Doubts and perspectives - Processo Penale e Giustizia

PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
1-2015
Diretta da Adolfo Scalfati
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb,
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
Verso una riforma della giustizia penale?
Dubbi e speranze
Towards a reform of criminal matter?
Doubts and perspectives
Messa alla prova per adulti:
anatomia di un nuovo modello processuale
Probation for adults: analysis of a new
proceedings model
Sequestro e internet: un difficile binomio tra
“vecchie” norme e “nuove” esigenze
Seizure and internet:
a "difficult" combination between
old standards and new requirements
La rescissione del giudicato:
esegesi di una norma imperfetta
Breach of res iudicata:
exegesis of an imperfect rule
G. Giappichelli Editore – Torino
Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 –
Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati
PROCESSO
PENALE
E GIUSTIZIA
Diretta da Adolfo Scalfati
1-2015
Comitato di direzione:
Ennio Amodio, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb
Sergio Lorusso, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Giorgio Santacroce
G. Giappichelli Editore – Torino
© Copyright 2015 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO
VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100
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Comitato di Direzione
Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano Statale
Giuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Paolo Ferrua, professore ordinario di procedura penale, Università di Torino
Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia
Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno
Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di Foggia
Mariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB
Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste
Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazione
Coordinamento delle Sezioni
Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli
Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’Insubria
Paola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di Piacenza
Donatella Curtotti, professore associato di procedura penale, Università di Foggia
Mitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste
Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico II
Carla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Parthenope
Nicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara
Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale
Redazione
Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscardi,
ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, ricercatore di procedura penale, Università
di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’unione europea, Università di Roma Tor
Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”
– Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ricercatore di procedura
penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura penale, Università di
Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
– Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio Pagliano, ricercatore di
procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato – Roberto Puglisi, dottore di
ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester Ricci, assegnista di ricerca in
diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato – Alessio Scarcella, magistrato
– Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale
Peer review
La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista.
La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo
e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva
critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari
di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla
meritevolezza o meno della pubblicazione. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto
giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.
Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima.
I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.
Peer reviewers
Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova
Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia
Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise
Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB
Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata
Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia
Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale
Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari
Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca
Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS
Angelo Pennisi, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania
Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo
Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di Udine
Gianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
V
Sommario
Editoriale | Editorial
GIANLUCA VARRASO
Verso una riforma della giustizia penale? Dubbi e speranze / Towards a reform
of criminal matter? Doubts and perspectives
1
Scenari | Overviews
Novità sovranazionali / Supranational news (ELENA ZANETTI)
7
De jure condendo (MARILENA COLAMUSSI)
12
Corti europee / European Courts (FRANCESCO TRAPELLA)
17
Corte costituzionale (DONATELLA CURTOTTI)
22
Sezioni Unite (ANTONIO PAGLIANO)
26
Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI)
32
Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law
Potere istruttorio d’ufficio del giudice e prove inutilizzabili
Corte di Cassazione, Sezione I, sentenza 26 giugno 2014, n. 27879 – Pres. Giordano; Rel.
Magi
35
L’iniziativa probatoria del giudice nel processo penale accusatorio: la Cassazione definisce i limiti all’esercizio del “potere di completamento istruttorio” di cui all’art. 507 c.p.p.
/ The Judge’s power to complete the investigations in the adversary criminal trial (IRENE GUERINI)
42
L’incompatibilità del giudice che ha applicato la pena su richiesta nei confronti del concorrente necessario
Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 26 giugno 2014, n. 36847 – Pres. Santacroce;
Rel. Conti
55
Gli strumenti per rilevare il pre-giudizio di chi ha emesso la sentenza di patteggiamento
verso il coimputato nel medesimo reato / Defining the tools to note when a judge has already
voiced his own conviction (LUCIA IANDOLO)
62
Restituzione delle cose sequestrate: incertezze interpretative
Corte di Cassazione, Sez. I, sentenza 4 giugno 2014, n. 23333 – Pres. Siotto; Rel. Magi
69
Procedimento di restituzione delle cose sequestrate: potenziali equivoci e problemi applicativi / Process of confiscated goods: potential misunderstandings and application problems
(ROBERTO DE ROSSI)
73
L’invalidità dell’accertamento fiscale e i suoi effetti sul processo penale
Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 1° aprile 2014, n. 2487 – Pres. Squassoni; Rel.
Franco
84
L’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso presso i locali del contribuente: natura e regime giuridico / The Public Prosecutor’s authorization to access into the
premises of taxpayer: legal nature (TERESA ALESCI)
87
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
VI
Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis
Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale / Probation for
adults: analysis of a new proceedings model (LORENZO PULITO)
97
Sequestro e internet: un difficile binomio tra “vecchie” norme e “nuove” esigenze / Seizure and internet: a "difficult" combination between old standards and new requirements
(ANTONINO PULVIRENTI)
111
Analisi e prospettive | Analysis and Prospects
La rescissione del giudicato: esegesi di una norma imperfetta / Breach of res iudicata:
exegesis of an imperfect rule (GIANRICO RANALDI)
123
Il giudizio “rapido” spagnolo / The spanish speedy trial (IGNACIO FLORES PRADA)
134
Indici | Index
Autori / Authors
145
Provvedimenti / Measures
146
Materie / Topics
147
SOMMARIO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
1 Editoriale | Editorial
GIANLUCA VARRASO
Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università Cattolica S. Cuore di Milano
Verso una riforma della giustizia penale?
Dubbi e speranze
Towards a reform of criminal matter?
Doubts and perspectives
La riforma complessiva che si sta delineando in questi mesi in ambito penale, non sempre chiara nei contenuti e
che dovrebbe impegnare il Parlamento e il Governo anche nei prossimi mesi, pare presentare due anime di non
facile composizione.
Da un lato, si adottano misure immediate e dettate dall’emergenza che, seppur ispirate da lodevoli intenzioni,
amplificano le aporie di sistema. Dall’altro lato, si prefigurano deleghe per una risistemazione del codice penale e
per una riforma coordinata del codice di procedura penale e della legge sull’ordinamento penitenziario.
È indubbio che le prospettive di ampio respiro sono da preferire, anche per superare il contingente.
The overall reform that in the last months is being drafted in the criminal matter, which is not completely clear in
its contents and that should involve the Parliament and the Government in the next months, seems to have two
souls that not easily fit together.
On the one hand, the reform provides immediate and emergency measures that, even if are inspired by praiseworthy intentions, amplify the aporias of the system. On the other hand, parliamentary decrees are envisaged
about the reorganization of the criminal code, of the criminal procedure code and of the law on the penitentiary
system.
It is undeniable that perspectives of wider ambitions should be preferred, even to ride out of the present state.
GLI INPUT SOVRANAZIONALI E LE LINEE DIRETTIVE PER UNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE
Dopo un periodo di sostanziale “fermo” si è registrata nel 2013 e nel 2014 una ripresa della produzione
legislativa in ambito penale, ancora una volta sulla spinta dell’emergenza e di situazioni contingenti e a
seguito di imperativi input sovranazionali.
L’occasione è stata determinata in particolare dalle intollerabili condizioni di vita all’interno degli
istituti penitenziari italiani, motivo di condanna da parte degli organi di giustizia nazionali ed europei
e di richiamo delle più alte Cariche dello Stato: comune la denuncia che la pena detentiva in Italia si è
ormai trasformata in un trattamento inumano e degradante, con buona pace dei principi fissati dagli
artt. 3 Cedu e 2, 3 e 27 comma 2 Cost.
Riecheggiano ancora le parole contenute nella sentenza pilota della Corte europea dei diritti dell’uomo, Torregiani c. Italia dell’8 gennaio 2013 e, ancor prima, nella sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic
c. Italia, nonché nella decisione n. 279 del 22 novembre 2013 della Corte costituzionale e nei messaggi
istituzionali del Presidente della Repubblica: occorreva porre mano alle necessarie riforme del sistema
penale, processuale e penitenziario, volte al ripristino di condizioni strutturali compatibili con i parametri costituzionali e sovranazionali, primo fra tutti la dignità della persona che dei diritti inviolabili
EDITORIALE | VERSO UNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE?
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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dell’uomo è la matrice (v. art. 1 Carta di Nizza e 6 T.U.E.). E colpisce la perfetta sintonia con le parole
recenti del Pontefice ai Professori dell’Associazione Internazionale di Diritto penale del 23 ottobre 2014.
Le linee direttive erano e sono ben chiare e si tratta, a dire il vero, dei principi base già espressi dal
Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa soprattutto nelle Raccomandazioni (1999)22 e (2006)13,
riguardanti proprio il sovraffollamento carcerario e che rappresentano altrettanti principi di civiltà giuridica, radicati anche nella nostra Carta fondamentale.
– La privazione della libertà personale deve considerarsi una extrema ratio, dovendosi, da un lato, ridurre al minimo il suo utilizzo per ragioni cautelari, dall’altro lato, implementare le misure alternative
alla detenzione; in stretta connessione occorre rafforzare la tutela giurisdizionale di diritti del detenuto,
soprattutto alla luce dello stato di vulnerabilità di quest’ultimo rispetto ai poteri dello Stato.
– L’ampliamento delle strutture penitenziarie deve essere anch’essa una misura eccezionale, in
quanto non adatta ad offrire una soluzione duratura al problema del sovraffollamento.
– Occorre introdurre un insieme appropriato di sanzioni e di misure applicate nella comunità; valutare l’opportunità di depenalizzare alcuni tipi di reato o di riqualificarli in modo da impedire l’utilizzo
di pene privative della libertà; semplificare, nel rispetto dei principi costituzionali e delle tradizioni giuridiche interne, la giustizia penale, ispirandosi, in particolare, a forme di diversion per deflazionare il carico processuale.
Sono queste le linee di intervento lungo le quali si sono sviluppati gli interventi legislativi del 2013 e
del 2014 in materia penitenziaria, sulla scorta anche dei risultati espressi dalla Commissione presieduta
dal Prof. Glauco Giostra, istituita dal Ministro della Giustizia il 2 luglio 2013 1.
LA LEGGE N. 67 DEL 28 APRILE 2014 E LA DELEGA AL GOVERNO DI RIFORMA DEL SISTEMA SANZIONATORIO
Si tratta solo di primi passi che in sé sono ancora del tutto insoddisfacenti, ma che possono assumere un
diverso significato se letti all’interno della riforma complessiva che si sta delineando negli ultimi mesi e
che dovrebbe impegnare il Governo e il Parlamento nei prossimi.
In primis, non può trascurarsi come siano parte integrante di un disegno volto ad una depenalizzazione non solo in astratto, ma anche in concreto, le scelte alla base della l. n. 67 del 28 aprile 2014 2.
È indubbio che questa legge sia piena di indicazioni eterogenee, disarmoniche e, a volte, di eccessiva
timidezza nelle scelte. Allo stesso tempo, presenta innegabili punti di forza, sensibilità e aperture per un
seppur limitato superamento della centralità della pena detentiva alla base del codice penale del 1930.
Proprio nella direzione auspicata dalle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa e, a dire il vero, da
tanti atti internazionali anche a carattere universale dell’O.N.U., si assiste ai primi sforzi volti a rendere
complementari i paradigmi della giustizia penale “tradizionale” con quelli della giustizia c.d. senza spada.
Va così salutata con favore l’estensione agli imputati adulti dell’istituto della sospensione del processo
con messa alla prova, che consente e impone percorsi di mediazione tra autore e vittima del reato e
l’espletamento di condotte riparatorie volte ad elidere le conseguenze dannose o pericolose dell’illecito.
I percorsi di giustizia riparativa devono far parte integrante della “cassetta degli arnesi” degli operatori giuridici in ambito penale e, ancor prima, imporre un cambiamento culturale sul ruolo di tutti i
protagonisti coinvolti nel processo, non da ultimo della classe forense.
Non significa ripudiare la finalità cognitiva del processo, ma attribuire pari dignità ai meccanismi alternativi al processo con compiti anche del difensore nuovi, che si affiancano, ma non si sostituiscono o
si sovrappongono al tradizionale diritto dell’accusato di difendersi cercando e provando.
Del pari appare condivisibile, con i necessari caveat, l’obiettivo comune alla legge delega contenuta
nell’art. 1 l. n. 67 del 2014 (di riforma del sistema sanzionatorio), volto a promuovere un diritto penale
minimo che utilizzi il carcere come extrema ratio.
1
Ci riferiamo, in particolare, al d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella l. 21 febbraio 2014, n. 10 (Misure urgenti in tema di
tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria), al d.l. 20 marzo 2014, n. 36, convertito nella l. 16 maggio 2014, n. 79 (Disposizioni urgenti in materia di disciplina degli stupefacenti) e, da ultimo, al d.l. 26 giugno
2014, n. 92 convertito nella l. 11 agosto 2014, n. 117 (Rimedi risarcitori in favore di detenuti ed internati): si permette rinviare, per un
commento, a C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014.
2
Per un commento, oltre al volume indicato nella nota 1, v. N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, Torino, 2014.
EDITORIALE | VERSO UNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE?
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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Tre sono infatti le direttrice lungo le quali si colloca tale legge delega e che, si spera, impegneranno il
Governo in questi mesi: depenalizzazione, allargamento della classe delle pene principali; introduzione
dell’istituto dell’irrilevanza del fatto con efficacia estintiva del reato.
È chiaro che non vi sono solo luci.
A titolo esemplificativo, molte delle fattispecie indicate per la depenalizzazione risultano di scarsa
frequenza pratica, o già affidate al giudice di pace. L’introduzione delle sanzioni pecuniarie civili (che
evocano i punitive damages di matrice anglosassone e che si invocano a fronte della depenalizzazione)
complicherà la distinzione degli illeciti a carico delle persone fisiche e giuridiche. L’irrilevanza del fatto
è costruita come causa di non punibilità e non come condizione di procedibilità, che avrebbe con più
facilità prodotto benefici effetti di deflazione processuale.
Il ruolo della persona offesa in tali meccanismi è tutto da definire, soprattutto alla luce della direttiva
2012/29/UE in tema proprio di giustizia riparativa e alla quale l’Italia deve adeguarsi. Ed anche la
messa alla prova, già introdotta, sconta contenuti precettivi per l’accusato (soprattutto in tema di lavoro
di pubblica utilità) ed ambiti di applicazione discutibili per i criteri di selezione utilizzati.
I PROGETTI GOVERNATIVI DEL LUGLIO 2014 DI RIFORMA DEL CODICE PENALE, DEL CODICE DI PROCEDURA
PENALE E DELLA LEGGE SULL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO
In questo quadro complessivo della riforma manca il tassello finale, non di certo di minore importanza.
Le Raccomandazione del Consiglio d’Europa, senza una particolare originalità, impongono di semplificare la giustizia penale e di salvaguardare i diritti fondamentali della persona.
E si tratta di una direttiva rivitalizzata dalla crisi economica (e sociale), ma anche di valori, nella
quale si dibatte il nostro Paese.
L’esigenza di recuperare la durata ragionevole del processo penale, al pari di quello civile, non è soltanto una necessità imposta dalla concreta attuazione dei principi del giusto processo legale di cui
all’art. 111 comma 1 Cost. e dalle Carte internazionali dei diritti dell’uomo.
Una giustizia civile e penale che non funziona allontana gli investitori esteri e affossa l’economia.
Una giustizia senza la “lealtà” dei suoi protagonisti è, comunque, destinata al fallimento.
La semplificazione e l’abbattimento dei tempi processuali, nel rispetto imprescindibile delle garanzie
dei soggetti coinvolti, primo tra tutti l’imputato, è oggi improcrastinabile per vivere con pari dignità
all’interno della comunità internazionale.
In questa direzione è andato il Governo alla fine di luglio del 2014, con l’approvazione di una serie
complessa di progetti di cui però non sono ancora ben chiari (e noti) i contenuti e che dovrebbero occupare il Parlamento nei prossimi mesi.
Sulla scorta dei lavori della Commissione istituita dal Ministro della Giustizia in data 10 giugno 2013
e presieduta dal Presidente della Corte d’Appello di Milano Giovanni Canzio e dei risultati della
Commissione ministeriale di studio per la riforma del codice di procedura penale, istituita con decreto
del Ministro della Giustizia del 26 luglio 2006 e presieduta dal Prof. Giuseppe Riccio, si sono proposte
modifiche negli ambiti che nella prassi hanno rivelato le maggiori criticità proprio sulla tempistica delle
cadenze procedimentali per il loro carattere complesso.
Si tratta degli ambiti che necessitano di interventi urgenti, volti proprio a semplificare le procedure e
a disincentivare le prassi devianti di abuso del processo: la prescrizione dei reati; le indagini preliminari, ancora una volta le misure cautelari, i procedimenti speciali, la prova in dibattimento, le impugnazioni, la cooperazione giudiziaria internazionale, l’esecuzione penale.
Possiamo tentare una sintesi almeno per quanto riguarda gli aspetti più significativi sotto il profilo
sistematico di questi disegni di legge.
Si deve partire dal primo, più complesso ed ampio, “recante modifiche alla normativa penale, sostanziale e processuale, e ordinamentale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”.
Continuando nell’opera di depenalizzazione in concreto già iniziata dalla l. n. 67 del 2014 con
l’introduzione della messa alla prova e della programmata “particolare tenuità del fatto”, si estende al
sistema penale generale un altro istituto già previsto per i reati di competenza del giudice di pace: la
causa estintiva delle condotte riparatorie del danno derivante da reato.
Lo spettro delle fattispecie coinvolte è più ampio di quello della messa alla prova di cui condivide
EDITORIALE | VERSO UNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE?
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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gli effetti: una sospensione temporanea del procedimento, con contestuale sospensione della prescrizione, per dare all’imputato il tempo necessario ad adempiere alle condotte e poter poi beneficiare di
una sentenza di proscioglimento.
Si introduce una delega per la riforma del regime di procedibilità di taluni reati che recano una modesta offesa all’interesse tutelato di natura individuale della persona offesa e per una “risistemazione”
del codice penale.
Si modifica la disciplina della prescrizione: in particolare, il fulcro delle modifiche ruota attorno
all’emissione della sentenza di condanna di primo grado. Questa sentenza, ritenuta incompatibile con il
decorso tout court del termine utile al c.d. oblio collettivo rispetto al fatto criminoso, determina una sospensione dei termini estintivi (due anni per l’appello, un anno per il ricorso per cassazione) per consentire lo svolgimento dei giudizi di impugnazione
Si prevede una delega per la revisione della disciplina processuale delle intercettazioni al fine di rafforzare il diritto alla riservatezza soprattutto delle persone estranee al procedimento e di coloro che,
pur coinvolti nello stesso, siano controllati anche su aspetti della vita privata estranei al tema di prova.
Con il fine dichiarato di evitare che l’udienza preliminare si trasformi in un momento dai poteri
giudiziali cognitivi talmente estesi da sovrapporsi ad un giudizio nel merito della vicenda processuale,
vengono eliminati (art. 421 c.p.p.) o ridimensionati (art. 422 c.p.p.) i meccanismi introdotti dalla legge
Carotti per garantire la completezza delle indagini. L’incompletezza patologica delle indagini nelle intenzioni dei conditores dovrebbe condurre ad una sentenza di non luogo a procedere.
Riguardo ai procedimenti speciali, il patteggiamento è il rito che subisce maggiori modifiche.
Si elimina il c.d. patteggiamento allargato introdotto dalla l. n. 134 del 2003, riservando il patteggiamento oggi previsto dall’art. 444 c.p.p. ai reati che consentono pene non superiori ai tre anni di reclusione (il limite della sospensione dell’ordine di esecuzione), ai quali si estendono tutti i benefici del rito
biennale di cui all’art. 444 comma 1 c.p.p.
Si introduce un istituto inedito: la condanna emessa su richiesta dell’imputato, che prescinde dal
consenso del p.m.
Ad esclusione dei casi oggi elencati nell’art. 444 comma 1 bis c.p.p., l’imputato che ammette il fatto,
rendendo confessione, può chiedere l’emissione immediata di regola in udienza preliminare di una sentenza di condanna a pena non superiore a 8 anni, con una riduzione premiale da un terzo alla metà. Il
giudice è chiamato a valutare la richiesta compiendo un accertamento pieno sula colpevolezza dell’imputato, che deve essere previamente interrogato per una più ponderata valutazione della confessione.
Il giudice rigetta la richiesta o per incongruità della pena o perché ritiene non sufficienti le fonti di prova a
disposizione. In tal caso dispone però il giudizio abbreviato e non più il rito ordinario, in quanto
l’imputato ha già manifestato la sua volontà di essere giudicato sulla base degli atti di indagine preliminare.
Appare chiara la ratio del legislatore di puntare su tale ultimo ed inedito istituto per tentare la massima deflazione possibile del dibattimento.
Ancora più significative le novità in tema di impugnazioni, in un’ottica sempre di deflazione, razionalizzazione ed efficacia.
Si limita all’appello la possibilità per l’imputato di impugnare personalmente le sentenze, riservando
al solo difensore il ricorso per cassazione.
Si reintroduce il patteggiamento sui motivi d’appello e si incide sull’istituto della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, a fronte del ribaltamento di una sentenza di assoluzione, come imposto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Interessanti anche le modifiche del giudizio di cassazione, ormai ritenute indispensabili dalla stessa
Suprema Corte3.
Si limita la ricorribilità per tutte le parti nel caso di doppia conforme.
Si valorizza il contraddittorio cartolare a fronte di una possibile declaratoria di inammissibilità ex
art. 610 c.p.p., che viene resa più “facile” a fronte di vizi formali.
Si modifica l’art. 618 c.p.p., imponendo alle sezioni unite l’enunciazione del principio di diritto
nell’interesse della legge.
Soffermandoci, seppure sempre in una necessaria prospettiva di sintesi, sul secondo disegno di legge approvato a fine luglio recante “Delega al governo per la riforma del libro XI del codice di procedura
3
Cfr. AA.VV., La Corte assediata. Per una ragionevole deflazione dei giudizi penali di legittimità, Milano, 2014.
EDITORIALE | VERSO UNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE?
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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penale”, questa si ispira a principi volti alla semplificazione soprattutto della cooperazione tra i Paesi
membri dell’Unione europea rispetto alla cooperazione con gli altri stati.
In particolare, avendo riguardo all’U.E, si chiede di modificare la disciplina codicistica in nome di
una progressiva attuazione del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie.
Da qui, per le rogatorie c.d. passive si valorizza la trasmissione diretta all’autorità giudiziaria competente all’esecuzione della rogatoria, assicurando l’esame immediata delle rogatorie urgenti, al fine di
depoliticizzare l’assistenza giudiziaria, con il Ministro della Giustizia che vede ridimensionato il suo
ruolo. Per l’estradizione, si vogliono salvaguardare le garanzie giurisdizionali dell’imputato o del condannato all’estero, differenziando, allo stesso tempo, le aree di esercizio delle concorrenti potestà
dell’autorità politica e dell’autorità giudiziaria e potenziando i meccanismi di interlocuzione diretta
dell’autorità giudiziaria con le autorità dello Stato richiedente.
LA LEGGE DELEGA IN MATERIA DI “RISISTEMAZIONE” DEL CODICE PENALE, E DI “RIFORMA” DELLA DISCIPLINA PROCESSUALE E PENITENZIARIA: L’AUSPICIO DI MODIFICHE ORGANICHE
Il Governo pare consapevole che i vari provvedimenti che si sono succeduti in materia penale e penitenziaria nel 2013 e nel 2014 hanno inciso sulla coerenza sistematica del sistema e impongono una rivisitazione complessiva della materia.
Allo stesso tempo, sembra trasparire in nuce la coscienza che le riforme sostanziali e processuali
messe in campo devono integrarsi in una prospettiva di più ampio respiro, nella quale sarà fondamentale il coordinamento.
Non è un caso che gli artt. 4, 21-23 dello “Schema di disegno di legge recante modifiche alla normativa penale, sostanziale e processuale” prevedano una delega per la “risistemazione” del codice penale
e per una riforma coordinata del codice di procedura penale e della legge di ordinamento penitenziario,
secondo le linee direttive già evidenziate e una delega in tema di appello.
Quest’ultimo cessa di essere un gravame ad effetto interamente devolutivo e si trasforma in uno
strumento di verifica a critica vincolata sui motivi identificati dalla legge e non più ai punti.
È indubbio che tale modifica si correla a quella del modello di motivazione della sentenza in primo
grado ai sensi di un nuovo art. 546 lett. e) c.p.p., che impone al giudice di dar conto dell’iter logico seguito nell’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione, alla qualificazione
giuridica, alla punibilità e alla determinazione della pena, oltre che sulla responsabilità civile derivante
da reato e sui fatti ai quali dipende l’applicazione di norme processuali (è significativo il richiamo alla
struttura dell’art. 187 c.p.p.).
Anche nei progetti legislativi approvati alla fine di luglio convivono, comunque, anime diverse e inconciliabili.
Da un lato, ci troviamo di fronte a modifiche immediate, ispirate alla tradizionale logica dell’emergenza e al più volte evidenziato bisogno di semplificare. È chiaro che in questo modo si finisce per
incidere in profondità sugli equilibri già precari del codice penale, di procedura penale e della legge di
ordinamento penitenziario, senza dimenticare l’ambito (che non si è trattato) delle misure di prevenzione e più in generale del contrasto alla criminalità organizzata.
È lodevole la volontà dichiarata de iure condendo di trovare un equilibrio tra l’esigenza di efficienza
connessa alla ragionevole durata delle procedure con i principi del giusto processo legale; ma al di là
delle buone intenzioni qualsiasi modifica su segmenti del diritto penale e del procedimento non fa che
complicare, in via ulteriore, il quadro astratto e le ricadute concrete, limitandosi a soddisfare il bisogno
dell’opinione pubblica del “tutto e subito”.
Dall’altro lato, sono, per contro, da apprezzare i propositi di ampio respiro.
È forse utopico, ma nelle deleghe il seme in tale direzione esiste e va coltivato con cura ed attenzione.
Riformare il sistema sanzionatorio senza una riforma organica del codice penale (è emblematico che
si parli solo di una “risistemazione” di tale codice), nonché senza la contestuale e coordinata modifica
del codice di rito e della l. n. 354 del 1975 serve a poco.
Il sovraffollamento carcerario maschera, per quanto interessa, un problema antico: il dialogo tra sostanzialisti e processualisti non solo deve avvenire a livello accademico, ma tradursi in una concreta at tività legislativa che superi la contingenza.
EDITORIALE | VERSO UNA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE?
