunque prodotto vettoriale: tenendo aperto il palmo della
mano destra, con il pollice rivolto in direzione dell'intensità di corrente e il
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palmo in direzione del campo, la forza risulterà perpendicolare al palmo.
Ricordando che il seno di un angolo ha valor massimo (=1) per q = 90° e nullo per q = 0°, comprendiamo che una corrente
perpendicolare alle linee del campo magnetico risente del massimo di forza:
mentre una corrente parallela alle linee del campo magnetico non avverte alcuna forza:
Dalla definizione ricaviamo l'unità di misura dell'intensità del campo magnetico:
Per indagare l'intensità del campo gravitazionale si usa mettere nel punto desiderato dello spazio una minuscola massa di
prova m, così come, per il campo elettrico, una minuscola carica di prova q. Poi, misurata la forza subita, si divide la forza
per la carica gravitazionale e per quella elettrica ottenendo rispettivamente:
e
Possiamo fare analogamente per il campo magnetico, utilizzando una carica magnetica di prova (il), un filo cioè di piccola
lunghezza l, percorso da una intensità di corrente nota i, da introdurre nel punto desiderato, perpendicolarmente alle linee
del campo magnetico ( vedi seconda immagine di figura 6.9).
Misurando la forza subita da questo filo e dividendola per la carica magnetica di prova il, otterremo, quindi, l'intensità del
campo magnetico
n
6.5 - CAMPO MAGNETICO GENERATO DA ALCUNE IMPORTANTI
CONFIGURAZIONI Di CORRENTE ELETTRICA
Possiamo ora ricavare l'intensità del campo generato nello spazio da un filo rettilineo percorso da una corrente if :
questa formula è nota come legge di Biot-Savart.
Il verso delle linee del campo magnetico, una volta noto il verso della corrente, si ottiene semplicemente con la regola del
cavatappi: se il pollice della mano destra indica il verso della corrente, il palmo di mano che si chiude indica il verso delle
linee del campo magnetico.
Con considerazioni teoriche, verificate sperimentalmente, si è riusciti a conoscere
il campo magnetico generato da una spira di corrente e da un solenoide.
Una spira è una corrente a percorso circolare, un solenoide è un'insieme di spire
affiancate.
Considerando un qualunque punto P a distanza d dal centro di una spira di raggio
R, percorsa da una corrente i, il valore dell'intensità del campo magnetico è dato da:
Figura 6.11 Regola del cavatappi
www.oligoproject.org
che, nel punto centrale della spira (d=0), si riduce a:
L’interesse della spira di corrente consiste nel fatto che, immersa in un campo magnetico, si comporta come un ago di
magnetite e ruota orientandosi secondo le linee del campo.
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Figura 6.12 Campo magnetico generato da una spira
di corrente
Figura 6.13 Spira di corrente fatta orientare da un
campo magnetico
Di interesse assai maggiore è il solenoide (o bobina), per il fatto che presenta un campo magnetico del tutto simile a quello
di una bacchetta (o cilindro) di magnetite.
Figura 6.14 Campo magnetico generato da un solenoide percorso da corrente
Il solenoide può svolgere, perciò, le stesse funzioni di un cilindro di magnetite, col vantaggio che l'intensità del campo può
essere regolata a piacimento e si può far scomparire a comando: è così che funzionano le elettrocalamite.
L'intensità del campo magnetico all'interno del solenoide è uniforme ed ha lo stesso valore che presenta nei pressi delle
estremità:
iN
B=m
l
dove:
- i = corrente,
- N = numero totale di spire,
- l = lunghezza del solenoide.
L'intensità del campo magnetico all'interno di un solenoide è, dunque, direttamente proporzionale all'intensità di corrente
N
e al numero di spire per unità di lunghezza n =
.
l
OSSERVAZIONE:
Si può far aumentare l'intensità del campo magnetico, oltre che aumentando l'intensità di corrente e il numero di spire per
unità di lunghezza, inserendo, anche, nel solenoide un cilindro di ferro e comunque un materiale che abbia un valore della
permeabilità magnetica superiore a quella del vuoto (m0), come nella prima immagine di figura 6.14.
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n
6.6 - IPOTESI DI AMPERE
L'andamento del campo magnetico di un solenoide, derivante dalla somma dei campi magnetici delle spire affiancate,
consentì ad Ampére di azzardare una possibile (geniale) spiegazione del magnetismo naturale.
Egli ipotizzò che all'interno della materia ordinaria esistono delle piccole correnti elettriche, presumibilmente circolari, che
generano campi magnetici. Queste piccole correnti sono dirette in direzioni casuali come i campi magnetici che generano;
dunque il campo magnetico risultante, per ragioni statistiche, risulta nullo.
Nei magneti naturali, invece, le correnti elettriche circolari hanno una direzione privilegiata, come la corrente che attraversa
le spire affiancate di un solenoide. Di conseguenza, la miriade di piccoli campi magnetici prodotti non si neutralizzano
vicendevolmente, ma si sommano, dando luogo al campo magnetico che sperimentalmente rileviamo.
Questa ipotesi di Ampére spiega sia la ragione per cui i materiali ferromagnetici sono attratti dalla magnetite, sia la
temporanea persistenza della magnetizzazione, in un pezzo di ferro venuto a contatto con della magnetite.
L'attrazione deriva dal fatto che il campo magnetico della magnetite, nel caso delle sostanze ferromagnetiche, ne riorienta
le correnti circolari casuali, costringendole ad assumere una stessa direzione, diventando così piccole spire parallele. Il ferro
diventa perciò esso stesso un magnete ed ecco la ragione dell'attrazione. Le correnti restano così riorientate anche dopo
l'allontanamento del campo magnetico inducente ed il pezzo di ferro si comporta come un magnete; pian piano però le
correnti circolari riassumono la loro originaria direzione e l'effetto di magnetizzazione scompare.
Senza poterlo immaginare, Ampére aveva preconizzato le orbite elettroniche: le piccole correnti circolari, infatti, altro non
sono che gli elettroni nel loro ruotare attorno al nucleo atomico ad altissima velocità.
n
6.7 - FORZA DI LORENTZ
Abbiamo dunque visto come un campo magnetico esercita forze su una corrente elettrica. Ma una corrente elettrica, come
ben sappiamo, è un moto ordinato di cariche e questo significa che un campo magnetico applica una forza su ogni carica
che sia in movimento. Se vogliamo conoscere la forza magnetica agente sulla singola carica q, dobbiamo valutare quante
cariche in moto ci sono in un filo di corrente del quale conosciamo la forza magnetica subita.
Figura 6.15 Tratto di filo di corrente di lunghezza pari alla velocità media degli elettroni
Supponiamo di avere un materiale di cui conosciamo il numero di particelle in moto per unità di volume. Questo numero è
facile da calcolare per qualunque materiale: si tratta di valutare il numero di moli per unità di volume e moltiplicare per il
numero di Avogadro e per il numero di valenza:
dove:
- N = numero totale di particelle,
- V = volume considerato,
- rV = massa,
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- mm= massa molare,
- NA= numero di Avogadro,
- nV= il numero di valenza.
Consideriamo ora un tratto del filo di lunghezza pari al modulo della velocità media con cui le cariche (gli elettroni) si muovono,
in modo da essere certi che, nell'unità di tempo, passeranno dalla superficie di base S del cilindro considerato tutte e solo
le cariche che vi sono contenute.
Possiamo allora scrivere l'intensità di corrente come:
dove:
- n · V = numero di cariche (elettroni) in moto contenute nel volume V,
- q = carica portata da ciascuna particella,
- Vm = velocità media di trascinamento delle cariche.
Il numero di cariche in moto presenti nel tratto di filo considerato, che, quindi, subisce la forza magnetica è:
in cui Vm sostituisce la lunghezza del cilindro.
Passiamo a trovare la forza magnetica per unità di carica.
In conclusione, abbiamo trovato che la forza che un campo magnetico esercita su una carica in moto vale:
cioè un campo magnetico esercita su ogni singola carica in moto una forza pari a:
Se a questa forza aggiungiamo quella esercitata sulla carica da un eventuale campo elettrico otteniamo:
La forza scritta in questo modo si chiama forza di Lorentz, dal nome del fisico olandese Hendrick Lorentz che per primo
la ricavò.
Da sottolineare che mentre la forza elettrica agisce in ogni caso su una carica, quella magnetica agisce solo se la carica è
in moto rispetto al campo magnetico e, inoltre, può comunque risultare nulla quando la velocità della particella è parallela
alle linee di campo. Il modulo del prodotto scalare:
dipende, infatti, dall'angolo q tra la direzione della velocità e quella dell'intensità del campo magnetico. Dal valore del seno
dell’angolo capiamo che la massima forza applicata dal campo magnetico sulla particella in moto si ha quando la velocità
è perpendicolare alle linee di campo.
Una situazione particolarmente interessante è quella di una particella carica che entra in un campo magnetico con velocità
ad esso perpendicolare. Sappiamo che il prodotto vettoriale dà come risultato un vettore perpendicolare ad entrambi i
vettori, fattori del prodotto, per cui la forza magnetica esercitata dal campo sulla carica risulta perpendicolare alla velocità.
Ma sappiamo dalla meccanica che una forza, perpendicolare in ogni punto alla velocità, produce un'accelerazione centripeta
e, quindi, un moto circolare. La particella carica, iniettata nel campo, si muoverà perciò di moto circolare, il cui raggio è
facile da calcolare considerando che la forza centripeta è data dalla forza magnetica:
La relazione tra le grandezze in gioco è stata scritta in questa forma non a caso.
In realtà, se è interessante prevedere quale sarà il raggio della circonferenza percorsa dalla carica che entra
perpendicolarmente in un campo magnetico, è molto più interessante fare il contrario: misurare il raggio, già conoscendo
velocità della particella e intensità del campo magnetico e ottenere il rapporto tra carica e massa.
103
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Da questo rapporto si può risalire al tipo di particella ed è su questo metodo di
funzionamento che è progettato uno degli strumenti più importanti della ricerca
atomica e subatomica: lo spettrometro di massa.
Figura 6.16 Traiettoria circolare di una carica
in un campo magnetico
n
6.7 - FORZA DI LORENTZ
Michael Faraday era uno scienziato particolare. Non aveva seguito i normali studi accademici,
ma si era formato autodidatticamente ed aveva fatto esperienza nel laboratorio di un chimico
all'epoca (anni 20 dell'800) abbastanza famoso. Presto si mise in proprio e dotato di una
intuizione prodigiosa e di grande genio, realizzò una miriade di esperimenti nel nuovo campo
di ricerca: l'elettromagnetismo.
É a lui che dobbiamo una scoperta di immensa importanza, di cui valuteremo pienamente le
straordinarie conseguenze.
La domanda che aveva nella mente era chiara: una corrente elettrica genera un campo
magnetico, un campo magnetico non può generare una corrente?
Figura 6.17 Michael Faraday
Figura 6.18 Fenomeno dell'induzione elettromagnetica
Egli scoprì che, avvicinando un magnete, ad un solenoide chiuso su un amperometro, lo strumento di misura dava l'evidenza
del passaggio di corrente in una direzione. Allontanando il magnete c'era evidenza di passaggio di corrente nella direzione
opposta. Importante chiarire che il passaggio di corrente si verificava fintantoché il magnete si muoveva rispetto al solenoide.
Quando il magnete veniva fermato cessava il passaggio di corrente.
Non era dunque la sola presenza del campo magnetico a determinare il passaggio di questa corrente, che, per ovvie ragioni,
chiameremo corrente indotta.
Ripetendo più volte l'esperimento si può notare che l'intensità della corrente indotta è tanto più grande quanto più "forte"
è il magnete, quindi l'intensità del campo magnetico e quanto più rapidamente lo si avvicina o lo si allontana. L'intensità di
corrente cresce anche all'aumentare della densità di spire del solenoide (spire per unità di lunghezza) o al crescere della
loro dimensione.
C'entra quindi l'intensità del campo magnetico, c'entra la superficie del circuito investito dal campo, c'entra la rapidità con
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cui l'intensità del campo magnetico inducente varia. Per tenere conto di queste cause e poter giungere alla formulazione
della legge dell'induzione elettromagnetica, è necessario definire una nuova grandezza fisica il flusso magnetico:
Il flusso magnetico è una grandezza scalare ed è, di fatto, la misura del numero di linee di campo che attraversano la
superficie considerata. Il flusso del campo magnetico è, perciò, tanto più grande quanto più è intenso il campo, quanto più
è grande la superficie investita e dipende anche dall'angolo tra le linee del campo e la superficie.
Per farsene un'idea si pensi ad un cerchio di ferro immerso nell'acqua in movimento di un fiume. Il flusso d'acqua che
attraversa il cerchio di ferro è tanto maggiore quanto maggiore è la velocità del fiume e quanto più è grande la superficie
del cerchio, ma dipende anche dell'angolo relativo tra cerchio ed acqua.
Figura 6.19 Analogia tra flusso d'acqua e flusso magnetico
L'unità di misura del flusso di campo magnetico è il Weber:
Ora che disponiamo della grandezza flusso di campo magnetico è facile scrivere la legge dell'induzione elettromagnetica,
nota come legge di Faraday-Neumann:
Questa legge afferma che, quando sulla superficie di un circuito, si verifica una variazione del flusso magnetico, nel circuito
nasce una forza elettromotrice indotta, tanto più grande quanto maggiore è la variazione del flusso e quanto rapidamente
questa variazione si verifica.
Il segno negativo ha un significato reso esplicito dalla legge di Lenz:
Il verso della tensione indotta (quindi della corrente indotta) è tale che il campo magnetico associato ad essa si oppone
alla variazione di flusso magnetico che la sta generando.
Chiariamo quanto appena affermato osservando bene la figura 6.18. Si vede chiaramente che, mentre il magnete si avvicina
al solenoide, in esso scorre una corrente indotta tale da fargli presentare verso il magnete una polarità magnetica uguale.
Le linee del campo magnetico della corrente indotta, cioè, sono dirette in direzione opposta a quelle del magnete e il campo
totale è la differenza tra i due. Altra conseguenza è che mentre il magnete si avvicina, il solenoide viene respinto (polarità
magnetiche uguali) e cerca di allontanarsi.
