Una storia vera tra arte e follia Mariella Guzzoni

Una storia vera tra arte e follia
Mariella Guzzoni
“Una mostra da non perdere” mi disse il mio maestro di disegno. Fu
così che incontrai le tempere di Fraquelli per la prima volta. Tempere
su carta. Piccole. Chi si ammala di carta non guarisce più. La carta
risponde al gesto dell’artista, si ondula, si sciupa, si lacera, si rompe.
Vive in corso d’opera. Ma queste carte hanno resistito alla potenza del
gesto pittorico. Hanno resistito alla forza con leggerezza. Una leggerezza esplosiva. È forse questo che più mi ha colpito. E quella forza,
che pare voler esplodere dal foglio che pur la contiene, mi ha portato
a voler sapere di più.1
Fraquelli non conosceva le grandi tele di Franz Kline, negli anni
cinquanta era fornaciaro, girava in bicicletta in Brianza, aveva fatto
la quinta elementare; nel suo studio sono stati trovati i suoi quaderni
di scritti e disegni e tre libri: il Vangelo, Van Gogh, Montale. Eppure
in queste piccole carte la forza del segno e la potenza espressiva della
forma parlano di un evento. “Una congiunzione modale tra l’evento
della forza e quello della forma.” Il miracolo della forma.2
Edoardo Fraquelli
Senza titolo, 1965
tempera su carta intelata
21 × 32 cm
1
Le tempere di Fraquelli sono state esposte in modo articolato per la prima volta a
Bergamo, alla galleria Officina linguaggio immagine, Opere su carta nell’aprile 2005, su
iniziativa di Pierantonio Verga. Edoardo Fraquelli, Segni forti e materie, tempere 1959-1994,
catalogo a cura di Flaminio Gualdoni.
2
Le tempere di Fraquelli, a mio avviso, esprimono bene quello che Massimo Recalcati
teorizza in Il iracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, testo in cui (entrando poi nel vivo
del dibattito artistico sull’informe) Recalcati mette al centro “la pratica dell’arte come pratica
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La storia di Fraquelli ha dell’incredibile. Qualcuno potrebbe dire
che tante storie sono così in quegli anni, ma la realtà è che l’essere
stato pittore, l’aver dedicato le sue notti a dipingere, la sua arte giovanile riconosciuta dai critici a cavallo degli anni cinquanta-sessanta
lo hanno salvato dalla morte civile, tra i corridoi dei matti annichiliti
dai farmaci. L’arte, nella seconda parte della sua vita, gli ha ridato la
voglia di vivere, di esistere. Ma veniamo a questa storia vera.3
Edoardo Fraquelli nasce a Tremezzo, in Brianza, nel 1933. Il padre è
giardiniere nelle grandi ville brianzole. La mamma muore nel 1938,
poco dopo aver dato alla luce una bimba che morirà anche lei. Edoardo conosce la morte da vicino a cinque anni. Doppia morte. È un
bambino introverso, parla pochissimo. Su richiesta del padre, che non
vuole estranei in casa, una cugina tredicenne, Carla, acconsente a vivere stabilmente in famiglia, per crescere Edoardo e suo fratello poco
più grande di lui. Si affeziona a Edoardo, gli vuol bene, ma lo coccola
di nascosto: il padre non vuole, è molto severo. Dopo circa cinque anni Carla si sposa, desidera una sua famiglia; il padre si risposa. Carla,
che aveva rappresentato per lui un riferimento affettivo fondamentale
viene, agli occhi di Edoardo undicenne, sostituita da una donna adulta, la nuova moglie del padre, con la quale, sembra, non sia mai nato
un legame affettivo. Dopo la quinta elementare (siamo verso la fine
della guerra), Edoardo inizia a lavorare da un ciclista di Usmate. Poi
da un intagliatore di cornici. E lì, in quel capannone, la sera modella
statue, inizia a disegnare. Dopo il servizio militare, tornato in Brianza,
in grado di interrogare il reale”: “L’opera d’arte non vive affatto di questa scissione rigida di
forma e informe. I modelli estetici proposti da Nietzsche e Heidegger, e quelli che possiamo
ricavare da Freud e Lacan, condividono, a mio giudizio, l’idea che l’opera d’arte sia un luogo agonico, abitato da una tensione conflittuale, da una lotta continua, mai risolta una volta
per tutte, tra la tendenza all’integrazione formale e la dissonanza irriducibile dell’informe.