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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NOVITÀ SOVRANAZIONALI
SUPRANATIONAL NEWS
di Elena Zanetti
LA CONVENZIONE DEL CONSIGLIO D’EUROPA SULLA MANIPOLAZIONE DI COMPETIZIONI SPORTIVE (CETS
N. 215)
In occasione della XIII Conferenza dei ministri dello sport degli Stati membri del Consiglio d’Europa –
svoltasi a Macolin (Svizzera) il 18 settembre 2014, sui temi della corruzione nelle manifestazioni sportive e della cooperazione in ambito sportivo su scala paneuropea – è stata aperta alla firma la Convenzione
sulla manipolazione di competizioni sportive. La convenzione – messa a punto da un gruppo di redazione
intergovernativo istituito dal Comitato di Direzione dell’EPAS (Enlarged Partial Agreement on Sport, organo che fornisce una piattaforma di cooperazione intergovernativa nell’ambito dello sport tra le autorità pubbliche dei suoi Stati membri) – era stata adottata il 9 luglio 2014, nel corso della 1205ª riunione
dei delegati dei Ministri.
Come si legge nel Rapporto esplicativo (§ 3) che accompagna la convenzione, con l’espressione “manipolazione di competizioni sportive” si è inteso far riferimento non soltanto agli “incontri” – competizioni in
cui si confrontano due atleti o due squadre – né alla sola manipolazione del risultato finale di una competizione sportiva, ma più in generale a tutte le possibili modifiche intenzionali e irregolari dello svolgimento o del risultato di una competizione sportiva al fine di interferire in tutto o in parte con il carattere imprevedibile della competizione stessa per ottenere un indebito vantaggio personale o in favore
di terzi. L’accresciuta commercializzazione degli eventi sportivi e la loro esposizione mediatica hanno
favorito – specie a partire dagli anni 2000 – un consistente incremento degli interessi economici legati
ad alcuni risultati sportivi e incentivato lo sviluppo di nuove attività lecite ed anche illecite. In questo
contesto generale si segnalano due fenomeni peculiari: in primo luogo il moltiplicarsi delle tipologie di
scommesse offerte, a volte in assenza di un controllo efficace da parte delle autorità competenti, così da
favorire la diffusione di scommesse più facili da influenzare e di forme di manipolazione più difficili da
scoprire. A ciò si aggiunge lo sviluppo di un consistente mercato illegale, che offre agli utenti margini
di rendimento particolarmente elevati, in grado di attirare le organizzazioni criminali, interessate alla
manipolazione delle competizioni sportive su cui sono effettuate le scommesse, al fine di ricavare profitti grazie ad esse, riciclando, in tal modo, denaro di provenienza illecita.
Tali fenomeni – legati alla frode, alla criminalità organizzata e alla corruzione – generano indubbiamente interessi economici considerevoli, ma più in generale rappresentano una seria minaccia per il futuro dello sport, inteso come pratica sociale, culturale, economica e politica. Non sorprende, quindi, che
il Consiglio d’Europa abbia assunto varie iniziative in difesa dell’integrità della partica sportiva, sia sul
fronte della lotta al doping (v., in particolare, la Convenzione contro il doping del 1989, ETS n. 135; seguita
dalla Risoluzione RES (2007) 8 dell’11 maggio 2007, istitutiva dell’EPAS), sia su quello delle competizioni manipolate, della corruzione e delle scommesse illegali (v. la Risoluzione n. 1 sulla promozione
dell’integrità dello sport contro la manipolazione dei risultati, adottata all’esito della Conferenza di Baku
del 22 settembre 2010, nonché la Raccomandazione (2011) 10, del 28 settembre 2011, specificamente dedicata alle partite “truccate”).
In particolare, ai sensi della Raccomandazione (2011) 10, il segretariato dell’EPAS è stato invitato a
predisporre, di concerto con altri organismi nazionali ed internazionali, uno studio di fattibilità in merito
all’eventuale adozione di un nuovo strumento giuridico in tema di partite “truccate” atto a colmare le lacune della vigente normativa internazionale. Alcuni importanti aspetti della corruzione in ambito sportivo sono, per vero, già coperti dalle convenzioni sulla criminalità organizzata e sulla corruzione – rispetti SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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vamente la Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale (Palermo, 2000)
e la Convenzione O.N.U. contro la corruzione (Merida, 2003). Esse, però, non considerano, espressamente
i casi di manipolazione delle competizioni sportive che esulano dal contesto della criminalità transnazionale o dalla nozione di corruzione in senso proprio. Del pari, come riferimenti normativi per elaborare
strumenti di lotta alle organizzazioni criminali che corrompono gli sportivi e si servono delle scommesse
per riciclare denaro “sporco” e per finanziare le loro attività potrebbero essere utilizzate due convenzioni
del Consiglio d’Europa in materia di corruzione (la Convenzione penale sulla corruzione del 1999, STE n.
173) e di riciclaggio (la Convenzione sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finanziamento del terrorismo del 2005, STE n. 198). La manipolazione delle competizioni sportive
può, però, essere attuata attraverso pratiche non riconducibili alla Convenzione sulla corruzione, così come le scommesse illegali e i profitti che derivano dalla manipolazione dei risultati sportivi non necessariamente rientrano nell’ambito di applicazione della Convenzione sul riciclaggio.
Alla luce di tali considerazioni, dunque, l’opzione rappresentata dall’elaborazione di uno strumento
ad hoc in grado di riunire tutte le misure preventive e repressive per un’efficace lotta alla manipolazione
delle competizioni sportive, potenziando nel contempo il profilo della cooperazione internazionale, è
parsa la più idonea. L’interesse per una convenzione internazionale in materia risiede, in prevalenza,
nella promozione di un approccio globale in vista dell’adozione di principi condivisi volti a prevenire,
individuare e punire la manipolazione delle competizioni sportive.
Per perseguire efficacemente tale obiettivo la nuova convenzione “associa” – sul piano del contenuto –
tutti i potenziali soggetti che operano nella lotta alle manipolazioni de quibus, vale a dire autorità pubbliche, organizzazioni sportive e operatori di scommesse. In tal senso, i governi vengono sollecitati ad
adottare misure idonee, anche di natura legislativa, per indurre, ad esempio, le autorità di controllo sulle scommesse sportive a contrastare le frodi, anche limitando o sospendendo la possibilità di effettuare
scommesse, o per limitare, in caso di necessità, l’accesso agli operatori coinvolti e il blocco dei flussi finanziari tra questi ultimi e i consumatori (art. 11). Le organizzazioni sportive sono, invece, invitate a
dotarsi di regole più stringenti contro la corruzione, nonché a prevedere sanzioni e misure disciplinari
per i casi di violazione, oltre a principi di buona governance (art. 7).
Nella stessa ottica, per garantirne una più ampia diffusione – ai sensi dell’art. 32, § 1 – la Convenzione è stata aperta alla firma non solo dei Paesi membri del Consiglio d’Europa, ma anche degli Stati aderenti alla Convenzione culturale europea, degli Stati membri dell’Unione europea e degli Stati non
membri che abbiano partecipato alla sua elaborazione o che godano dello status di osservatore presso il
Consiglio d’Europa, nonché di ogni altro Paese non membro su invito del Comitato dei Ministri (art. 32,
§ 2). Quanto alla data di entrata in vigore della convenzione, l’art. 32, § 4 dispone che essa coincida con
il giorno successivo al decorso di un periodo di tre mesi seguenti il raggiungimento di cinque ratifiche
(strumenti da depositarsi presso il Segretariato Generale del Consiglio), almeno tre delle quali provenienti da Stati membri del Consiglio d’Europa.
Rispetto alla struttura, il testo si compone di 41 articoli, suddivisi in nove capitoli, rispettivamente
dedicati a Scopo, linee guida e definizioni (artt. 1-3); Prevenzione, cooperazione ed altre misure (artt. 4-11);
Scambio di informazioni (artt. 12-14); Diritto penale sostanziale e cooperazione in materia d’esecuzione (artt. 1518); Giurisdizione, procedura penale e misure d’esecuzione (artt. 19-21); Sanzioni e misure (artt. 22-25); Cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale (artt. 26-28); Follow up (artt. 29-31); Disposizioni finali
(artt. 32-41).
Sul piano del contenuto, in tale articolazione spiccano, anche in ragione delle caratteristiche del fenomeno della manipolazione delle competizioni sportive, gli aspetti della repressione e della cooperazione internazionale.
In ordine al primo profilo – come sottolinea il Rapporto esplicativo (§ 20) – la convenzione individua
talune condotte da perseguire in ambito nazionale (in particolare il riciclaggio dei proventi derivanti
dai reati relativi alla manipolazione delle competizioni sportive), senza peraltro imporre agli Stati la
creazione di nuove fattispecie di reato. La definizione di tali comportamenti (riferimenti specifici sono
operati al riciclaggio di denaro e alla responsabilità delle persone giuridiche) mira ad agevolare la cooperazione giudiziaria e di polizia tra gli Stati parte. Al fine di assicurare, inoltre, un efficace sistema di
applicazione, la convenzione considera un ampio ventaglio di possibili sanzioni di natura penale, amministrativa e disciplinare, raccomandando agli Stati di determinarle in modo effettivo, dissuasivo e
proporzionato.
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In merito al secondo profilo, si rileva – ancora nel Rapporto esplicativo (§ 21) – come la dimensione transnazionale assunta con sempre maggiore frequenza dai fenomeni di manipolazione abbia reso indispensabile il rafforzamento della cooperazione internazionale, sia sul fronte delle indagini, sia su quello della repressione dei reati. In tali ambiti la convenzione non interferisce comunque con gli strumenti vigenti nei
settori dell’assistenza giudiziaria e dell’estradizione, quali in particolare la Convenzione europea di estradizione del 1957 e la Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del 1959 e il Protocollo addizionale del 1978. Il ruolo degli Stati parte nell’incoraggiare il principio del reciproco riconoscimento delle sanzioni disciplinari adottate da organizzazioni sportive nazionali di Paesi stranieri mira ad
evitare che un atleta sanzionato da una federazione nazionale si sottragga all’applicazione della sanzione
partecipando a competizioni diverse o, viceversa, si esponga al rischio di una duplice sanzione.
Ai sensi dell’art. 2, i principi-guida ai quali deve ispirarsi la lotta alla manipolazione delle competizioni sportive, sono costituiti da: i diritti dell’uomo, le regole di legalità e di proporzionalità, la protezione della vita privata e dei dati personali. Quanto alle numerose definizioni fornite dall’art. 3, risultano particolarmente dettagliate quelle relative alle nozioni di “scommessa sportiva” – rispetto alla quale
sono differenziate le ipotesi di “scommessa illegale”, “scommessa irregolare” e “scommessa sospetta” –
e di “partecipante alla competizione” – in cui rientrano le figure di atleti, personale di supporto ed “official/officiel”, ovvero proprietari, azionisti, dirigenti e personale delle società sportive nazionali ed internazionali, nonché arbitri e componenti delle giurie.
Dopo aver illustrato gli strumenti di prevenzione e cooperazione – coordinamento interno (art. 4);
valutazione e gestione dei rischi (art. 5); educazione e sensibilizzazione (art. 6); misure concernenti le
organizzazioni sportive e gli organizzatori di competizioni (art. 7); misure riguardanti il finanziamento
delle organizzazioni sportive (art. 8); misure dedicate all’autorità di controllo sulle scommesse ed altre
autorità (art. 9); misure riguardanti gli operatori di scommesse sportive (art. 10) – la convenzione fa carico agli Stati parte di individuare e di adottare, in conformità con la legge applicabile e la giurisdizione
interessata, i mezzi più efficaci di lotta contro le scommesse illegali. A tal fine, l’art. 11 indica, a scopo
esemplificativo le seguenti ipotesi: blocco o limitazione diretta o indiretta dell’accesso agli operatori
“remoti” di scommesse illegali e chiusura degli operatori stessi; blocco dei flussi finanziari tra gli operatori di scommesse illegali e i consumatori; il divieto per gli operatori de quibus di pubblicizzare le loro
attività; la sensibilizzazione dei consumatori verso i rischi connessi alle scommesse illegali.
Tra gli interventi che gli Stati parte sono chiamati ad attuare sul piano dello scambio di informazioni
si segnala l’identificazione – tenuto conto delle strutture già esistenti e della ripartizione di funzioni tra
di esse – di una “piattaforma nazionale” operativa nella lotta alla manipolazione delle manifestazioni
sportive. Ai sensi dell’art. 13, § 1 la “piattaforma nazionale” dovrà, in particolare, fungere da centro di
informazioni, raccogliendo e trasmettendo i dati rilevanti alle autorità ed organizzazioni interessate.
Essa si occuperà, inoltre, di coordinare la lotta alla manipolazione delle competizioni sportive; di ricevere, centralizzare ed analizzare le informazioni relative a scommesse “atipiche” e sospette su competizioni sportive che si svolgano nel territorio degli Stati parte, emettendo, se del caso, gli opportuni “allerta”; di trasmettere informazioni alle autorità o alle organizzazioni sportive e agli operatori di scommesse, segnalando possibili infrazioni delle norme indicate dalla convenzione stessa; di cooperare con
tutte le organizzazioni e le autorità interessate a livello nazionale e internazionale, comprese le piattaforme nazionali degli altri Stati. A cura di ciascuno Stato parte gli estremi e l’indirizzo della “piattaforma nazionale” dovranno essere comunicati al Segretariato Generale del Consiglio d’Europa (art. 13, § 2).
Le previsioni in tema di diritto penale sostanziale contenute negli artt. 15-18 appaiono ispirate
all’esigenza che la manipolazione delle competizioni sportive sia espressamente sanzionata dal diritto
interno degli Stati parte così da poter essere punita in modo adeguato. A tale riguardo la convenzione
ha operato la scelta di non elaborare fattispecie di reato ad hoc, limitandosi a ricondurre le condotte di
manipolazione – secondo la definizione fornita dall’art. 3, § 4 – alle ipotesi di estorsione, corruzione o
truffa come disciplinate dagli ordinamenti nazionali. In quest’ottica, l’art. 16, § 1 impone, in particolare,
agli Stati parte l’adozione delle misure necessarie all’incriminazione sul piano interno delle condotte
connesse al riciclaggio di denaro, qualora il reato principale, generando un profitto, integri una delle
ipotesi previste dagli artt. 15 e 17 della convenzione in esame o, quantomeno, in caso di estorsione, corruzione o truffa. A tal fine, proprio per non introdurre una ulteriore definizione del reato di riciclaggio,
la convenzione si riporta a quelle contenute, rispettivamente, nell’art. 9, § 1 e § 2 della Convenzione del
Consiglio d’Europa sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato e sul finan SCENARI | NOVITÀ SOVRANAZIONALI
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ziamento del terrorismo (CETS 198); nell’art. 6, § 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la
criminalità organizzata transnazionale (Palermo, 2000) e nell’art. 23, § 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (Merida, 2003). Nel definire la gamma dei reati da considerare “principali” ai sensi e per gli effetti dell’art. 16, § 1 ogni Stato parte è comunque libero di decidere, secondo il
diritto interno, come formulare tali fattispecie e i loro elementi costitutivi. Al fine di ricondurre i casi di
manipolazione delle competizioni sportive nell’ambito della prevenzione del riciclaggio gli Stati parte
dovranno altresì adoperarsi perché gli operatori di scommesse sportive applichino la necessaria “diligenza” nei confronti dei consumatori e nell’esercizio della loro attività (art. 16, § 3).
Sempre sul piano del diritto interno si dovrà, inoltre, intervenire perché siano sanzionate penalmente le attività intenzionali di concorso nella commissione dei reati indicati dall’art. 15 della convenzione
(art. 17). Come osserva il Rapporto esplicativo (§ 146) l’inserimento di una norma di questo tipo – che richiama quella contenuta nell’art. 5.1.b della Convenzione O.N.U. di Palermo, relativa alle condotte volte “a fornire assistenza, aiuto o consiglio” in vista della commissione del reato – è di fondamentale importanza poiché nella manipolazione delle competizioni sportive con sempre maggiore frequenza sono
coinvolte organizzazioni criminali, formate da numerose persone che concorrono in modo diverso, direttamente o indirettamente, alla commissione delle attività illecite. Alla medesima ratio va ascritta anche la previsione di una responsabilità per i reati considerati dagli artt. 15-17 della convenzione a carico
delle persone giuridiche, in presenza delle condizioni indicate dall’art. 18. In tal senso si dispone che,
negli ordinamenti nazionali, vengano adottate misure legislative – o di altra natura – idonee a perseguire i reati commessi nell’interesse di una persona giuridica da soggetti che agiscano sia individualmente
sia come componenti di un organo dell’ente dotato di poteri di direzione. In base al § 1 dell’art. 18
l’esistenza di un simile potere nell’agente viene presunta nei casi di rappresentanza della persona giuridica, di potere di adottare decisioni in nome dell’ente e di esercitare un controllo su di esso. La convenzione non prende però posizione – come del resto già la Convenzione O.N.U. di Palermo – in ordine
alla natura della responsabilità configurata a carico delle persone giuridiche, lasciando decidere agli
Stati parte se qualificarla di tipo penale, civile o amministrativo.
Si deve all’art. 19 la previsione dei criteri in ossequio ai quali gli Stati parte sono tenuti a stabilire la
competenza rispetto ai reati de quibus. Ciascuno Stato dovrà, in primo luogo, perseguire i reati commessi sul proprio territorio, ai quali si aggiungono quelli avvenuti a bordo di navi battenti bandiera nazionale e su aerei immatricolati secondo la legge nazionale, nonché quelli commessi da un cittadino o da
una persona che abbia la residenza abituale sul territorio dello Stato. La convenzione fa comunque salva la possibilità degli Stati di formulare – all’atto della firma o del deposito dello strumento di ratifica,
accettazione o approvazione – riserve volte ad escludere l’applicazione di alcune di tali regole, o a limitarne l’impiego a casi o a condizioni determinati (art. 19, § 2).
Dal momento che i reati riconducibili all’area della manipolazione di competizioni sportive implicano sovente l’utilizzo di tecnologie informatiche e della comunicazione, nella convenzione è considerato
anche il profilo della conservazione delle prove “elettroniche”. A tale scopo, l’art. 20 riconosce agli Stati
parte la possibilità di ottenere, nel corso delle indagini relative ai reati previsti dagli artt. 15-17, la conservazione rapida dei dati informatici raccolti, la conservazione e la divulgazione rapide del traffico dei
dati; quella di emettere ordini, di procedere a perquisizioni e sequestri di dati informatici; di raccogliere
in tempo reale i dati relativi al traffico e l’intercettazione del loro contenuto. In ogni caso, tali operazioni
dovranno svolgersi nel rispetto delle norme interne e di quelle internazionali relative alla protezione
dei dati personali, in linea con quanto previsto dall’art. 14 della convenzione. Completa il quadro delle
disposizioni di rilievo processuale la previsione che gli Stati parte adottino misure idonee ad assicurare,
sul piano interno, l’efficace protezione di informatori, testimoni e dei loro familiari (art. 21).
Quanto al profilo delle sanzioni applicabili, la convenzione non si limita a considerare l’adozione di
quelle penali a carico delle persone fisiche (art. 22), ma affianca ad esse la previsione di sanzioni dirette
alle persone giuridiche (art. 23) e di quelle di natura amministrativa (art. 24). In merito alle prime, la cui
definizione è comunque rimessa agli Stati parte, si precisa come esse – tanto se di natura pecuniaria che
detentiva – debbano essere efficaci, proporzionate e dissuasive. Nel novero delle misure applicabili nei
confronti delle persone giuridiche rientrano, oltre alle sanzioni pecuniarie, forme di interdizione temporanea o definitiva dall’esercizio di un’attività commerciale, ipotesi di commissariamento giudiziale e
lo scioglimento. L’art. 23 denota quindi una certa flessibilità, non implicando in particolare nessun obbligo per gli Stati parte di prevedere sanzioni di tipo penale.
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Per quanto concerne, infine, il settore della cooperazione giudiziaria in ambito penale l’art. 26 si limita a stabilire che gli Stati parte cooperino tra loro nella misura più ampia possibile a fini investigativi
e processuali in conformità agli strumenti nazionali ed internazionali vigenti, oltre che in tema di estradizione e di assistenza giudiziaria in materia penale, in base ai trattati internazionali, regionali e bilaterali applicabili. Anche a questo riguardo è evidente l’intenzione di non creare un regime di assistenza
differenziato a causa del significativo quadro normativo di cui già da tempo dispone il Consiglio
d’Europa – v. le Convenzioni europee di estradizione e di assistenza giudiziaria ed i rispettivi protocolli
addizionali – che può applicarsi efficacemente anche alla cooperazione rispetto ai reati relativi alla manipolazione delle competizioni sportive. A tal fine vengono inoltre in considerazione gli strumenti elaborati in seno all’Unione Europea, quale in particolare la Decisione quadro del 13 giugno 2002 istitutiva
del mandato d’arresto europeo. Qualora la Parte richiesta condizioni però la concessione dell’estradizione o dell’assistenza alla presenza di un trattato ad hoc la convenzione in esame può essere considerata dallo Stato interessato – ai sensi dell’art. 26, § 4 – quale base legale per la cooperazione relativa ai
reati previsti dagli artt. 15-17, pur sempre nel rispetto degli obblighi di diritto internazionale e delle
condizioni previste dal diritto interno della Parte richiesta.
Completano la convenzione alcune disposizioni volte a favorirne l’efficace applicazione, tra cui
l’istituzione di un apposito comitato, le cui funzioni sono disciplinate dall’art. 31.
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DE JURE CONDENDO
di Marilena Colamussi
DAI TRIBUNALI MILITARI A SEZIONI AD HOC DEI TRIBUNALI ORDINARI
Apre un interessante dibattito in ordine alla semplificazione e al riassetto dell’ordinamento giurisdizionale la proposta di legge costituzionale C. 2657, a firma dell’on. D’Ambruoso e altri, in tema di “Modifiche agli articoli 102 e 103 della Costituzione in materia di soppressione dei tribunali militari e istituzione di una
sezione specializzata per i reati militari presso i tribunali ordinari”, presentata l’8 ottobre 2014 e attualmente
assegnata alla Commissione Affari Costituzionali in sede referente.
Il disegno di legge consta di tre articoli, dei quali i primi due incidono direttamente sulla Carta costituzionale, mentre il terzo è rappresentato da una “norma finale” utile a completare il quadro della riforma regolamentandone i profili attuativi. La principale novità consisterebbe nell’abrogazione dell’art.
103, comma 3, Cost., con la soppressione dei tribunali militari su tutto il territorio nazionale e delle rispettive corti d’appello militare (art. 2 d.d.l.). L’obiettivo è di eliminare tali giudici speciali, che attualmente sono titolari di una competenza per materia piuttosto circoscritta: in tempo di guerra secondo la
giurisdizione statuita dalla legge e in tempo di pace limitatamente ai reati militari commessi da coloro
che appartengono alle forze armate.
Per colmare il vuoto che si creerebbe in termini di competenza per materia, la proposta di legge prevede l’istituzione, presso ogni organo giudiziario ordinario, di «una sezione specializzata per i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate in tempo di pace e per i reati previsti dal codice penale militare di guerra in tempo di guerra», da realizzare ampliando il dettato dell’art. 102, comma 2,
Cost. (art. 1 d.d.l.).
A completamento della riforma, l’art. 3 d.d.l. prevede una delega al Governo utile a disciplinarne i
profili attuativi, tra i quali: le modalità di soppressione dei tribunali militari e del Consiglio della magistratura militare; l’istituzione delle sezioni specializzate militari presso gli organi giudiziari ordinari; i
criteri e le modalità di trasferimento dei magistrati militari presso la magistratura ordinaria; le modalità
di trasferimento dei dirigenti e del personale civile impiegato presso gli uffici giudiziari militari nei
ruoli del Ministero della giustizia e la contestuale riduzione del ruolo del Ministero della difesa; e, infine, la rimessione, all’autorità giudiziaria ordinaria, dei procedimenti penali pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo adottato nell’esercizio della delega (in un termine utile a permettere
la conclusione delle indagini ovvero delle fasi dibattimentali pendenti, specie per i delitti punibili con la
pena dell’ergastolo).
Significativa appare la modifica proposta in termini di riassetto dell’ordinamento giurisdizionale
che, salvo per la particolare complessità del percorso normativo dovuta all’introduzione di una norma
di rango costituzionale, di per sé non comporta un particolare stravolgimento del dettato costituzionale, in quanto elimina un giudice speciale, di cui è vietata l’istituzione ma non la soppressione e, al contempo, istituisce una sezione specializzata presso gli organi giudiziari ordinari in linea con il dettato
dell’art. 102, comma 2, Cost. Appare, invece, più complessa la regolamentazione del profilo attuativo.
I vantaggi – evidenziati anche dalla relazione di accompagnamento al disegno di legge – sembrano
di rilevante entità sul piano dell’ottimizzazione delle risorse umane e delle unità lavorative che attualmente risultano impiegate presso i tribunali militari e che, in fondo, mantengono in vita una giurisdizione autonoma fruibile da un numero di militari oramai piuttosto contenuto (300.000), specie da
quando il servizio di leva non è più obbligatorio. La ridistribuzione dello stesso personale presso gli uffici giudiziari ordinari contribuirebbe a far fronte alle ingenti carenze di forza lavoro favorendo, al tempo stesso, lo smaltimento del carico giudiziario, da tempo considerato concausa dello spaventoso rallentamento del sistema giustizia.
Da non trascurare che anche il contenzioso di competenza dei tribunali militari risulta considere SCENARI | DE JURE CONDENDO
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volmente ridotto, innanzitutto per il venir meno dei tipici illeciti derivanti dal rapporto tra lo Stato e il
cittadino chiamato alle armi, proprio da quando il servizio di leva non è più obbligatorio e, di conseguenza, coloro che scelgono di appartenere alle forze armate sono titolari di una più elevata professionalità. A tale considerazione si aggiunge un altro dato di tutto rilievo che concerne gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale, la quale, in numerose occasioni, ha sostanzialmente sottratto
alla giurisdizione militare una cospicua parte della competenza per materia attribuendola alla magistratura ordinaria.
D’altronde un processo di razionalizzazione dell’ordinamento giudiziario militare, al fine di contenere le spese della pubblica amministrazione, risulta da tempo avviato. La legge 24 dicembre 2007, n.