Quando, poi, il magnete viene allontanato, nel solenoide scorre una corrente in verso opposto, quindi, la sua polarità più
vicina al magnete è ora di segno opposto. Le linee del campo magnetico della corrente indotta vanno perciò nello stesso
senso delle linee di campo del magnete e l'intensità del campo totale è la somma dei due. Naturalmente quando il magnete
si allontana, l'opposta polarità magnetica del solenoide genera una reciproca forza di attrazione. Se il magnete si allontana
il solenoide tenta di seguirlo.
Notazione importante:
In un circuito, sul quale vi sia una variazione del flusso magnetico, è sempre indotta una forza elettromotrice, invece una
corrente indotta viene generata solo se il circuito è chiuso.
Il valore della corrente indotta, secondo la legge di Ohm, è data da:
dove:
- i = corrente indotta,
- fem = forza elettromotrice indotta,
- R = resistenza del circuito.
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n
6.9 - AUTOINDUZIONE, INDUTTANZA ED ENERGIA DI UN INDUTTORE
Una corrente elettrica i che scorre in un circuito elettrico produce un campo magnetico nello spazio circostante.
Se la corrente varia nel tempo, il flusso magnetico
del campo fem, concatenato al circuito, risulta variabile, determinando
entro il circuito una fem indotta che, per la legge di Lentz, si oppone alla variazione del flusso che la genera. Tale fem indotta,
quindi, non è dovuta ad un campo magnetico esterno, ma alla variazione del flusso del campo magnetico generato dal
circuito stesso. Questo fenomeno prende il nome di “autoinduzione”.
Il fenomeno dell'autoinduzione è trascurabile in un circuito che non contenga induttori (solenoidi o bobine), diventa invece
rilevante se nel circuito è presente qualche induttore. Gli induttori saranno rappresentati nei circuiti con il seguente
simbolo
.
La forza elettromotrice autoindotta è direttamente proporzionale alla rapidità con cui la corrente varia nel circuito;
possiamo, quindi, scrivere:
dove L è il fattore di proporzionalità tra flusso (effetto) e la corrente (causa). Il fattore L dipende esclusivamente dalla geometria
del circuito (dalla superficie del circuito investita dal campo), come si evince dalla relazione
, e viene chiamato
induttanza del circuito o coefficiente di autoinduzione. Questa
grandezza, che ha unità di misura:
è generalmente associata ai soli induttori, perché, essendo composti
da un gran numero di spire, hanno una grande superficie
concatenabile da un campo magnetico.
Se la resistenza è la caratteristica fisica dei resistori e la capacità è
la caratteristica fisica dei condensatori, l'induttanza è la caratteristica
fisica degli induttori (solenoidi o bobine).
Figura 6.20 Circuito RL: con resistore (resistenza)
e induttore (induttanza)
Per la presenza di un induttore, alla chiusura del circuito, nasce una forza elettromotrice indotta che si oppone alla variazione
di flusso magnetico, che la genera. La corrente indotta conseguente ha, perciò, verso opposto alla corrente spinta dal
generatore. Questo comporta un ritardo nel raggiungimento della corrente di esercizio.
Questo fenomeno comporta, inoltre, che il generatore, oltre all'energia
corrispondente all'effetto Joule, debba spenderne un di più per giungere
alla situazione di regime. Questa energia, però, non è svanita nel nulla,
ma è contenuta nel circuito sotto forma di campo magnetico (all'interno
dell'induttore). Si può recuperarla all'apertura del circuito: per un breve
intervallo di tempo, infatti, continuerà a passare una corrente,
conseguenza della forza elettromotrice indotta dalla diminuzione del flusso
magnetico che investe l'induttore.
La quantità di energia immagazzinata in un induttore, attraversato da una
corrente i, è pari a:
Figura 6.21 Andamento della corrente alla chiusura
del circuito
106
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n
6.10 - MUTUA INDUZIONE
Quando due circuiti sono vicini e la corrente che attraversa uno dei due varia nel tempo, nell'altro circuito, variando il flusso
magnetico che lo investe, si genera una forza elettromotrice indotta e una conseguente corrente indotta.
La corrente indotta nel secondo circuito, anch'essa variabile, genera a sua vota sul primo circuito una fem indotta uguale
e di segno opposto. Questo fenomeno è chiamato di mutua induzione.
La reciproca forza elettromotrice indotta è pari a:
dove M è il fattore di proporzionalità tra il flusso magnetico scambiato dai circuiti e la
corrente indotta:
M, che ha le dimensioni fisiche di una induttanza, viene chiamato coefficiente di mutua
induzione ed assume grande importanza nei trasformatori, apparati la cui funzione è
svolta proprio attraverso il fenomeno della mutua induzione.
Figura 6.22 Situazione circuitale
di mutua induzione
n
6.11 - ALTERNATORE E TENSIONE ALTERNATA
Il modo più efficiente, per produrre una forza elettromotrice indotta in un circuito, consiste
nel creare un movimento di relativa rotazione tra un magnete e un induttore. Per sostenere
la rotazione è necessario che l'apparato che realizza questa operazione, chiamato
alternatore, possa attingere ad una fonte di energia.
Il moto circolare, a velocità costante, genera nella bobina una variazione del flusso
magnetico e una conseguente forza elettromotrice indotta, che, istante per istante,varia
di intensità ed ha segno positivo per metà della rotazione e segno opposto per l'altra
metà. Sulla bobina, l'alternatore induce quella che si chiama una tensione alternata.
La tensione alternata ha nel tempo andamento sinusoidale e nel tempo di una rotazione
(periodo) oscilla tra un valore massimo positivo Vmax e un valore minimo negativo Vmin ,
di ugual valore assoluto.
Figura 6.24 Tipico alternatore che si usa in elettromeccanica
Figura 6.23 Alternatore storico
Figura 6.25 Alternatori di centrali elettriche (d'epoca)
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L'alternatore si caratterizza in base alle dimensioni e al tipo di energia che lo mette in rotazione. Quello che, facendo attrito
con la ruota della bicicletta, ne accende la lampadina è un piccolissimo alternatore ad energia animale (chimica), quelli
enormi che si trovano nelle centrali elettriche possono essere tenuti in rotazione utilizzando energia meccanica (centrali
idroelettriche), energia chimica (centrali termoelettriche), energia nucleare (centrali nucleari).
La tensione alternata si caratterizza per il valor
massimo e per la frequenza (l'inverso del
periodo). La tensione distribuita nelle nostre
abitazioni è una tensione alternata con valor
massimo di circa 310 volt ed una frequenza di
50 Hz.
Ora possiamo ben valutare l'importanza delle
scoperta di Faraday: grazie all'induzione
elettromagnetica
è
stato
possibile
l'avanzamento straordinario della tecnologia e
della qualità della vita degli ultimi 150 anni.
Figura 6.26 Caratteristiche della tensione di rete
n
6.12 - VALORE EFFICACE DI TENSIONE E CORRENTE ALTERNATE
Il valore alternato della tensione e della conseguente corrente, generalmente non costituiscono un problema per il
funzionamento delle macchine elettriche (elettrodomestici e altro). All'interno, di quelle che per funzionare hanno bisogno
di una corrente continua, c'è un apparato chiamato raddrizzatore che, come dice il nome trasforma la tensione alternata
in tensione continua. La lampadina, sia a incandescenza che al neon e, ora, anche quella a led, è un esempio di macchina
elettrica che ben funziona con la corrente alternata. Poco importa che il verso del moto elettronico cambi 50 volte al secondo,
quello che importa è che il filamento o il gas si riscaldino per il passaggio della corrente.
Ma come fare allora per calcolare l'energia consumata per effetto Joule?
Come fare a sapere a quale corrente continua nota, corrisponde una corrente alternata, per avere lo stesso effetto Joule?
Si chiama valore efficace di una tensione alternata (o di una corrente), il valore di tensione continua (corrente continua)
che darebbe lo stesso effetto Joule. Per ottenere il valore efficace di una tensione o di una corrente alternate è sufficiente
dividerne il valor massimo per
:
Noi diciamo che la nostra tensione di rete è di 220 Volt. Questo avviene perché gli strumenti di misura sono tarati per
misurare la tensione alternata (i voltmetri) e la corrente alternata (gli amperometri). Il valore di 220 v, che leggerebbe un
voltmetro deriva, quindi, da:
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
n
6.13 - TRASFORMATORE
Prendiamo due bobine con un diverso numero di spire e
avvolgiamole su uno stesso anello di ferro. Abbiamo
costruito un trasformatore. Applicando una tensione
alternata su una delle due bobine (primario), vi passerà
una corrente alternata il cui flusso magnetico variabile
investe pienamente, grazie all'anima di ferro, la seconda
bobina (secondario).
Il flusso magnetico variabile indurrà nel secondario una
forza elettromotrice, alternata anch'essa, di valor massimo
diverso. Il valor massimo della tensione indotta nel
secondario si ottiene dalla seguente semplice relazione:
Figura 6.27 Schema di un trasformatore
La forza elettromotrice in uscita
è pari a quella in entrata
moltiplicata per il rapporto tra il numero di spire del
secondario
e quello del primario
.
Se il numero di spire del secondario è maggiore di quello del primario si avrà un'amplificazione della forza elettromotrice,
nel caso contrario si avrà una riduzione.
Attenzione: i miracoli non esistono!
La potenza in uscita non potrà mai superare la potenza in entrata, in quanto contravverrebbe al principio di conservazione
dell'energia.
Nel caso di un trasformatore ideale, che non abbia alcuna dispersione di energia, la potenza in uscita uguaglierà quella in
entrata. Dato che la potenza di un circuito è data da W = ∆V · i , quanto appena affermato significa che, se la tensione
, allora la corrente massima
alternata nel primario vale
e vi passa una corrente ip e la tensione nel secondario è
che il secondario può erogare sarà:
Se, quindi, si è realizzata un'amplificazione della tensione, la corrente massima erogabile dal secondario sarà inferiore a
quella che circola nel primario.
All'interno di quasi tutte le macchine elettriche di uso comune c'è un trasformatore, che riduce la tensione al valore
desiderato, poi il raddrizzatore. Si pensi ad una radio portatile a doppia alimentazione o ad un computer portatile: funzionano
entrambi con le sole pile, oppure attaccati alla rete. Ciò significa che funzionano a tensione continua del piccolo valore delle
pile; quando sono attaccati alla rete ci sono, evidentemente, in azione un trasformatore e un raddrizzatore.
Il trasformatore, usato, quindi, quasi sempre per ridurre la tensione, almeno in un caso lo si utilizza per amplificarla e di
molto. Nelle centrali elettriche, la tensione alternata generata dagli alternatori (o turbine) viene enormemente amplificata
tramite dei trasformatori, per renderla trasportabile con bassa dispersione energetica.
La tensione molto alta (circa 500.000 volt) nel trasporto attraverso i cavi di alta tensione non può produrre in essi se non
una corrente molto piccola, per il ragionamento fatto sui limiti determinati dalla potenza del primario, quindi l'energia persa
sotto forma di effetto Joule (U = R · i2) rimane contenuta.
Non ci si faccia sviare dalla legge di Ohm, che in questo caso non è applicabile. Si ricordi, infatti, che la legge di Ohm è
applicabile a condizione che la corrente richiesta non faccia superare al generatore la sua massima potenza.
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7 ONDE
Figura 7.0 Onde del mare
n
7.1 - LE ONDE INTORNO A NOI
Quando ascoltiamo la parola onda, la nostra mente ci porta immediatamente all’immagine dell’onda del mare. Il fenomeno
onda, però, è molto più “ricco” e, se riflettiamo un istante, ci accorgeremo che il mondo intorno a noi è pieno di onde di
ogni tipo. Da qui l’importanza che lo studio delle onde ha in fisica e non solo.
Se parliamo emettiamo delle onde (il suono è un’onda), guardando tutto intorno a noi rileviamo onde provenienti da ogni
dove (la luce è un’onda), toccando qualunque oggetto provochiamo al suo interno delle microvibrazioni (e le vibrazioni
nella materia sono onde) e lo stesso accade mentre camminiamo (provochiamo nel terreno delle onde: si pensi all’immagine
cinematografica dell’indiano che mette l’orecchio a terra per percepire quelle create da cavalli in lontananza); anche i
terremoti sono onde. Le onde sono un fenomeno straordinariamente diffuso e, di conseguenza, in un corso di fisica, che
ha l’obbiettivo di indagare le leggi della natura, non si può fare a meno di occuparsene.
In questo capitolo ci faremo un’idea del fenomeno ondulatorio, anche se non ne approfondiremo lo studio, che comporta
notevoli difficoltà matematiche.
Per capire cos’è un’onda, definirla e studiarne le caratteristiche, creiamo noi delle onde semplici ed osserviamole. Anche
se il laboratorio in cui questo avverrà sarà la nostra mente, ci conforti il fatto che gli esperimenti, immaginati con la dovuta
pazienza, sarebbero facilmente ripetibili anche in casa.
Figura 7.2 Onda sulla superficie di un liquido
Figura 7.1 Onda su un corda tesa
Abbiamo due modi semplici per creare delle onde:
- Avendo una corda legata per un’estremità ad un muro, possiamo tenderla e muovere l’altra estremità su e giù, con
movimento regolare. Sulla corda si creerà un’onda, come in figura, che propaga il movimento dell’estremità libera a tutti
i punti della corda.
- Avendo una vasca da bagno semipiena d’acqua, possiamo immergere ed estrarre un dito, continuando l’operazione con
cadenza regolare. Sulla superficie dell’acqua si creerà un’onda che pian piano investe tutta la superficie.
111
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Che cosa hanno in comune questi fenomeni?
- In entrambi i casi c’è un punto di un mezzo (corda, acqua) sollecitato da una forza a muoversi di moto periodico (che si
ripete uguale dopo uno stesso intervallo di tempo).
- In entrambi gli esperimenti, a causa del fatto che le particelle del mezzo si scambiano forze d tipo elastico (le forze di
coesione) il movimento del punto sollecitato si propaga via via alle particelle adiacenti.
- In entrambi i mezzi la velocità con cui il movimento di su e giù viaggia rimane costante.
- In entrambe le situazioni, ogni punto del mezzo, a parte il moto di su e giù, non si sposta dalla propria posizione.