[…] Ancora più radicalmente dovremmo cominciare a pensare che la coppia ‘forza-forma’
possa davvero recidere ogni legame con quella metafisica, di matrice crociano-idealistica,
‘forma-contenuto’” (Massimo Recalcati, L’icona scissa dal coinema, postfazione alla seconda
edizione di Id., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica [2007], Bruno Mondadori,
Milano 2011, pp. 211-217, testo apparso dapprima in Massimo Recalcati, Melanconia e
creazione in Vincent Van Gogh, Bollati Boringheri, Torino 2009, pp.133-143).
3
Le notizie qui riportate sono il frutto di una mia intervista del settembre 2008 ad
Aldo e Linda Consonni che, come vedremo, hanno riportato Fraquelli a dipingere, dopo
quasi quindici anni di storia psichiatrica. A loro un particolare ringraziamento per avermi
a suo tempo fornito tutto il materiale necessario allo studio di questo artista.
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trova lavoro in fornace, il lavoro è duro, con i compagni incomincia
a bere. Vent’anni. La notte dipinge i suoi primi paesaggi. Un unico
autoritratto a olio. Qualche volta, la domenica mattina, frequenta un
corso d’arte locale, disegna, dipinge. Conosce il pittore Carlo Carrà,
che ha lo studio vicino a lui. Esordisce nel mondo artistico nel 1957 in
una mostra alla Galleria del Prisma di Milano. Le critiche sono molto
positive, i suoi quadri suscitano enorme interesse. Nel 1958 partecipa
alla Biennale di Porta Venezia e al Premio San Fedele. Paesaggio, Paesaggio con figure, Brianza primaverile, Paesaggio invernale, Serata invernale. In
quegli anni conosce Ennio Morlotti, Antonio Scaccabarozzi, Angelo
Dozio, Arturo Vermi, il corniciaio Crippa e, grazie a lui, Piero Manzoni, Agostino Bonalumi, Franco Mulas. Ennio Morlotti è il suo faro
espressivo, ma Edoardo è più bravo di lui.
Se ne accorgono tutti, a quanto pare. Preferiscono lasciarlo a casa.
Non lo invitano, non lo aiutano, non lo sostengono. È facile, Edoardo
è un ragazzo, ha solo la bicicletta… e in più “alza il gomito”, ogni tanto. Eppure i mercanti poco onesti, sempre pronti a lucrare sul destino
avverso dei pittori ingenui, ma bravissimi come lui, lo fanno dipingere
in cambio di qualche bottiglia, per poi rivendere i suoi quadri come dei
Morlotti.
Dipinge paesaggi straordinari, liriche quasi monocrome tra forza
e forma, inscrivibili tra gli “ultimi naturalisti” descritti da Francesco
Arcangeli: “Natura è la cosa immensa che non vi dà tregua, perché la
sentite vivere tremando fuori, entro di voi: strato profondo di passione
e di sensi, felicità, tormento”.4
La sua pittura è magmatica, usa il colore come materia da plasmare. Eppure il magma è come fluido nelle onde di colore, solo frammenti – resti di vita? – qua e là compaiono nelle sue tele. Stefano
Agosti parla di “grumi materici di natura”, di “simbiosi confusiva fra
i due Soggetti di sapere – il sapere dell’Io e il sapere d’Oggetto […]”.5
Edoardo è solo, è tenuto a distanza di sicurezza dai benpensanti del
sistema dell’arte; è solo in famiglia, anche il fratello Francesco ora si
è sposato. Beve. Un piccolo disegno a matita – forse di quel periodo:
4
Francesco Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, in “Paragone”, n. 59, novembre 1954, pp.
29-43.
5
Stefano Agosti, Un vertice dell’informale, in Fraquelli, un vertice dell’informale, catalogo della
mostra al Museo Valtellinese di Storia e Arte, Sondrio 2006, pp. 15-21.