244, infatti, ha ridefinito la “geografia” dei tribunali militari e a partire dal 1° luglio 2008 sono stati soppressi i tribunali militari e le rispettive procure militari della Repubblica delle sedi di Torino, La Spezia,
Padova, Cagliari, Bari e Palermo, mantenendo in vita le sole sedi di: Verona, che ha assorbito la competenza territoriale per tutta l’area coperta dalle regioni del Nord-Italia; Roma, a cui è stata attribuita la
competenza per territorio delle regioni del centro-Italia e della Sardegna; e, infine, Napoli, competente
per le regioni del sud e della Sicilia (art. 2, comma 603, l. n. 244/2007). Con la stessa legge si è provveduto a: ridimensionare la composizione del Consiglio della magistratura militare (art. 2, comma 604, l.
n. 244/2007); ridistribuire il carico giudiziario pendente tra le sedi rispettivamente competenti per territorio (art. 2, comma 605, l. n. 244/2007); fissare le modalità e i criteri di transito nella magistratura ordinaria dei magistrati militari eccedenti la nuova dotazione organica (art. 2, comma 606, l. n. 244/2007);
rideterminare le nuove piante organiche degli uffici giudiziari militari (art. 2, comma 607, l. n.
244/2007). Tutte queste riforme sono poi transitate integralmente nel recente “Codice dell’ordinamento
militare”, approvato con decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, che ha sostanzialmente abrogato la disciplina preesistente.
Esiste ancora un altro argomento quanto mai significativo che, accanto all’antieconomicità, nonché
al notevole ridimensionamento del carico giudiziario dei tribunali militari, fa propendere per la definitiva soppressione di tale organo giudiziario: la necessità di adeguare l’ordinamento giurisdizionale interno a quello della maggior parte degli Stati dell’Unione europea, che propendono per l’unicità della
giurisdizione.
SQUADRE INVESTIGATIVE COMUNI PER CONTRASTARE LA FENOMENOLOGIA CRIMINALE TRANSNAZIONALE
Uno dei principali elementi di novità che caratterizza la sfera d’azione attuale delle organizzazioni criminali è rappresentato dall’espansione delle loro diramazioni ben oltre i confini del territorio nazionale,
a cui si accompagnano anche il mutamento delle fattispecie criminose tipiche, nonché le modalità di
commissione dei crimini transnazionali, definiti anche “cross-border crime”.
Indubbiamente questa situazione si è determinata anche in seguito all’approvazione dell’Accordo di
Schenghen del 1985 che, se da un lato ha favorito la libera circolazione delle persone e delle merci
all’interno dell’Unione europea eliminando drastici controlli alle frontiere, dall’altro ha facilitato la ramificazione dei mercati criminali gestiti da organizzazioni transnazionali che hanno esteso a dismisura
il loro campo d’azione. Basti pensare a fattispecie che hanno sempre maggiore risonanza su scala internazione in materia di terrorismo, traffico di stupefacenti e di armi, tratta di esseri umani, pedopornografia e reati informatici.
Conseguenza inevitabile degli scenari criminali transnazionali è l’amplificazione delle difficoltà che
incontrano gli organi inquirenti sul terreno dell’accertamento probatorio, causate, tra l’altro, dalle connessioni tra diverse giurisdizioni nazionali in cui sono costretti ad operare. Difficoltà che si potrebbero
superare elaborando uno “spazio giudiziario comune” per consentire una cooperazione più immediata
e diretta tra le autorità dei singoli Stati in sede giudiziaria penale.
In questa prospettiva, e nel preciso intento di contrastare in modo più efficace ed efficiente le nuove
frontiere della criminalità organizzata, come pure per dare attuazione a diversi accordi internazionali,
su iniziativa delll’on. Garavini, in data 6 febbraio 2014, è stata presentata la proposta di legge C. 2055,
dal titolo: «Modifiche al codice di procedura penale e altre disposizioni concernenti l’istituzione di squadre investigative comuni sovranazionali, in attuazione della decisione quadro 2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno
2002»), attualmente assegnata all’esame della Commissione Giustizia in sede referente.
Il disegno di legge non è inedito, e ricalca sostanzialmente il d.d.l. S. 1271, dal titolo: “Istituzione di
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squadre investigative comuni sovranazionali”, risalente alla XV legislatura e già approvato (15 maggio
2007) dal Senato, il cui iter parlamentare si è arrestato nel passaggio alla Camera dei Deputati a causa
della conclusione anticipata della legislatura.
Numerose anche le fonti di diritto internazionale che convergono nella direzione di promuovere
l’istituzione delle “squadre investigative comuni”. L’intervento normativo, pertanto, si rende quanto
mai necessario anche per attuare una serie di accordi internazionali sottoscritti dallo Stato italiano.
Nell’ambito degli accordi assunti dall’Unione Europea, si parla per la prima volta di istituzione di
“squadre investigative comuni” – per far fronte a fattispecie criminose connesse con la criminalità organizzata – nella conclusione n. 45 del Consiglio europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999), dove vengono indicate come una delle priorità da perseguire tra le politiche del terzo pilastro. In attuazione di tale
decisione, l’Unione Europea introduce la disciplina delle “squadre investigative comuni” con l’art. 13
della Convenzione di Bruxelles, siglata il 29 maggio 2000, riguardante l’assistenza giudiziaria in materia penale (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee n. C. 197 del 12 luglio 2000), entrata in vigore sul piano internazionale il 23 agosto 2005. A completamento della disciplina, in data 13
giugno 2002, il Consiglio d’Europa assume la decisione Quadro 2002/465/GAI, il cui termine di attuazione da parte degli Stati membri è scaduto il 31 dicembre 2002. Da ultimo, per integrare la normativa
appena descritta, con la Raccomandazione dell’8 maggio 2003, il Consiglio europeo adotta il modello
formale di accordo per la costituzione della squadra investigativa comune.
Tra le altre fonti di diritto internazionale, l’istituto della squadra investigativa comune è contemplato dall’art. XXI dell’Accordo tra Italia e Svizzera, in tema di assistenza sanitaria, stipulato a Roma il 10
settembre 1998 e ratificato con legge 5 ottobre 2001, n. 367.
Per quanto concerne le fonti multilaterali, le squadre investigative comuni sono previste: dall’art. 19
della “Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transazionale”, adottata dall’Assemblea generale il 15 novembre 2000 e ratificata dall’Italia con legge 16 marzo 2006, n. 146; dall’art. 5
dell’“Accordo sulla mutua assistenza giudiziaria tra Stati Uniti d’America e Unione Europea”, sottoscritto a Washington il 25 giugno 2003 e ratificato con legge 16 marzo 2009, n. 25; nonché dall’art. 49
della “Convenzione delle Nazioni Unite contra la corruzione”, adottata dall’Assemblea generale con la
Risoluzione 58/4 del 31 ottobre 2003.
L’istituzione di squadre investigative comuni è evidentemente strumentale a potenziare la cooperazione internazionale mediante la creazione di un organismo più stabile di intervento, che superi i tradizionali limiti della collaborazione giudiziaria e investigativa interstatuale a carattere occasionale. Si tratta di creare una sorta di task force in grado di monitorare costantemente le linee di collegamento – sempre più sofisticate – tra le organizzazioni criminali che gestiscono i mercati del crimine transnazionale.
L’orbita di intervento delle squadre investigative comuni non è funzionale a introdurre semplici misure
di coordinamento tra organi inquirenti provenienti da diverse nazioni, ma si propone di individuare
uno specifico ambito d’azione comune, in cui, senza ostacolo alcuno e in tempo reale, la polizia giudiziaria può operare oltre le frontiere di ciascuno Stato che sottoscrive l’accordo, per un periodo di tempo
definito nell’atto costitutivo.
Si aggiunga che, limitatamente ai rapporti tra gli Stati membri dell’Unione Europea, la squadra investigativa comune può coinvolgere, accanto alle autorità giudiziarie e di polizia, istituzioni non statali
come il personale appartenente all’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), ovvero all’Ufficio europeo di polizia (Europol) o, ancora, all’Unità europea di cooperazione giudiziaria (Eurojust).
Per dare attuazione nell’ordinamento interno alla Decisione Quadro 2002/465/GAI, come anche agli
obblighi assunti nei citati accordi e convenzioni internazionali in tema di squadre investigative comuni,
il d.d.l. C. 2055 prevede sei articoli che introducono una serie di novità inserite nel V libro del codice di
procedura penale.
Una volta enunciate le finalità (art. 1), la proposta di legge si occupa del meccanismo istitutivo delle
squadre investigative comuni (art. 2), inserito in una dettagliata disciplina contenuta agli artt. 371-ter e
seguenti c.p.p., nell’ambito dell’attività investigativa del pubblico ministero, subito dopo la normativa
riguardante l’“attività di coordinamento del procuratore nazionale antimafia” (art. 371-bis c.p.p.). La
collocazione sistematica della normativa pare quanto mai coerente e in linea con la necessità di far fronte a particolari esigenze investigative, che possono essere soddisfatte solo attraverso specifici strumenti
organizzativi.
Il disegno di legge prevede una doppia procedura istitutiva delle squadre investigative comuni: la
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prima di natura attiva e la seconda passiva, rispettivamente disciplinate dagli artt. 371-ter e 371-quater
c.p.p., a seconda che l’iniziativa venga assunta dall’autorità giudiziaria italiana (procedura attiva), ovvero provenga dall’autorità straniera (procedura passiva). In entrambe le ipotesi, intanto è possibile attivare il meccanismo istitutivo di dette squadre investigative nei soli casi previsti dagli accordi internazionali in vigore per lo Stato italiano, quindi viene sancito un principio di tassatività.
Condizione generale di applicabilità della “procedura attiva di istituzione di squadre investigative
comuni” è che si debba procedere al coordinamento e allo sviluppo di indagini collegate con quelle
condotte in altri Stati nei confronti di organizzazioni criminali operanti contemporaneamente negli
stessi, ovvero quando sussista l’esigenza di eseguire – sempre in Stati stranieri – attività investigative
caratterizzate da particolare complessità. La disciplina prevede anche due limiti oggettivi riconducibili
alla gravità dei reati in ordine ai quali si procede: un limite di natura quantitativa rappresentato dai reati punibili, secondo la legislazione italiana, con una pena massima non inferiore a quattro anni di reclusione; un limite di carattere qualitativo, relativo alla tipologia dei reati, con specifico riferimento a fattispecie criminose in materia di traffico di stupefacenti, tratta di esseri umani, riciclaggio, corruzione e
pirateria informatica.
Titolare dell’iniziativa è il procuratore della Repubblica; tuttavia, qualora vi sia l’avocazione delle
indagini, ai sensi dell’art. 372 c.p.p., la richiesta può essere formulata dal procuratore generale presso la
corte d’appello, ovvero su impulso del procuratore nazionale antimafia nei casi indicati dall’art. 371-bis,
comma 3, lett. h), c.p.p.
La richiesta di istituzione della squadra investigativa comune viene trasmessa alla competente autorità dello Stato estero, informando contestualmente dell’iniziativa il procuratore generale presso la corte d’appello, o il procuratore nazionale antimafia, quando le indagini attengono ai delitti di cui all’art.
51, comma 3-bis, c.p.p., allo scopo di attivare un eventuale coordinamento investigativo.
Dal punto di vista operativo, sul territorio dello Stato la squadra investigativa comune sarà diretta
dal pubblico ministero titolare dell’indagine (art. 371-ter c.p.p.).
Nella “procedura passiva di istituzione di squadre investigative comuni”, la richiesta viene formulata dall’autorità competente per uno Stato estero e il procuratore della Repubblica che la riceve – sempre
per garantire un eventuale coordinamento dell’attività investigativa – è tenuto ad informare il procuratore generale presso la corte d’appello, ovvero il procuratore nazionale antimafia, ove si tratti di indagini aventi ad oggetto i delitti di cui all’art. 51, comma 3-bis, c.p.p.
La disciplina prevede anche un meccanismo diretto a risolvere l’eventuale incompetenza per territorio o di natura funzionale dell’ufficio della procura che riceve la richiesta, mediante la trasmissione
immediata della stessa, da parte del procuratore della Repubblica, all’autorità giudiziaria ritenuta competente, avendo cura di avvisare l’autorità straniera richiedente.
La richiesta di istituzione di squadre investigative comuni promossa dall’autorità di uno Stato estero
può essere rigettata, allorché sia finalizzata al compimento di atti d’indagine vietati espressamente dalla legge o contrari ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico interno. In tal caso, il procuratore della Repubblica, previo parere del procuratore generale presso la corte d’appello, ovvero del procuratore nazionale antimafia (quando le indagini hanno ad oggetto i delitti di cui all’art. 53, comma 3-bis,
c.p.p.), provvede a comunicare il rigetto della richiesta sia all’autorità dello Stato estero richiedente, sia
al Ministro della giustizia (art. 371-quater c.p.p.).
L’atto istitutivo della squadra investigativa comune – in base alla novella che si intende introdurre
con l’art. 371-quinquies c.p.p. – è redatto in forma scritta ed è elaborato congiuntamente dal procuratore
della Repubblica (ovvero per competenza funzionale, a seconda dei casi sopra descritti, dal procuratore
generale presso la corte d’appello o dal procuratore nazionale antimafia) e dalle competenti autorità
straniere. Tale atto deve contenere talune indicazioni essenziali, espressamente richieste, quali: il titolo
di reato, nonché la descrizione sommaria del fatto oggetto d’indagine; i motivi su cui si fonda la necessità di istituire la squadra investigativa comune; il nominativo sia del direttore sia dei componenti nazionali e stranieri della squadra; gli atti d’indagine che si intendono compiere; la presunta durata
dell’indagine; l’indicazione degli Stati, delle organizzazioni internazionali e degli organismi istituiti
all’interno dell’Unione europea (come ad esempio: OLAF, Europol o Eurojust), ai quali è richiesta la designazione di rappresentanti esperti nelle materie attinenti l’indagine comune, precisando le modalità
di partecipazione di quest’ultimi. A tale proposito, il disegno di legge prevede una norma ad hoc (art.
371-septies c.p.p.) per regolamentare in termini puntuali le modalità di partecipazione, i ruoli e le re SCENARI | DE JURE CONDENDO
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sponsabilità dei membri distaccati dell’autorità giudiziaria o investigativa di altro Stato, distinguendoli
dai rappresentati ed esperti designati da altri Stati, da organizzazioni internazionali, ovvero da organismi istituiti all’interno dell’Unione europea. I primi – salvo che l’atto istitutivo della squadra investigativa comune non preveda diversamente – possono partecipare sia al compimento degli atti d’indagine
nel territorio dello Stato, sia all’esecuzione dei provvedimenti disposti dall’autorità giudiziaria, con
l’attribuzione delle funzioni di agenti di polizia giudiziaria. Si aggiunga che, se costoro risultano regolarmente autorizzati al porto d’armi sul territorio dello Stato (art. 9 legge 21 febbraio 1990, n. 21), possono altresì beneficiare dell’esimente di cui all’art. 53 c.p. Per i secondi, la regola appena esposta diventa eccezione, nel senso che per i rappresentanti e gli esperti sopracitati occorre una specifica autorizzazione per partecipare al compimento degli atti d’indagine, espressamente contenuta nell’atto istitutivo
della squadra investigativa comune, con l’attribuzione delle funzioni di agenti di polizia giudiziaria.
Quanto agli adempimenti esecutivi, secondo l’art. 371-sexies c.p.p. che s’intende introdurre, una volta redatto l’atto istitutivo della squadra investigativa comune, sia per la procedura attiva sia per quella
passiva, lo stesso deve essere trasmesso senza ritardo al Ministro della giustizia e al Ministro dell’interno. Tale obbligo di informazione, come spiega la relazione di accompagnamento al disegno di
legge, promana dalla «funzione di rappresentanza dello Stato che il Ministro (della giustizia) riveste nei
rapporti internazionali e dalla correlata responsabilità politico-istituzionale che su di lui incombe. La
comunicazione al Ministro dell’interno è invece prevista per consentire all’organo titolare della funzione di coordinamento e di indirizzo in materia di pubblica sicurezza di esercitare i poteri previsti
dall’art. 6 della legge 1° aprile 1981, n. 121».
È fissato anche un tetto massimo di durata delle indagini che non può essere superiore a sei mesi,
prorogabile in caso di oggettiva impossibilità di conclusione entro il termine prefissato, che comunque
non può superare un anno. Anche l’eventuale prolungamento delle indagini svolte dalla squadra investigativa comune sovranazionale deve essere comunicato al Ministro della giustizia e al Ministero
dell’interno.
A completamento della disciplina, il disegno di legge si occupa dell’“utilizzazione delle informazioni investigative” ottenute grazie all’operato della squadra investigativa comune (art. 371-octies c.p.p.).
In tema, assume particolare rilevanza, ai fini dello sviluppo successivo delle indagini, la facoltà attribuita al procuratore della Repubblica di richiedere all’autorità dell’altro Stato con cui ha istituito detta
squadra, di poter temporaneamente congelare, nel senso di ritardare – per un periodo non superiore a
sei mesi – l’utilizzo delle informazioni acquisite, per finalità investigative e processuali diverse rispetto
a quelle indicate nell’atto istitutivo della squadra comune. La richiesta è comunicata anche al Ministro
della giustizia per le stesse ragioni sopra esposte.
Necessaria è la modifica che s’intende introdurre all’art. 431, comma 1, lett. d), c.p.p., in base all’art. 3
del d.d.l. in esame, per adeguare il contenuto del fascicolo per il dibattimento ai risultati dell’attività investigativa posta in essere dalla squadra investigativa comune. Si prevede che, oltre ai documenti acquisiti all’estero tramite rogatoria internazionale, nonché ai verbali degli atti irripetibili assunti con le
stesse modalità, siano inclusi nel fascicolo per il dibattimento anche i verbali degli atti non ripetibili
compiuti dalla squadra investigativa comune all’interno del territorio dello Stato italiano.
Al di fuori delle modifiche finora descritte, che incidono sul codice di procedura penale, la proposta
di legge ribadisce la normativa in materia di “disciplina e direzione dell’attività investigativa” (art. 4
d.d.l.), obbligando la squadra investigativa comune ad operare sul territorio dello Stato secondo le regole dettate dal codice di procedura penale e dalle leggi complementari, sotto la direzione del pubblico
ministero titolare delle indagini, in omaggio al principio della lex loci, comunemente accolto dai trattati
internazionali, che lo stesso disegno di legge richiama.
Per concludere, oltre alla copertura finanziaria (art. 6 d.d.l.), la proposta di legge attribuisce alla Stato italiano la “responsabilità civile per danni” causati da eventuali atti illeciti commessi sul territorio
italiano dai funzionari stranieri e dai membri distaccati della squadra investigativa comune, in ossequio
a quanto previsto dall’art. 13 Convenzione europea e dall’art. 3 decisione quadro 2002/465/GAI. Lo
Stato italiano rinuncia pertanto a chiedere ad altro Stato membro dell’Unione europea il risarcimento
dei danni causati, nello svolgimento dell’attività della squadra investigativa comune, dal funzionario
straniero o dal membro distaccato (art. 5 d.d.l.).
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CORTI EUROPEE
EUROPEAN COURTS
di Francesco Trapella
CARCERI ITALIANE
(Corte e.d.u., 16 settembre 2014, Stella e altri c. Italia; Corte e.d.u., 16 settembre 2014, Rexhepi e altri c. Italia)
È positivo il bilancio dei giudici europei circa lo stato delle nostre prigioni dopo la sentenza Torreggiani: con l. 21 febbraio 2014, n. 10 e d.l. 26 giugno 2014, n. 92, convertito in l. 11 agosto 2014, n. 117, l’Italia
ha predisposto strumenti idonei a risolvere, o almeno ad attenuare, il problema del sovraffollamento
carcerario, sia potenziando l’accesso alle misure alternative alla detenzione, sia offrendo ai detenuti il
risarcimento del danno derivato loro da una degradante prigionia.
In via incidentale, poi, le sentenze in parola sono interessanti per la peculiare applicazione del principio del previo esaurimento dei ricorsi interni (art. 13 Cedu): «la Corte osserva che i ricorrenti, se ritengono
di avere subìto un trattamento detentivo contrario all’art. 3 Cedu, possono accedere alle misure introdotte con d.l.
n. 92 del 2014, onde ottenere, a livello nazionale, un riconoscimento dell’infrazione e, semmai, un risarcimento
adeguato» (così, Corte e.d.u., 16 settembre 2014, Stella e altri c. Italia, § 67).
Nei casi de quibus, i ricorsi a Strasburgo, formulati tutti da detenuti in Italia, risalivano al 2009-2010 e
lamentavano l’asserita violazione dell’art. 3 Cedu per il sovraffollamento carcerario. La Corte dichiara
che i rimedi interni sulla scorta dei quali valutare il rispetto dell’art. 13 Cedu comprendono anche quelli
predisposti, pur dopo il 2009, ad esito dell’adeguamento del sistema normativo interno ad una sentenza
pilota come la Torreggiani. Altrimenti detto, non importa che all’epoca del ricorso, gli odierni istanti
non avessero rimedi di diritto nazionale contro il sovraffollamento: ciò che rileva è che al momento della decisione, il giudice europeo possa individuare nell’ordinamento italiano uno strumento utile ai ricorrenti, evidentemente preferibile – in ossequio al principio di sussidiarietà – alla condanna strasburghese (il modus decidendi non è estraneo alla Corte: in tema di ragionevole durata del processo, ad esito
di una sentenza pilota, già si era fatto riferimento allo stato attuale dell’ordinamento interno in Corte
e.d.u., 6 settembre 2001, Brusco c. Italia).
Pare opportuno indulgere ancora un momento sull’effettività del rimedio: guardando bene al contenuto della sentenza, il risarcimento ex d.l. n. 92 del 2014 è assolutamente idoneo a ristorare il detenuto
che abbia subito un trattamento carcerario inumano; in tal senso, la possibilità di domandarlo al giudice
interno rende inutile l’istanza a Strasburgo, essendo – come si diceva – rimediato il vulnus ai diritti tutelati dalla Cedu. Sul piano processuale, pertanto, consegue la declaratoria di irricevibilità dei ricorsi presentati ex art. 3 Cedu per sovraffollamento carcerario senza previo esperimento dei rimedi individuati
nel 2014 dal legislatore nostrano.
ACQUISIZIONE DELLA PROVA TESTIMONIALE ED EQUITÀ DEL PROCESSO
(Corte e.d.u., 23 settembre 2014, Cevat Soysal c. Turchia)
La Corte di Strasburgo affronta nuovamente il tema dell’equità processuale: pur non competente a pronunciarsi sul giudizio di ammissibilità delle prove compiuto dai tribunali interni, i giudici europei possono esprimersi sul rispetto dell’art. 6 Cedu in base ad un esame complessivo del giudizio che contempli, tra le altre cose, la valutazione delle garanzie offerte all’accusato secondo i canoni del processo adversary.
La vicenda riguarda un cittadino tedesco, C.S., accusato in Turchia di appartenenza ai vertici
dell’organizzazione illegale denominata PKK: l’addebito si fondava su dichiarazioni rese da membri
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dell’ente nei processi a loro carico, separati da quello che coinvolgeva l’attuale ricorrente, e da intercettazioni che avrebbero compromesso C.S.
Senza successo l’odierno istante domandava che fossero escussi i propri accusatori ed esaminate le
tracce dei colloqui intercettati; peraltro, negando l’intervento di C.S. alle conversazioni captate, la difesa
chiedeva un’analisi vocale dei dialoganti: attività che veniva, sì, compiuta, ma che risultava affidata a
personale di polizia di cui era contestata l’imparzialità; il ricorrente rifiutava, poi, di offrire un campione vocale, considerata la reiezione di tutte le proprie istanze istruttorie.
Seguiva la condanna di C.S., censurata, a seguito del rigetto delle impugnazioni proposte, davanti
alla Corte di Strasburgo per violazione dell’art. 6, §§ 1 e 3, lett. d), Cedu.
Sotto il primo profilo, il ricorrente lamentava di avere tentato, senza buon esito, di confutare il contenuto delle intercettazioni, peraltro ottenute senza che alcun giudice le avesse ordinate; la Corte ricorda come la discovery degli elementi d’accusa sia uno dei tratti distintivi del processo equo (Corte e.d.u.,
31 marzo 2009, Rowe and Davis c. Regno Unito) e come esso possa venire meno solo in caso di prevalenza
di interessi superiori, quali la tutela dei testi o esigenze di rango pubblicistico, che nel caso de quo non
occorrevano (Corte e.d.u., 6 marzo 2012, Leas c. Estonia); a ciò si aggiungeva che in corso di processo le
dichiarazioni non erano state ascoltate alla presenza di C.S. o dei suoi difensori.
Quanto al secondo aspetto, duplice era la tipologia di prove contro l’accusato: a) la traccia di conversazioni tra il ricorrente e soggetti rimasti comunque anonimi; b) quanto dichiarato da alcuni membri del
PKK alla polizia o dai vertici del partito nei loro processi, senza che ciò venisse poi ripetuto nel giudizio
a carico di C.S. (sull’acquisizione dei dicta di un teste assente, Corte e.d.u., 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia
oppure, più recentemente, Corte e.d.u., 15 dicembre 2011, Al-Khawaja and Tahery c. Regno Unito).
Palese appariva la violazione dell’art. 6, § 3, lett. d), Cedu: «se l’accusa ritiene che una certa persona sia
una rilevante fonte di informazioni, tanto da fondare la propria tesi di colpevolezza sui suoi asserti, e se le dichiarazioni di quel soggetto sono utilizzate dal giudice a sostegno della condanna, deve presumersi che la comparizione del teste in udienza e il suo esame» – e con esso il confronto con la difesa – «siano necessari, a meno di non
poterli ritenere manifestamente irrilevanti o superflui» (così, la sentenza in commento, § 77; vedasi pure
Corte e.d.u., 25 luglio 2013, Khodorkovskiy and Lebedev c. Russia). Nel caso di specie ciò non avveniva, così determinandosi la censura dei giudici europei: l’immotivato rifiuto delle richieste probatorie di C.S.
comportava, infatti, l’infrazione dei canoni del processo equo.
RESPINGIMENTI COLLETTIVI
(Corte e.d.u., 21 ottobre 2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia)
Il tema è quanto mai attuale: i giudici europei ribadiscono l’illegittimità dei cd. “respingimenti collettivi”, occorrendo, invece, che il Paese di approdo offra ai clandestini ogni informazione utile ad accedere
alle procedure d’asilo e ne eviti il ritorno negli Stati d’origine se v’è rischio di infrazione dei loro diritti
fondamentali (sotto certi profili la vicenda ricorda quella su cui si pronunciò Corte e.d.u., 23 febbraio
2012, Hirsi Jamaa e altri c. Italia su ricorso di ventiquattro profughi eritrei e somali che, giunti nei pressi
di Lampedusa, furono prelevati dalla Guardia costiera italiana e condotti a Tripoli).
Alcuni profughi – per la maggioranza afghani, altri somali ed eritrei – giungevano tra il 2008 e il
2009 in Italia, nei porti di Venezia, Ancona e Bari, imbarcatisi clandestinamente da Patrasso (Grecia). La
polizia nostrana li aveva intercettati e respinti verso la nazione ellenica, incurante che da lì avrebbero
potuto essere indirizzati ai Paesi d’origine, funestati da pesanti conflitti, con ovvio pericolo per la loro
incolumità.