Utilizziamo queste considerazioni per definire un’onda: si dice che c’è un fenomeno ondulatorio quando in un punto dello
spazio c’è la variazione periodica di una grandezza, o perturbazione (nei nostri esempi l’altezza dei punti del mezzo) e
questa variazione si propaga ai punti adiacenti con velocità costante. Possiamo aggiungere che, non essendoci un reale
spostamento di materia nello spazio, un’onda è un fenomeno che fa viaggiare l’energia senza un corrispondente
spostamento di materia.
n
7.2 - EQUAZIONE DELLE ONDE ARMONICHE
Come sappiamo le forze che si scambiano le particelle di un corpo (solido, liquido o gassoso) sono di tipo elastico: forzate
ad avvicinarsi si respingono, forzate ad allontanarsi si attraggono. La deformazione di un corpo in un punto produce, perciò,
forze elastiche di ritorno, che propagano la deformazione da particella a particella. Dalla deformazione si originano perciò
onde elastiche (o meccaniche).
Se la deformazione (perturbazione) avviene con moto armonico, le onde che ne derivano si dicono armoniche.
Negli esempi precedenti, le onde generate sarebbero armoniche se il moto dell’estremità libera della corda o l’immersione
del dito nell’acqua avvenissero di moto armonico.
É importante sapere che una qualunque onda generica si può matematicamente ottenere come la somma di un certo
numero di onde armoniche e questo ci induce a concentrare la nostra attenzione su questo tipo di onde.
Figura 7.3 L'onda in blu è la somma delle due onde sinusoidali in nero
Come sappiamo dalla meccanica, se il moto dell’estremità libera della corda fosse armonico la sua equazione del moto
sarebbe:
dove:
- y è la posizione istantanea (t) del punto,
- A l’ampiezza massima dell’oscillazione,
- w la pulsazione,
- j0 la fase iniziale che dipende dalla posizione del punto all’istante t = 0.
Ricordando poi che
con T periodo dell’oscillazione, e, ipotizzando una fase iniziale nulla, possiamo scrivere:
la cui rappresentazione grafica ha forma sinusoidale.
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Figura 7.4 Andamento nel tempo della perturbazione in un punto del mezzo
Il grafico in figura rappresenta, nel tempo, la posizione del punto iniziale della corda (x = 0); ma rappresenta anche lo
spostamento verticale che, con un certo ritardo, subiranno tutti gli altri punti. Se la perturbazione viaggia con velocità v, il
ritardo con cui comincia il moto armonico verticale di un punto distante x dall’origine è
Vale a dire che un punto, distante x dall’origine, assume la posizione del punto iniziale con un ritardo di ∆t secondi o, che
è la stessa cosa, il punto generico, in un istante qualunque di tempo t, ha la posizione verticale che aveva il punto iniziale
∆t secondi prima.
Per questo punto generico, allora, riferendoci ad un istante di tempo qualunque, possiamo riscrivere l’equazione del moto
in questo modo:
vale a dire:
Denominando poi “ lunghezza d’onda l” la distanza tra due punti del mezzo che hanno la massima, o la minima, posizione
verticale, vale evidentemente: l: vT
e possiamo riscrivere la precedente equazione nella forma più nota, detta equazione delle onde armoniche:
Questa equazione, una volta noti il periodo dell’oscillazione T e la sua ampiezza A, che dipendono dal moto imposto al
punto iniziale della perturbazione, nonché la velocità di propagazione dell’onda v, che dipende dal mezzo in cui la
perturbazione viaggia (l: vT), ci consente di conoscere la posizione di ogni punto (x) ad ogni istante di tempo (t).
Dando un qualunque valore alla posizione orizzontale della corda (x = K), dall’equazione otteniamo il moto nel tempo di
quel particolare punto:
da cui notiamo che anche il moto di un punto generico è un moto armonico, con fase j data da:
Se consideriamo invece un istante particolare di tempo (t = Z), otteniamo la posizione verticale di tutti i punti della corda in
quell’istante, di fatto una foto istantanea della corda:
Anche in questo caso si tratta di una (co)sinusoide; ma mentre la prima è una sinusoide nel tempo, quest’ultima è una
sinusoide nello spazio.
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Figura 7.5 Posizione dei punti del mezzo in un determinato istante
La stessa forma dei due grafici può indurre in errore, occorre perciò fare attenzione a quello che si sta osservando.
Figura 7.6 Onda su un foglio flessibile
Se la prima immagine che viene alla mente è la rappresentazione spaziale, come nell’onda in figura, occorre ricordare che
ciascun punto del mezzo subisce un’oscillazione nel tempo che ha anch’essa andamento sinusoidale. L’equazione delle
onde armoniche, anche se ricavata per un’onda su una corda, quindi unidimensionale, è utilizzabile anche per le onde
bidimensionali e tridimensionali. È sufficiente scegliere una qualunque direzione, sulla quale vogliamo informazioni del moto
e applicare l’equazione limitatamente a quella direzione
Figura 7.7 Direzione scelta a cui applicare l'equazione delle onde armoniche
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7.3 - RAPPRESENTAZIONE GRAFICA DI UN’ONDA E CARATTERISTICHE
La rappresentazione grafica più comune, classica, di un’onda è quella della funzione “sinusoide”, che viene perciò chiamata
“rappresentazione sinusoidale di un’onda”; essa è qui di seguito riportata.
Caratteristiche principali di un'onda sono ampiezza, lunghezza, frequenza, periodo e velocità.
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Figura 7.8 Nelle immagini sopra sono riportate onde di diversa ampiezza e frequenza
Il periodo (T) è la durata temporale dell’oscillazione armonica di ogni punto del mezzo [S]
1
La frequenza (f) è il numero di oscillazioni in un secondo; essa è l’inverso del periodo f =
[hz]
T
L’ampiezza (A) è il massimo spostamento rispetto alla posizione di quiete [m]
La lunghezza d’onda è la distanza tra due creste o due ventri successivi [m]
La velocità di propagazione è legata alla lunghezza d’onda e al periodo:
n
7.4 - CLASSIFICAZIONE DELLE ONDE
Come abbiamo detto il fenomeno ondulatorio è straordinariamente diffuso e vario e la stessa classificazione delle onde
può essere fatta in base a diversi criteri. Vediamone i principali:
• Le onde possono distinguersi in base al tipo di mezzo in cui si propagano:
- Onde meccaniche (elastiche): sono le onde che hanno bisogno di un mezzo. È' il mezzo a subire la perturbazione, ed
attraverso il mezzo che la perturbazione si propaga. Finora abbiamo parlato solo di questo tipo di onde.
- Onde non meccaniche: ci sono delle onde che consistono nella perturbazione di una grandezza che esiste anche nel
vuoto (campo elettrico, campo magnetico, campo gravitazionale), di conseguenza non hanno bisogno di un mezzo per
propagarsi e viaggiano anche nel vuoto. Sono di questo tipo tutte le onde elettromagnetiche e le onde gravitazionali.
• Le onde possono distinguersi in base alle dimensioni del mezzo in cui si propagano:
- Onde unidimensionali: sono unidimensionali le onde che si propagano in un'unica direzione, come l’onda su una corda
o l’onda che si ottiene picchiando longitudinalmente sull’estremità di un asta metallica.
Figura 7.9 Onda d'urto in un asta metallica colpita da una sfera
- Onde bidimensionali: sono le onde che si propagano su una superficie, come le onde d’acqua.
- Onde tridimensionali: sono le onde che, a partire dal punto d’origine, si propagano in ogni direzione dello spazio, come
il suono e la luce.
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• Le onde possono distinguersi in base alla direzione di propagazione:
- Onde longitudinali: sono quelle onde nelle quali la direzione della perturbazione è la
stessa di quella di propagazione, come nel caso del suono e delle onde d’urto.
- Onde trasversali: sono le onde per le quali la direzione della perturbazione è
perpendicolare alla direzione di propagazione. Sono trasversali le onde su una corda, le
onde elettromagnetiche, ma anche le onde su una superficie piana che sia stata
picchiata perpendicolarmente in un suo qualunque punto.
Figura 7.10 Propagazione sferica
delle onde sonore e della luce
Figura 7.11 Onda trasversale (enfatizzata) su una superficie piana colpita in un punto
• Le onde possono essere classificate anche in base alla forma del fronte d’onda. Si chiama fronte d’onda l’insieme dei
punti che hanno il medesimo valore della grandezza oscillante e la variazione per esse è sincrona. Si può anche dire che
il fronte d’onda è l’insieme dei punti equidistanti dalla sorgente.
- Onde piane: sono quelle il cui fronte d’onda è una linea o un cerchio.
Figura 7.12 Esempi di onde piane
(http://www.lilu2.ch/lilu2dir/materie/scienze_sperimentali
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- Onde sferiche: sono quelle il cui fronte d’onda è una sfera, come nel caso del suono e della luce.
Figura 7.12 Esempi di onde piane
(http://www.lilu2.ch/lilu2dir/materie/scienze_sperimentali
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7.5 - PROCESSI TIPICI DI UN MOTO ONDULATORIO
Mentre le onde si propagano possono subire diversi processi. Nell’elenco che segue i primi tre processi (attenuazione,
riflessione, rifrazione) possono accadere anche in situazioni fisiche in cui non sia presente un moto ondulatorio, tutti gli altri
sono, invece, specifici delle onde. Di conseguenza, quando in un fenomeno si notano processi di questo tipo, si può
concludere con tranquillità che si tratta di un fenomeno ondulatorio.
- Attenuazione: Quando le onde si propagano, tutte quelle con un fronte d’onda che si ingrandisce via via, devono
necessariamente attenuarsi, cioè la loro ampiezza deve diminuire. Per capire la necessità teorica dell’attenuazione è
necessario sapere che l’energia di un tratto
qualunque dell’onda è direttamente
proporzionale al quadrato dell’ampiezza. Ne
consegue che, nel caso in cui il fronte
d’onda sia un cerchio o una sfera, l’energia
si distribuisce in uno spazio sempre
maggiore e, se non si attenuasse, ci
sarebbe
un
aumento
progressivo
dell’energia, in violazione del principio di Figura 7.14 Attenuazione di un'onda il cui fronte investe uno spazio sempre maggiore
http://fisi2lmariotti.blogspot.it/2014/03/le-onde-la-riflessione-e-la-rifrazione.html
conservazione.
- Riflessione: Un’onda, che incontra una parete sufficientemente
liscia, viene riflessa. L’angolo di riflessione di un’onda (r),
relativamente alla perpendicolare al piano, è uguale di incidenza (i).
Per parete sufficientemente liscia va inteso che le eventuali
scabrosità debbano essere molto più piccole della lunghezza
d’onda.
- Rifrazione: la velocità di propagazione di un’onda, come già
detto, dipende dal mezzo in cui l’onda viaggia; di conseguenza
quando un’onda passa da un mezzo trasparente ad un altro
cambia la velocità e questo comporta una deviazione della
direzione di propagazione.
Approfondiremo questo fenomeno quando ci occuperemo dei Figura 7.15 Riflessione di un onda
raggi luminosi.
http://www.peoplephysics.com/leggi-fisica10.html
117
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Figura 7.16 Rifrazione di un'onda
http://www.peoplephysics.com/leggi-fisica10.html
Figura 7.17 Sovrapposizione positiva di onde
-Interferenza: il fenomeno dell’interferenza è una logica conseguenza
del principio di sovrapposizione. Secondo questo principio,
quando in un punto del mezzo giungono più onde
contemporaneamente, la perturbazione del punto è la somma delle
singole perturbazioni. Le onde continuano poi il loro cammino senza
essersi disturbate vicendevolmente.
Naturalmente, nei punti del mezzo in cui la perturbazione giunge
positivamente o negativamente per entrambe le onde, ne risulterà un
potenziamento della perturbazione (si dice che le onde in quel punto
sono in fase). Nei punti in cui la perturbazione di un’onda ha segno
positivo e quella dell’altra segno negativo, ne risulterà una diminuzione
della perturbazione o l’annullamento, se le ampiezze sono uguali (si
dice che in quel punto le onde sono in opposizione di fase). Si parla
in questo caso di interferenza distruttiva.
Figura 7.18 Sovrapposizione negativa di onde
Figura 7.19 Monti e valli derivanti da interferenza positiva e interferenza negativa di due onde
- Diffrazione: Quando un’onda incontra un ostacolo o una fenditura, si comporta in maniera affatto diversa da come si
comporterebbe un insieme di particelle che viaggiano nella stessa direzione dell’onda. Per queste, un qualunque ostacolo
sarebbe un impedimento definitivo alla propagazione, non così per le onde.
Nelle onde, la perturbazione di una particella del mezzo, induce una perturbazione in tutte le particelle che le sono adiacenti,
non solo quelle che si trovano nella direzione di propagazione dell’onda.
Questo indusse Christiaan Huygens, contemporaneo di Newton, ad enunciare un principio che porta il suo nome. Secondo
il principio di Huygens ogni punto del mezzo, raggiunto dall’onda, diventa esso stesso sorgente di un’onda secondaria e
l’onda che continua a propagarsi è l’insieme di tutte le onde secondarie prodotte.
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Tenendo conto di questo principio ci si spiega
quello che accade alle onde quando
incontrano ostacoli o fenditure, sia quando
questi sono più grandi della lunghezza d’onda,
sia quando sono più piccoli. Quando un’onda
incontra un ostacolo, piccolo rispetto alla
lunghezza d’onda, lo aggira facilmente,
ricostruendosi subito dopo l’ostacolo. Se
l’ostacolo è più grande della lunghezza
d’onda, dietro di esso si crea una zona
d’”ombra” e l’onda si ricostruisce più in là.
Figura 7.20 Effetto del principio di Huygens su un'onda sferica e su un'onda piana
Ancora più interessante è l’effetto che ha su un’onda l’incontro di una fenditura.
Figura 7.21 Effetto di ostacoli e fenditure su un insieme di
particelle che viaggiano nella stessa direzione
Figura 7.22 Effetto di ostacoli di diversa dimensione
sulla propagazione di un'onda
Tanto più grande è la fenditura in relazione alla lunghezza d’onda, tanto più l’onda ha un comportamento vicino a quello
dell’insieme di particelle. Ma al rimpicciolirsi della fenditura, l’onda comincia a dilatarsi. Fino a che la fenditura finisce per
sembrare sorgente di un’onda sferica.
Figura 7.23 Onda piana che incontra fenditure via via più strette
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Figura 7.24 Onda piana che incontra fenditure via via più strette
http://arcobaleno.wikispaces.com/Diffrazione+ed+interferenza
Ma l’effetto più significativo e caratteristico della diffrazione
consiste nell’alternarsi di fasce chiare e fasce scure su uno
schermo, che raccoglie le onde provenienti da due o più
fenditure.