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1973, sette volte nel 1974, quel padre che presenzia ai colloqui, che lo
controlla dalla finestra quando va al bar, che teme per lui, che sembra
non aver fiducia in lui… Diario medico, 24 luglio 1972:
Il padre è un uomo vecchio, magro, dalla voce chioccia e bizzosa. Fa la predica al paziente e a me: al p. perché ha ricominciato a bere, e anche perché non
lavora assiduamente, a me perché gli ho cambiato la cura. […] Il p. sembra
ad ogni modo aver fatto la sua scelta: beve come altri si chiudono in un mondo
autistico. Il rapporto col padre è davvero molto cattivo: durante il colloquio
si parla anche del fratello del p., che il padre definisce “una perla”, implicitamente affermando, è ovvio, che quest’altro figlio è la sua croce.
sembra tracciare l’autoritratto del suo dramma: un fagotto di vestiti,
senza gambe, senza braccia, ciò che resta all’osteria accanto alla bottiglia e al bicchiere vuoto. Non conosce l’ubriaco accasciato sul tavolo
di Charles Degroux.6 Eppure, quel disegno sembra l’evoluzione astratta del capolavoro dell’artista belga. Un resto, un avanzo, uno scarto,
una deriva, non degno d’amore, non degno d’affetto, ecco chi sono.
Alla fine degli anni cinquanta iniziano le prime crisi; dipinge il ciclo
delle tempere che qui presentiamo. Nel 1964 un ricovero di quattro
mesi. Nel 1965 i titoli delle sue opere saranno, per la prima volta,
non più Paesaggi, ma Rovine, Sera derelitta, Vittime dell’eruzione, Rovine di
Dresda, Paesaggio desolante, Tragedia. Nel 1966 un premio, la Colonnina
d’Oro Manlio Rho, e una personale a Como. Poi un ricovero, poi una
mostra a Lecco, poi un ricovero, poi una mostra a Merate. Prima del
temporale, una tela, tra le ultime della sua stagione, è un groviglio di
forze chiuse, un gomitolo di tensioni non dipanabili. Scrive poesie. Si
dedica alla scrittura. Desidera con tutte le sue forze un riconoscimento della parola scritta. Vive con il padre e la sua nuova moglie che lo
sorvegliano a vista. Si chiude in camera e scrive. Avanti e indietro dai
presidi psichiatrici ci va con il padre, sei volte nel 1972, nove volte nel
6
Charles Camille Auguste Degroux, The Drunkard, 1853 circa, TECNICA, DIMENSIONI, COLLOCAZIONE.
Ma a fine novembre 1972, grazie agli sforzi del padre, esce finalmente
il volumetto di poesie tanto desiderato da Edoardo. Il titolo è: Per la
certezza dell’esistere. Quella certezza, finalmente stampata su carta, nella
collana “Poeti d’oggi”, canta anche i suoi amori platonici, A Bruna,
A Ida, A Feliciana, canta l’amore di una gioventù perduta, di un cane
visto morire:
In morte di Borlino
Prima non passeranno del dolore
le tue spoglie
agli occhi miei di febbre.
Ora sei più in pace
celato sotto la musica
del cielo.
La tua intesa tra gli uomini
indifferenti qualora un tuo saluto
scodinzolando iniziavi, di troppa
delicatezza era un complimentoso
tuo segno. Non era la tua
di animale semplice delicatezza,
era irrequietudine dolce che a girare ti portava.
Fu per quei giorni divisi
e brucianti al sole, per la
noncuranza nostra la tua morte,
e pochi ti videro inerte
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denti schiusi, i tuoi
cani amici ti ricorderanno
presso la terra che ti copre
nel cielo delle notti.
1° ottobre 1973, diario medico: “Il p. viene a prendere le medicine:
mi appare né più né meno del solito, ma il padre, oggi in una vena
castratoria dice ‘cosa vuole, non ha iniziativa, è molle, molle; pensa
solo a scrivere poesie, e a bere’.”.7
Fine 1974, il padre muore, mentre Edoardo è ricoverato. Diario
medico, 9 dicembre 1974, relazione dell’assistente sociale:
La madre che pare sinceramente affezionata al paziente, nell’ultimo colloquio
ha affermato, piangendo, di aver paura a vivere da sola con lo stesso ora che
il padre è morto. Non pare che, a detta della madre, il fratello che risiede a
Carnate, possa prendere con sé il paziente. Assai problematica si presenterà
perciò la situazione del p. quando e se lo stesso sarà dimissibile dall’O.P.P.
Tre mesi dopo, il 12 marzo 1975, il fratello scrive una lettera al direttore dell’ospedale spiegando che
La matrigna non è in grado di seguire e sorvegliare mio fratello […] che,
quando trasmoda un po’ nel bere diventa pericoloso per gli altri e per se stesso. Io come fratello, essendogli affezionato, desidererei vederlo sistemato in
modo un po’ sicuro, perché a casa è sempre in pericolo […]. A una madre si
potrebbe chiedere l’eroismo di tenerlo assieme, […] ma non a una matrigna.