Merita attenzione il dato che l’Italia ha respinto i profughi in modo indiscriminato, senza analizzarne le rispettive posizioni, sull’assunto che la Grecia sarebbe stato il Paese competente a decidere in materia di asilo secondo il Regolamento Dublino II (Regolamento del Consiglio n. 2003/343 del 18 febbraio
2003, oggi sorpassato dal Regolamento n. 2013/604, 26 giugno 2013, in vigore dal 1° gennaio 2014, detto
Dublino III): sottolinea la Corte che, anche nel sistema eurounitario, indipendentemente dalle fonti che
regolano l’ospitalità verso i migranti, lo Stato che organizza il respingimento deve operare in ossequio
dei diritti fondamentali consacrati dalla Convenzione e.d.u.
D’altro canto la Grecia ha omesso di fornire ai profughi le necessarie informazioni per richiedere asilo: ai ricorrenti era stata offerta solo una brochure sulla procedura per contestare l’espulsione, redatta
peraltro in arabo, lingua non intellegibile da individui di nazionalità afghana (si ricorda Corte e.d.u., 2
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febbraio 2012, I.M. c. Francia, § 130: «per essere effettivo, il ricorso previsto ex art. 13 Cedu dev’essere disponibile in diritto così come nella prassi, e in tal senso il suo esercizio non deve essere ostacolato in modo ingiustificato
da azioni od omissioni dell’autorità nazionale». Sempre contro la Grecia, v. Corte e.d.u., 5 aprile 2011, Rahimi c. Grecia). Il campo di Patrasso – in cui gli istanti erano stati raccolti – era, poi, sprovvisto dei servizi
essenziali, traducendosi, così, la loro permanenza in una detenzione irrispettosa dell’art. 3 Cedu.
I giudici strasburghesi riconoscono violazioni diverse da parte dei due Paesi.
L’Italia ha infranto anzitutto l’art. 4 del quarto protocollo addizionale: già nel 2012, in Hirsi Jamaa c.
Italia, la Corte ricordava che non v’è fonte che escluda un’applicazione extraterritoriale del divieto di
rimpatri massivi; nonostante il concetto di “espulsione” sia intimamente legato a quello di “territorio”,
la sottrazione dell’ambito marino alla disciplina Cedu determinerebbe un’indebita disparità di trattamento rispetto ai migranti via terra, così escludendo la maggioranza degli attuali movimenti migratori,
con successiva erosione dei diritti dei profughi. Nella decisione de qua, poi, si sottolinea che spesso è solo grazie allo scrupolo di agenti o ufficiali della polizia di frontiera che i clandestini sono messi in contatto con mediatori culturali e operatori giuridici che indichino la procedura per ottenere ospitalità;
quando ciò non accade, il respingimento avviene senza spiegazioni di sorta, sostanziandosi, così, violazioni degli artt. 3 e 13, quest’ultimo in combinato disposto con l’art. 2 Cedu.
Passando alla Grecia, la Corte rileva che era stato reso impossibile ai clandestini il ricorso al giudice
ellenico per ottenere il diritto d’asilo (in tema, cfr. Corte e.d.u., 2 ottobre 2012, Singh e altri c. Belgio): da
qui, il pericolo del successivo rimpatrio verso un Paese in guerra come l’Afghanistan, e la violazione
dell’art. 13 in combinato disposto con l’art. 3 Cedu. A ciò s’aggiungeva, infine, la già menzionata censura – sempre ex art. 3 Cedu – per le precarie condizioni dei campi di raccolta a Patrasso.
GIUDICATO
(Corte e.d.u., 21 ottobre 2014, Lungu e altri c. Romania)
Se è vero che ogni sentenza definitiva ha dei limiti ad rem e ad personam, quando due procedimenti – ancorché relativi a materie diverse e resi nei riguardi di soggetti in parte differenti – poggiano su una stessa questione, il giudice del secondo caso, in assenza di giusta causa, non può condurre un nuovo apprezzamento dei fatti, giungendo ad esiti opposti a quelli della prima decisione, ormai irrevocabile (in
tema, Corte e.d.u., 23 gennaio 2001, Brumărescu c. Romania o Corte e.d.u., 24 luglio 2003, Riabykh c. Russia): così facendo, infatti, infrangerebbe il principio di certezza del diritto attorno al quale ruotano le
norme in tema di giudicato (così pure, Corte e.d.u., 27 luglio 2006, Gök e altri c. Turchia o, più recentemente, Corte e.d.u., 31 maggio 2012, Esertas c. Lituania).
Il caso riguarda la vicenda di L., titolare di due società con sede legale in Romania; tra il 2000 e il
2001, una di esse aveva importato un’elevata quantità di pneumatici, ottenendo peraltro benefici fiscali
per avere deciso di investire su una zona particolarmente svantaggiata. Nel 2001, ad esito di un controllo fiscale, la società era stata accusata di non avere pagato le tasse in seguito ad illegale vendita degli
pneumatici. Contestata la verifica, un nuovo accertamento nel 2002 stabiliva che la società non aveva
diritto agli sgravi tributari, avendo trasformato gli pneumatici in modo difforme da quanto previsto ex
lege, dovendo, così, versare un’ingente somma a titolo di penale e di imposte non pagate. Il provvedimento di condanna veniva impugnato da L. avanti alla corte distrettuale, che stabiliva la legittimità della condotta societaria, esonerando l’ente dal corrispondere le somme imposte con l’accertamento del
2002. La Corte d’appello confermava la sentenza, riammettendo la società ai benefici fiscali.
Nelle more del procedimento tributario, si apriva a carico di L. un giudizio penale per frode fiscale:
il pubblico ministero riteneva, infatti, che la società avesse ottenuto i benefici in modo fraudolento. Dopo un articolato excursus processuale, nel 2005 L. veniva condannato ad una pena detentiva, sospesa, di
due anni: per la corte d’appello gli pneumatici sarebbero stati trasformati in modo illegale e, quindi, gli
sgravi, ottenuti con frode. Secondo il giudice penale, poi, alcuni pneumatici sarebbero stati venduti
fraudolentemente, poiché gli ammanchi nell’inventario di una società mai avrebbero potuto compensarsi con le attività della seconda, benché entrambe di titolarità di L.
Adita la Corte di Strasburgo, i giudici europei censurano i dicta delle corti penali rumene, non avendo esse tenuto conto della decisione definitiva resa dalla sezione commerciale della corte d’appello, che
analizzava un fatto (la legalità della trasformazione degli pneumatici) che si poneva, altresì, a presupposto del reato addebitato ad L. (vedasi, mutatis mutandis, Corte e.d.u., 16 aprile 2013, Siegle c. Romania),
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impedendo, così, al giudice penale di ribaltare, attraverso un nuovo esame dei fatti, il giudizio espresso
nella sentenza tributaria, ormai irrevocabile.
CENTRI DI ACCOGLIENZA PER RIFUGIATI
(Corte e.d.u., 4 novembre 2014, Tarakhel c. Svizzera)
Segue alla sentenza Sharifi di circa quindici giorni: in Tarakhel c. Svizzera, la Corte di Strasburgo afferma
l’inadeguatezza dei centri italiani di accoglienza per rifugiati.
La questione è semplice: i ricorrenti erano otto profughi afghani, ricoverati presso un centro di raccolta a Bari; fuggiti senza permesso a Losanna, la Svizzera pronunciava decisione di rimpatrio in Italia.
In base al Regolamento Dublino II, in quanto Paese di prima accoglienza, il nostro era quello competente a concedere o meno il diritto di asilo agli attuali istanti.
Pur avendo correttamente applicato la disciplina eurounitaria, cui è comunque vincolata da precisi
accordi, alla Svizzera è impedito il respingimento verso l’Italia: i dati – afferma la Corte – sono allarmanti, e il nostro Paese, dinnanzi alle circa 14.000 domande di asilo presentate nel 2013, ha a disposizione poco più di 9.600 posti. Insomma, è ancora un problema di sovraffollamento, oltre che di condizioni igieniche e sanitarie dei centri. La situazione, pur non grave come quella greca, è idonea a costituire un trattamento inumano e degradante per i rifugiati – peraltro bisognosi di una speciale protezione (contando anche, nel caso de quo, come pure spesso accade, la presenza di minori: v. anche Corte
e.d.u., 19 gennaio 2012, Mubilanzila Mayeka e Kaniki Mitunga c. Belgio) – e perciò a violare l’art. 3 Cedu.
INDAGINI EFFETTIVE
(Corte e.d.u., 20 novembre 2014, Jaloud c. Olanda)
Gli atti compiuti al di fuori del territorio nazionale, ma in zone ove gli Stati hanno un controllo effettivo
(sul concetto di effective control la giustizia internazionale si interroga già da C. int. giust., 27 giugno
1986, Nicaragua c. Stati Uniti; v. anche, in Europa, ICTY, 15 luglio 1999, Procurator c. Dusko Tadic), se posti in violazione dei diritti protetti dalla Convenzione, sono censurabili dalla Corte strasburghese.
Così, il ricorrente, padre di un cittadino iracheno ucciso nel 2004 da un militare olandese di stanza in
Iraq, ha chiesto e ottenuto giustizia dalla Corte e.d.u. per la lacunosità dell’indagine compiuta sulla morte
del figlio. Più precisamente, i giudici strasburghesi censurano il modus operandi dei colleghi dei Paesi Bassi
(e sul punto interessante è la definizione di “indagini effettive”: «capaci di addivenire all’identificazione e,
laddove necessario, alla punizione del responsabile», così la sentenza de qua, § 200, ma pure Corte e.d.u., 4 maggio 2001, Hugh Jordan c. Regno Unito; Corte e.d.u., 1° luglio 2003, Finucane c. Regno Unito; Corte e.d.u., 20
dicembre 2004, Makaratzis c. Grecia; Corte e.d.u., 8 aprile 2004, Tahsin Acar c. Turchia): essi si sarebbero limitati a valutare se il militare avesse agito o meno per legittima difesa, senza concentrarsi sulla proporzionalità della reazione dell’esercito olandese rispetto all’offesa del gruppo cui apparteneva il ragazzo ucciso (sul tema, Corte e.d.u., 27 settembre 1995, McCann e altri c. Regno Unito; Corte e.d.u., 4 maggio 2001,
Kelly e altri c. Regno Unito; Corte e.d.u., 24 febbraio 2005, Isayeva c. Russia); peraltro l’autopsia sul corpo del
defunto sarebbe stata compiuta in modo superficiale, in assenza di personale qualificato.
La pronuncia ricorda per certi versi altre, in cui il nostro Paese è stato coinvolto: Corte e.d.u., 24
maggio 2011, Giuliani e Gaggio c. Italia, sempre in tema di indagini effettive, o Corte e.d.u., 29 marzo
2011, Alikaj e altri c. Italia, pure sull’uso sproporzionato della forza per mano del personale di polizia: si
tratta di circostanze idonee a sostanziare l’infrazione dell’art. 2 Cedu e che pongono più di un interrogativo in ordine alla completezza dell’investigazione a fronte di prassi devianti, quali quelle che consegnano l’inchiesta allo stesso corpo di appartenenza dell’inquisito.
NE BIS IN IDEM
(Corte e.d.u., 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia)
La vicenda riguarda un caso di duplice procedimento, amministrativo e penale, ad esito di un medesimo illecito tributario (sugli stessi temi, Corte e.d.u., 20 maggio 2014, Nykänen c. Finlandia, ma sempre
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per il “doppio binario” penale e fiscale, Corte e.d.u., 3 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia).
Il 1° giugno 2004 l’organismo svedese corrispondente alla nostrana Agenzia delle entrate constatava
l’irregolarità della dichiarazione dei redditi compilata da L.D., odierna ricorrente, le imponeva una tassazione sulle entrate non dichiarate pari a circa € 83.000 e aumentava l’importo da pagare ai fini IVA di
circa € 41.000. L’Agenzia, inoltre, intimava alla contribuente una considerevole sovrattassa da calcolarsi
sugli importi così come sopra maggiorati. Ogni impugnazione del provvedimento ingiuntivo era rigettata dai giudici tributari svedesi.
Nel mentre, s’apriva a carico dell’attuale istante un procedimento penale che si concludeva, nel 2008,
con la condanna per il reato di aggravated bookkeping offence (violazione, dolosa o colposa, di obblighi
contabili): compilando una dichiarazione omissiva, L.D. avrebbe incamerato considerevoli proventi ai
danni dell’erario statale. Essendosi, però, fidata del marito e del commercialista, l’odierna ricorrente
veniva prosciolta dall’accusa di aggravated tax offence: non risultava, infatti, provata la sua consapevolezza nel comunicare dati falsi e/o incompleti al fisco.
La condanna penale, non impugnata, diveniva definitiva l’8 gennaio 2009.
Il tema offerto allo studio dei giudici strasburghesi è quello del ne bis in idem: L.D. ricorre lamentando di essere stata oggetto di una duplice sanzione, quella amministrativa e quella penale, per gli stessi
fatti (tema già affrontato altrove dalla Corte: v. Corte e.d.u., 30 maggio 2000, R.T. c. Svizzera o Corte
e.d.u., 13 dicembre 2005, Nilsson c. Svezia).
Il principale argomento del governo svedese dinnanzi al ricorso di L.D. richiamava la decisione Corte e.d.u., 10 febbraio 2009, Zolotukhin c. Russia, un mese prima della quale si era concluso il processo penale a carico dell’attuale istante. La pronuncia ora citata ha segnato una svolta nell’orientamento europeo riferibile al caso de quo: secondo l’esecutivo scandinavo, la condanna di L.D. sarebbe stata conforme
all’allora maggioritario orientamento europeo. Per la Corte, però, il caso deve risolversi sulla scorta della giurisprudenza dominante al momento dell’esame; peraltro, il giudizio amministrativo sul caso in
argomento era ancora aperto all’epoca di Zolotukhin c. Russia.
I giudici strasburghesi non dubitano che l’imposizione di sovrattasse abbia natura penale; quel che
forma oggetto di analisi è se i due procedimenti si siano incentrati sui medesimi fatti. Il requisito
dell’identità sussiste sicuramente per l’accusa di aggravated tax offence, mentre diverse sono le conclusioni per l’addebito di bookkeping offence: il rispetto degli obblighi contabili occorre indipendentemente
dall’uso che si intende fare delle scritture; peraltro, pur invitata a farlo, L.D. non ha mai presentato documentazione affidabile a sostegno della propria dichiarazione, con ciò aggravandosi l’infrazione attribuitale. Ciò invero sostanzia un illecito sufficientemente distinto dal mancato versamento di somme
all’erario, poiché, appunto, consumabile indipendentemente – e in un momento eventualmente diverso
– dall’omesso pagamento delle imposte.
Sotto altro profilo, la Corte richiama l’art. 4 del settimo protocollo addizionale, rammentando che la
norma opera non solo in presenza di una duplice condanna, ma anche per duplicazione dei procedimenti sanzionatori e pure allorquando il giudizio non abbia avuto come esito una condanna (v. Corte
e.d.u., 29 maggio 2001, Fischer c. Austria). Presupposto della norma è, poi, la pendenza di uno dei due
accertamenti se l’altro si è concluso con decisione definitiva (mutatis mutandis si vedano Corte e.d.u., 18
ottobre 2011, Tomasovic c. Croazia o, più recentemente, Corte e.d.u., 14 gennaio 2014, Muslija c. Bosnia Erzegovina): nel caso de quo, attestata l’identità dei fatti tra uno dei reati addebitati a L.D. e il giudizio amministrativo, la Corte constatava che il giudizio penale si concludeva con sentenza definitiva l’8 gennaio 2009, mentre l’altro proseguiva fino all’ottobre dello stesso anno: per nove mesi circa, quindi, aveva luogo la violazione dell’art. 4 del settimo protocollo e, quindi, del principio di ne bis in idem invocato
dalla ricorrente.
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CORTE COSTITUZIONALE
di Donatella Curtotti
PLURALISMO PROCEDURALE E DIRITTO DI DIFESA.
NEL PROCEDIMENTO INNANZI AL GIUDICE DI PACE
OMESSO AVVISO DI CONCLUSIONE DELLE INDAGINI
(C. cost., ord. 22 ottobre 2014, n. 245)
Approda ad una prevedibile declaratoria di manifesta infondatezza (dichiarata con ordinanza del 22
ottobre 2014, n. 245) la questione di legittimità dell’art. 20, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 («Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»), come
modificato dall’art. 17, d.l. 27 luglio 2005, n. 144 («Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale»), convertito, con modificazioni, dalla l. 31 luglio 2005, n. 155, sollevata dal Giudice di pace di Viterbo in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., «nella parte in cui prevede che il decreto di citazione possa
essere emesso in difetto di istruttoria e comunque di avviso della conclusione delle indagini preliminari» ai sensi dell’art. 415-bis del codice di procedura penale».
A parere del giudice rimettente, è illegittimo l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero che emetta decreto di citazione a giudizio innanzi al Giudice di pace senza notificare preventivamente all’indagato e al suo difensore l’avviso di conclusione delle indagini.
Un simile modus operandi violerebbe innanzitutto l’art. 3 Cost., stante l’evidente disparità di trattamento che viene riservata al cittadino imputato in un giudizio dinanzi al Giudice di pace, rispetto a
quello imputato dinanzi al giudice ordinario; nondimeno contrasterebbe con l’art. 24 Cost., negando
all’imputato la possibilità di difendersi realmente perché venuto a conoscenza della pendenza a suo carico di un processo penale solamente con la notifica del decreto di citazione.
Il Giudice delle leggi torna, dunque, a pronunciarsi in materia di polimorfismo procedurale, uguaglianza in ambito giudiziario e ragionevolezza nella disciplina dei riti differenziati.
Che un modello monolitico di processo non possa rispondere alle doverose esigenze di efficienza del
sistema è considerazione preliminare tacitamente posta dai giudici nella sentenza in commento, oltre
che espressamente riconosciuta dal legislatore del codice Vassalli. È ragionevole, anzi, doveroso, predisporre procedimenti semplificati alternativi, che, pur sacrificando il diritti di difesa sull’altare dell’efficientismo, assicurino comunque l’osservanza di un livello minimo di garanzie, tali da attuare il gusto
processo.
Sviluppando queste premesse, e ribadendo a chiare lettere un indirizzo ormai consolidato su questioni sostanzialmente analoghe, ancorché riferite a norme diverse (ordd. 3 novembre 2005, n. 415 e 2
marzo 2005, n. 85, nonché ordd. 19 novembre 2004, n. 349 e 28 giugno 2004, n. 201), la Corte ritiene che
le forme di esercizio del diritto di difesa possano (rectius debbano) essere variamente modulate dal legislatore in relazione alle caratteristiche dei singoli riti e ai criteri che li ispirano.
Queste considerazioni generali sono sicuramente valide nel procedimento penale davanti al Giudice
di pace, che si configura come un modello di giustizia autonomo, non comparabile con il procedimento
ordinario, in quanto ispirato ad esigenze di semplificazione processuale. Prevedere la notifica dell’avviso de quo rischierebbe di snaturare la struttura di questa particolare forma di giurisdizione penale, introducendo una procedura incidentale incompatibile con i caratteri di particolare snellezza e rapidità
del rito, nonché una garanzia incongrua con le sue finalità.
Peraltro, aggiunge la Corte, l’omissione dell’avviso di conclusione delle indagini «si rivela coerente
con il ruolo marginale che, nel procedimento in questione, è assegnato alla fase delle indagini le quali si
sostanziano in una fase investigativa affidata in via principale alla polizia giudiziaria». La competenza
devoluta al Giudice di pace circoscritta a reati bagatellari, nonché la funzione conciliativa che caratterizza il rito, comportano l’inevitabile “svalutazione” dell’attività investigativa. Di qui, la superfluità di
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rendere edotto preventivamente l’indagato in ordine ai risultati delle indagini: il suo diritto di difesa
godrà “comunque” di massima espansione nel corso della successiva udienza di comparizione, sede
del primo contatto tra le parti e il giudice.
E proprio con riferimento alla fase che precede questa udienza, il Giudice delle leggi precisa che le
esigenze di informazione dell’imputato sono in ogni caso assicurate dall’avviso, contenuto nella citazione a giudizio, della facoltà di prendere visione e di estrarre copia del fascicolo relativo alle indagini
preliminari, depositato presso la segreteria del pubblico ministero, nonché dall’indicazione, contenuta
nel medesimo atto, delle fonti di prova di cui il pubblico ministero chiede l’ammissione (art. 20, comma
1, lettere e) e f), d.lgs. n. 274 del 2000).
Così argomentando, la Corte giunge a ritenere la questione di legittimità costituzionale manifestamente infondata, non potendo l’omessa notifica dell’avviso di conclusione delle indagini arrecare alcun
vulnus al diritto di difesa dell’indagato e al principio di uguaglianza in ambito giudiziario, stante la peculiarità della giurisdizione penale innanzi al Giudice di pace.
LA DETENZIONE DOMICILIARE SPECIALE:
TERESSE “PRIORITARIO” DELLA PROLE
LE ISTANZE DI DIFESA SOCIALE “RECESSIVE” RISPETTO ALL’IN-
(C. cost., sent. 22 ottobre 2014, n. 239)
All’attenzione della Corte costituzionale (sentenza 22 ottobre 2014, n. 239) l’ordinanza del Tribunale di
sorveglianza di Firenze, che dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, l. 26 luglio
1975, n. 354 («Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà»), nella parte in cui «estende il divieto di concessione dei benefici penitenziari, stabilito nei confronti dei detenuti e degli internati per taluni gravi delitti che non collaborino con la giustizia, anche alla misura della detenzione domiciliare speciale, prevista dall’art. 47-quinquies della medesima legge a
favore delle condannate madri di prole di età non superiore a dieci anni».
La disposizione, come evidenziato dal rimettente, sembrerebbe contrastare con l’art. 3 Cost., in
quanto la detenzione domiciliare speciale, diversamente dagli altri benefici penitenziari il cui minimo
comune denominatore è il reinserimento del condannato nel tessuto sociale, tutelerebbe il differente –
oltre che preminente – interesse del figlio minore a recuperare al più presto un normale rapporto di
convivenza con la madre al di fuori dell’ambiente carcerario.
La norma denunciata, invece, facendo prevalere su tale garanzia la pretesa punitiva dello Stato, impone un sacrificio oltremodo gravoso che si riversa «sulle fragili spalle del minore», che subisce in prima persona le conseguenze della responsabilità penale della madre e della sua scelta di non collaborare
con la giustizia, ovvero del fatto che ella non riesca a veder riconosciuta l’inesigibilità, l’impossibilità o
l’irrilevanza di detta collaborazione.
A parere dei giudici fiorentini, inoltre, la disposizione de qua violerebbe gli artt. 29, 30 e 31 Cost., ponendosi in contrasto con «l’imperativo costituzionale di tutela della famiglia come società naturale, con
il diritto-dovere dei genitori di educare i figli e con il corrispondente diritto di questi di essere educati
dai primi, nonché con l’obbligo di protezione dell’infanzia».
La Corte, nell’affrontare la quaestio sottoposta, innanzitutto indaga la ratio storica della norma costituzionalmente sospetta: frutto del fenomeno emergenziale del terrorismo dei primi anni ’90 (come è noto, introdotta dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306 recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e
provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1992, n.
356) la disciplina restrittiva speciale predisposta dall’art. 4-bis per la concessione dei benefici penitenziari a determinate categorie di detenuti o di internati, che si presumono socialmente pericolosi in ragione del tipo di reato per il quale la detenzione o l’internamento sono stati disposti, è improntata ad
un regime di particolare «rigore», che mira ad incentivare la collaborazione, quale strategia di contrasto
alla criminalità organizzata.
Il Giudice delle leggi non condivide la ricostruzione del Tribunale di sorveglianza secondo la quale
la detenzione domiciliare speciale prescinderebbe «da qualsiasi contenuto rieducativo o trattamentale»,
differenziandosi ontologicamente dagli altri benefici penitenziari.
Invero, richiamando a sostegno delle proprie argomentazioni autorevoli precedenti (sent. 10 giugno
2009, n. 177; Cass., sez. I, 19 settembre 2013, n. 38731, CED Cass., 257111; sez. I, 14 dicembre 2006, n.
40736, inedita), la Corte costituzionale precisa come la misura in questione partecipi anch’essa alla finali SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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tà di reinserimento sociale del condannato: ciò è comprovato innanzitutto dall’inclusione, ratione materiae, nel Capo VI del Titolo I della l. n. 354 del 1975, ma altresì dalla sussistenza del requisito negativo di
fruibilità, rappresentato dalla insussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti, nonché dalla
disciplina delle modalità di svolgimento della misura e delle ipotesi di revoca (artt. 47-quinquies, commi
3 ss., e 47-sexies, l. n. 354 del 1975).
Alla finalità rieducativa, tuttavia, nel caso de quo, si affianca la necessità di tutelare l’interesse di un
soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del
minore in tenera età a crescere “normalmente” accanto alla madre. Interesse che – oltre a chiamare in
gioco l’art. 3 Cost., in rapporto all’esigenza di un trattamento differenziato – evoca gli ulteriori parametri costituzionali richiamati dal Tribunale di sorveglianza fiorentino (tutela della famiglia, dirittodovere di educazione dei figli, protezione dell’infanzia ex artt. 29, 30 e 31 Cost.).
La Corte configura come prioritario l’interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai
quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, «interesse complesso, articolato in diverse situazioni giuridiche, che hanno trovato riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento internazionale sia
in quello interno». Ed infatti l’esigenza che la pretesa punitiva dello Stato non arrechi nocumento al valore costituito dalla tutela del minore trova riconoscimento anche in fonti di livello sovranazionale, che
qualificano “superiore” questo l’interesse, tale da dover essere considerato prioritario nell’ambito delle
decisioni giurisdizionali. All’uopo la Corte richiama l’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, nonché
l’art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176, secondo cui «in tutte le decisioni relative ai
fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle
autorità amministrative o degli organi legislativi l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».
Le argomentazioni che precedono conducono inevitabilmente il Giudice delle leggi a ritenere del
tutto ingiustificata la parificazione di trattamento fra la detenzione domiciliare speciale e quella ordinaria, stante l’evidente diversità delle fattispecie considerate.
La ratio storica del regime preclusivo di cui all’art. 4-bis non può espandersi sino a ricomprendere
anche «una misura (che invece è) finalizzata in modo preminente alla tutela dell’interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera età a fruire
delle condizioni per un migliore e più equilibrato sviluppo fisio-psichico».