Osserviamo e spieghiamo questo fenomeno.
Figura 7.25 Effetto della diffrazione su una spiaggia protetta
da sbarramenti separati da piccola distanza
Figura 7.26 Fasce chiare e scure causate dal fenomeno della
diffrazione
http://www.astronomia-euganea.it/
120
Se un’onda attraversa due diverse piccole fenditure, si creano
interferenze tra i due fasci uscenti. Su un schermo posto ad una
certa distanza si rilevano zone colpite dall’onda, alternate a
zone in cui l’onda non arriva affatto.
É intuitivo capire che si tratta di interferenza costruttiva e
distruttiva, ma come avviene?
Come mostrato in figura, in ogni punto dello schermo arrivano
onde provenienti da entrambe le fenditure. Se si tiene conto che
la distanza percorsa non è uguale per le due onde, si
comprende che in alcuni punti, quelli in cui la differenza di
cammino è un numero intero di lunghezze d’onda, esse arrivano
in fase e, quindi, si ha interferenza costruttiva e si rileva il
massimo valore della perturbazione. Nei punti per i quali la
differenza di cammino è un numero dispari di mezze lunghezze
d’onda, esse arrivano in controfase, si ha un’ interferenza
distruttiva e non si rileva perturbazione. Nei punti intermedi si
passa, progressivamente, dal massimo di perturbazione alla
perturbazione nulla.
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- Dispersione: questo effetto è legato alla rifrazione. Quando un’onda passa
da un mezzo ad un altro, oltre a subire una deviazione della direzione di
propagazione, può essere scomposta in varie onde di diversa frequenza,
ognuna delle quali subisce una differente deviazione.
Approfondiremo questo fenomeno quando ci riferiremo espressamente alla
luce.
- Effetto Doppler: questo effetto si verifica quando la sorgente delle onde è
in moto relativamente alla direzione di propagazione. Nella direzione di
propagazione si avrà un approssimarsi delle creste, quindi, una diminuzione
della lunghezza d’onda e un aumento della frequenza. Nella direzione
opposta avverrà un allontanamento delle creste, quindi, un aumento della
lunghezza d’onda e una diminuzione della frequenza.
Un effetto Doppler è facilmente rilevabile quando un’ambulanza a sirene
Figura 7.27 In blu interferenza costruttiva, in rosso
spiegate ci viene incontro e poi si allontana da noi. Nel primo caso il suono interferenza distruttiva
viene percepito più acuto, quando si allontana il suono è percepito più grave.
Figura 7.28 Visualizzazione dell'effetto Doppler
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8 LA LUCE
Dei laser vengono utilizzati per realizzare effetti speciali durante
uno spettacolo
Fasci di luce solare che filtrano tra le nubi
Una porzione di un arcobaleno di 360 gradi, vista da un aereo
Differenti livelli di luminosità di una fotografia
n 8.1 - NATURA DELLA LUCE
L’idea che gli uomini hanno elaborato nel tempo circa la natura della luce è affascinante perché si tratta di comprendere un
ente che ha mostrato alla fine di avere una natura “ambigua” e assolutamente controintuitiva.
Visitare questa storia è particolarmente istruttivo perché dà un’idea del reale progredire della scienza: non una facile
avanzata in direzione della conoscenza, senza dubbi e senza ripensamenti, ma un faticoso cammino, pieno di ostacoli,
durante il quale, non di rado, tornano a dimostrarsi valide ipotesi precedentemente abbandonate.
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Cominciamo col dire che nell’antichità si credeva che fossero gli occhi ad emettere raggi, che urtando contro gli oggetti,
tornavano agli occhi e facevano percepire l’oggetto colpito. La velocità di questi raggi era evidentemente infinita, giacché
appena si aprivano gli occhi si vedevano sia oggetti vicini, sia stelle lontanissime. Apparentemente questi raggi erano capaci
di percorrere distanze cosmiche in un battibaleno.
Questa idea può sembrare oggi ingenua o stravagante, ma si pensi al radar e alle onde soniche emesse dai pipistrelli:
funzionano proprio in questo modo. Quindi, quell’idea aveva qualche ragion d’essere.
Questa ipotesi, sulla natura della luce, dava il fianco ad una obbiezione di logica stringente: se sono gli occhi ad emettere
raggi visivi, come mai quando si è al buio, gli occhi non riescono a “vedere”?
Di conseguenza, l’ipotesi fu lentamente abbandonata a favore di un’idea più vicina alla realtà: ci sono sorgenti che emettono
luce e la luce, colpendo gli oggetti e rimbalzando ai nostri occhi, ci consente la visione.
Ma rimaneva la domanda: com’è costituita la luce?
8.1.1 TEORIA CORPUSCOLARE E TEORIA ONDULATORIA DELLA LUCE
Nella seconda metà del ‘600 presero finalmente corpo le due teorie scientifiche sulla natura della luce, che si sarebbero
date battaglia a lungo: la teoria corpuscolare della luce ad opera di Isaac Newton e la teoria ondulatoria della luce
proposta da Christiaan Huygens.
Secondo la teoria corpuscolare la luce era costituita da microscopici corpuscoli emessi in ogni direzione dalle sorgenti
luminose. Questi corpuscoli viaggiavano in linea retta fino ad incontrare degli ostacoli, che ne deviavano la direzione di
marcia, in base all’angolo con cui la loro superficie veniva colpita. I corpuscoli che arrivavano agli occhi permettevano la
vista: sia se provenienti direttamente dalle sorgenti luminose, sia se provenienti da oggetti che li avevano deviati.
La teoria di Huygens differiva da quella di Newton nella parte più sostanziale:
in questa teoria la luce non era formata da corpuscoli ma era un fenomeno
ondulatorio
Entrambe le teorie avevano un punto di forza e un punto critico. Il punto di
forza della teoria newtoniana, coincideva con la criticità della teoria rivale.
Essendo ben noto che l’aria diventa rapidamente più rarefatta con l’altitudine,
era accettato da tutti che a separare i corpi celesti non vi fosse nulla, almeno
non aria.
Ma avendo fino ad allora conoscenza delle sole onde elastiche, sembrava
necessaria la presenza di un mezzo perché ne potessero esistere e
propagarsi. I corpuscoli, allora, avrebbero potuto attraversare il vuoto
cosmico, le onde no.
C’era però un argomento a favore della teoria ondulatoria: la luce sembrava
subire diffrazione e la diffrazione è incompatibile con l’idea di corpuscoli in
movimento.
Era stato il gesuita bolognese padre Francesco Maria Grimaldi, intorno al
1650, a realizzare esperimenti che mostravano come la luce passando vicina
ad ostacoli non continuasse a procedere rettilineamente e potesse aggirarli,
almeno in parte. Nell’esperimento a lato, ad esempio, fidando sulla teoria
corpuscolare, una sorgente puntiforme con un ostacolo opaco, dovrebbe
generare un’ombra definita e completamente oscura.
Si nota, invece, che dietro l’ostacolo arriva una certa quantità di luce e anche
la parte più nascosta non ne è totalmente priva, come rappresentato nella
successiva figura La teoria di Newton, tra le due antagoniste, risultò per
decenni più popolare, grazie all’ immensa e meritata fama del grande
scienziato inglese.
Nel 1801, però, un esperimento realizzato da Thomas Young, cambiò
definitivamente le carte in tavola, dichiarando vincente la teoria ondulatoria
della luce. Già era noto che, facendo passare la luce attraverso una stretta
fenditura, si otteneva su uno schermo l’allargamento della zona illuminata
124
Figura 8.1 Ombra presunta
corpuscolare della luce
dalla
teoria
Figura 8.2 Ombra effettivamente prodotta da
un ostacolo
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rispetto alle dimensioni della feritoia. Anche se questo era sinonimo di diffrazione, Newton lo aveva giustificato col fatto che
i corpuscoli, sfiorando le pareti della fenditura, subivano delle forze che ne deviavano la direzione di marcia.
Young mostrò che, aprendo una seconda fenditura vicino alla prima, invece di ottenere un aumento di luminosità in tutti i
punti dello schermo, come sarebbe accaduto in caso di corpuscoli, si creavano delle fasce chiare e scure, quindi, in alcuni
punti dello schermo la luminosità diminuiva rispetto alla singola fenditura.
Questo effetto, non più giustificabile da una teoria corpuscolare, era, invece, naturale per una teoria ondulatoria, e mise la
parola fine alla diatriba, ma solo per un secolo!
Figura 8.3 Risultato dell'esperimento di Young
Il problema del mezzo in cui le onde luminose si propagano, fu risolto da Fresnel che, pochi anni dopo l’esperimento di
Young, rispolverò un ente di lontane origini filosofiche, l’etere cosmico.
Egli suppose che il cosmo fosse uniformemente pieno di un fluido elastico ma estremamente tenue, tanto da non provocare
attrito sui corpi che lo attraversassero, ed era questo fluido, che chiamò etere, a oscillare e a trasportare le onde luminose.
Nel 1865 James Clerk Maxwell riuscì a dimostrare che la luce era un’onda elettromagnetica, consistente, cioè, in un
concatenamento di campo elettrico e campo magnetico che, generandosi reciprocamente, si allontana dalla sorgente
come onda sferica. Era, così, dimostrato anche teoricamente che la luce era un fenomeno ondulatorio.
Anche Maxwell asserì che l’etere era il mezzo in cui l’onda luminosa si propagava.
Negli anni successivi furono ideati vari esperimenti che dimostrassero la presenza dell’etere, ma nessuno di questi dette
esito positivo. Si faceva strada l’idea che campo elettrico e campo magnetico potessero avere significato
fisico anche nel vuoto e che non ci fosse affatto bisogno, nel caso delle onde elettromagnetiche di un mezzo “elastico” che
le propagasse.
All’inizio del Novecento nessuno più dubitava che la luce fosse un
fenomeno ondulatorio, ed ecco, almeno in apparenza, un nuovo
rivolgimento di fronte. C’era in campo un problema teorico:
l’effetto fotoelettrico. Questo effetto consisteva nel fatto che
inviando della luce, con frequenza superiore ad un certo valore,
sulla superficie di alcuni metalli, se ne notava l’espulsione di
elettroni. Non c’era, però, spiegazione al fatto che, inviando della
luce di frequenza inferiore, non si riusciva ad ottenere espulsione
di elettroni, per quanto il fascio lo si facesse intenso?
A questo dilemma dette soluzione Albert Einstein nel 1905. Egli
affermò che la radiazione luminosa, si propaga a “pacchetti”,
ognuno con un’uguale quantità di energia. Per l’espulsione degli
elettroni, allora, non conta la quantità totale di energia radiante,
conta invece la quantità di energia di ciascun pacchetto.
Per capire la situazione si pensi ad un campo di calcio in cui
giocano dei bimbi. Il campo è circondato da un terrapieno, dato
che si trova in un avvallamento. Nessuno dei bimbi riesce a dare
un calcio forte a sufficienza per far superare al pallone il terrapieno.
Figura 8.4 Rappresentazione di un'onda elettromagnetica
http://www.chimica-online.it
Figura 8.5 Effetto fotoelettrico
http://www.chim.unipr.it
125
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Quindi, per quanto numerosi siano i tentativi, il pallone tornerà sempre nel campo.
Basta, però, un solo calcio dato dall’allenatore perché il pallone riesca a superare il dislivello e uscire dal campo.
Per gli elettroni della superficie metallica la situazione è dello stesso tipo: colpiti da
“pacchetti” di energia insufficiente, non fuoriescono per quanto numerosi siano questi
pacchetti. Usciranno dalla superficie, superando il dislivello energetico, solo se colpiti da
pacchetti di energia sufficiente. Questi pacchetti di energia radiante furono chiamati fotoni
ed ognuno di essi aveva un’energia direttamente proporzionale alla frequenza dell’onda
elettromagnetica E = hv, con h costante universale e v la frequenza dell’onda.
Riecco una teoria, in un certo senso, corpuscolare, che quantizza anche la radiazione
Figura 8.6 Giano Bifronte
elettromagnetica. Questa radiazione consiste in una miriade di corpuscoli di energia, i fotoni,
che, emessi dalla sorgente, viaggiano in ogni direzione rettilineamente.
Ma la radiazione elettromagnetica era anche indiscutibilmente un’onda. E allora?
Allora la luce, la radiazione elettromagnetica in generale, va concepita come un Giano Bifronte, l’essere mitologico con due
facce contrapposte, di cui se ne poteva vedere solo una alla volta.
La radiazione elettromagnetica è un ente fisico che in alcune situazioni si mostra come un’onda, e come tale va considerato,
in altre situazioni si mostra come insieme di fotoni, e come tale va considerato. Non esistono situazioni fisiche in cui la luce
si presenti in entrambe le modalità interpretative.
n 8.2 - VELOCITÀ DELLA LUCE
Nell’antichità si pensava che la luce si propagasse istantaneamente, ovvero che la sua velocità non fosse calcolabile; solo
nel 1676 l’astronomo danese Römer riuscì a dimostrare, su basi astronomiche, che la luce aveva una velocità finita.
Nel 1849 il fisico francese Fizeau concepì un apparato sperimentale con cui riuscì a misurare la velocità della luce, ottenendo
il valore:
Fu proprio questa conoscenza che fece comprendere a Maxwell che la luce fosse una particolare onda elettromagnetica.
Queste onde, ancora ipotetiche, apparivano nelle sue equazioni, come un effetto del moto accelerato delle cariche elettriche.
Ma dalle stesse equazioni era calcolabile la velocità che avrebbero dovuto avere tali onde, ed era appunto un valore prossimo
a quello misurato da Fizeau. La realtà fisica delle onde elettromagnetiche fu, in seguito, dimostrata dal fisico tedesco Heinrich
Rudolf Hertz, ma ormai era chiaro che la luce ne facesse parte. Miglioramenti nella progettazione e nella sensibilità di apparati
sperimentali, in particolare da parte dello statunitense A. Michelson nel 1923, portarono il valore di c, simbolo con cui si
indica la particolare velocità delle onde elettromagnetiche nel vuoto, al seguente:
Il valore della velocità della luce nel vuoto oggi accettato è:
Nell’aria la velocità della luce ha un valore molto vicino a quello del vuoto e per entrambe queste velocità si assume di solito
il valore approssimato:
Importante sottolineare che la velocità della luce non obbedisce alla relatività galileiana; non cambia, cioè, se la sorgente di
luce è in moto relativo rispetto all’osservatore. Da qualunque sistema di riferimento si misura, la velocità della luce ha sempre
lo stesso valore c.