Le circostanze che hanno portato Edoardo al reparto pericolosi
dell’ospedale psichiatrico di Como sono ancora oggi poco chiare. Una
denuncia? Una telefonata? Da parte di chi? Una ribellione di Edoardo ai carabinieri, qualche offesa, qualche spintone – ecco che viene
chiamato il medico condotto, anzi un suo sostituto – viene ricoverato
in manicomio. Disturbo della quiete pubblica. Ritenuto violento. Non
aveva mai dato una sberla a nessuno. Anzi, era divenuto il personag Le poesie di Fraquelli sono state recentemente ripubblicate, con degli inediti, nella
collana “Atelier. Poesia” diretta da Stefano Crespi: Edoardo Fraquelli, Di terra, di cielo, con
una testimonianza di David Maria Turoldo, Le Lettere, Firenze 2010.
7
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gio strano, il clown. L’artista fuori dai ranghi, il poeta, il pittore, per
un bicchier di vino gli facevano fare il pagliaccio. Scomodo alla famiglia che rimaneva dopo la morte del padre. Una vergogna. C’erano
due nipoti, due ragazze da sposare. Forse meglio non averlo in giro,
in paese.
Cinque anni in Psichiatria senza uscire. Ma il caso ha voluto che
un suo dipinto esposto in un museo di Graz fosse entrato nel cuore di
un amante dell’arte, che subito inizia a raccogliere i suoi lavori sparsi
tra cantine e solai brianzoli o “addirittura usati come tappabuchi di
finestre o di mobili sforacchiati dai topi” e decide di fare una mostra:
prepara il menabò del libro che parlerà di lui. Va a cercare Fraquelli,
siamo nel 1980, chiede un incontro, e lo trova “con occhi sbarrati, via
con la testa […]. Forse hanno ragione quelli che dicono che è finito…
chiuso… matto”, si dice. Ma poi ci torna, nell’ospedale dei matti,
lo trova lucido, allora capisce di essere arrivato prima delle novanta
gocce di Serenase. Siamo a Villa Rosa. Va a conoscere il primario:
“Guardi che qui c’è una persona che non è una persona qualsiasi,
ecco il menabò del libro, delle opere giovanili, Edoardo è un artista!”.
E lì “si sono spalancate le porte”. Fraquelli ritorna a dipingere. Il suo
primo quadro è dell’agosto 1981. Sono passati quindici anni. Lo fa in
ospedale, dove avrà uno spazio per dipingere. Un quadro la settimana
per il suo nuovo amico che lo va a trovare ogni giovedì. In novembre,
per la mostra a lui dedicata, Un’acerba estate, Edoardo esce, i parenti
serpenti si oppongono, “è pericoloso! Non bisogna farlo uscire di lì!”.
Ma alla mostra ci sono tutti, vecchi conoscenti, vecchi amici, il primario dell’ospedale. Edoardo rimane una notte a dormire dal suo nuovo
amico che gli ha portato tele e colori in corsia. Ha, di nuovo, la certezza
di esistere. Per l’arte.
Si inaugura così una nuova stagione di pittura che riprende l’energia dal colore. Il giallo di cadmio inonda le sue tele, i grovigli inestricabili con i quali aveva interrotto il suo cammino riprendono a
vivere sulla tela, come se niente fosse successo, in mezzo. Ma ora sono
frammenti, segmenti, detriti uno in fila all’altro, senza volto e senza
nome. Da quando riprende a dipingere non c’è un solo titolo. Il tempo sembra sospeso, lo spazio senza nome. Qualche orizzonte azzurro compare in un ciclo geometrizzante, elementi ordinati prendono
forma sulle grandi campiture. Questa seconda vita regalata all’arte
durerà quattordici anni, tante mostre, piccole e grandi tele, il calore
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di una famiglia che lo ospita ogni settimana, il giovedì; uno spazio
d’affetto per lui, un armadietto dove custodisce gelosamente le sue
poesie, un bravo infermiere lo accompagnerà senza sosta. Prima di
morire, riprende la tempera, di nuovo la carta. Tre volte più grande.
Ma ora le pennellate lasciano un centro vuoto. C’è un vuoto costante,
che rimane carta bianca, intatta e muta, tra i gialli e le terre, in centro.
Il ritratto di un vuoto, un vuoto Senza titolo.