Così facendo, infatti, osserva amaramente la Corte, il «”costo” della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attività delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare». Del resto, la subordinazione
dell’accesso alle misure alternative al «ravvedimento» del condannato può risultare «giustificabile»
quando si discuta di misure che si pongono come obiettivo esclusivo la risocializzazione del reo; diviene illegittima, invece, quando al centro della tutela si collochi un interesse "esterno" ed eterogeneo, come quello della prole.
La Corte, con un apprezzabile sforzo ermeneutico, tenta di fornire una lettura costituzionalmente
orientata del compendio normativo de quo, onde sottrarre la detenzione domiciliare speciale all’operatività del divieto posto dall’art. 4-bis: l’inequivoco dato testuale, che riconduce anche tale istituto speciale nel novero delle misure alternative alla detenzione cui si applica il regime restrittivo, nonché considerazioni di natura sistematica, considerato che altre misure speciali sono state dal legislatore espressamente escluse dal divieto in esame (basti pensare alla detenzione domiciliare per i condannati affetti
da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria di cui all’art. 47-quater, comma 9, l. n. 354 del
1975), appaiono, tuttavia, ostacoli insuperabili.
Di qui, l’inevitabile pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, l. n. 354 del 1975
nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari la misura della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando
la condizione dell’insussistenza di un reale pericolo di commissione di ulteriori delitti, da valutare in
concreto, e non sulla base di meri indici presuntivi.
In tale prospettiva, il corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti – quello di difesa sociale,
sotteso al perseguimento del contrasto alla criminalità organizzata, e quello inerente alla tutela del mi SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE
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nore – deve operarsi non già in via astratta, sulla base di presunzioni normative, bensì in concreto, nel
senso cioè che il giudice deve verificare nel caso di specie la eventuale sussistenza del pericolo di commissione di ulteriori delitti da parte della condannata.
Infine, osserva la Corte, la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa «in via consequenziale» anche alla misura della detenzione domiciliare ordinaria prevista dall’art. 47-ter, comma 1, lettere
a) e b), l. n. 354 del 1975 (delitti con pensa non superiore a 4 anni): «ciò, per evitare che una misura
avente finalità identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che debbono
espiare pene meno elevate, resti irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte qua».
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SEZIONI UNITE
di Antonio Pagliano
DALLA NATURA GIURIDICA DELL’ASTENSIONE DEL DIFENSORE CONSEGUE L’ILLEGITTIMITÀ DEL RIGETTO
DELLA RICHIESTA DI RINVIO PER ESIGENZE DI GIUSTIZIA NON CONTEMPLATE DAL CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE
(Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 40187)
Chiamate ad intervenire in merito alla questione, di non scarsa delicatezza, relativa alla sussistenza della possibilità da parte del giudice di rigettare la richiesta di rinvio della trattazione del processo in virtù
dell’adesione del difensore all’astensione proclamata in applicazione delle norme del codice di autoregolamentazione degli avvocati, le Sezioni Unite hanno affermato l’importante principio secondo cui
l’astensione del difensore configura l’esercizio di un vero e proprio diritto costituzionalmente protetto
(recependo quanto già affermato in altro ambito da Cass., sez. un., 30 maggio 2013, n. 26711).
Superando l’opposta più consolidata opinione, il massimo consesso di legittimità ha, inoltre, affermato che il codice di autoregolamentazione degli avvocati costituisce fonte di diritto vincolante erga
omnes; all’autorità giudiziaria spetta pertanto esclusivamente il compito di controllare il rispetto delle
evocate disposizioni, potendo statuire eventualmente sull’illegittimità dell’astensione solo in presenza
di violazioni del medesimo codice di autoregolamentazione, senza pertanto poter mai invocare per se
stessa il potere di una valutazione discrezionale di opportunità che risulta essere stata effettuata a monte dal legislatore attraverso l’adozione della normativa che ha imposto alle categorie professionali di
dotarsi di propri codici di autoregolamentazione, a loro volta approvati da appositi organismi.
Abbracciando tale ricostruzione, la Corte ha definitivamente superato il più consolidato orientamento secondo cui l’adesione del difensore alla astensione dalle udienze proclamata dagli organismi di categoria non integra un legittimo impedimento, in quanto la decisione del difensore di astenersi dalla
trattazione dell’udienza non può essere ricondotta a situazioni oggettive ed indipendenti dalla volontà
del soggetto impedito, ma al contrario costituisce una libera scelta che pur rappresentando una forma
di esercizio di una libertà sindacale deve trovare un momento di valutazione da parte del giudice in
virtù dell’esigenza di dover contemperare i diritti delle altre parti del processo (Cass., sez. II, 19 aprile
2013, n. 22353; Cass., sez. II, 6 dicembre 2011, n. 46686).
Nel caso di specie, le Sezioni Unite hanno così disposto l’annullamento della sentenza di primo grado ritenendo illegittima l’ordinanza con cui il tribunale aveva disatteso l’istanza di rinvio del difensore
che aderiva all’astensione proclamata dall’Unione Camere Penali, disponendo la regolare trattazione
dell’udienza in considerazione del fatto che risultava necessario escutere un teste presente, per altro per
ben tre precedenti udienze assente, che si riteneva non potesse patire i disagi di una nuova convocazione. Proprio tale valutazione è stata ritenuta illegittima dalle Sezioni Unite che, fornendo un importante
contributo alla tutela delle prerogative inerenti l’esercizio dei diritti del difensore, ha ridisegnato i confini di intervento dell’autorità giudiziaria nella valutazione dell’accoglibilità dell’istanza di rinvio originata dall’astensione dalle udienze.
Infine, occorre rilevare che l’istanza di adesione all’astensione era stata formalizzata dal difensore a
mezzo telefax; modalità di comunicazione assunta come pienamente idonea e legittima dal Collegio.
INOPPUGNABILE L’ORDINANZA DEL GIP CON CUI EGLI DISPONE LA PROPRIA INCOMPETENZA IN VIRTÙ DEL
PRINCIPIO DI TASSATIVITÀ DEI MEZZI DI IMPUGNAZIONE
(Cass., sez. un., 9 ottobre 2014, n. 42030)
Investite della questione relativa alla possibilità di formulare ricorso da parte del pubblico ministero
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avverso l’ordinanza con cui il g.i.p. si dichiara incompetente, le Sezioni Unite hanno ribadito, in virtù
del principio di tassatività dei mezzi di gravame, che non sussiste alcuna possibilità di impugnare
l’ordinanza con cui il giudice, ai sensi dell’art. 22, comma 1, c.p.p., riconosce nel corso delle indagini
preliminari la propria incompetenza con conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero, fatta
salva l’ipotesi dell’abnormità. Potrebbe al contrario unicamente determinarsi un conflitto di competenza ove il nuovo giudice, investito della medesima richiesta da parte del pubblico ministero, si dichiarasse a sua volta incompetente. Tale meccanismo, d’altronde, trova spiegazione nella considerazione che,
in tema di competenza, il legislatore non ha voluto istituire presidi di natura impugnatoria optando
unicamente per la previsione dell’istituto del conflitto, sollevabile anche di ufficio.
Sulla scorta di tale principio, invero assolutamente consolidato in giurisprudenza (Cass.,sez. VI, 15
novembre 1994, n. 4386; Cass., sez. VI, 01 marzo 1993, n. 598; Cass., sez. V, 30 settembre 1992, n. 1509;
Cass., sez. I, 22 settembre 1992, n. 3477; Cass. sez. VI, 8 novembre 1995, n. 619; Cass., sez. I, 17 gennaio
2011, n. 15792; Cass., sez. VI, 14 novembre 2013, n. 9729), le Sezioni Unite hanno dichiarato inammissibile il ricorso che da tale vicenda prendeva le mosse ma che era arrivato al vaglio del massimo consesso
di legittimità in merito al quesito relativo alla sussistenza della identità fra gli autori del reato fine e
quelli del reato mezzo ai fini dell’applicabilità della connessione teleologica prevista dall’art. 12, lett c),
c.p.p.; quesito rimasto pertanto sostanzialmente inevaso.
IL VALORE DEL GIUDICATO ED I POTERI DEL GIUDICE DELL’ESECUZIONE DI RIDETERMINAZIONE DELLA PENA NEL CASO DI DICHIARAZIONE DI INCOSTITUZIONALITÀ DI UNA NORMA DIVERSA DA QUELLA INCRIMINATRICE
(Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858)
Chiamate a pronunciarsi in relazione alla possibilità di rideterminazione della pena ed al connesso tema del valore del giudicato, le Sezioni Unite hanno affrontato la questione inerente le differenze sussistenti fra l’istituto della successione di leggi nel tempo rispetto al caso della dichiarazione di incostituzionalità. È stata infatti oggetto del vaglio del massimo organo di legittimità la questione relativa alla
possibilità, in sede di esecuzione di una sentenza passata in giudicato, di rideterminare la pena in seguito alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice; nel caso di specie la dichiarazione di illegittimità dell’art 69, quarto comma c.p. nella parte in cui
vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante dei cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del
1990, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p.
La sezione remittente aveva infatti preso atto che sussistevano due orientamenti contrastanti, emersi,
in particolare, a seguito della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 61, comma 1, n. 11-bis c.p.
Secondo un primo filone giurisprudenziale, il giudice dell’esecuzione, in applicazione degli artt. 136
Cost. e 30, commi terzo e quarto, della legge costituzionale n. 87 del 1953, che non consentono l’esecuzione della porzione di pena inflitta dal giudice di cognizione in conseguenza dell’applicazione di
una circostanza aggravante che sia stata successivamente dichiarata incostituzionale, deve individuare
la porzione di pena corrispondente e dichiararla non eseguibile. Ciò anche in considerazione del fatto
che, ad essere oggetto dell’intervento in sede esecutiva sarebbe quindi la pena, non rilevando che si sia
in presenza di un autonomo titolo o ad una circostanza aggravante (Cass., sez. I, 27 ottobre 2011, n.
977).
Al contrario, secondo altro orientamento, l’art. 30 della legge costituzionale n. 87 del 1953 è da ritenersi abrogato in virtù dell’art. 673 c.p.p. e, pertanto, la sentenza definitiva non può essere soggetta a
revoca nella fase esecutiva (Cass., sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640).
Chiamate a risolvere il contrasto, le Sezioni Unite hanno affermato, in primo luogo, che l’irrevocabilità della sentenza di condanna non impedisce la rideterminazione della pena in favore del condannato in presenza della dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da
quella incriminatrice incidente sul trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non sia stato interamente
eseguito, pur se il provvedimento ‘correttivo’ da adottare non è a contenuto predeterminato.
In secondo luogo, il giudice dell’esecuzione, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n.
251 del 2012, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, c.p., nella parte
in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre
1990, n. 309, sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, c.p., può affermare la prevalenza del SCENARI | SEZIONI UNITE
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l’attenuante anche compiendo attività di accertamento, sempre che tale valutazione non sia stata esclusa dal giudice della cognizione.
Conseguentemente hanno, infine, statuito le Sezioni Unite come al pubblico ministero spetti il compito, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 251 del 2012, di richiedere al giudice
dell’esecuzione l’eventuale rideterminazione della pena inflitta anche in applicazione dell’art. 69, quarto comma, c.p., pur se il trattamento sanzionatorio sia già in corso di attuazione.
In particolare, la sentenza fissa la distinzione tra l’illegittimità costituzionale della norma che opera
ab origine, così come nel caso di decadenza di un decreto legge, e l’abrogazione quale fenomeno fisiologico dell’ordinamento che trova un limite nel giudicato.
D’altro canto, non si può non osservare come il giudicato abbia col passare del tempo subito una
profonda evoluzione tanto da passare da ideale invalicabile ad istituto schiacciato dinanzi alla tutela di
diritti fondamentali del singolo. Ciò in considerazione del fatto che la funzione oramai prevalente del
giudicato penale, a differenza di quello del processo civile e di quella avvertita fino a qualche anno addietro anche in quello penale, è riposta nell’esigenza di porre limite all’intervento dello Stato nella sfera
individuale e si esprime essenzialmente nel divieto di bis in idem. Basti pensare, per un verso, all’introduzione di una serie di norme come gli artt. 625-bis e 625-ter c.p.p., per un altro, alla dichiarazione di
illegittimità costituzionale dell’art. 630 c.p.p. nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione
della sentenza emessa nell’ambito di un processo dichiarato non equo dalla Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo.
LA NATURA DEI TERMINI PER LA RICHIESTA DI GIUDIZIO IMMEDIATO ORDINARIO E CUSTODIALE E LE RELATIVE CONSEGUENZE IN CASO DI MANCATO RISPETTO DEGLI STESSI
(Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42979)
Le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi sulla natura del termine entro cui il pubblico ministero può avanzare richiesta al g.i.p. di emissione del decreto di giudizio immediato. Sebbene infatti risultasse assolutamente consolidato il principio secondo cui tale termine avesse natura perentorio in relazione al compimento degli atti di indagine, rivestendo, al contrario, natura ordinatoria quanto alla
materiale presentazione e trasmissione della richiesta di giudizio immediato, sia ordinario che custodiale (Cass., sez. V, 21 gennaio 1998, n. 1245; Cass., sez. I, 26 ottobre 2010, n. 45079; Cass., sez. III, 4 ottobre
2007, n. 41579; Cass., sez. III, 26 settembre 1995, n. 273; in materia di giudizio immediato “custodiale”:
Cass., sez. VI, 1 dicembre 2009, n. 47348; Cass., sez. VI, 20 ottobre 2009, n. 41038), la sezione rimettente
ha ritenuto di individuare un “virtuale contrasto” rispetto al proprio convincimento, sollevando la relativa questione ermeneutica sulla scorta, da un lato, della circostanza relativa alla costatazione che il tenore letterale della norma non consentirebbe alcuna scomposizione del termine e, dall’altro, in virtù del
fatto che una ritardata richiesta del pubblico ministero oltre i termini indicati dalla legge determinerebbe la lesione del principio di parità delle parti.
La Corte ha strutturato la propria analisi muovendo dal quesito relativo alla sindacabilità o meno
del rispetto del termine e della relativa potestà, affermando che essa sia esercitabile esclusivamente da
parte del giudice per le indagini preliminari, attenendo tale verifica ai presupposti del rito. Invero,
l’unico soggetto deputato al controllo circa la sussistenza delle condizioni per il passaggio alla fase dibattimentale non può che essere il giudice che emette il decreto di giudizio immediato, il cui controllo
riveste carattere di particolare pregnanza, attenendo a tutti i presupposti previsti dalla legge per
l’accesso al rito. Tale provvedimento, in virtù della sua natura endoprocessuale non può essere oggetto
di sindacato da parte del giudice del dibattimento. In caso contrario, la regressione del processo alla fase precedente, in accoglimento delle richieste della difesa volte ad ottenere la nullità del decreto che dispone il giudizio immediato per omesso rispetto dei termini previsti dalla legge, sarebbe contrario alle
esigenze di razionalità e celerità nello svolgimento del processo.
Specifica il Collegio che la tardività della richiesta del pubblico ministero non impedisce affatto
l’esercizio del diritto di difesa, ma incide soltanto sull’ammissibilità del rito anche in considerazione del
fatto che è la decisione del g.i.p. di emissione del decreto di giudizio immediato che priva l’imputato
dell’udienza preliminare e non la tardiva richiesta del pubblico ministero. Inoltre, ove dovesse ammettersi un sindacato del giudice del dibattimento sulla sussistenza del presupposto temporale, dovrebbe
ammettersi analogo sindacato sull’altro presupposto della ammissione al rito, ovvero quello probatorio,
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che per ovvie ragioni deve essere escluso, costituendo lo stesso una valutazione sul merito degli elementi di prova raccolti dal pubblico ministero. Inoltre, affermano le Sezioni Unite, tale ragionamento
deve altresì essere convalidato laddove si consideri che in un sistema di tipo tendenzialmente accusatorio, come il nostro, fondato sul dibattimento come fase centrale del processo, una volta instaurato il
giudizio immediato, l’eventuale omesso rispetto dei termini appare sostanzialmente irrilevante, visto il
prevalente interesse dell’imputato alla definizione del processo in tempi ragionevoli.
ESCLUSIONE DEGLI EFFETTI RETROATTIVI DELLA DECORRENZA DEI TERMINI INTERFASICI DELLA MISURA
CAUTELARE “ORA PER ALLORA” IN CASO DI SUCCESSIVA DECLARATORIA DI INCOSTITUZIONALITÀ DEGLI
ARTT. 4-BIS E 4-VICIES TER DEL D.L. 272 DEL 2005
(Cass., sez. un., 28 ottobre 2014, n. 44895)
Chiamate a pronunciarsi sugli effetti derivanti dalla sentenza della C. cost. n. 32 del 2014 con cui è stata
dichiarata l’incostituzionalità degli art. 4-bis e 4-vicies ter del d.l. 272 del 2005, convertito in legge n. 49
del 2006, le Sezioni Unite hanno stabilito che dalla stessa non si determinano effetti retroattivi “ora per
allora” in relazione ai termini di durata massima della misura cautelare per le fasi esaurite prima della
pubblicazione della sentenza medesima, attesa l’autonomia di ciascuna fase.
La disamina operata dal massimo organo di legittimità nasce dall’affermazione secondo cui la sentenza che dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge ha non solo efficacia erga omnes,
con l’obbligo in capo al giudice di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo, ma incide
anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare la questione di incostituzionalità, sempre che non si tratti di una situazione esaurita.
La C. cost. n. 239/2012 ha già recentemente circoscritto la retroattività in mitius solo alle legge e agli
atti aventi forza di legge e non anche alla giurisprudenza, con particolare riferimento alle decisione
emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Poste tali premesse, le Sezioni Unite hanno analizzato la questione loro rivolta, prendendo atto del
contrasto esistente fra i due orientamenti prevalenti.
Il primo, invero maggioritario, assume che le eventuali pronunce di incostituzionalità incidenti in
senso favorevole sull’imputato, non possono dispiegare efficacia retroattiva sul calcolo dei termini di
una fase già conclusa ed esaurita nel rispetto della disciplina previgente, mentre il processo risulta ormai approdato ad una fase o grado diverso, per ciò operando distinti e autonomi termini di custodia
cautelare (Cass., sez. VI, 30 maggio 1995, n. 2181; Cass., sez. VI, 29 maggio 1995, n. 2172; Cass., sez. I, 24
marzo 1995, n. 1783; Cass., sez. I, 7 aprile 1995, n. 2144; Cass., sez. I, 11 aprile 1995, n. 2239; Cass., sez. 4,
18 dicembre 1997, n. 3522).
Il secondo orientamento, invece, ritiene che gli effetti della citata declaratoria di incostituzionalità
sarebbero da considerarsi retroattivi fino al pronunciamento di una sentenza irrevocabile, dovendosi
riconoscere alla pronuncia del giudice delle leggi un effetto pienamente espansivo (Cass., sez. II, 3
maggio 2005, n. 23395).
Ciò posto, la Suprema corte si sofferma sul concetto di “rapporto esaurito” ritenendo che il procedimento si articola in varie fasi che rappresentano segmenti di un’attività complessa finalizzata al risultato ultimo di una decisione irrevocabile su una notitia criminis, con la conseguente autonomia di ciascuna fase ed esaurimento della stessa al subentrare della successiva, estendendo tale ragionamento anche alla misura cautelare.
Secondo un indirizzo minoritario, invece, il rapporto processuale cautelare va considerato nella sua
unitarietà e non nelle singole fasi del procedimento così come frazionate.
Le Sezioni Unite ritengono di aderire all’orientamento maggioritario sottolineando la natura processuale delle norme, affermando di dover applicare il principio tempus regit actum, anche se di volta in
volta occorre valutare la natura processuale o sostanziale delle stesse. Il sistema di calcolo dei termini
durata di una fase della misura cautelare evidenzia come lo stesso sia caratterizzato da una segmentazione dei termini stessi. Questi sono strutturati secondo 4 momenti: investigativo, dibattimentale, appello e fasi successive.
L’attuale strutturazione dei termini di fase attribuisce al quadro normativo vigente aspetti di elasticità e profili eterogenei coerenti con le modalità di funzionamento della scarcerazione. In sostanza, la soluzione del problema dipende dalla ricostruzione del sistema processuale nell’ottica dell’applicazione
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del principio del tempus regit actum, anche se bisogna stabilire di volta in volta se le norme in oggetto
appartengono al diritto penale processuale o subiscano un’incidenza diretta per la loro attrazione nella
sfera del diritto sostanziale.
Pertanto, in virtù di tutto quanto detto, la Corte giunge ad affermare che la dichiarazione di incostituzionalità della norma concernente il trattamento unificato per le droghe pesanti e quelle leggere non comporta la rideterminazione retroattiva dei termini di durata massima per le precedenti fasi del procedimento, oramai esaurite prima della pubblicazione della sentenza, attesa l’autonomia di ciascuna fase.
ESCLUSIONE DELLA CONCESSIONE DEL TERMINE A DIFESA IN CASO DI RICORSO AVVERSO IL DECRETO DI
EMISSIONE DELLA MISURA DI PREVENZIONE PATRIMONIALE PROPOSTO DAL DIFENSORE DEL TERZO INTERESSATO NON MUNITO DI PROCURA SPECIALE
(Cass., sez. un., 17 novembre 2014, sent. n. 47239)
Intervenendo su una delicata questione di natura formale ma quanto mai gravida di conseguenze pratiche stante gli interessi patrimoniali in gioco, le Sezioni Unite, in merito agli effetti derivanti dalla mancata
allegazione della procura speciale da parte del terzo proprietario in relazione alla presentazione del ricorso in Cassazione proposto avverso il decreto di emissione di misura di prevenzione patrimoniale, hanno
stabilito che il giudice procedente non può concedere un termine per la sanatoria del citato vizio.
La sentenza, dopo essersi interrogata con esito positivo sull’astratta legittimità del terzo interessato a
proporre ricorso in Cassazione a fronte della partecipazione al solo giudizio di appello, non avendo
presenziato a quello celebrato innanzi al tribunale pur se correttamente citato, aderisce all’orientamento
più restrittivo, sebbene più consolidato, respingendo la tesi minoritaria che di recente era andata via via
diffondendosi in giurisprudenza.
Preso atto, infatti, della crescente necessità di garantire una maggiore attenzione al rispetto di un
pieno e concreto esercizio del diritto di difesa, una parte minoritaria della giurisprudenza di legittimità
aveva di recente maturato la convinzione che in presenza di un difetto di valida procura non potesse
essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso, dovendosi assegnare alla parte un termine perentorio per
sanare il difetto di rappresentanza, in analogica applicazione di quanto previsto dall’art. 182, comma
secondo, c.p.c. Seconda tale interpretazione, inoltre, non poteva ignorarsi quanto statuito in diverse
pronunce dalla più recente giurisprudenza europea in merito all’obbligo da parte degli Stati di garantire ai cittadini una piena tutela del diritto di accesso alla giurisdizione (Cass., sez. VI, 5 febbraio 2014, n.
11933; Cass., sez. VI, 20 novembre 2012, n. 1289; Cass., sez. III, 16 dicembre 2010, n. 11966).
Di diverso avviso, come detto, il ragionamento delle Sezioni Unite, le quali hanno affermato in adesione dell’interpretazione maggioritaria (Cass., sez. II, 3 dicembre 2013, n. 6611; Cass., sez. VI, 31 ottobre 2013, n. 44636; Cass., sez. VI, 16 ottobre 2013, n. 47548; Cass., sez. II, 9 luglio 2013, n. 31078; Cass.,
sez. VI, 27 giugno 2013, n. 35240; Cass., VI, 7 febbraio 2013, n. 22109; Cass., sez. VI, 23 ottobre 2012, n.
7510; Cass., sez. II, 27 marzo 2012, n. 27037; Cass. sez. I, 4 maggio 2012, n.25849; Cass., sez. I, 29 febbraio
2012, n. 10398; Cass., sez. III, 20 ottobre 2011, n. 8942), che non possono essere convalidati fenomeni di
osmosi fra il giudizio penale ed il giudizio civile, se non in caso di espressa previsione normativa.
Nella specie, a giudizio del massimo consesso di legittimità, nessuna norma del codice di procedura
penale prevede che il giudice sia tenuto, a fronte di una carente rappresentanza od assistenza, ad assegnare alla parte un termine “per sanare” tale carenza; al contrario, la conseguenza dell’inammissibilità
tout court discende pianamente dal mancato rispetto dell’art. 101 c.p.p., che essendo norma di per sé
compiuta ed autosufficiente, non richiede, per la sua operatività, il richiamo a norme collocate nel codice di procedura civile. Né sarebbe dato individuare, in un tale assetto, la presenza di manifeste irragionevolezze idonee ad imporre letture, costituzionalmente o convenzionalmente orientate.
ESCLUSIONE DELLA LEGITTIMITÀ DELLA PARTE CIVILE A RICORRERE PER CASSAZIONE AVVERSO IL PROVVEDIMENTO EMESSO IN SEDE DI RIESAME DI ANNULLAMENTO O REVOCA DELLA MISURA DEL SEQUESTRO
CONSERVATIVO
(Cass., sez. un., 20 novembre 2014, sent. n. 47999)
Chiamate a pronunciarsi sulla legittimazione della parte civile a ricorrere per cassazione contro il prov SCENARI | SEZIONI UNITE
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vedimento di revoca del sequestro conservativo disposto su richiesta della stessa parte civile, le Sezioni
Unite hanno enunciato il principio di diritto secondo cui non sussiste la legittimazione della parte civile
a impugnare il suddetto provvedimento che annulla o revoca, in sede di riesame, ai sensi dell’art. 318
c.p.p., l’ordinanza di sequestro conservativo disposto a favore della stessa.
Le Sezioni Unite hanno sanato il contrasto sorto tra due orientamenti giurisprudenziali, accreditando quello maggiormente restrittivo. Seconda quanto assunto da una parte della giurisprudenza, infatti,
tale legittimazione non avrebbe potuto essere negata in considerazione della lettura combinata degli
art. 325, comma 2 e 318 c.p.p., da cui emerge che deve essere riconosciuta la piena legittimazione a proporre richiesta di riesame o ricorso per cassazione a chiunque vi abbia interesse, precisando che, per di
più, l’esclusione della legittimazione a impugnare per la parte civile, in questi casi, sarebbe risultata lesiva del diritto di difesa (Cass., sez. V, 17 dicembre 2003, n. 5021; Cass., sez. VI 9 aprile 2013, n. 20820;
Cass., sez. VI, 31 gennaio 2012, n. 5928).