126
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n 8.3 - SPETTRO ELETTROMAGNETICO, SPETTRO DI EMISSIONE E SPETTRO DI
ASSORBIMENTO
In generale, le onde elettromagnetiche sono emesse da qualunque carica elettrica che sia costretta a muoversi di moto
accelerato. Fanno eccezione, come sappiamo, gli elettroni in orbita attorno al proprio nucleo.
Si prenda come esempio il caso di elettroni ad alta velocità mandati a sbattere contro un ostacolo: subiscono
una brusca decelerazione ed emettono, per questo, raggi X, formati da fotoni altamente energetici.
La luce rappresenta solo una piccola parte delle onde elettromagnetiche esistenti in natura, vale a dire che la frequenza
delle onde luminose è solo una piccola parte dello “spettro elettromagnetico”. Con questa espressione si indica l’insieme
delle frequenze (o delle lunghezze d’onda) di tutta la radiazione elettromagnetica.
Come accennato nel capitolo sulla “struttura della materia”, i fotoni di luce, ma non solo quelli, vengono emessi dagli atomi
eccitati, quando gli elettroni, che per qualche ragione si sono spostati su un orbitale di energia superiore, tornano al loro
stato fondamentale. Il fotone emesso ha energia pari alla differenza di energia associata agli orbitali; maggiore la differenza
di energia maggiore l’energia del fotone e, quindi, la frequenza dell’onda elettromagnetica.
Qualunque corpo (solido, liquido o gassoso), a qualunque temperatura, emette onde elettromagnetiche. Dipende dal fatto
che, in dipendenza dalla temperatura, vale a dire dalla velocità media con cui si muovono, le molecole urtano tra di loro (nei
gas e nei liquidi) o semplicemente interagiscono con una certa energia (nei solidi). Gli urti tra le particelle e le loro interazioni,
producono lo spostamento degli elettroni più esterni su orbite di maggior energia. Gli atomi perciò si eccitano e sono pronti
ad emettere fotoni. Di norma, vale a dire a temperatura ambiente, i corpi non emettono fotoni di luce, ma emettono
comunque fotoni meno energetici, come i raggi Infra-Rossi.
Anche noi esseri viventi siamo sorgenti di questo tipo di onde elettromagnetiche.
All’aumentare della temperatura, quindi della velocità media, gli urti, come le interazioni, si fanno più
energetici e gli elettroni riescono a saltare su orbitali ancora più esterni. La differenza di energia con
lo stato fondamentale cresce e i fotoni, emessi durante la diseccitazione, hanno maggiore energia e
maggior frequenza la radiazione elettromagnetica. Ad una determinata temperatura, diversa da
sostanza a sostanza, gli atomi cominciano ad emettere anche fotoni di luce: prima luce rossa, quella
di minor frequenza e, continuando ad aumentare la temperatura, la luce emessa cambia colore fino
ad arrivare al blu - violetto.
Figura 8.7
Fiamme di diverso
colore (e temperatura)
Chiunque abbia utilizzato un becco bunsen sa che la fiamma è di vari colori, corrispondenti a varie temperature. L’energia
corrispondente ai vari orbitali è diversa da elemento a elemento, di conseguenza l’energia (il colore) dei fotoni emessi è
anch’essa diversa e caratteristica di ciascun elemento.
L’insieme di colori emessi dall’atomo di ciascun elemento si dice
spettro di emissione di quella specie atomica.
Quell’elemento poi, se bombardato con luce bianca, che è
l’insieme di tutti i colori, assorbirà solo i fotoni che hanno come
energia quella che separa gli elettroni più esterni dagli orbitali
superiori. La luce bianca sarà perciò privata degli stessi colori
che quell’elemento emetterebbe se eccitato e prende il nome di
spettro di assorbimento di quell’elemento. È un po’ come se
fossero l’uno il negativo dell’altro.
Gli spettri di emissione e di assorbimento mettono a disposizione
un eccellente metodo di analisi. Osservare le linee (le frequenze)
emesse o assorbite dalle sostanze in analisi, ne permette l’individuazione certa.
Questo metodo di analisi è risultato di importanza enorme nello sviluppo dell’astrofisica: gli spettri di emissione ed ancor
più gli spettri di assorbimento delle stelle, delle nubi di gas, delle galassie, hanno consentito di conoscerne la composizione
e questa conoscenza ha permesso di capire come l’Universo si sia evoluto.
Figura 8.8 Spettro di emissione e di assorbimento dell’idrogeno
http://www.chim.unipr.it
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Per comprendere come lo sviluppo del pensiero scientifico abbia
cambiato il nostro modo di percepire il mondo, si pensi che alla metà
dell’800, si facevano i primi passi nello sviluppo della spettroscopia,
negli stessi anni in cui il poeta e filosofo Lecomte decretava che agli
esseri umani non era dato conoscere la composizione degli astri.
Come il nostro naso percepisce solo una piccola parte degli odori
presenti nell’aria, come le nostre orecchie percepiscono solo una parte
dei suoni che ci circondano, così i nostri occhi si sono evoluti per
percepire solo una piccola frazione delle onde elettromagnetiche che ci
avvolgono. Noi umani abbiamo, però, fatto evolvere altri “occhi” ed ora
Figura 8.9 Galassia di Andromeda
siamo in grado di percepire le radiazioni dell’intero spettro. Oggi accanto
all’astronomia ottica, con cui osserviamo il cosmo nel visibile,
si sono sviluppate l’astronomia agli infrarossi, agli ultravioletti,
ai raggi X e persino ai raggi g, che ci danno un’immagine
molto più completa e complessa dell’universo. Le onde radio
le “vediamo” da più tempo, grazie alla straordinaria invenzione
della radio da parte di Guglielmo Marconi.
Nella figura a lato è rappresentato l’intero spettro della
radiazione elettromagnetica, con i rispettivi valori di lunghezza
c
d’onda e di frequenza (l =
).
v
Figura 8.10 Spettro elettromagnetico
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n 8.4 - GRANDEZZE FOTOMETRICHE E POTENZA RAGGIANTE DEL SOLE
Tutti sappiamo che la vita sulla Terra è possibile grazie alla presenza del Sole che, irradiandola, la riscalda e mantiene la
temperatura media intorno a 15°C.
In assenza del Sole, la Terra sarebbe una palla di ghiaccio. Ovvio concludere che la luce e le radiazioni elettromagnetiche,
in genere, trasportano energia, che è in parte assorbita dai corpi irradiati.
Possibile allora definire due grandezze fisiche: la quantità di energia emessa al secondo da una sorgente (potenza raggiante
o flusso raggiante), espressa in watt, e la quantità di energia che colpisce al secondo una superficie di 1m2 perpendicolare
alla direzione di propagazione (irradiamento), espressa in Watt/m2.
Facile comprendere che, dato che la superficie di una sfera vale S = 4pr2, al raddoppiare del raggio quadruplica la superficie
Figura 8.11 Legge dell'inverso del quadrato
della sfera, al triplicare del raggio la superficie diventa nove
volte più grande.
Di conseguenza per l’irradiamento di una superficie, da parte
di una sorgente puntiforme, vale la legge dell’inverso del
quadrato, vale a dire che l’irradiamento diminuisce come
l’inverso del quadrato della distanza. Sapendo questo e
riuscendo a misurare l’irradiamento subito dalla Terra,
possiamo calcolare l’energia emessa al secondo dal Sole.
Le misure più recenti, eseguite tramite satelliti, danno
W
l’irradiamento della Terra pari circa a: I = 1400
.
m2
La superficie della Terra, perpendicolare a questo irradiamento, è la superficie di taglio, vale a dire la superficie di una
circonferenza col raggio pari al raggio terrestre: S = pr2 = p · (6.4 · 106m)2 = 1.28 · 1014m2.
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Ora è sufficiente vedere quante volte la superficie di
taglio della Terra entra nella superficie di una sfera col
raggio pari alla distanza Terra-Sole (circa 2 miliardi di
volte) e moltiplicare l’irradiamento della Terra per quel
valore (vedi figura).
Ne risulta lo straordinario valore di 3,86 × 1026W.
Figura 8.12 Irradiamento della Terra
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9 OTTICA GEOMETRICA
Si dicono sorgenti di luce (o corpi luminosi) i corpi che emettono luce propria. Nell’Universo sono sorgenti di luce tutte
le stelle; nel nostro mondo, oltre alla sorgente naturale costituita dal Sole, esistono una miriade di sorgenti artificiali di
luce. Lo sono una candela, il filamento di una lampadina, il ferro fuso di una fonderia e comunque tutte le sostanze la cui
temperatura superi gli 800°.
Ma esistono anche sorgenti di luce “fredde”, come i neon e i led.
I corpi attorno a noi sono visibili quando sono illuminati da una sorgente, perché diffondono la luce in tutte le direzioni,
anche verso i nostri occhi. In questo caso si chiamano corpi illuminati.
L’esempio, a ragione più noto, è quello della Luna, visibile ai nostri occhi perché rimanda la luce proveniente dal Sole.
131
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
n 9.1 - CORPI TRASPARENTI E OPACHI
I corpi possono essere attraversati dalla luce, oppure no. Nel primo caso si dicono trasparenti, nell’altro opachi. Nessun
corpo è totalmente trasparente: una parte della luce incidente viene comunque riflessa. Persino l’atmosfera riflette una
parte della luce del Sole che la colpisce. Inoltre, la trasparenza dipende non solo dalla sostanza di cui un corpo è costituito,
ma anche dal suo spessore. Uno spessore sottilissimo può rendere trasparente un corpo di norma opaco così come un
grande spessore può rendere opaco, per l’assorbimento totale della luce, un corpo di norma trasparente. Per guardare
direttamente il Sole, ad esempio, possiamo utilizzare tanto un vetro annerito con il fumo, quanto una lamina metallica se
questa è sufficientemente sottile. Nel mare, alla profondità di circa 500m, di luce non ne arriva del tutto in quanto viene
assorbita dallo strato di acqua soprastante. In conclusione è opportuno parlare di grado di trasparenza dei corpi.
n 9.2 - PROPAGAZIONE RETTILINEA DELLA LUCE
La luce si muove rettilineamente. Per accertarsene basta mandare della luce su uno schermo opaco con al centro un
piccolo foro. Se, oltre il primo schermo, c’è n’è un altro identico ed in fondo uno schermo scuro, si nota che il cerchio
illuminato sul cerchio scuro è allineato con i cerchi (fori) dei primi due schermi (vedi figura).
Figura 9.1 Propagazione rettilinea della luce
Questo non contraddice quanto abbiamo detto in merito alla diffrazione delle onde, perché i suoi effetti si fanno sentire
solo quando il foro è tanto piccolo da essere paragonabile alla lunghezza d’onda della luce.
Chiamiamo raggio di luce una qualunque direzione che parta da una sorgente luminosa puntiforme. Con questa
convenzione, quando parleremo di fascio di luce (raggi di luce paralleli), staremo ipotizzando una sorgente posta a
distanza infinita, mentre intenderemo per fascio conico (o cono di luce) un angolo solido di raggi di luce, con il vertice
nella sorgente.
Figura 9.2 Raggi di luce, fascio di luce (parallelo) e cono di luce (fascio conico)
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Conseguenza diretta della propagazione rettilinea della luce sono l’ombra, la penombra e i diversi tipi di eclissi
Figura 9.3 Una sorgente puntiforme, se incontra un ostacolo, produce ombra
Figura 9.4 Una sorgente estesa, se incontra un ostacolo, produce ombra e penombra
L’ombra viene prodotta quando la luce, proveniente da una sorgente puntiforme, incontra un ostacolo. Come mostrato
in figura, questo accade per il fatto che il corpo opaco ferma tutti i raggi del cono che ha il vertice nella sorgente e la
base nella massima sezione del corpo. La penombra si crea quando la sorgente è estesa, perché ci sono punti in cui
non arriva alcuna luce (ombra) e punti in cui arriva solo la parte di luce proveniente dalla frazione della sorgente in
opposizione al punto: la parte superiore della sorgente fa penombra in basso, la parte sinistra fa penombra a
destra ecc.
Figura 9.5 Eclissi di Luna
133
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
Le eclissi possono essere di Luna (quando è occultata la Luna) o di Sole (quando è la Luna a occultare il Sole). Quando
Sole, Terra e Luna si allineano, la maggiore dimensione della Terra impedisce del tutto alla luce del Sole di colpire la
Luna. Di conseguenza la Luna, che prima dell’allineamento era visibile dalla Terra, non può più riflettere la luce e smette
di essere visibile, per la durata dell’allineamento. Questa è l’eclissi di Luna (Luna eclissata).
Figura 9.6 Eclissi di Sole, con zona d'ombra e zona di penombra
Quando l’allineamento dei tre corpi vede la Luna interposta a Sole e Terra, sul nostro pianeta vi sarà una zona più piccola
in cui la luce del Sole non arriva affatto e in quella zona si dice che l’eclissi (di Sole) è totale. C’è poi una zona di penombra
(vedi figura), generata dal fatto che il Sole, anche se molto distante, è una sorgente estesa e in quella zona si dice che
l’eclissi è parziale (si parla di “corridoio d’ombra”).
n 9.3 - RIFLESSIONE DELLA LUCE
Quando un fascio di luce urta una superficie opaca, di norma, viene
diffuso, i raggi, cioè, vengono dispersi in varie direzioni.
Generalmente, infatti, le superfici dei corpi sono scabre; hanno, cioè,
delle protuberanze e degli avvallamenti di dimensioni paragonabili o
maggiori della lunghezza d’onda della luce, che di conseguenza urta
la superficie con angoli diversi e diversa è la direzione in cui ciascun
raggio viene riflesso.
Quando invece la superficie opaca è levigata al punto che le
scabrosità presenti sono di dimensione inferiore alla lunghezza
d’onda della luce, il fascio di luce in uscita dal corpo rimane coerente;
la luce, quindi, viene riflessa. Il fenomeno della riflessione segue una
Figura 9.7 Diffusione della luce
legge molto semplice: i raggi riflessi hanno, rispetto alla normale al
punto d’impatto, un angolo ( rˆ ) uguale a quello che, con la stessa normale, formano i raggi incidenti ( iˆ ). Inoltre raggio
incidente, raggio riflesso e normale sono complanari. La legge della riflessione è pienamente rappresentata in figura, dove
si vede anche il caso particolare del raggio che, arrivando perpendicolarmente alla superficie, torna su sé stesso.
Figura 9.8 Cambiamento della
lunghezza d'onda nella rifrazione
http://it.wikipedia.org/wiki/Rifrazione
134
Figura 9.9 Legge della riflessione
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n 9.4 - RIFRAZIONE DELLA LUCE
Quando i raggi di luce passano da un mezzo trasparente ad un mezzo anch’esso trasparente, accade che una parte del
fascio viene riflesso, secondo la legge della riflessione, e una parte del fascio attraversa la superficie di separazione, ma
devia rispetto alla direzione originale. Fa eccezione il raggio che colpisce la superficie perpendicolarmente: è l’unico a
continuare il proprio cammino senza deviare.
Come sappiamo dallo studio delle onde, questa deviazione è una conseguenza del fatto che la luce nei due mezzi ha una
velocità diversa. La luce ha la massima velocità nel vuoto e questa velocità diminuisce via via che il nuovo mezzo ha un
grado di trasparenza inferiore, cioè sia, come si dice, otticamente più denso.
Conoscendo la relazione tra la lunghezza d’onda, la frequenza e la velocità di un’onda: c = l · V,
è evidente che al cambiare della velocità debba cambiare la frequenza o la lunghezza d’onda o entrambe. Ma sapendo
che la luce non cambia colore, quindi non cambia di frequenza, a cambiare con la velocità è la lunghezza d’onda. Velocità
e lunghezza d’onda sono allora direttamente proporzionali. Possiamo allora dire che quando la luce passa da un mezzo
otticamente meno denso (più trasparente) ad uno più denso (meno trasparente) la velocità diminuisce, la lunghezza d’onda
diminuisce e il raggio di luce rifratto si avvicina alla perpendicolare. Accade il contrario se al raggio di luce si fa percorrere il
cammino inverso.
L’angolo di deviazione ( dˆ ), vale a dire la differenza tra l’angolo incidente ( iˆ ) e l’angolo rifratto ( rˆ ), non rimane uguale al
cambiare dell’angolo di incidenza, quindi, non è stato semplice cogliere quale fosse la legge con cui i raggi venivano rifratti.
La figura in questo caso non è pienamente esplicativa del fenomeno.
Figura 9.10 Esempi di rifrazione
Furono Snell e Cartesio ad accorgersi della regolarità di comportamento dei raggi rifratti.
Si disegni un cerchio centrato nel punto d’impatto del raggio e con esso complanare; si tirino poi le normali alla superficie
di separazione, partendo dai punti in cui raggio incidente e raggio rifratto toccano la circonferenza. Si individuano in questo
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
modo due segmenti sull’orizzontale (A e B in
figura). Snell e Cartesio dopo molti esperimenti
poterono stabilire che il rapporto tra quei
segmenti rimaneva costante al variare dell’angolo
di incidenza. Ma a ben guardare i segmenti A e
B corrispondono rispettivamente al seno
dell’angolo di incidenza e dell’angolo di rifrazione,
quindi possiamo scrivere:
relazione nota come legge di Snell.
Il rapporto tra i seni degli angoli rimane costante
per una stessa coppia di mezzi trasparenti, ma
cambia quando uno di essi cambia.
Figura 9.11 Legge di Snell o legge della rifrazione
Per poter mettere in relazione il diverso comportamento dei raggi di luce al cambiare della coppia di mezzi trasparenti, si è
deciso di fare così: si confrontano tutti i mezzi trasparenti con il vuoto, e si assegna un valore, chiamato, indice di rifrazione
assoluto del mezzo, e indicato con la lettera n, al rapporto tra i seni ottenuto:
che, si può dimostrare, coincide con il rapporto delle
velocità.
Dato che la velocità della luce è maggiore nel vuoto che in
ogni altro mezzo trasparente, l’indice di rifrazione assoluto
è, per tutti i mezzi, maggiore dell’unità.
Quando poi la luce passa da un qualunque mezzo
trasparente ad un altro, possiamo scrivere il rapporto dei
seni nel seguente modo:
Figura 9.12 Indice di rifrazione assoluto del mezzo
Il valore costante n12 si dice indice di rifrazione relativo (del primo mezzo rispetto al secondo). Se il primo mezzo è
otticamente meno denso, il raggio si avvicina alla normale e l’indice n12 risulta maggiore dell’unità, se al contrario il mezzo
da cui proviene il raggio di luce è otticamente più denso, il raggio si allontana dalla normale e il valore dell’indice di rifrazione
n12 risulta inferiore all’unità.
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Materiale
n
elio
1,000 036
aria
1,000 292 6
anidride carbonica
1,000 45
ghiaccio
1,31
acqua (20°C)
1,333
etanolo
1,36
glicerina
1,472 9
sale
1,516
bromo
1,661
vetro
da 1,5 a 1,9
diamante
2,419
silicio
3,4
Tabella 9.1 Indice di rifrazione assoluto
n 9.5 - RIFLESSIONE TOTALE
Abbiamo appena affermato che quando il raggio di luce passa ad un mezzo più trasparente, provenendo da un mezzo più
denso otticamente, si allontana dalla normale, in modo che il rapporto dei seni n12 abbia valore inferiore all’unità.
Facile capire che, aumentando l’angolo di incidenza, ad un certo punto si giunge alla situazione per cui il raggio rifratto sarà
parallelo alla superficie di separazione. Questo particolare angolo (di incidenza) si chiama angolo limite ( iˆL ) e, per un
angolo superiore a questo, il raggio di luce risulterà totalmente riflesso nel mezzo di provenienza.
Dato che in corrispondenza dell’angolo limite, l’angolo di rifrazione è l’angolo retto, il cui seno vale 1, possiamo scrivere:
L’ultima formula permette, noti gli indici di rifrazione assoluti dei due mezzi, di calcolare l’angolo limite.
Figura 9.13 Angolo limite e fenomeno della riflessione totale
137
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La riflessione totale ha interessanti applicazioni nel campo degli strumenti ottici; se ne può intuire l’utilizzo dalle figure
seguenti, ricordando che l’angolo limite tra aria e vetro è iˆL = 42°
Figura 9.14 Riflessione totale attraverso un prisma
Esaminiamo le due successive figure:
Il primo prisma devia un raggio di un angolo retto ed è utilizzato, ad esempio nella costruzione dei periscopi, gli strumenti
con cui, da un sommergibile immerso, si può guardare al di sopra del livello del mare.
Il secondo dei due prismi, consente la riflessione di un raggio di luce su una direzione parallela ma discosta da quella di
provenienza. Un oggetto sembrerà capovolto e un doppio prisma, utilizzato nel binocolo, mostrerà l’immagine capovolta e
speculare.
Figura 9.15 Funzionamento di un
periscopio
Figura 9.16 Doppio prisma per ribaltare totalmente
un'immagine
Un’applicazione ulteriore del fenomeno della riflessione totale la si ritrova nella fibra ottica, che ha le pareti interne di materiale
vetroso. La luce, immessa ad una estremità, esce dall’estremità opposta dopo numerose riflessioni, che si susseguono
perché l’angolo con cui urta le pareti interne è sempre superiore all’angolo limite.
Figura 9.17 Cammino della luce all'interno di una fibra ottica
138
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9.5.1 MIRAGGIO
Il miraggio è un’illusione ottica naturale causata dal fenomeno della riflessione totale. Il miraggio più comune consiste nel
vedere davanti a sé una zona brillante e riflettente, quasi che vi fosse presenza d’acqua, dove in realtà di acqua proprio
non ce n’è.
Questo fenomeno avviene quando il terreno è riscaldato dal sole ad una temperatura superiore all’aria circostante. Ciò
provoca il surriscaldamento dell’aria a contatto con il suolo che, di conseguenza, si espande diminuendo di densità.
Di fatto, in questa situazione fisica, in vicinanza del suolo, si crea una differenza continua di temperatura (gradiente di
temperatura) e di densità dell’aria (gradiente di densità).
Figura 9.18 Due esempi di miraggio
Ma l’aria, tanto più è rarefatta tanto più è trasparente e tanto più vicino all’unità è il suo indice di rifrazione assoluto. Di
conseguenza un raggio luminoso inclinato verso il basso subisce una serie continua di deviazioni per rifrazione e può
giungere a superare l’angolo limite essendo riflesso del tutto senza aver toccato il suolo.
Figura 9.19 Strati d'aria a differente densità provocano rifrazione continua
All’osservatore giungono raggi di luce provenienti da direzioni diverse e gli sembra di vedere l’oggetto tanto davanti a sé,
tanto riflesso al suolo. Sembra, di fatto, che a terra ci sia dell’acqua che sta riflettendo l’immagine.
Se a subire il fenomeno sono direttamente i raggi del Sole, si vedrà al suolo un brillio che dà ancora l’illusione della presenza
d’acqua.
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n 9.6 - DISPERSIONE DELLA LUCE E COLORE DEI CORPI
Mandando un fascio di luce bianca su un prisma di vetro, si nota che dopo una doppia rifrazione il fascio in uscita si è
allargato ed è ora composto da raggi di luce di diverso colore, anzi di tutti i colori. Questo fenomeno, noto come dispersione
della luce, dipende dal fatto che, a parte il vuoto, in cui la velocità è indipendente dalla frequenza, le onde luminose di
diversa frequenza hanno, nei mezzi trasparenti, una velocità leggermente diversa. A diversa velocità corrisponde un indice
di rifrazione assoluto leggermente diverso; da qui il diverso angolo di rifrazione.
Il fenomeno della dispersione della luce dimostra che la luce bianca è
l’insieme di tutte le frequenze luminose (colori) e, raccogliendo su uno
schermo questo insieme, si ottiene quello che si chiama spettro della
luce bianca.
La stessa tecnica, utilizzata per ottenere lo spettro della luce bianca,
si utilizza nella spettroscopia, per ottenere gli spettri di emissione o di
assorbimento delle varie specie atomiche.
Sappiamo che l’illuminazione di un corpo ne produce il riscaldamento
e ne deduciamo che una parte della luce, e la sua energia, viene
Figura 9.20 Dispersione della luce
assorbita dal corpo illuminato. Ora che sappiamo che la luce bianca
è l’insieme di tutte le frequenze luminose, riusciamo a comprendere la nostra percezione dei colori: quando la luce bianca
colpisce un corpo, una parte della luce viene assorbita e una parte diffusa. La parte diffusa è quella del colore che noi
percepiamo: è come dire che i corpi assorbono tutti colori, tranne quello che appare ai nostri occhi.
Figura 9.21 Spettro della luce bianca
9.6.1 ARCOBALENO
Lo straordinario fenomeno meteorologico dell’arcobaleno è un esempio in natura della dispersione della luce. Diventa
visibile, quando dopo la pioggia, il sole ha modo di filtrare tra le nubi ed è prodotto dalla dispersione della luce solare da
parte di goccioline d’acqua in sospensione atmosferica. Il fenomeno dell’arcobaleno si può produrre anche in prossimità
di un getto d’acqua come una cascata o una doccia estiva all’aperto.
Figura 9.22 Arcobaleno dopo una pioggerella e nei pressi di una piccola cascata
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n 9.7 - GLI SPECCHI
Uno specchio è una superficie sufficientemente levigata da permettere la riflessione delle immagini di un qualsiasi corpo,
che può essere una sorgente luminosa primaria o un corpo illuminato. Ad essere speculari sono, generalmente, le superfici
metalliche ben levigate. Anche negli specchi comuni, contrariamente a quanto si è portati a credere, la superficie riflettente
è quella sottile del metallo, accuratamente spalmata su una delle superfici di una lastra di vetro e la funzione del vetro è
semplicemente di supporto. Il tipo più noto è lo specchio piano, di uso quotidiano, ma esistono specchi di diversa
conformazione e usati in molte applicazioni.
Infatti possiamo avere:
➢ specchi piani, aventi una superficie riflettente perfettamente piana
➢ specchi curvi, che a loro volta si suddividono in:
- specchi sferici, la cui superficie riflettente è una calotta sferica
- specchi cilindrici, la cui superficie riflettente è una parte laterale di un cilindro
- specchi parabolici, la cui superficie riflettente è una parte di un paraboloide.
In genere le immagini prodotte dagli specchi possono essere:
- reali, se formate con i raggi riflessi
- virtuali, se formate con i prolungamenti dei raggi riflessi; in questo caso le immagini non si possono raccogliere su uno
schermo
- diritte, se formate nello stesso senso dell’oggetto
- capovolte, se formate nel senso opposto a quello dell’oggetto
- ingrandite, se formate con dimensioni maggiori di quelle dell’oggetto
- rimpicciolite, se formate con dimensioni minori di quelle dell’oggetto
- deformate, se formate con forme e dimensioni diverse da quelle dell’oggetto.
Negli specchi piani le immagini sono sempre:
- virtuali, diritte e delle stesse dimensioni dell’oggetto, ma ciò che nell’oggetto è sinistra, nell’immagine è destra e viceversa.
Proprio da questa caratteristica degli specchi deriva la locuzione immagini speculari.
Negli specchi sferici invece le immagini possono essere:
- reali o virtuali, diritte o capovolte, ingrandite o rimpicciolite, ma non deformate, come lo possono essere negli specchi di
varia curvatura.
Ci occuperemo, per semplicità, solo di questi due tipi di specchi.
9.7.1 SPECCHI PIANI
Ecco come riflette l’immagine uno specchio piano:
Non ci si faccia ingannare dalla prospettiva: in effetti l’occhio umano,
colpito dai raggi riflessi, non rileva un’immagine capovolta bensì
un’immagine nello stesso verso dell’oggetto reale. L’occhio (il cervello
in realtà), colpito dai raggi riflessi, crede di vedere un’immagine posta
dietro lo specchio, ad una distanza da esso uguale a quella
dell’oggetto reale. L’immagine è virtuale perché derivata dai
prolungamenti dei raggi reali riflessi:
l’immagine è virtualmente dietro lo specchio.
Figura 9.23 Immagine speculare di uno specchio piano
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9.7.2 SPECCHI SFERICI
Gli specchi sferici possono essere riflettenti nella superficie interna (specchi concavi) o nella superficie esterna (specchi
convessi). Osserviamone da vicino le caratteristiche.