Secondo l’altra ipotesi interpretativa, al contrario, non vi sarebbe, per la parte civile, alcuna legittimazione ad impugnare e ciò in virtù di quanto previsto dall’art. 325, comma 1, c.p.p., che non annovera
la stessa fra i soggetti dotati di tale potere di impugnazione, in conformità con il carattere di accessorietà dell’azione civile all’interno del processo penale.
Proprio tale orientamento è stato fatto proprio dalle Sezioni Unite sulla base della considerazione
che la parte civile, che ha proposto la richiesta di riesame, non può essere legittimata essa stessa a impugnare il provvedimento di sequestro; inoltre, i soggetti legittimati a proporre ricorso per cassazione
non possono essere identificati con “chiunque vi abbia interesse”, ma possono essere solo quelli indicati
nell’art. 325, comma 1, c.p.p., ossia il pubblico ministero, l’imputato, il suo difensore, la persona alla
quale le cose sono state sequestrate e quella avente diritto alla loro restituzione (Cass., sez. V, 10 febbraio 2009, n. 9759; Cass., sez. VI, 6 febbraio 2009, n. 8804; Cass., sez. VI, 10 aprile 2013, n. 39010).
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Paola Corvi
LA CONDIZIONE DI QUASI FLAGRANZA NELL’IPOTESI DI INSEGUIMENTO DELLA PERSONA INDIZIATA DA
PARTE DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA
(Cass. Sez. I, 3 ottobre 2014, n. 43394)
La nozione di quasi flagranza è stata recentemente oggetto di una pronuncia della prima sezione della
Corte di cassazione che, pur prendendo atto dei contrapposti orientamenti giurisprudenziali sul tema,
ha optato per una lettura restrittiva dell’art. 382 c.p.p. La pronuncia si segnala non solo per il contrasto
giurisprudenziale emergente sulla portata del concetto di quasi flagranza, ma anche per le nuove argomentazioni proposte a sostegno dell’interpretazione più rigorosa.
Nel caso portato all’attenzione della Corte viene in rilievo l’ipotesi di quasi flagranza costituita
dall’inseguimento, subito dopo il reato, dell’indiziato da parte della polizia giudiziaria, della persona
offesa o da altre persone: in particolare viene in considerazione non tanto la valutazione, secondo criteri
più o meno restrittivi, della correlazione temporale tra delitto commesso e avvenuto inseguimento,
quanto la rilevanza della diretta percezione dell’azione delittuosa ai fini dell’inseguimento e della cattura dell’indiziato.
Secondo l’orientamento prevalente lo stato di quasi flagranza legittima l’arresto qualora l’inseguimento da parte della polizia giudiziaria trovi causa nella diretta percezione dei fatti da parte della
polizia giudiziaria stessa, in quanto ciò che qualifica l’inseguimento di cui all’art. 382 c.p.p., a prescindere dai tempi e dalla durata dell’inseguimento stesso, è la diretta e autonoma percezione dei fatti da
parte della persona che si pone all’inseguimento e l’assenza di ogni soluzione di continuità; viceversa,
qualora l’inseguimento sia iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte di
terzi o della denuncia della persona offesa, non può ravvisarsi la situazione della quasi flagranza (Cass.,
sez. IV, 7 febbraio 2013, n. 15912; Cass., sez. II, 3 aprile 2012, n. 19002; Cass., sez. III, 13 luglio 2011, n.
34918; Cass., Sez. V, 31 marzo 2010, n. 19078; Cass., Sez. II, 18 gennaio 2006, n. 7161; Cass., sez. IV, 5
febbraio 2004, n. 17619).
L’orientamento minoritario, ma costante, configura invece la quasi flagranza anche in difetto dei requisiti della diretta percezione della azione delittuosa, da parte della polizia giudiziaria o del privato, e
della immediatezza dell’inseguimento: secondo questo indirizzo il termine “inseguimento” ha un significato tecnico-giuridico che trascende, anche se comprende, quello etimologico di attività di chi corre
dietro, tallona e incalza, a vista, la persona inseguita. Esprime, cioè, un concetto comprensivo anche
dell’azione di ricerca, immediatamente eseguita, anche se non immediatamente conclusa, purché protratta senza soluzione di continuità, sulla base delle ricerche immediatamente predisposte sulla scorta
delle indicazioni delle vittime, dei correi o di altre persone a conoscenza dei fatti. Conseguentemente,
secondo questa tesi, posto che la locuzione di inseguimento “subito dopo il reato” sta ad indicare un
rapporto d’immediatezza, anche relativo, non è richiesta necessariamente la coincidenza tra momento
iniziale della fuga e momento iniziale dell’inseguimento che può avvenire, quindi, anche dopo breve
intervallo, quale congruo tempo strettamente necessario alla polizia giudiziaria per giungere sul luogo
del delitto, acquisire notizie utili e iniziare le ricerche. Ovviamente, onde evitare che il concetto d’immediatezza sia dilatato fino a comprendere azioni del tutto avulse dal contesto delittuoso, lo stato di
quasi flagranza postula sempre che non sia intervenuta alcuna cesura del rapporto di conseguenzialità
tra fuga e inseguimento, con l’effetto che la condizione legittimante non sussiste qualora l’arresto intervenga dopo che è cessata la fuga o è terminato l’inseguimento (Cass., sez. I, 24 novembre 2011, n. 6916;
Cass., sez. II, 10 novembre 2010, n. 44369; Cass., sez. I, 15 marzo 2006, n. 23560; Cass., sez. V, 7 giugno
1999, n. 2738).
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La lettura estensiva dell’art. 382 c.p.p., che svincola lo stato di quasi flagranza dalla circostanza che
gli operanti abbiano o meno avuto modo di assistere alla condotta criminosa, lettura peraltro recentemente ribadita dalla Suprema corte (Cass., sez. V, 12 maggio 2014, n. 19559), viene esclusa dalla sentenza della prima sezione della Corte di cassazione innanzi tutto in ragione del carattere eccezionale attribuito dal terzo comma dell’art. 13 Cost. alle misure che determinano la provvisoria privazione della libertà personale su iniziativa della polizia giudiziaria e in assenza di un provvedimento motivato
dell’autorità giudiziaria: la natura eccezionale delle disposizioni che disciplinano l’arresto rende l’art.
382 c.p.p. norma “di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle disposizioni della legge in generale
approvate con R.D. 16 marzo 1042, n. 262”.
Un secondo argomento a sostegno della tesi restrittiva si rinviene nel tenore testuale dell’art. 382
c.p.p. che esclude l’assimilazione tra l’ipotesi specifica dell’inseguimento – contemplata dalla norma – e
quelle più generiche delle ricerche o, addirittura delle investigazioni tempestive: il termine inseguimento e il requisito cronologico di immediatezza previsto con l’espressione “subito dopo il reato” postulano
la necessità di correlazione funzionale tra la diretta percezione dell’azione delittuosa e la privazione
della libertà.
La stessa ratio legis infine – ad avviso della prima sezione della Suprema Corte – avalla l’interpretazione restrittiva: il riconoscimento alla polizia giudiziaria del potere di privare della libertà personale si spiega e si giustifica in forza dell’altissima probabilità della colpevolezza dell’arrestato, che può
essere comprovata proprio dalla diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte
degli agenti e degli ufficiali di polizia giudiziaria e non altrettanto efficacemente da valutazioni e apprezzamenti fondati sugli elementi di indagini, per quanto assunti prontamente ed eventualmente in
loco, dalla polizia giudiziaria.
SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
Avanguardie in Giurisprudenza
Cutting Edge Case Law
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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Potere istruttorio d’ufficio del giudice
e prove inutilizzabili
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE I, SENTENZA 26 GIUGNO 2014, N. 27879 – PRES. GIORDANO; REL. MAGI
Non è consentito l’esercizio del potere istruttorio ex officio, di cui all’art. 507 cod. proc. pen., al fine di recuperare
al fascicolo del dibattimento un atto ontologicamente irripetibile del medesimo procedimento (nella specie, intercettazione telefonica) dichiarato inutilizzabile a causa del suo omesso deposito ai sensi degli artt. 415 bis e 416 del
codice di rito.
[omissis]
RITENUTO IN FATTO
[omissis]
2.2
i motivi della difesa B.
Si tratta di un ricorso particolarmente ampio e articolato, incentrato sia su questioni di utilizzabilità
degli atti aventi rilievo probatorio che su temi afferenti la motivazione della decisione.
In sintesi:
con il primo motivo si deduce vizio procedimentale in riferimento al mancato deposito ai sensi
dell’art. 415 bis c.p.p. di atti rilevanti al fine di consentire l’effettivo esercizio del diritto di difesa, con
violazione del parametro costituzionale di cui all’art. 111 e delle norme di cui all’art. 178 comma 1 lett. c
e 191 c.p.p.
L’ampia questione ricostruisce, in fatto, la sequenza delle ordinanze emesse nel corso del procedimento con cui sono state respinte le eccezioni difensive sul tema e ne contesta l’esattezza in diritto.
In sede di conclusione delle indagini preliminari non sarebbero stati depositati, come prescritto dalla
norma di cui all’art. 415 bis e dalla sua corretta interpretazione, tutti gli atti realizzati nella fase investigativa.
Ciò sulla base di una riferita – da parte del PM – maggior ampiezza del fascicolo iniziale che era finalizzato a far luce anche su altri episodi delittuosi.
Ciò posto, in un primo momento, i giudici procedenti avevano emesso ordinanza con cui si dichiaravano inutilizzabili gli atti non oggetto di deposito, individuati dalla difesa tramite il riferimento ad
una fattura di pagamento contenente indicazioni di intercettazioni telefoniche o ambientali non versate
in atti.
In un secondo momento, tuttavia, la Corte di primo grado decideva di acquisire ai sensi dell’art. 507
cod. proc. pen. uno degli atti già dichiarati inutilizzabili, consistente in particolare nella intercettazione
intercorsa tra il Maresciallo C. e la teste L.
Tale modus procedendi viene ritenuto illegittimo, sia in rapporto alla impossibilità di «recupero» ai
sensi dell’art. 507 c.p.p. di un atto già dichiarato inutilizzabile in quanto non depositato, sia in riferimento alla conseguente nullità dello stesso avviso di depositato notificato ex art. 415 bis, posto che sarebbe emersa la ipotetica rilevanza di uno di tali atti per il procedimento in corso.
Sarebbe inoltre alterata la «parità di armi» tra le parti processuali anche in riferimento al pregiudizio
arrecato all’imputato circa le facoltà di accesso al rito abbreviato, dato che tale scelta deve essere assistita dalla effettiva conoscenza degli atti raccolti, nel momento individuato dal legislatore nel deposito di
cui sopra.
Si contesta, inoltre, la stessa legittimità della intercettazione in parola – acquisita ai sensi dell’art. 507 –
con motivi che, anticipando il contenuto dell’ottavo motivo di ricorso, evidenziano che trattasi, in real AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | POTERE ISTRUTTORIO D’UFFICIO DEL GIUDICE E PROVE INUTILIZZABILI
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tà, di un vero e proprio atto di indagine di tipo dichiarativo realizzato sotto forma di intercettazione allo scopo di superare la ritrosia del teste (la L.) a sottoscrivere un verbale ed aggirando le regole normative in punto di testimonianza indiretta della p.g.
È il maresciallo a chiamare, ad indagine in corso e consapevole della captazione in atto, la L. e non
viceversa.
Su tutti questi aspetti la motivazione offerta dalla Corte territoriale appare lacunosa, contraddittoria
ed errata in diritto.
[omissis]
Con l’ottavo motivo si deduce la inutilizzabilità della intercettazione telefonica tra C. e la teste L. (di
cui si è detto) sotto il profilo della violazione degli articoli 195 e 526 cpp.
[omissis]
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Ritiene questa Corte fondati, con i limiti e per le ragioni che seguono, i ricorsi proposti da B. e da
F., mentre va dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal Procuratore Generale territoriale.
2. Il ricorso B.
2.1. L’analisi dei motivi di ricorso porta a ritenere fondati il primo, il terzo e l’ottavo motivo, il che
conduce, per le ragioni che seguono, ad emettere pronunzia di annullamento con rinvio della decisione
impugnata, lasciando impregiudicata la valutazione probatoria delle residue fonti, da realizzarsi nel
giudizio di rinvio.
Si tratta, infatti, di motivi (quelli di cui viene ritenuta la fondatezza) relativi alle modalità acquisitive
di taluni elementi dimostrativi obiettivamente incidenti nella struttura logico-ricostruttiva (ampiamente
indiziaria) del fatto ascritto all’imputato, il che impedisce di realizzare nella presente sede di legittimità
una adeguata «prova di resistenza» dell’impianto motivazionale (pure ritenuta in questa sede possibile
in simili ipotesi, tra le altre, da Sez. VI n. 10094 del 22.2.2005, rv. 231832 e Sez. V n. 569 del 18.11.2003,
rv. 226972) pena lo stravolgimento dei caratteri di «controllo» dell’altrui operato, cui è ispirata la disciplina normativa del ricorso per cassazione .
Nel caso in esame tale prova di resistenza finirebbe con implicare la formulazione di un giudizio autonomo da parte della Corte sul fatto oggetto del processo, giudizio da ritenersi esorbitante anche
dall’ambito applicativo dell’art. 619 cod. proc. pen. come ben precisato già da Sez. I n. 9707 del
10.8.1995, rv. 202302 .
2.2. Ciò posto, va anzitutto affermato che le doglianze contenute nel primo e nell’ottavo motivo di
ricorso vanno trattate in maniera congiunta.
Il ricorrente, infatti, sotto diversi profili, si duole dell’avvenuta utilizzazione ai fini del decidere dei
contenuti della intercettazione telefonica della conversazione intercorsa tra il Maresciallo C. e la signora
L. in data 26 aprile 2008.
2.2.1. Conviene riepilogare, su tale questione, gli accadimenti processuali. All’udienza del 6 maggio
2009 – in apertura del giudizio di primo grado – la difesa del B. rilevava l’incompletezza della discovery operata in sede di atti prodromici all’esercizio dell’azione penale (art. 415 bis co. 2 cod. proc. pen.),
avendo rinvenuto nel fascicolo del Pubblico Ministero la traccia documentale (rappresentata da annotazioni relative alle spese) di attività captative di conversazioni (RIT n. 297/08, 248/08, 380/08, 370/08 e
418/08) ulteriori e diverse rispetto a quelle oggetto di deposito.
La questione veniva posta in termini di nullità dell’atto di esercizio dell’azione penale per violazione
dei diritti difensivi (in punto di completezza della conoscenza riversata nel fascicolo) con estensione del
vizio, in via derivata, al decreto di rinvio a giudizio.
Il Pubblico Ministero rappresentava che l’originario fascicolo di indagine aveva ad oggetto anche altri
fatti delittuosi avvenuti nel vibonese e pertanto rivendicava – ai sensi dell’art. 130 disp. att. c.p.p. – la facoltà
di operare, in sede di esercizio dell’azione penale per uno di tali fatti, una discovery parziale, intendendosi
per tale la selezione di tutti gli atti relativi alla specifica vicenda tratteggiata nella imputazione, con mantenimento nel fascicolo separato (esclusivamente) degli atti relativi alle ulteriori vicende oggetto di indagine.
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La Corte, nel valutare la questione posta, ne impostava la soluzione in termini giuridici confermando l’esistenza del potere di ‘selezione’ – nei termini riferiti dal P.M. – degli atti relativi alla vicenda oggetto del processo e riteneva che tale condotta non poteva comportare alcuna invalidità dell’atto di
esercizio dell’azione penale e del successivo decreto di rinvio a giudizio.
Non mancava, tuttavia la Corte di segnalare che la conseguenza giuridica effettiva della condotta di
«selezione» degli atti, una volta esclusa l’incidenza di quelli non depositati sulla validità del processo in
corso, fosse da rinvenirsi nella inutilizzabilità degli atti di indagine non oggetto di previo deposito ai
sensi del predetto art. 415 bis cod. proc. pen. (.. i diritti della difesa risultano tutelati dalla sanzione di
inutilizzabilità degli atti non trasmessi...).
La Corte pertanto non prendeva visione di tali atti (asseritamente relativi alle ‘altre vicende’ ancora
oggetto di indagine) ma ne dichiarava in ogni caso l’espressa inutilizzabilità ai fini del giudizio in corso, disponendo l’espunzione delle note spese dal fascicolo processuale.
Ora, risulta dagli atti che in tali captazioni era contenuta l’intercettazione telefonica della conversazione intercorsa tra il Mar. C. e la teste L., che la stessa Corte di primo grado ritiene di poter «recuperare» quale atto utilizzabile ai fini del decidere, ricorrendo al potere istruttorio previsto dall’art. 507 cod.
proc. pen.
Ma conviene procedere in ordine cronologico.
La teste L. viene escussa in contraddittorio all’udienza del 12 novembre 2009.
Tale deposizione non fornisce elementi rilevanti ai fini del giudizio, non essendo riportata tra le fonti
dimostrative a carico del B.
Successivamente, dopo un nuovo ascolto – già operato ai sensi dell’art. 507 – del teste C., veniva disposta l’acquisizione del supporto relativo alla conversazione telefonica intercorsa in data 26.4.2008 tra
il teste C. e la sig.ra L. (facente parte del RIT n. 370/08) .
La stessa veniva trascritta mediante incarico peritale.
La Corte di primo grado, nell’esporre le ragioni della utilizzabilità di tale acquisizione (i cui risultati
risultano espressamente valutati a carico del ricorrente, posto che la L. in tale contesto riferisce le confidenze ricevute da F. e relative agli avvenimenti del 19 ottobre 2007) opera talune precisazioni in fatto e
in diritto che è utile rievocare in sintesi:
a) il Mar. C. era a conoscenza del fatto che la conversazione in questione era intercettata, sebbene
non a cura dei Carabinieri della sua stazione;
b) fu il Maresciallo medesimo (come del resto risulta dalla trascrizione: ... signora L., buongiorno il
maresciallo sono ...) a contattare telefonicamente la L. poiché costei in precedenza (dopo l’omicidio del
fratello [omissis] avvenuto in data 8.4.2008) gli aveva fatto intendere di voler rilasciare delle dichiarazioni anche sull’omicidio del P. Dal testo della conversazione risulta infatti che la L., una volta riconosciuto l’interlocutore inizia a raccontare i fatti relativi all’omicidio P. a lei riferiti da F.;
c) la trascrizione ad avviso della Corte di Assise è acquisibile ed utilizzabile in virtù della rilevanza
rispetto ai fatti oggetto del processo unita alla esistenza del potere di completamento istruttorio conferito al giudice del dibattimento dall’art. 507 cod. proc. pen.
In particolare, si afferma che la sanzione di inutilizzabilità relativa agli atti non depositati in sede di
udienza preliminare non preclude l’esercizio di siffatto potere istruttorio ex officio, data l’ampiezza della sua configurazione e la finalità di accertamento della verità allo stesso sottesa (si citano talune decisioni sul tema emesse da questa Corte di legittimità, tra cui Sez. I n. 5364 del 13.2.1997).
Inoltre, si aggiunge che l’intercettazione non risulta viziata ‘in sé’ e pertanto sarebbe sempre passibile
di acquisizione (ai sensi dell’art. 507) non trattandosi di prova vietata ai sensi dell’art. 271 cod. proc. pen.
Da tale assetto, pertanto, risultano accertati alcuni dati processuali di indubbio rilievo, sintetizzabili
come segue:
a) la teste L., pur escussa in dibattimento, non ha compiuto riferimento alcuno alle confidenze ricevute da F., posto che nessun cenno viene operato, in motivazione, dai giudici di primo e secondo grado;
b) la teste L. non ha mai riversato le confidenze ricevute da F. in un verbale di sommarie informazioni durante le indagini, posto che in tal caso sarebbe stata operata una contestazione di tali informazioni nel corso del suo esame dibattimentale;
c) la difesa del B. non era a conoscenza dell’esistenza di tale intercettazione telefonica – di certo rilevante come possibile elemento a carico – sino alla sua rievocazione in dibattimento (durante la fase del
completamento istruttorio ex art. 507) da parte del Maresciallo C.;
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d) la Corte aveva espressamente dichiarato inutilizzabili le intercettazioni telefoniche non oggetto di
previo deposito ai sensi dell’art. 415 bis cod. proc. pen., pur non prendendone visione perché non depositate;
e) la stessa Corte ritiene superabile tale statuizione in sede di completamento istruttorio ex art. 507
cod. proc. pen. trattandosi di elemento di per sé legittimo e lo utilizza nel quadro ricostruttivo, con rilievo non secondario.
Nel giudizio di secondo grado, la Corte di assise d’Appello qualifica il contenuto della intercettazione come una sorta di dichiarazione spontanea, rilevando che fu la L. a contattare il Mar. C. (ed in tale
parte compie un chiaro travisamento del dato probatorio).
Attribuisce, inoltre, a tale conversazione una «pregnante valenza dimostrativa» (pag. 29 della decisione impugnata) dato che le parole della L. consentono di chiarire le ragioni della conoscenza dei fatti
in capo a F. e convergono con il contributo (acquisito ai sensi dell’art. 500 co. 4) della teste S. (di cui si
dirà).
Respinge le argomentazioni difensive, ritenendo del tutto legittima l’originaria «selezione» degli atti
compiuta dal P.M. ai sensi dell’art. 130 disp. att. c.p.p. ed altrettanto legittimo il recupero, ai sensi dell’art. 507, della conversazione originariamente non depositata.
In particolare si invoca l’applicabilità della previsione normativa dell’art. 270 cod. proc. pen. (intercettazione disposta in diverso procedimento) e la particolare ampiezza dei poteri riconosciuti dall’art.
507 al giudice del dibattimento, tale da comportare il superamento di eventuali preclusioni o decadenze
poste a carico della parte.
Da ciò deriva – secondo la Corte d’Assise d’Appello – l’assenza della lamentata contraddizione tra
l’ordinanza dichiarativa della inutilizzabilità (emessa il 6 maggio 2009) e quella acquisitiva della conversazione (emessa il 27 aprile 2010) data la diversità dei momenti procedimentali e la particolare rilevanza a fini del decidere dell’elemento acquisito.
2.2.2. A parere di questo Collegio la decisione impugnata non fa corretta applicazione delle norme
processuali e dei principi costituzionali incidenti sul tema.
Vanno premesse talune considerazioni di ordine generale sul rapporto esistente tra potere di «selezione» degli atti previsto in sede di esercizio dell’azione penale dall’art. 130 disp. att. c.p.p., diritto della
difesa a conoscere prima dell’inizio del processo la «base cognitiva» del futuro giudizio (artt. 415 bis co.
2, 416 co. 2 c.p.p. nonché art. 111 Cost. co. 2 nella parte in cui fa riferimento alla «condizione di parità»
tra le parti) e poteri del giudice in punto di completamento istruttorio ex officio (previsti dall’art. 507
c.p.p.).
Dette previsioni di legge, ordinaria e costituzionale, vanno interpretate in modo unitario e congiunto, non potendosi attribuire alla previsione eccezionale dell’art. 507 una efficacia sanante di condotte
determinanti un vero e proprio vizio del procedimento probatorio.
La decisione impugnata (in linea con quella di primo grado) opera infatti una impropria scissione
del procedimento probatorio dibattimentale in due fasi «non dialoganti» tra loro, finendo con ipotizzare l’esistenza di un «primo» procedimento introduttivo dei mezzi di prova ad opera delle parti – sottoposto a limiti e preclusioni – e di un «secondo» procedimento probatorio ex officio del tutto sganciato e
svincolato dagli eventuali vizi afferenti il primo.
Va invece ribadito che anche nell’esercizio del potere istruttorio «residuale» il giudice, pur potendo
scendere sul terreno della elaborazione astratta di una ipotesi ricostruttiva (a completamento dei temi
introdotti dalle parti) incontra anch’egli dei limiti che non sono esclusivamente correlati alla natura
dell’elemento di prova da assumere (una prova vietata in quanto tale) ma che possono essere correlati
anche alla non rimediabilità di un vizio determinatosi nella fase di iniziativa ad opera delle parti.
Il procedimento probatorio resta unitario, pur se si caratterizza in forme diverse di impulso.
E non vi è dubbio alcuno circa il fatto che il mancato deposito di un elemento acquisito (sia pur ritualmente) nel corso delle indagini preliminari e disponibile negli atti detenuti dal Pubblico Ministero,
ove lo stesso sia «riferibile» ai fatti oggetto di esercizio dell’azione penale, sia un vero e proprio «vizio»
sanzionato con l’inutilizzabilità del dato probatorio non depositato, stante la previsione inequivoca degli articoli 415 bis e 416 del codice (del resto espressione del principio costituzionale e sovranazionale di
parità delle armi) non attenuata né limitata dalla previsione integrativa dell’art. 130 disp. att. c.p.p.
Tale ultima norma, infatti, nel prevedere che «se gli atti di indagine preliminare riguardano più persone o più imputazioni, il pubblico ministero forma il fascicolo previsto dall’art. 416 inserendovi gli atti
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ivi indicati per la parte che si riferisce alle persone o alle imputazioni per cui viene esercitata l’azione
penale» non attribuisce, come è evidente, alcun potere discrezionale di selezione degli atti in questione,
semplicemente tutelando le esigenze di segretezza investigativa relative a persone o a fatti diversi da
quello per cui l’azione penale viene esercitata.
Ma l’obbligo di deposito di tutti gli atti relativi al «fatto» oggetto di esercizio dell’azione non è minimamente intaccato, potendosi tutelare (nell’ipotesi di atto complesso ed inscindibile) l’esigenza di segretezza investigativa con lo stralcio dell’atto medesimo e con l’apposizione da parte del Pubblico Ministero dei doverosi omissis sulle parti non divulgabili (in tal senso, tra le molte, Sez. I n. 18362 del
16.4.2002, rv. 221444).
Non appare un fuor d’opera, pertanto, ricordare che la Corte Costituzionale già nel 1991 (sentenza n.
145) posta di fronte a questione relativa all’ampiezza del deposito degli atti di indagine (allora previsto
esclusivamente dalla disposizione dell’art. 416 co. 2 c.p.p.) in rapporto alla effettività del diritto di difesa, affermava in modo netto che «detta norma pone a carico del p.m. l’obbligo di trasmettere al giudice
dell’udienza preliminare tutti gli atti attraverso cui l’indagine preliminare si è sviluppata e che concorrono a formare il fascicolo processuale nella sua interezza» e tale obbligo non può dirsi attenuato dalla
previsione dell’art. 130 disp. att. «dato che detta previsione non conferisce al p.m. un potere discrezionale ..dal momento che la separazione dei fascicoli viene dalla norma collegata non ad un potere di
scelta ma all’esigenza oggettiva di procedere alla separazione dei processi in relazione all’esistenza di
diversi imputati o di diverse imputazioni».