Gli specchi sferici, per costruzione, hanno due punti
speciali: il vertice e il centro della sfera. Il vertice di una
calotta sferica corrisponde al centro della superficie,
concava in un caso e convessa nell’altro. Fisicamente
corrisponde al punto dello specchio che, appoggiato su
un piano orizzontale per la parte convessa, toccherebbe
il piano.
Figura 9.24 Specchi sferici con vertice, centro e asse
Dal vertice si può tirare una normale alla superficie dalla
parte speculare e questa retta viene chiamata asse dello
specchio. Il centro della sfera, di cui lo specchio è una
calotta, si trova sull’asse per gli specchi concavi, sul
prolungamento dell’asse, nella zona non speculare, per
gli specchi convessi.
Nelle figure, i punti caratteristici sono stati marcati solo
per la facile individuazione, ma ovviamente sono dei punti
geometrici.
C’è un altro punto caratteristico degli specchi sferici ed è
il fuoco. Il fuoco (F), che si trova a “metà strada” tra il
vertice (V) e il centro (C), non ha particolari caratteristiche
geometriche, ma ha la caratteristica fisica che i raggi, che
giungono allo specchio parallelamente all’asse, vengono
riflessi in modo tale che, nel caso di uno specchio
concavo, passano tutti per il fuoco, nel caso di uno
specchio convesso sono i loro prolungamenti che
passano per il fuoco.
Figura 9.25 Caratteristica del fuoco negli specchi sferici (in blu i raggi in
arrivo, in rosso i raggi riflessi)
9.7.3 SPECCHI CONCAVI
Preliminarmente possiamo fare una considerazione generale: i raggi di luce, riflessi da uno specchio concavo, in genere,
convergono. Quando questo avviene, i raggi si incontrano e formano immagini reali, infatti, mettendo uno schermo nel
punto d’incontro, vi si formerebbe un’immagine.
Nei casi in cui divergono non si incontrano e le immagini si ottengono con i prolungamenti dei raggi riflessi; si tratta in questo
caso di immagini virtuali. I raggi di luce riflessi da uno specchio convesso divergono sempre e, quindi, uno specchio
convesso può formare solo immagini virtuali.
Riassumiamo le informazioni a nostra disposizione:
- I raggi, che arrivano allo specchio parallelamente all’asse, vengono riflessi passando per il fuoco (specchi concavi), o
passano per il fuoco i loro prolungamenti (specchi convessi)
- Essendo il cammino ottico simmetrico, i raggi che, giungono allo specchio passando per il fuoco (specchi concavi) o
passano per il fuoco i loro prolungamenti (specchi convessi), vengono riflessi in direzione parallela all’asse
- I raggi che giungono allo specchio passando per il centro (specchi convessi) o passano per il centro i loro
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prolungamenti(specchi convessi), sono perpendicolari alla superficie e, quindi, vengono riflessi su sé stessi
- Per i raggi che colpiscono lo specchio nel vertice, l’asse dello specchio coincide con la normale al punto d’impatto,
quindi, per la legge della riflessione, vengono riflessi con angolo uguale rispetto all’asse
Per comprendere il comportamento degli specchi sferici, useremo una tecnica valida tanto per gli specchi, quanto per le
lenti. Porremo un corpo a notevole distanza dallo specchio e vedremo dove, e come, si forma l’immagine, via via che lo si
avvicina.
Nelle figure che seguono si è posto un corpo a distanze variabili dallo specchio per vedere dove si va a formare l’immagine.
Corpo e immagine sono rappresentati dalla stessa figura, ma non bisogna fare confusione: il corpo immagine non esiste,
è solo il punto in cui i raggi riflessi si incontrano ( PR ), a meno di inserire in quel punto uno schermo che raccolga i raggi e
consenta all’immagine di formarsi.
Figura 9.26 Immagini create da uno specchio concavo con il corpo posto a varie distanze
Da qui in avanti saranno colorati d’azzurro i raggi che partono dall’oggetto per andare allo specchio ed in rosso i raggi
riflessi dallo specchio.
Come si vede dalla figura, se l’oggetto è a distanza superiore al raggio della sfera, l’immagine risulta capovolta, rimpicciolita
e speculare.
Quando poi l’oggetto è posto sul centro, l’immagine è capovolta, speculare ma ha le stesse dimensioni dell’originale.
Avvicinando ancora l’oggetto allo specchio, l’immagine, sempre capovolta e speculare, assume dimensioni superiori a
quelle dell’oggetto.
Figura 9.27 Immagini create da uno specchio concavo con il corpo posto a varie distanze
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Figura 9.28 Immagini create da uno specchio concavo con il corpo posto a varie distanze
Quando l’oggetto è posto alla distanza focale i raggi riflessi smettono di convergere e, nel caso specifico, escono dallo
specchio parallelamente, di conseguenza non si forma immagine né reale, né virtuale.
Quando il corpo, poi, si trova dallo specchio ad una distanza inferiore alla distanza focale, i raggi riflessi divergono e
l’immagine che si ottiene con i loro prolungamenti si trova al i là dello specchio, come ogni immagine virtuale, ha dimensioni
superiori alla realtà, è diritta e speculare.
9.7.4 SPECCHI CONVESSI
Vediamo ora cosa accade con uno specchio convesso, ripetendo l’operazione di successivo avvicinamento di un corpo
allo specchio.
Figura 9.29 Immagini create da uno specchio convesso con il corpo posto a varie distanze
Figura 9.30 Immagini create da uno specchio convesso con il corpo posto a varie distanze
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Come si vede dalla sequenza, lo specchio convesso crea immagini sempre virtuali e al di là dello specchio stesso, di
dimensioni inferiori al reale e speculari. La dimensione dell’immagine aumenta avvicinando il corpo allo specchio, tendendo
a raggiungere la stessa dimensione del corpo all’approssimarsi a zero della distanza.
La stessa tendenza valeva per lo specchio concavo e si comprende che entrambi gli specchi, quando il corpo fosse posto
a contatto con essi, si comporterebbero come uno specchio piano, e darebbero un’immagine virtuale delle stesse
dimensioni dell’oggetto.
Figura 9.31 La fotocamera aumenta di dimensione avvicinandola ad una lampada convessa riflettente
9.7.5 APPLICAZIONI DEGLI SPECCHI CURVI
Gli specchi curvi hanno varie applicazioni ed alcune di queste sono davanti a noi quotidianamente. Alcuni specchietti per il
trucco, ad esempio, sono leggermente concavi per dare un’immagine ingrandita. Al contrario gli specchi posti in alcuni
incroci stradali sono convessi, per poter dare la visione di una zona non visibile dalla posizione del guidatore.
Figura 9.31 La fotocamera aumenta di dimensione avvicinandola ad una lampada convessa riflettente
Un altro utilizzo che tutti osserviamo facilmente è l’antenna televisiva parabolica. Anche se non speculare per i raggi luminosi,
le antenne paraboliche risultano speculari per le onde radio, che hanno una maggiore lunghezza d’onda. Il compito
dell’antenna è di raccogliere una energia radiante sufficiente a dare un segnale televisivo di buona qualità. Queste onde
radio vengono concentrate nel fuoco dell’antenna, dove si trova un rilevatore che manda, infine, il segnale all’apparecchio
televisivo. Sono specchi parabolici anche l’interno dei fari di automobile: in questo
caso il funzionamento è opposto a quello delle antenne, la sorgente luminosa, la
lampadina, è posta nel fuoco dello specchio, in modo tale che quest’ultimo produca
un fascio di raggi paralleli. Lo specchio curvo del faro serve anche ad utilizzare anche
la luce prodotta in direzione opposta alla strada.
Figura 9.33 Specchi curvi nei fari di un'auto
Un’applicazione recente degli specchi curvi, che avrà sicuramente notevole sviluppo,
sono le centrali eoliche a concentrazione di luce. In queste centrali una batteria di
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Figura 9.34 Antenna parabolica radiotelevisiva
Figura 9.35 Centrale Solare eolica con specchi curvi
specchi curvi concentra la luce solare su una tubazione rettilinea, riempita di un liquido con la caratteristica di avere un
grande calore specifico e di non subire variazioni chimiche alle alte temperature. Il liquido caldo attraverso opportuni
scambiatori di calore, cede la sua energia che viene poi utilizzata per produrre energia elettrica.
n 9.8 - LE LENTI
Si chiama lente un corpo trasparente che presenti due superfici curve o una superficie piana ed una curva.
Questo oggetto, attraversato da raggi di luce ne modifica la traiettoria.
Generalmente le lenti sono costruite in vetro ed hanno sulle due facce curvatura diversa. Trattandosi di materiale trasparente,
la luce che le attraversa, generalmente proveniente dall’aria dell’atmosfera, viene deviata per il fenomeno della rifrazione. I
diversi tipi di lente prendono il nome dal tipo di curvatura che presentano sulle superfici.
Figura 9.36 Vari tipi di lente - http://it.wikipedia.org/wiki/Lente
Le lenti hanno molteplici applicazioni, ma il loro studio è molto complesso. Per farci un idea, seppure parziale, del loro
comportamento faremo delle semplificazioni, limitandoci ad osservare il comportamento delle sole lenti biconcave e
biconvesse a curvatura sferica. Come ulteriore restrizione le sceglieremo con curvatura uguale sulle due facce e di spessore
molto piccolo rispetto all’altezza (lenti sottili).
Trattandosi, in ogni caso, di curvatura sferica, ogni superficie avrà un punto C corrispondente al centro della sfera di cui la
superficie della lente è una calotta. Il punto “a metà strada” tra centro e lente si chiama fuoco ( F ) e la distanza di questo
punto dalla lente si chiama distanza focale. Altro punto caratteristico è il centro geometrico della lente ( CL ).
Chiamiamo infine asse ottico la retta che si immagini tracciata normalmente alla lente e passante per i centri e per i fuochi.
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Nel caso delle lenti le informazioni di cui disporre sono le seguenti:
- I raggi di luce che giungono alla lente parallelamente all’asse ottico vengono rifratti in modo da, convergere nel fuoco
esterno (al di là della lente) nel caso della biconcava, e da divergere in modo che il loro prolungamento passi per il fuoco
interno (dalla parte di provenienza dei raggi)
Figura 9.37 Comportamento delle lenti biconcave (in blu i raggi in arrivo, in rosso i raggi rifratti)
- I raggi di luce che attraversano la lente passando per il suo centro, non subiscono deviazione: approssimativamente questi
raggi arrivano perpendicolarmente alla lente e l’angolo di rifrazione coincide con l’angolo di incidenza.
Figura 9.38 Comportamento delle lenti biconvesse (in blu i raggi in arrivo, in rosso i raggi rifratti)
- Vediamo come le lenti biconcave e biconvesse creano immagini. Utilizzeremo la solita tecnica di porre un corpo a distanze
dalla lente via via inferiori e osservare l’immagine prodotta.
9.8.1 LENTE BICONCAVA
Figura 9.39 Costruzione di immagini con lente biconcava
Da qui in avanti saranno colorati d’azzurro i raggi che partono dall’oggetto per andare alla lente ed in rosso i raggi rifratti
dalla lente. Come si vede dalla costruzione dell’immagine, quando la distanza dell’oggetto dalla lente è maggiore del raggio
della sfera, l’immagine risulta reale, capovolta e rimpicciolita. L’immagine non è mai speculare (la destra rimane destra, la
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sinistra rimane sinistra).
Alla distanza del centro, l’immagine, ancora reale e capovolta ha le dimensioni uguali all’originale.
Figura 9.40 Costruzione di immagini con lente biconcava
Quando l’oggetto è a distanza intermedia tra centro e fuoco, l’immagine risulta reale, capovolta e ingrandita.
Figura 9.41 Costruzione di immagini con lente biconcava
Quando l’oggetto si trova alla distanza focale, i raggi rifratti sono paralleli, quindi, non si forma un’immagine.
Se l’oggetto è distante dalla lente meno della distanza focale, i raggi rifratti divergono, l’immagine ne risulta virtuale, diritta
ed ingrandita, per diminuire di dimensione man mano che ci si avvicina alla lente. Anche nel caso delle lenti, al limite del
contatto tra oggetto e lente, quest’ultima tende a comportarsi come uno specchio piano.
9.8.2 LENTE BICONVESSA
Come si vede dalla costruzione delle immagini, una lente biconvessa (divergente) crea sempre immagini virtuali, visto che
i raggi rifratti divergono in ogni caso. L’immagine virtuale risulta, inoltre, diritta, dalla stessa parte dell’oggetto e di dimensione
inferiore al reale.
Figura 9.42 Costruzione dell'immagine con lente biconvessa
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L’ultima figura mostra che, anche nel caso della lente divergente, al limite del contatto tra oggetto e lente, l’immagine risulta
virtuale, diritta e delle stesse dimensioni dell’oggetto, come risulterebbe quella di uno specchio piano.
Figura 9.43 Costruzione dell'immagine con lente biconvessa
Questo comportamento valido per specchi curvi e lenti diventa comprensibile se si pensa che all’approssimarsi all’apparato
è come se la curvatura diminuisse: si pensi a noi esseri umani mentre ci avviciniamo alla Terra da grande distanza. Se da
lontano la sfericità della Terra ci appare evidente, man mano che ci avviciniamo sembra diminuire la curvatura, fino a che,
stando sulla superficie terrestre, il pianeta ci appare piatto.
9.8.3 APPLICAZIONI DELLE LENTI
Le lenti realizzano un miracolo dal tredicesimo secolo: attraverso l’invenzione degli occhiali, è consentita ancora la vista a
chi la sta perdendo col tempo, con le malattie o per questioni genetiche.
Di occhiali, quindi di lenti, ne esistono per ogni tipo di difetto dell’occhio umano.
Sono lenti, anche se molto sottili, le ormai diffusissime lenti a contatto.
Lasciando a studi specifici l’azione delle lenti sull’occhio umano e sui suoi difetti, ricordiamo la presenza di lenti nei
microscopi, nei binocoli, nei telescopi galileiani, nelle macchine fotografiche.
Figura 9.44 Ritratto datato 1352
Figura 9.45 Veduta dell'interno di una macchina fotografica
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n 9.9 - EQUAZIONE DEI PUNTI CONIUGATI
Abbiamo visto come costruire le immagini tanto con gli specchi sferici, quanto con le lenti sferiche sottili.
Ma c’è un modo per prevedere dove si creerà l’immagine e che dimensione avrà, senza dover fare la costruzione
ottico - geometrica?