La piena conoscenza – una volta concluse le indagini – degli atti raccolti dal P.M. assume, nel vigente sistema processuale, una particolare valenza anche in rapporto alle scelte in punto di accesso ai riti
«collaborativi» ed in particolare al giudizio abbreviato, posto che conoscere gli elementi di sostegno
all’accusa (nella loro completezza) è condizione fondamentale al fine di orientare i poteri di richiesta.
Da ciò deriva, per costante orientamento di questa Corte, la conseguenza giuridica della inutilizzabilità dell’atto di indagine che, pur nella disponibilità «fisica» da parte del P.M. nel momento considerato
(chiusura delle indagini) e pur nella «riferibilità oggettiva» al tema della imputazione, sia stato sottratto
all’obbligo di deposito (tra le molte, Sez. I n. 10795 del 25.6.1999 rv. 214106; Sez. II n. 44422 del
15.10.2003, rv. 226346; Sez. VI n. 33435 del 4.5.2006, rv. 234335; Sez. V n. 21593 del 22.4.2009, rv. 243899)
non potendosi ritenere sussistente il vizio di nullità della richiesta di rinvio a giudizio in quanto tale.
Nelle decisioni sul tema, questa Corte ha più volte evidenziato che, in tal caso, il diritto di difesa è
assicurato dalla inutilizzabilità delle risultanze di cui il difensore non ha potuto prendere cognizione
per l’omesso deposito (con la sola eccezione, formulata da Sez. I n. 18362 del 16.4.2002, di elementi non
depositati ma in realtà favorevoli all’indagato, che si ritengono acquisibili anche successivamente, ai
sensi dell’art. 507 c.p.p.).
Viene così identificato un vero e proprio «vizio» dell’atto (esistente e pertinente, ma non depositato),
rapportato non già alle sue modalità di formazione (aspetto genetico) ma ad un fondamentale aspetto
funzionale (la necessità del suo rituale deposito) vizio da ritenersi non meno significativo di quelli
strutturali, perché incidente sulla «parità delle armi», principio direttamente evincibile dall’art. 6 della
Conv. Eur. dei Diritti dell’Uomo e tutelabile in sede sovranazionale (nella giurisprudenza Cedu si rimarca che tale principio è uno degli elementi che caratterizzano l’equità del processo, richiedendosi che
a ciascuna parte sia offerta una possibilità ragionevole di presentare la propria causa in condizioni che
non la pongano in una situazione di netto svantaggio rispetto alla parte avversa; tra le molte, Sez. II n.
36515 del 26.2.2002).
Dunque, il tema essenziale della decisione – non essendo stata negata dai giudici del merito
l’esistenza del vizio derivante dall’omesso deposito dell’atto, di certo ‘pertinente’ alla imputazione sollevata – diventa la pretesa «rimediabilità» della violazione attraverso l’esercizio del potere ex officio di
cui all’art. 507 c.p.p.
L’impugnata sentenza costruisce detto potere in modo non conforme ai dati normativi ed alle circostanze di fatto.
Non conforme ai dati normativi poiché l’art. 507 nella sua formulazione letterale fa riferimento alla
«novità» dei mezzi di prova da assumere, ma non certo intende per tale la riqualificazione di un elemento viziato.
Vero è che la novità può essere interpretata anche in senso meramente processuale (e da qui la possibile ammissione come testi di soggetti non indicati nella relativa lista, superando non già un vizio ma
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una semplice decadenza) ma si tratta essenzialmente di fonti nuove perché non ricomprese nel fascicolo
processuale, che vengono peraltro sottoposte ad esame incrociato in contraddittorio, non certo del recupero di un atto (peraltro ontologicamente irripetibile) già esistente nel medesimo fascicolo e non depositato.
Ed è qui che, in fatto, viene operato riferimento – in modo non condivisibile – da parte della Corte
d’Assise d’Appello alla previsione di legge di cui all’art. 270 c.p.p., intendendo l’intercettazione di cui si
tratta atto operato in «diverso» procedimento, tale da consentirne in ogni caso l’acquisizione.
Il riferimento è erroneo perché se è vero che questa Corte di legittimità ha ritenuto utilizzabile, al fine di acquisire intercettazioni di diverso procedimento, la «sede» dell’esercizio dei poteri d’ufficio ex
art. 507 (da ultimo Sez. I n. 22053 del 27.2.2013, rv. 256077) ciò presuppone, appunto, l’alterità del procedimento, il che svincola il procedimento acquisitivo dall’obbligo del previo deposito degli atti (in tal
senso anche Sez. VI n. 30966 del 16.5.2002, rv. 222574).
Nel caso in esame il procedimento è lo stesso, sia ove lo si voglia intendere come «contenitore» sia
ove lo si intenda, più propriamente, come rapporto tra il mezzo istruttorio ed il fatto per cui si procede
(si veda, sul punto, Sez. II n. 3253 del 10.10.2013, rv. 258951, ove si è ribadito che la nozione di identico
procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione previsto dall’art. 270, può prescindere da elementi formali come il numero di iscrizione nel registro delle notizie di reato ed impone una
valutazione sostanziale, con la conseguenza che il procedimento è considerato identico quando tra il
contenuto dell’originaria notizia di reato, alla base dell’autorizzazione, e quello dei reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico).
Dunque non poteva ritenersi «acquisibile» ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen. la conversazione telefonica di cui si sta parlando, attesa la sua natura di elemento viziato non già sotto il profilo genetico
(decreto autorizzatorio), ma sotto il profilo funzionale (omesso deposito, da ritenersi dovuto, in quanto
atto del medesimo procedimento).
È significativo, sul punto, che il precedente citato dalla Corte di Assise d’Appello a sostegno della
acquisizione (Sez. I n. 5364 del 13.2.1997, rv. 207815) che questo Collegio non ignora, sia antecedente alla modifica costituzionale dell’art. 111 (adottata con l. cost. n. 2 del 23.11.1999) e risulta ribadito, nelle
successive decisioni, solo in un caso (tra le decisioni massimate, da Sez. V n. 27370 del 23.2.2005, rv.
231730).
Si tratta di interpretazione non condivisibile perché basata su valorizzazioni esclusivamente finalistiche del dato normativo (natura sostanziale dell’art. 507, norma diretta alla ricerca della verità) che,
pur cogliendo un aspetto reale della intenzione del legislatore (in virtù della indisponibilità per le parti
dell’oggetto del processo) non risultano, per il vero, idonee a superare – lo si ribadisce – un vizio
dell’atto e non semplicemente una decadenza in cui sia incorsa la parte.
Non è infatti comparabile, è bene chiarirlo, il tema qui trattato (recupero cognitivo dell’atto esistente
ma non depositato) con l’ammissione di prove testimoniali da cui la parte sia decaduta (tema storicamente oggetto di ampie dispute dottrinali e giurisprudenziali sull’ampiezza applicativa dell’art. 507 su
cui, di recente, Sez. Un. 41281 del 2006) posto che nella seconda ipotesi non vi è dubbio che si tratta di
una prova (la testimonianza) derivante da atti di indagine ritualmente depositati e portati a conoscenza
dell’imputato.
In tal caso il potere di ‘supplenza’ ai sensi dell’art. 507 riguarda esclusivamente la possibilità di porre rimedio alla omessa indicazione in lista (dunque ad una decadenza) ma non vi è dubbio che lo stesso
si pone come strumento di fattibilità del processo e si pone a ‘cavallo’ tra un atto legittimo (in quanto
depositato) e un successivo atto parimenti legittimo (l’assunzione della prova orale nel contraddittorio)
il che è cosa ben diversa dal pretendere il recupero di un atto di per sé viziato (perché non depositato) e
non ripetibile in dibattimento (come è una intercettazione telefonica).
A tali considerazioni, che possono così riassumersi:
– l’esercizio del potere istruttorio ex officio di cui all’art. 507 cod. proc. pen. non può ritenersi consentito al fine di recuperare al fascicolo per il dibattimento un atto ontologicamente irripetibile del medesimo procedimento dichiarato inutilizzabile in virtù del suo omesso deposito ai sensi degli artt. 415
bis e 416 cod. proc. pen.;
vanno aggiunti altri rilievi relativi alla specifica consistenza dell’atto.
Qui, infatti, è legittimo nutrire dubbi sulla stessa ritualità della intercettazione intercorsa tra il C. e la
L., non già in rapporto alla mancanza di autorizzazione alla esecuzione delle operazioni, quanto in ra AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | POTERE ISTRUTTORIO D’UFFICIO DEL GIUDICE E PROVE INUTILIZZABILI
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gione della «consapevolezza» (correttamente dichiarata) da parte del ‘chiamante’ C. della esistenza della captazione in corso, unita alla qualità di soggetto investigante rivestita dal C. medesimo.
In tal caso, infatti, finisce con il venire meno uno dei presupposti della nozione stessa di «intercettazione», rappresentato dalla inconsapevolezza dell’ascolto da parte di entrambi i soggetti colloquianti,
cui si aggiunge – in chiave ulteriormente problematica – la qualità di soggetto investigante del chiamante (si veda Sez. Un. 36747 del 28.5.2003, ric. Torcasio ove si afferma che l’intercettazione ‘rituale’
consiste nell’apprensione occulta, in tempo reale, del contenuto di una conversazione o di una comunicazione in corso tra due o più persone da parte di altri soggetti, estranei al colloquio, precisando ulteriormente che l’intercettazione di comunicazioni interprivate richiede, quindi, perché sia qualificata tale, una serie di requisiti, tra cui quello per cui i soggetti devono comunicare tra loro col preciso intento
di escludere estranei dal contenuto della comunicazione e secondo modalità tali da tenere quest’ultima
segreta).
L’intento della segretezza, nel caso in esame, era ben coltivato dalla L., ma non altrettanto dal colloquiante C., il che porterebbe ad assimilare l’atto in questione – al di là della esistenza materiale della
traccia fonica – più ad una informazione confidenziale ricevuta dall’ufficiale di p.g. ai sensi dell’art. 203
cod. proc. pen. che ad una sorta di «dichiarazione spontanea» (come invece ritenuto dalla Corte di Assise d’Appello).
In ogni caso, rilievo assorbente ha l’accoglimento del (primo) motivo di ricorso relativo alla impossibilità di acquisire l’atto (al di là della sua formale qualificazione) ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen.,
per le suddette ragioni.
È evidente, inoltre, che l’annullamento con rinvio della decisione impugnata consente, ai sensi
dell’art. 185 cod. proc. pen., la nuova assunzione della fonte primaria, rappresentata dalla teste L.
[omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | POTERE ISTRUTTORIO D’UFFICIO DEL GIUDICE E PROVE INUTILIZZABILI
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IRENE GUERINI
Dottore di ricerca in Giustizia penale ed internazionale Università degli Studi di Pavia
L’iniziativa probatoria del giudice nel processo penale
accusatorio: la Cassazione definisce i limiti all’esercizio del
“potere di completamento istruttorio” di cui all’art. 507 c.p.p.
The Judge’s power to complete the investigations
in the adversary criminal trial
La Suprema Corte censura la deriva applicativa di cui alla sentenza di merito e ribadisce i limiti insuperabili
all’esercizio del potere di completamento istruttorio che l’art. 507 c.p.p. assegna al giudice. In particolare, non sarà
possibile disporre d’ufficio l’acquisizione al fascicolo del dibattimento di una prova già dichiarata inutilizzabile a seguito del suo omesso deposito in sede di conclusione delle indagini preliminari.
The Supreme Court complaints the result of application of the judgment and confirms the insuperable limits that
the Judge has to respect to complete the investigations, allowed by the Art. 507 C.p.p.. In particular, the Judge
cannot dispose the official acquisition of evidences already declared “unusable” as a result of failed deposit at the
end of the preliminary investigation.
PREMESSA: POTERE DI SELEZIONE DEGLI ATTI DA PARTE DEL PUBBLICO MINISTERO, INUTILIZZABILITÀ ED
INIZIATIVA PROBATORIA D’UFFICIO DEL GIUDICE
La sentenza in commento offre interessanti spunti di riflessione in ordine ai rapporti tra diritto alla
prova in capo alle parti e spazi di intervento d’ufficio riservati al giudice. Si interroga la Cassazione, infatti, su quali siano i limiti dell’esercizio del potere di completamento istruttorio attribuito al giudice
dall’art. 507 c.p.p., soprattutto a fronte di lacune nell’impianto accusatorio emerse all’esito dell’istruttoria dibattimentale, a seguito di intervenuta declaratoria di inutilizzabilità. La questione, nel caso di
specie, trae origine dalla gestione delle risultanze d’indagine compiuta in conclusione della fase procedimentale. Svolta una prima prognosi sulla fondatezza dell’accusa, il pubblico ministero fa notificare
alla persona sottoposta alle indagini ed al suo difensore l’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. Il predetto
avviso deve contenere, tra l’altro, per espressa previsione normativa, «l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria del pubblico ministero e che
l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione ed estrarne copia». Ai sensi dell’art. 130
disp. att. c.p.p., inoltre, il pubblico ministero seleziona il materiale da inserire nel fascicolo che deve essere trasmesso unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio. Due le esigenze che devono essere contemperate: da un lato, la tutela della segretezza delle indagini che non hanno diretta attinenza con
l’esercizio dell’azione penale nel caso concreto; dall’altro lato, la necessità di consentire alla difesa di
confrontarsi con la documentazione di tutte le indagini svolte nei confronti del proprio assistito, per poter operare una scelta processuale consapevole 1.
1
Il diritto alla discovery costituisce una cifra essenziale del giusto processo, tanto nella prospettiva convenzionale quanto nella prospettiva costituzionale. A livello sovranazionale, la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha infatti chiarito che l’art. 6 Cedu,
per quanto non ne faccia espressa menzione, garantisce implicitamente e quale corollario dei principi del contraddittorio e della
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INIZIATIVA PROBATORIA DEL GIUDICE NEL PROCESSO PENALE ACCUSATORIO
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I problemi maggiori si riscontrano in tutti i casi in cui (come in quello di specie), in un primo momento sia dichiarata l’inutilizzabilità di alcuni atti (pertanto esclusi dal compendio probatorio a disposizione del giudice); successivamente, in fase conclusiva dell’istruttoria, gli stessi atti siano acquisiti al
fascicolo dibattimentale ex art. 507 c.p.p. 2. Ed allora risulta fondamentale definire quali siano i confini
dell’intervento giudiziale d’ufficio: non soltanto in funzione di supplenza rispetto ad eventuali carenze
dell’impianto accusatorio 3; ma anche in chiave autonoma, quale presupposto indispensabile alla pronuncia di una sentenza nel merito.
IL CASO
Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte sono stati rinviati a giudizio, coimputati in un
medesimo procedimento per reati tra loro connessi, due soggetti rispettivamente accusati: di omicidio
volontario premeditato, detenzione e porto abusivo d’arma, occultamento di cadavere, l’uno; di favoreggiamento, l’altro. La problematica che interessa sotto il profilo processuale concerne l’utilizzabilità
del contenuto di una telefonata intercorsa tra un agente della polizia giudiziaria ed una interlocutrice,
poi esaminata come testimone nell’istruttoria dibattimentale. La comunicazione telefonica era stata intercettata nel corso di indagini preliminari riguardanti fatti diversi e non era stata depositata nel procedimento ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p. Più nel dettaglio, è stato accertato che l’operatore della polizia
giudiziaria, che stava svolgendo le indagini sull’omicidio, consapevole del fatto che l’utenza era sotto
controllo, contattava la (futura) testimone la quale, nel corso della telefonata, gli riferiva il contenuto di
dichiarazioni apprese da uno dei due coimputati 4.
Tale attività di captazione si presta a molteplici rilievi critici, con riguardo alle modalità con le quali
è stata eseguita ed alla qualificazione attribuita alla prova così ottenuta, oltre che all’articolato iter tramite il quale è, infine, entrata a far parte del patrimonio cognitivo del giudice di primo grado.
Sotto il primo profilo, dubbi sulla esatta natura di questo atto di indagine sono inevitabili, a fronte
della non univoca soluzione adottata nei giudizi di merito. In particolare, il giudice di prime cure ha
considerato la captazione telefonica come una vera e propria “intercettazione”, nominando un perito
per la sua trascrizione. Non è emersa in modo altrettanto chiaro la posizione assunta dal giudice di secondo grado sul punto. Da un lato, la sentenza della Corte d’assise d’appello, ha compiuto un errore
nella ricostruzione dei fatti (assumendo che sia stata la testimone a contattare l’agente della polizia giudiziaria) 5 ed ha configurato una ipotesi di “spontanee dichiarazioni”. Dall’altro lato, i giudici di secondo grado hanno richiamato l’applicabilità dell’art. 270 c.p.p. in tema di intercettazioni disposte in diverso procedimento. Nessuna di queste ricostruzioni pare convincente, posto che le peculiari modalità di
parità delle armi tra le parti, il diritto dell’imputato di prendere conoscenza delle osservazioni e degli elementi prodotti dalle
altre parti. Tanto è vero che, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, vi è un onere per il pubblico ministero di comunicare alla
difesa tutte le prove in suo possesso, a carico e a discarico dell’imputato. Così Corte e.d.u., 28 agosto 1991, Brandstetter c. Austria; nonché Corte e.d.u., 9 maggio 2003, Papageorgiou c. Grecia. In dottrina, per approfondimenti, si rinvia ad Allegrezza, La
conoscenza degli atti nel processo penale fra ordinamento interno e convenzione europea, in AA.VV., Giurisprudenza europea e processo
penale italiano, Torino, 2008, p. 142 ss.
2
Per un inquadramento generale dell’istituto si rinvia a Manzione, sub artt. 506-507, in Chiavario (a cura di), Commento al
nuovo codice di procedura penale, V, Torino, 1991, p. 377 ss.; nonché Corbetta, sub art. 507, in Giarda-Spangher (a cura di), Codice di
procedura penale commentato, Milano, 2011, p. 6465 ss.
3
L’esempio più diffuso in giurisprudenza riguarda l’omesso o tardivo deposito delle liste testimoniali da parte del pubblico
ministero. Sul punto, è stato a più riprese ribadito che, tanto nel caso di prove mai richieste dalla parte, quanto nel caso di prove
richieste fuori termine, il giudice ha il potere di disporne l’acquisizione d’ufficio ex art. 507 c.p.p.; così, da ultimo, Cass., sez. V,
20 febbraio 2010, n. 15325, in Arch. n. proc. pen., 2011, p. 354.
4
Le dichiarazioni de relato riportate dalla testimone nel corso della telefonata si rivelavano, all’esito del giudizio di merito,
essenziali ai fini della pronuncia di condanna nei confronti di entrambi gli imputati. Sul punto si sofferma anche la Suprema
Corte, che evidenzia come tali elementi dimostrativi hanno inciso in misura obiettiva sulla ricostruzione logica del fatto, ampiamente indiziaria. Tanto che l’impianto motivazionale della sentenza di secondo grado, privato delle prove di cui si eccepisce
l’illegittima acquisizione, non supera la prova di resistenza e determina, in parte qua, l’annullamento con rinvio.
5
Era, infatti, emerso sia dall’esame dell’agente di polizia giudiziaria, sia dalla stessa trascrizione della telefonata che fu il
soggetto inquirente (consapevole, lo ricordiamo, che l’utenza telefonica della testimone era sottoposta ad intercettazione) a contattare la teste e non, come affermato nella sentenza di secondo grado, viceversa.
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svolgimento dell’attività di indagine ne impediscono l’assimilazione a categorie probatorie tipiche 6.
Tanto è vero che la stessa Suprema Corte, nella sentenza in commento, pone in evidenza che «è legittimo nutrire dubbi sulla stessa ritualità dell’intercettazione […] non già in rapporto alla mancanza di autorizzazione alla esecuzione delle operazioni, quanto in ragione della consapevolezza (correttamente
dichiarata) da parte del chiamante […] della esistenza della captazione in corso, unita alla qualità di
soggetto investigante rivestita dal […] medesimo» 7. Tesi della Cassazione è che più che di una intercettazione si tratti, nel caso di specie, di una informazione confidenziale ex art. 203 c.p.p. La questione, tuttavia, non viene ulteriormente approfondita, sulla scorta del rilievo – ritenuto assorbente – dell’impossibilità di acquisire l’atto ai sensi dell’art. 507 c.p.p.
In relazione alla seconda problematica, entrambe le Corti di merito sostengono che il potere probatorio d’ufficio del giudice consente l’acquisizione di prove già dichiarate inutilizzabili perché non tempestivamente depositate. La soluzione prospettata muove da un (indebito) superamento del dato normativo e presuppone l’articolazione del procedimento probatorio dibattimentale in due fasi. La prima
fase, introduttiva dei mezzi di prova, consta della presentazione (ex art. 493 c.p.p.) delle richieste di
prova ad opera delle parti e si svolge subito dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento. La seconda fase è eventuale, comporta l’esercizio di un potere probatorio d’ufficio in capo al giudice ed, ai
sensi dell’art. 507 c.p.p., «può» incardinarsi «terminata l’acquisizione delle prove». Queste due fasi, secondo la lettura offerta dai giudici di merito, sarebbero tra loro distinte ed autonome; pertanto, i vizi
eventualmente maturati nella prima fase, potrebbero essere “sanati” nella seconda 8. Su questa premessa, la conversazione telefonica – dichiarata inutilizzabile prima dell’apertura del dibattimento perché
non depositata ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p. – veniva – in conclusione dell’istruttoria – acquisita (ed
utilizzata) dal giudice ex art. 507 c.p.p.
Nello specifico, prima dell’apertura del dibattimento, la Corte d’assise dichiarava l’inutilizzabilità
della nota spese relativa all’attività di intercettazione sull’utenza telefonica della testimone. La sanzione
coinvolgeva, in via indiretta, il contenuto della conversazione intercettata cui la nota spese faceva riferimento 9. Successivamente, all’esito dell’istruttoria dibattimentale e dopo aver esaminato in contraddittorio, entrambi gli interlocutori della telefonata registrata, la Corte d’assise disponeva l’acquisizione del
supporto relativo alla conversazione telefonica e la sua trascrizione da parte di un perito. È opportuno
6
Quanto alla natura di intercettazione, è utile ricordare che, in assenza di una definizione legislativa espressa, la giurisprudenza di legittimità ha qualificato come tale l’attività di captazione occulta e contestuale di una comunicazione o conversazione
tra due o più soggetti che agiscano con l’intenzione di escludere altri e con modalità oggettivamente idonee allo scopo, attuata
da un soggetto estraneo alla stessa mediante strumenti tecnici di percezione tali da vanificare le cautele ordinariamente poste a
protezione del suo carattere riservato; così nello specifico Cass., sez. un., 28 maggio 2003, n. 36747, in Cass. pen., 2004, p. 2094,
con nota di Filippi, Le sezioni unite decretano la morte dell’agente segreto «attrezzato per il suono». Rileva nel caso concreto, in senso
contrario alla qualificazione come “intercettazione”, la consapevolezza da parte di uno dei due interlocutori che l’utenza intestata all’altro interlocutore era “sotto ascolto”.
Quanto alla configurabilità, nel caso di specie, di una dichiarazione spontanea ai sensi dell’art. 351 c.p.p., ostano in fatto sia
l’assenza di una verbalizzazione, sia l’assenza di spontaneità, posto che era stato il Maresciallo inquirente a contattare la testimone.
7
Così la sentenza in commento, in motivazione, p. 20.
8
Tale impostazione interpretativa trova fondamento in una lettura estensiva del potere di completamento istruttorio del
giudice che, proprio perché funzionale a consentire la ricerca della verità, consente non soltanto di recuperare prove omesse o
tardive ma anche di “sanare” una inutilizzabilità già dichiarata. Non è dato conoscere più nel dettaglio l’argomentazione fornita
dalle Corti di merito, riletta in chiave critica dalla Cassazione nella sentenza in commento. Tuttavia, ben avrebbe potuto essere
valorizzato, quale limite al potere di integrazione probatoria d’ufficio, il tipo di vizio determinante la sanzione di inutilizzabilità. Se, infatti, deve ritenersi pacifico che nel caso in cui l’atto di indagine sia affetto da un vizio genetico nessun meccanismo
probatorio può consentire il superamento della sanzione, viceversa, nell’ipotesi in cui si tratti di un vizio funzionale potrebbero
ravvisarsi degli spazi di “sanatoria” processuale.
9
Nel dettaglio, quando risultò in atti la nota spese relativa alla predetta intercettazione, le difese degli imputati eccepivano
la nullità della richiesta di rinvio a giudizio (ed in via derivata del decreto che dispone il giudizio) per violazione del diritto di
difesa. Il pubblico ministero, per contro, rappresentava come l’originario fascicolo di indagini aveva avuto ad oggetto anche fatti delittuosi diversi, in relazione ai quali era giustificata la scelta di operare una discovery parziale delle risultanze di indagine. La
Corte d’assise rigettava la questione di nullità e, pur confermando l’esistenza di un potere di selezione degli atti in capo al pubblico ministero, dichiarava inutilizzabili nel processo in corso tutti gli atti non depositati. Nella parte motiva dell’ordinanza, il
giudice di merito sosteneva che la dichiarata inutilizzabilità degli atti non trasmessi – comportando l’estromissione dal fascicolo
processuale delle note spese relative alle intercettazioni non depositate – tutelava sufficientemente i diritti della difesa.
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rilevare che nell’esame dibattimentale la testimone non aveva fatto alcun riferimento a confidenze ricevute da uno dei due imputati, né tali informazioni erano mai state verbalizzate in fase di indagini (in
caso contrario, ben avrebbe potuto il pubblico ministero operare una contestazione durante l’esame dibattimentale). Valorizzando il “potere di completamento istruttorio” di cui all’art. 507 c.p.p., il contenuto della conversazione telefonica entrava così a pieno titolo nel compendio probatorio a fondamento
della sentenza di condanna. Concordava con una lettura in chiave estensiva dei poteri probatori
d’ufficio del giudice la Corte d’assise d’appello. In particolare, la sentenza di secondo grado superava il
contrasto tra le due ordinanze adottate dalla Corte di primo grado (quella dichiarativa di inutilizzabilità e quella successiva di acquisizione) evidenziando che i due provvedimenti intervenivano in momenti
procedimentali diversi. Inoltre, veniva posto l’accento sulla assoluta necessità della prova ai fini del decidere 10.
Avverso la sentenza di secondo grado presentano ricorso per Cassazione i difensori degli imputati,
rilevando, tra gli altri, due vizi di legittimità che concernono la corretta applicazione della legge processuale. Da un lato, viene dedotta, ex artt. 178 lett. c e 191 c.p.p., la violazione del diritto di difesa; la questione, particolarmente articolata, coinvolge due tematiche di rilievo, tra loro strettamente connesse: la
sanzione processuale applicabile in caso di omesso deposito di atti di indagine; la possibilità di recuperare prove già dichiarate inutilizzabili tramite il meccanismo di cui all’art. 507 c.p.p. Dall’altro lato, le
difese dei ricorrenti eccepiscono l’inutilizzabilità dell’intercettazione telefonica per violazione degli artt.