La risposta è positiva ed è rappresentabile con una semplice equazione, chiamata equazione dei punti coniugati:
1 1 1
+ = .
p q f
Prima ancora di commentarla andiamo a ricavarla.
Per fare le previsioni richieste è necessario, ovviamente, conoscere sia le caratteristiche dello specchio, sia le caratteristiche
dei corpo di cui si richiede l’immagine.
Si suppone perciò di conoscere posizione del
centro e del fuoco dello specchio, altezza e
posizione dell’oggetto.
Vediamo come fare per trovare posizione e
dimensione dell’immagine.
Consideriamo i triangoli PVA e P’VA’. Sono simili in
quanto, entrambi retti ed entrambi hanno un angolo
pari a q, quindi, i lati corrispondenti sono
proporzionali. Ne ricaviamo che l’ingrandimento,
che è il rapporto tra l’altezza dell’immagine (h) e
l’altezza dell’oggetto (H), è pari al rapporto tra la
distanza dallo specchio dell’immagine (di) e quella
dell’oggetto (do):
Figura 9.46 Oggetto di altezza H e immagine di altezza h generata da uno
specchio concavo
Il segno meno dipende dal fatto che la distanza al numeratore si misura dall’oggetto allo specchio e quella a denominatore
dallo specchio all’immagine: le due distanze sono quindi in verso opposto. Una volta note le posizioni di oggetto e immagine
conosceremo anche l’ingrandimento, vale a dire la dimensione dell’immagine. Consideriamo i triangoli rettangoli A’CP’ e
ACP. Poiché in un triangolo rettangolo la tangente trigonometrica di un angolo vale il rapporto tra il cateto opposto e il
cateto adiacente, possiamo scrivere:
che possiamo riscrivere come
e da qui:
Ricordando dalla formula dell’ingrandimento che
scriviamo l’uguaglianza precedente come:
e sviluppando si ha:
che, dopo aver frazionato il secondo membro, diventa:
ed infine:
che è l’equazione che cercavamo, attraverso la quale conoscendo raggio dello specchio R e posizione dell’oggetto do,
possiamo trovare la posizione dell’immagine di.
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Se invece ci fosse incognita la distanza focale f (o il raggio R = 2f), useremo la posizione di oggetto e immagine per ricavarla.
Avere come incognita la posizione dell’oggetto è solo una questione matematica, in laboratorio non accadrebbe mai.
Questa equazione corrisponde a quella anticipata all’inizio del paragrafo, la quale era presentata nella forma più nota ed
utilizzata, dove p è la distanza dell’oggetto dallo specchio, q la distanza dell’immagine ed f la distanza focale che, come
sappiamo, è la metà del raggio.
L’equazione dei punti coniugati vale per specchi concavi e specchi convessi e vale identicamente per le lenti sottili biconcave
e biconvesse.
Figura 9.47 Oggetto di altezza H e immagine di altezza h generata da una lente sottile
Dimostrare che la stessa equazione valga anche per le lenti è semplice. Consideriamo in figura i triangoli rettangoli APCL
e A’P’CL. Sono simili, quindi:
come nel caso degli specchi; manca il segno meno perché nel caso delle lenti le distanze si misurano dall’oggetto alla lente
e dalla lente all’immagine: quindi hanno lo stesso verso.
Semplifichiamo leggermente il disegno.
Figura 9.48 Disegno semplificato e con distanza focale invece del raggio
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I triangoli P’A’F2 e P’’F2CL sono evidentemente simili (hanno entrambi un angolo retto e un angolo uguale a), quindi
possiamo scrivere:
vale a dire:
Riprendendo l’uguaglianza
possiamo scrivere l’equazione che cercavamo:
Dallo sviluppo torna fuori la nostra equazione dei punti coniugati:
o, nella forma che si ritrova nei testi:
Anche in questo caso, l’equazione dei punti coniugati, ci consente di prevedere la posizione dell’immagine, conoscendo
distanza focale e posizione dell’oggetto o di calcolare la distanza focale della lente, conoscendo la posizione di oggetto e
di immagine.
n 9.10 - CONVENZIONE SUI SEGNI DI p, q, R, f
L’equazione dei punti coniugati è uno strumento semplice e potente, ma va utilizzato con cautela assegnando alle variabili
il segno corretto.
É opportuno riferirsi alla posizione dell’oggetto come positiva; ovviamente non ha senso porre l’oggetto dietro uno specchio,
ma intenderemo positiva la posizione dell’oggetto sia se posto da una parte della lente, sia se posto dalla parte opposta.
Per evitare confusione, distinguiamo il caso degli specchi dal caso delle lenti:
• CONVENZIONE PER GLI SPECCHI
- Il raggio R è positivo per gli specchi concavi, negativo per quelli convessi.
- Per la distanza focale f, valendo
vale lo stesso segno del raggio.
- La distanza dell’oggetto (do = p), è positiva in ogni caso.
- La distanza dell’immagine (di = q) è positiva, quando è dalla stessa parte dell’oggetto (immagine reale), negativa se è dalla
parte opposta (immagine virtuale).
- L’ingrandimento è dato dal valore assoluto di:
Se il suo segno è positivo, l’immagine è diritta come l’oggetto, se è negativo l’immagine è capovolta.
• CONVENZIONE PER LE LENTI
• Il raggio R è positivo per le lenti biconcave, negativo per quelle biconvesse.
• Per la distanza focale f, valendo
vale lo stesso segno del raggio.
• La distanza dell’oggetto (do = p), è positiva in ogni caso.
• La distanza dell’immagine (di = q) è positiva, quando è dalla parte opposta dell’oggetto (immagine reale), negativa se è
dalla stessa parte (immagine virtuale).
• L’ingrandimento è dato dal valore assoluto di:
Se il suo segno è negativo, l’immagine è diritta come l’oggetto, se è positivo l’immagine è capovolta.
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In sintesi si ha:
Tabella 9.2 Tabella delle convenzioni sui segni nell'equazione dei punti coniugati
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ESERCIZI DI OTTICA GEOMETRICA
1) Un oggetto è posto a 20 cm da una lente sottile di distanza focale 25 cm. A quale distanza dal centro si forma
l’immagine?
[q = - 1 m]
2) Una candela viene posta a 30 cm da una lente di distanza focale 15 cm. Dove si forma l’immagine?
[q = 30 cm]
3) Un ragazzo utilizza una lente convergente di distanza focale 10 cm. L’immagine virtuale dell’oggetto che guarda si forma
a 25 cm dalla lente. Calcolare la posizione dell’oggetto e l’ingrandimento della lente.
[p = 16,7 cm] [i = 1,5]
4) La luce passa dal vetro all’aria con un angolo di incidenza iˆ = 40°.
Qual è l’angolo di rifrazione se l’indice di rifrazione del vetro è n = 1,5?
[74°]
Verifica delle conoscenze
1) Un raggio incidente arriva perpendicolarmente su una superficie levigata. Quale sarà l’angolo di riflessione?
2) Due mezzi trasparenti presentano i rispettivi seguenti indici di rifrazione assoluti n1 = 1,3 ; n2 = 1,6.
Quanto vale l’indice di rifrazione relativo n12 del secondo mezzo rispetto al primo?
3) Enunciare le leggi della riflessione.
4) Nell’ambito della riflessione, cosa si intende per immagine virtuale?
5) Enunciare le leggi della rifrazione.
6) Quale differenza esiste tra indice di rifrazione relativo e assoluto?
7) In quale situazione il fenomeno della rifrazione può non esistere?
8) Che cosa è l’angolo limite?
9) Che cosa sono i fuochi di una lente sottile?
10) Che cosa si intende per potere diottrico di una lente?
11) Cos’è l’ingrandimento lineare di una lente?
12) Un oggetto è posto tra una lente sottile convergente e un suo fuoco. Quali caratteristiche possiede la sua immagine?
a. l’immagine è virtuale, ingrandita e rovesciata;
b. l’immagine è virtuale, ingrandita e diritta;
c. l’immagine è virtuale, rimpicciolita e diritta;
d l’immagine è virtuale, rimpicciolita e rovesciata.
13) Un oggetto è posto a una distanza pari a 2f da una lente sottile convergente. Quali caratteristiche possiede la sua
immagine?
a. l’immagine è reale, ingrandita e rovesciata;
b. l’immagine è reale, rimpicciolita e rovesciata;
c. l’immagine è reale, uguale e rovesciata;
d. nessuna delle precedenti.
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14) Un oggetto è posto a una distanza maggiore di 2f da una lente sottile convergente. Dove si viene a formare la sua
immagine?
a. oltre il doppio della distanza focale;
b. tra il fuoco e il doppio della distanza focale;
c. esattamente sul fuoco;
d. esattamente sul doppio della distanza focale.
15) Una sorgente luminosa si trova a 2 m da una lente sottile convergente con f = 50 cm. A quale distanza dalla lente si
forma l’immagine?
a. 67 cm
b. 50 cm
c. 100 cm
d. 84 cm
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158
Book in
progress
Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
INDICE
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1.
TERMOLOGIA ..................................................... 3
TERMOMETRIA E CALORIMETRIA
1.1
1.2
1.3
1.4
1.1 Calore e temperatura ......................................... 3
Scale termometriche ................................................ 5
Legge fondamentale della Termologia ...................... 7
Equazione dell’equilibrio termico .............................. 9
Esercizi e quesiti svolti ........................................... 10
Propagazione del calore ....................................... 11
Passaggi di stato .................................................. 13
Dilatazione termica ............................................... 18
Esercizi svolti ......................................................... 21
Leggi e trasformazioni dei gas ............................... 22
Esercizi e quesiti svolti ........................................... 25
1.5
1.6
1.7
1.8
2.
TERMODINAMICA............................................. 27
2.1
2.2
2.3
2.4
2.5
2.6
2.7
2.8
2.9
2.10
2.11
2.12
2.13
Introduzione allo studio della termodinamica ......... 27
Primo principio della termodinamica ...................... 29
Condizioni di lavoro e terminologia termodinamica ..30
Trasformazioni quasistatiche e reversibili ................ 31
Calcolo di lavoro e calore ....................................... 32
Trasformazioni termodinamiche ............................. 34
Macchina termica e rendimento ............................ 38
Ciclo di Carnot e rendimento massimo .................. 39
Motore a scoppio .................................................. 40
Secondo principio della termodinamica ................. 41
Variabili di stato, funzione di stato ed entropia .........42
Considerazioni finali ............................................... 45
Esercitazioni ........................................................... 46
3.
STRUTTURA DELLA MATERIA ....................... 51
TEORIA ATOMICA
3.1
3.2
3.3
3.4
Struttura dell’atomo ............................................... 52
I modelli nella scienza ............................................ 56
Il nucleo atomico .................................................... 59
Quantizzazione di materia ed energia .................... 60
4.
ELETTROSTATICA ............................................ 63
4.1
4.2
4.3
4.4
4.5
4.6
4.7
4.8
4.9
4.10
4.11
4.1 Introduzione all’elettrostatica ............................ 63
Metodi per elettrizzare ............................................ 64
Legge di Coulomb ................................................. 66
Il campo elettrico ................................................... 66
Conduttori ed isolanti ............................................. 69
La gabbia di Faraday .............................................. 71
Il potenziale elettrico ............................................... 71
Capacità di un conduttore sferico .......................... 72
Il condensatore ...................................................... 73
Condensatori collegati in parallelo .......................... 74
Condensatori collegati in serie ............................... 75
Quesiti ed esercizi proposti .................................. 76
5.
LA CORRENTE ELETTRICA ............................ 77
5.1
5.2
5.3
5.4
La corrente elettrica nei solidi ................................. 77
L’intensità di corrente.............................................. 80
La resistenza elettrica .............................................81
La prima legge di Ohm .......................................... 82
5.5
5.6
5.7
5.8
5.9
5.10
5.11
5.12
5.13
5.14
La seconda legge di Ohm ...................................... 83
Energia e potenza in un circuito elettrico .................85
Effetto Joule ........................................................... 86
Il consumo di energia ............................................. 88
Resistenze in serie e in parallelo ............................. 88
Strumenti di misura nei circuiti in corrente continua .90
Forza elettromotrice di un generatore .................... 91
Circuito RC ........................................................... 91
La corrente elettrica nei liquidi ............................... 93
La corrente elettrica nei gas ................................... 93
Quesiti ed esercizi proposti .................................. 94
6.
ELETTROMAGNETISMO .................................. 95
6.1
6.2
6.3
6.4
6.5
6.6
6.7
6.8
6.9
6.10
6.11
6.12
6.13
Il magnetismo naturale ........................................... 95
Materiali diversamente magnetici ........................... 97
Campo magnetico e correnti elettriche .................. 98
Definizione dell’intensità di campo magnetico..........99
Campo magnetico generato da alcune
importanti configurazioni di corrente elettrica.........100
Ipotesi di Ampere ................................................. 102
Forza di Lorentz ................................................... 102
Induzione elettromagnetica ................................. 104
Autoinduzione, induttanza ed energia di un induttore..106
Mutua induzione ................................................. 107
Alternatore e tensione alternata .......................... 107
Valore efficace di tensione e corrente alternate ......108
Trasformatore ...................................................... 108
7.
ONDE ................................................................ 111
7.1
7.2
7.3
7.4
7.5
Le onde intorno a noi ........................................... 111
Equazioni delle onde armoniche .......................... 112
Rappresentazione grafica di un’onda e caratteristiche ...114
Classificazione delle onde .................................... 115
Processi tipici di un moto ondulatorio .................. 117
8.
LA LUCE ........................................................... 123
8.1
8.2
8.3
8.4
Natura della luce .................................................. 123
Velocità della luce ................................................ 126
Spettro elettromagnetico, spettro di emissione e
spettro di assorbimento.........................................127
Grandezze fotometriche e potenza raggiante del sole ...128
9.
OTTICA GEOMETRICA .................................. 131
9.1
9.2
9.3
9.4
9.5
9.6
9.7
9.8
9.9
9.10
Corpi trasparenti e opachi ................................... 132
Propagazione rettilinea della luce ......................... 132
Riflessione della luce ............................................ 134
Rifrazione della luce ............................................. 135
Rifrazione della luce ............................................. 137
Rifrazione della luce ............................................. 140
Rifrazione della luce ............................................. 141
Rifrazione della luce ............................................. 146
Rifrazione della luce ............................................. 150
Rifrazione della luce ............................................. 152
Esercizi e quesiti svolti ......................................... 154
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Scienze Integrate - Fisica - secondo anno
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