195 e 526 c.p.p.
CONCLUSIONE DELLE INDAGINI PRELIMINARI, DISCOVERY E SANZIONE PROCESSUALE IN CASO DI OMESSO
DEPOSITO
Nella struttura del processo penale (soprattutto dopo le significative novità introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479), la fase che si apre con la conclusione delle indagini e prosegue con lo svolgimento
dell’udienza preliminare riveste un ruolo cardine sotto molteplici punti prospettici. Due i momenti centrali: la redazione e notificazione dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p. 11; la celebrazione dell’udienza
preliminare 12. In questo quadro, l’integrale discovery delle attività di indagine è necessaria, nella prospettiva difensiva, ad una scelta processuale consapevole. Al contempo, la trasmissione di tutti gli atti è
funzionale al corretto esercizio della giurisdizione, garantendo un effettivo controllo da parte del giudice dell’udienza preliminare circa la idoneità dell’accusa ad essere coltivata utilmente in dibattimento 13.
Ne deriva, processualmente, un duplice onere in capo al pubblico ministero: consentire alle parti private 14 l’accesso alla documentazione relativa alle indagini svolte (art. 415-bis, comma 2, c.p.p.); trasmettere
al giudice per l’udienza preliminare, unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, la documentazione
relativa alle indagini espletate (art. 416, comma 2, c.p.p.) 15.
10
La sentenza di secondo grado evidenzia espressamente la «pregnante valenza dimostrativa» della conversazione intercettata, come risulta dalla sentenza in commento, in motivazione.
11
Per i fini che qui rilevano, l’avviso di conclusione delle indagini realizza il diritto ad essere informati dell’accusa a proprio
carico di cui all’art. 111, comma 3, Cost. ed all’art. 6 Cedu, valorizza il ruolo difensivo in fase di indagini, soprattutto tramite
l’instaurazione di un preliminare contraddittorio con il pubblico ministero volto a prevenire l’esercizio dell’azione penale ed
assicura la completezza delle indagini (anche) funzionale ad incentivare la definizione del procedimento nella forma del giudizio abbreviato. Per maggiori approfondimenti, Bene, sub art. 415 bis, in Giarda-Spangher (a cura di), Codice di procedura penale
commentato, Milano, 2011, p. 5180 ss.
12
L’udienza preliminare diventa, soprattutto dopo il 1999, momento centrale di esercizio della giurisdizione nel quale il
giudice è chiamato ad una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa in chiave di prognosi circa le possibilità di successo nella fase dibattimentale. Si veda, nello specifico, Scalfati, L’udienza preliminare. Profili di una disciplina in trasformazione, Padova, 1999.
13
Sul punto, Todaro, Fascicolo delle indagini, udienza preliminare, diritto di difesa, in Cass. pen., 2009, p. 4224 ss.
14
Solo per completezza, si evidenzia che, a seguito della modifica introdotta con l. 15 ottobre 2013, n. 119, la notifica
dell’avviso di conclusione delle indagini, quando si procede per i reati di cui agli artt. 572 e 612 bis c.p., deve essere disposta anche nei confronti della persona offesa dal reato.
15
Come precisato da Caprioli, Nuovi epiloghi della fase investigativa: procedimenti contro ignoti e avviso di conclusione delle indagini preliminari, in Peroni (a cura di), Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Padova, 2000, p. 276, nonostante la diversa
formulazione letterale, la portata applicativa della discovery deve considerarsi identica sia per quanto concerne l’avviso di conclusione delle indagini, sia per quanto riguarda la richiesta di rinvio a giudizio.
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Il portato applicativo degli obblighi di deposito e di allegazione deve essere coordinato con le disposizioni che regolano la formazione del fascicolo trasmesso dal pubblico ministero con la richiesta di rinvio a giudizio ed, in particolare, con il criterio (normativo) di pertinenza rispetto al fatto storico oggetto
dell’accusa 16. Si legge, infatti, nella giurisprudenza di legittimità che le disposizioni di cui agli artt. 416,
comma 2, c.p.p. e 130 disp. att. «attribuiscono in via esclusiva al potere delibativo dell’organo dell’accusa il compito di individuare e allegare quegli atti che attengono strettamente ai soggetti ed all’oggetto del rinvio a giudizio, con la conseguenza che non può ipotizzarsi a carico dello stesso pubblico ministero alcun obbligo di allegazione di atti che riguardino persone estranee a tale oggetto ovvero
afferenti a indagini diverse o ancora in corso di sviluppo» 17. Tuttavia, l’art. 130 disp. att. c.p.p. precisa
che «il pubblico ministero forma il fascicolo previsto dall’art. 416 comma 2 del codice, inserendovi gli
atti ivi indicati per la parte che si riferisce alle persone o alle imputazioni per cui viene esercitata
l’azione penale». Il potere di selezione attribuito al pubblico ministero, funzionale a garantire la segretezza delle indagini, non si traduce, pertanto, nell’attribuzione all’organo dell’accusa di una discrezionalità tout court nella individuazione degli atti da depositare e di quelli da mantenere segreti 18. Come
chiarito anche dalla Corte Costituzionale, l’art. 130 disp. att. c.p.p. «non conferisce allo stesso p.m. un
potere discrezionale in ordine alla formazione del fascicolo da trasmettere al giudice dell’udienza preliminare, dal momento che la separazione dei fascicoli viene dalla norma collegata non ad un potere di
scelta del p.m., ma all’esigenza oggettiva di procedere alla separazione dei processi in relazione all’esistenza di diversi imputati o di diverse imputazioni» 19.
Resta da determinare quale sia la sanzione processuale in caso di accertata violazione vuoi dell’art.
415-bis, comma 2, vuoi dell’art. 416, comma 2, c.p.p. Con una preventiva precisazione. Il mancato tempestivo deposito dell’atto integra non già un vizio genetico-strutturale quanto un vizio di natura funzionale, rilevante soprattutto con riferimento alla possibile violazione di due principi di rango costituzionale: la parità delle armi tra le parti e l’effettivo e consapevole esercizio del diritto di difesa 20.
L’orientamento maggioritario in giurisprudenza si è espresso nel senso della inutilizzabilità degli atti di indagine non depositati 21; questa peraltro è la tesi fatta propria anche dalla Cassazione nella sen-
16
In giurisprudenza si parla di «riferibilità oggettiva» al tema dell’imputazione; così, tra le altre, Cass., sez. I, 25 giugno 1999,
n. 10795, in Cass. pen., 2000, p. 1994; Cass., sez. III, 15 ottobre 2003, n. 44422, ivi, 2004, p. 4094; Cass., sez. VI, 4 maggio 2006, n.
33435, ivi, 2006, p. 3578; Cass., sez. V, 22 aprile 2009, n. 21593, ivi, 2010, p. 2796; tutte nel senso dell’inutilizzabilità dell’atto di
indagine non depositato.
17
Così espressamente Cass., sez. VI, 17 aprile 2003, n. 33067, in Cass. pen., 2005, p. 2040.
18
In dottrina, in favore di una interpretazione rigorosa dell’art. 130 disp. att., Scalfati, L’udienza preliminare, cit., p. 29, evidenzia che dalla completezza del materiale a disposizione dipende la qualità del controllo del giudice per l’udienza preliminare,
oltre che l’efficacia dell’azione di contrasto difensiva. In senso adesivo, Allegrezza, La conoscenza, cit., 154, consiglia di privilegiare il vincolo di pertinenza con la notizia di reato per obbligare l’accusa ad un deposito quanto più completo possibile.
19
Così espressamente C. cost., 20 marzo 1991, n. 145, in Cass. pen., 1991, II, p. 468 che, investita della questione di legittimità
costituzionale dell’art. 416, comma 2, c.p.p., nella parte in cui non prevede l’obbligo per il pubblico ministero di trasmettere al
giudice per l’udienza preliminare l’intero fascicolo, ha fornito l’esatta definizione del contenuto e dei limiti al potere di selezione
degli atti. Conformi C. cost., 13 maggio 1991, n. 273; nonché l’orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità.
Tra le altre, Cass., sez. I, 10 novembre 1999, n. 14588, in CED Cass. n. 216204.
20
Della correlazione tra questi due principi, peraltro, si trova significativa testimonianza nella giurisprudenza sovranazionale, laddove rimarca che la parità delle armi prevista nell’art. 6 Convenzione Europea è uno degli elementi che caratterizzano
l’equità del processo, richiedendosi che a ciascuna parte sia offerta una possibilità ragionevole di presentare la propria causa in
condizioni che non la pongano in una situazione di netto svantaggio rispetto alla parte avversa; così tra le altre Corte e.d.u., 12
aprile 2007, Martelli c. Italia. L’accesso al fascicolo del pubblico ministero prima del dibattimento, secondo la giurisprudenza di
Strasburgo, consente di compensare l’eventuale situazione di svantaggio nella quale l’imputato potrebbe trovarsi in conseguenza del fatto che le indagini sono effettuate dal rappresentante della pubblica accusa; Corte e.d.u., 12 febbraio 2004, De Lorenzo c.
Italia. Infine, sempre la Corte Europea ha altresì precisato che l’indisponibilità di un elemento di prova non è necessariamente
indicativa di un disequilibrio delle armi, a condizione che essa tocchi allo stesso modo accusa e difesa e che quest’ultima abbia
avuto la possibilità di contro-dedurre sugli elementi a carico acquisiti agli atti; Corte e.d.u., 4 marzo 2003, Sofri ed a. c. Italia.
21
Così, in particolare, Cass., sez. I, 15 gennaio 2010, n. 19511, in Cass. pen., 2012, p. 1468, ha da ultimo ribadito che «il mancato deposito, unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, di parte della documentazione relativa alle indagini espletate […] non
è causa di nullità della richiesta stessa, ma comporta soltanto l’inutilizzabilità, ai fini del rinvio, degli atti non trasmessi». Tra le
altre: Cass., sez. II, 3 aprile 2007, n. 15532, in Guida dir., 2007, 21, p. 87; Cass., sez. I, 9 marzo 2004, n. 21376, in Cass. pen., 2005, p.
2691; Cass., sez. VI, 17 aprile 2003, n. 33067, ivi, 2005, p. 2040; Cass., sez. I, 6 maggio 2002, n. 28861, in Guida dir., 2002, 42, p. 77.
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tenza in commento 22. La sanzione coinvolge tutti quegli atti che, trovandosi nella disponibilità del pubblico ministero nel momento di chiusura delle indagini preliminari ed essendo oggettivamente riferibili
al tema dell’imputazione, non siano stati depositati. Tale soluzione interpretativa non è esente da problemi applicativi derivanti: in generale, dalla mancanza di un canone legale di individuazione dei divieti probatori 23; nello specifico, dall’assenza di divieti probatori espressi (silenti sul punto sono entrambe le disposizioni normative citate) e dalla difficoltà di ricavare divieti probatori in via indiretta 24.
Vero è che, seguendo quella impostazione dottrinale che individua la fonte della sanzione processuale
nell’applicazione di un criterio sostanzialistico-teleologico 25, le regole processuali espresse negli artt.
415-bis, comma 2, e 416, comma 2, c.p.p. sono poste a tutela, tra gli altri, del diritto di difesa 26. Ed allora:
se le norme che stabiliscono l’obbligo per il pubblico ministero di depositare tutti gli atti di indagine relativi all’ipotesi accusatoria sono poste a tutela dell’effettivo esercizio del diritto di difesa, la loro violazione – anche se non espressamente sanzionata – deve integrare una ipotesi di inutilizzabilità.
Residuano dubbi, in dottrina, circa l’adeguatezza della sanzione. In particolare, con riguardo alla discovery nell’udienza preliminare, è stato evidenziato un apparente paradosso: l’inutilizzabilità presuppone una prova viziata che non dovrebbe entrare nel processo; l’obbligo di deposito degli atti, per contro, è finalizzato ad assicurare la trasmissione di tutti gli atti investigativi 27. La contraddizione è facilmente superabile se si legge la sanzione non in chiave positiva (di esclusione della prova illegittima che
sia già entrata) bensì in chiave negativa (di ostacolo all’ingresso della prova che, proprio perché omessa, diventa illegittima). Resta, tuttavia, una apparente discrasia tra lo scopo della norma processuale
(garantire una discovery completa e tempestiva) ed il risultato prodotto dall’applicazione della sanzione
(definitiva esclusione del materiale probatorio non tempestivamente depositato).
L’incongruenza diviene ancora più spinosa nel caso in cui l’omesso deposito riguardi atti di indagine a contenuto favorevole per l’imputato. In questa specifica ipotesi, infatti, la sanzione di inutilizzabilità si rivela in netto contrasto anche con la garanzia di effettivo esercizio del diritto di difesa che le disposizioni normative di cui agli artt. 415-bis e 416 c.p.p. si prefiggono di tutelare. Ed, infatti, il mancato
deposito di un atto di indagine lede il diritto (non solo a conoscere tempestivamente, ma anche) a poter
22
Secondo la Suprema Corte, infatti, non vi è alcun dubbio «circa il fatto che il mancato deposito di un elemento acquisito
(sia pure ritualmente) nel corso delle indagini preliminari e disponibile negli atti detenuti dal Pubblico Ministero, ove lo stesso
sia “riferibile” ai fatti oggetto di esercizio dell’azione penale, sia un vero e proprio “vizio” sanzionato con l’inutilizzabilità del
dato probatorio non depositato, stante la previsione inequivoca degli artt. 415 bis e 416 del codice (del resto espressione del
principio costituzionale e sovranazionale di parità delle armi) non attenuata né limitata dalla previsione integrativa dell’art. 130
disp. att. c.p.p.»; così la sentenza in commento, in motivazione.
23
La categoria dell’inutilizzabilità è strettamente correlata alla esatta individuazione dei casi di divieto probatorio. Infatti,
non c’è inutilizzabilità in mancanza di divieto probatorio ed, in parallelo, ogni divieto probatorio configura una ipotesi di inutilizzabilità. In mancanza di un canone legale di riconoscimento dei divieti probatori, la lacuna deve essere colmata attraverso
l’interpretazione; così Nappi, sub art. 191 c.p.p., in Lattanzi-Lupo (a cura di), Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza
e dottrina, Milano, 2008, p. 618 s.
24
Il richiamo è alla distinzione tra divieti probatori espressi (quando la norma processuale non lascia spazio a dubbi) e divieti probatori indiretti (nei casi in cui i presupposti o limiti alla utilizzabilità di un dato elemento conoscitivo si ricavano
dall’interpretazione della lettera della legge). Per maggiori approfondimenti, Grifantini, Il segreto difensivo nel processo penale, Torino, 2001, p. 275; Nobili, La nuova procedura penale. Lezione agli studenti, Bologna, 1989, p. 149 ss.
25
Il criterio sostanzialistico-teleologico correla la sanzione dell’inutilizzabilità all’interesse tutelato dalle regole violate in tema di prove. Preliminare è pertanto la ricerca della ratio sottesa ad una determinata regola processuale: se è posta a presidio di
interessi fondamentali dell’individuo ovvero è connessa alla tutela preordinata di garanzia della genuinità dell’accertamento
penale la violazione della regola integra un caso di inutilizzabilità; se invece la regola è posta a presidio dell’esercizio della giurisdizione no. Si rinvia più specificamente a Galantini, L’inutilizzabilità della prova nel processo penale, Padova, 1992, p. 139 ss.
26
Tanto è vero che proprio l’art. 24 Cost. era uno dei parametri della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 416, comma 2, c.p.p., risolta in via interpretativa dalla Corte costituzionale con sentenza n. 145 del 1991. La giurisprudenza ha, a più riprese, evidenziato che l’idonea tutela del diritto di difesa è assicurata proprio dalla inutilizzabilità delle risultanze di cui il difensore non ha potuto prendere cognizione per l’omesso deposito. Tale argomentazione, letta nella prospettiva
di recuperabilità degli atti non depositati attraverso l’art. 507 c.p.p., dovrebbe portare ad escludere l’acquisizione probatoria
d’ufficio degli atti già dichiarati inutilizzabili, pena – in caso contrario – una evidente lesione del diritto di difesa dell’imputato.
27
Così Todaro, Fascicolo, cit., p. 4224 ss. Secondo l’A. sanzione più logica per il comportamento omissivo dell’organo requirente sarebbe un meccanismo acquisitivo che consentisse comunque l’ingresso nel fascicolo processuale degli atti non trasmessi;
anche perché l’iter probatorio presuppone l’acquisizione alla declaratoria di inutilizzabilità. Tanto è vero che in mancanza di
acquisizione al fascicolo l’atto è già in sé processualmente irrilevante.
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usare la prova in chiave difensiva 28. In questo senso, parte della dottrina e della giurisprudenza di legittimità ha individuato nell’istituto di cui all’art. 507 c.p.p. un rimedio idoneo per rendere acquisibili –
a richiesta di parte o su iniziativa d’ufficio del giudice – quegli atti favorevoli all’imputato non depositati dal pubblico ministero 29. Non mancano le critiche: sia in ordine alla esperibilità in concreto del giudizio di ammissibilità della prova da parte del giudice; sia in relazione alla qualifica di prova “favorevole” all’imputato. Infatti, non sempre è determinabile (prima dell’acquisizione) l’esito favorevole o
contrario all’imputato: si pensi, ad esempio, alla testimonianza, le cui risultanze sono incerte fino alla
conclusione dell’esame dibattimentale. Ed ancora, resta irrisolta la questione, controversa, dell’utilizzabilità in utilibus di prove illegittime 30.
Per contro, le difese dei ricorrenti – nel caso di specie – fanno proprio un orientamento, sostenuto da
autorevole dottrina 31 ma del tutto minoritario in giurisprudenza 32, che ravvisa nell’omesso deposito
degli atti di indagine una ipotesi di nullità di ordine generale ai sensi dell’art. 178, lett. c, c.p.p. per violazione delle norme concernenti l’intervento dell’imputato. Questa soluzione interpretativa, invero, se
pure soffre di una eccessiva forzatura della categoria dogmatica delle nullità di ordine generale, presenta l’indubbio vantaggio di fornire la tutela più coerente ed effettiva al diritto di difesa. Più coerente in
quanto, determinando il ritorno del procedimento al momento in cui la nullità si è prodotta (notifica
dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ovvero richiesta di rinvio a giudizio), consente
l’integrazione degli atti di indagine attraverso il deposito delle risultanze omesse e supera il paradosso
– già sopra evidenziato – in punto di esclusione degli atti non trasmessi. Più completa, in quanto la retrocessione del procedimento restituisce alla difesa dell’imputato la totalità delle scelte processuali
adottabili. Certo, le conseguenze di questa prospettiva interpretativa potrebbero essere dirompenti sotto il profilo dei tempi del processo, soprattutto nel caso in cui l’accertamento della violazione dell’obbligo di deposito di un atto rilevante e pertinente all’imputazione intervenga nella fase conclusiva del
dibattimento.
La scelta dell’una o dell’altra soluzione interpretativa incide, peraltro, sulla questione centrale trattata dalla sentenza in commento: la pretesa rimediabilità dell’omesso deposito di atti di indagine (già dichiarati inutilizzabili) attraverso l’esercizio del potere di integrazione probatoria d’ufficio da parte del
giudice. Infatti, solo nel caso in cui, seguendo l’orientamento della giurisprudenza maggioritaria, si
considerino inutilizzabili gli atti non tempestivamente depositati, si porrà il problema della possibilità o
meno di recupero degli stessi tramite il meccanismo acquisitivo di cui all’art. 507 c.p.p.
FINALITÀ DEL PROCESSO, POTERI DISPOSITIVI DELLE PARTI E RUOLO DEL GIUDICE. IN GENERALE, SUL POTERE DI COMPLETAMENTO ISTRUTTORIO DI CUI ALL’ART. 507 C.P.P.
Ruolo fondamentale per la risoluzione del caso in analisi riveste la determinazione di quale sia la natura del potere di completamento istruttorio attribuito al giudice 33. La questione affonda le proprie radici
nel superamento del processo inquisitorio ed individua le proprie coordinate normative nella espressa
previsione del principio del dispositivo realizzata con il codice del 1988 34 e nella costituzionalizzazione
28
In questo senso, Camon, Nullità probatorie, omesso deposito di atti di indagine e principio di non regressione: un caso emblematico
in tema di intercettazioni telefoniche, in Cass. pen., 1994, I, p. 768.
29
In dottrina, Todaro, Fascicolo, cit., p. 4224 ss. In giurisprudenza, Cass., sez. I, 16 aprile 2002, n. 18362, in Cass. pen., 2003, p.
3510, ha ritenuto acquisibili ai sensi dell’art. 507 c.p.p. elementi non tempestivamente depositati ma favorevoli all’indagato.
Conforme sul punto già Cass., sez. I, 4 gennaio 1999, n. 3192, in Guida dir., 1999, 18, p. 85.
30
Sul punto Cordero, Il procedimento probatorio, in Tre studi sulle prove penali, Milano, 1963, p. 143 ss.; Galantini, L’inutilizzabilità, cit., p. 74 ss., 466 ss.
31
Caprioli, Nuovi epiloghi, cit., p. 277.
32
Così Cass., sez. III, 12 febbraio 2003, in CED Cass n. 226675.
33
Come chiarito dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, infatti, la problematica circa l’esatta qualificazione giuridica
della prova (intercettazione ovvero dichiarazione spontanea non verbalizzata) resta assorbita dalla definizione di quali siano gli
spazi di operatività del potere di recupero probatorio d’ufficio, con particolare riguardo a prove già dichiarate inutilizzabili.
34
Per una prima analisi completa del diritto alla prova e dei suoi limiti in rapporto ai provvedimenti giudiziali di ammissione si rinvia a Rivello, Limiti al diritto alla prova, in Chiavario-Marzaduri, Le prove, I, Torino, 1999, p. 3 ss.
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dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. 35. La maggiore o minore ampiezza degli spazi di
intervento affidati al giudice è, quindi, strettamente condizionata dal tipo di modello processuale, oltre
che dallo scopo che gli si voglia riconoscere 36. Ne consegue, inoltre, che la definizione dei poteri di ogni
soggetto incidono sui diritti ed i doveri attribuiti in capo agli altri.
Il punto di equilibrio tra diritto alla prova delle parti e poteri d’intervento del giudice viene individuato dal legislatore nel primo comma dell’art. 507 c.p.p. 37: «terminata l’acquisizione delle prove il giudice, se
risulta assolutamente necessario, può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prove». A
fronte di una formulazione normativa elastica ed aperta a molteplici soluzioni ermeneutiche, l’interpretazione delle locuzioni codicistiche «può» e «se risulta assolutamente necessario» deve essere teleologicamente orientata all’esercizio della giurisdizione nel singolo caso, tramite la pronuncia di una decisione
“giusta” perché risultante dalla legittima applicazione delle regole processuali e sostanziali 38. In questa
chiave, ben si comprende come parte della dottrina abbia individuato nell’art. 507 c.p.p. una vera e propria clausola di salvaguardia, indispensabile per togliere il giudice dall’imbarazzo di non riuscire a decidere in tutti i casi in cui l’istruttoria dibattimentale si sia rivelata lacunosa o incompleta. Fondamentale a
garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice deve essere perciò la definizione del perimetro nel quale
opera il potere d’intervento giudiziale d’ufficio 39. Da un lato, tramite la necessaria distinzione tra una
istruttoria incompleta ed una istruttoria insufficiente a fondare un giudizio di colpevolezza 40. Dall’altro
35
Cardinali sono i principi costituzionali che qualificano il giudice e definiscono la funzione affidatagli nella dinamica processuale: terzietà ed imparzialità; effettivo esercizio del diritto di difesa e parità delle armi tra le parti. Il principio di imparzialità del giudice trova copertura in diverse norme costituzionali, sia per richiamo espresso (è il caso del comma 2 dell’art. 111 Cost.
così come riformato dalla legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999), sia come risultato dell’interazione di altri precetti costituzionali. Ne derivano plurime connotazioni del principio di imparzialità, vuoi come elemento indispensabile nell’esercizio
della giurisdizione, vuoi come conseguenza della soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e della sua precostituzione rispetto all’oggetto del giudizio (art. 25 Cost.), vuoi infine come cifra essenziale del “giusto processo” penale. La lettura
integrata delle norme costituzionali e della giurisprudenza che nel corso degli anni le ha interpretate delinea i tratti di un giudice che da un lato sia “terzo”, scevro di interessi propri e di convinzioni precostituite in relazione alla materia da decidere, e,
dall’altro, appaia imparziale. Si rinvia a Di Chiara, Linee evolutive della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice, in Riv. it. dir. pen. proc., 2000, p. 85 ss.; nonché, sul rapporto tra imparzialità e potere probatorio d’ufficio, Belluta, Imparzialità
del giudice e dinamiche probatorie ex officio, Torino, 2006, p. 19 ss.
36
Secondo Caraceni, Poteri d’ufficio in materia probatoria e imparzialità del giudice penale, Milano, 2007, p. 1, «il possibile intervento del giudice nella introduzione dei dati conoscitivi da porre a fondamento della decisione – più in generale il potere del
giudice di disporre delle prove – è inscindibilmente connesso al ruolo che nel processo viene assegnato all’organo giusdicente, il
quale varia con il variare degli scopi cui tende il sistema, espressione della matrice politica, ideologica e culturale nel quale questo si inscrive». Secondo autorevole dottrina, lo scopo del processo è la ricerca della verità: relativa, perché inerente a fatti già
accaduti e irrimediabilmente persi nel passato; processuale, in quanto frutto di una ricerca razionalmente condotta secondo le
regole e con le limitazioni fissate dalla disciplina del diritto probatorio costantemente volta al conseguimento del grado di approssimazione tanto più vicino possibile alla verità materiale circa i fatti storici giurisdizionalmente rilevanti. Quel che segna la
differenza specifica tra modello inquisitorio e modello accusatorio non è tanto come venga intesa la “verità”, ma il modo in cui
essa si intende raggiunta nel processo e, altresì, come essa si coordini con i principi fondamentali del processo, in particolare con
il principio della domanda; Comoglio, Prove ed accertamento dei fatti nel processo penale accusatorio, in Riforme processuali e poteri del
giudice, Torino, 1996, p. 131.
37
Per una interessante analisi del rapporto tra diritto delle parti alla prova e casi di istruzione probatoria d’ufficio si rinvia a
Belluta, Imparzialità, cit., p. 58 ss., che individua una evoluzione da una originaria eccezionalità ad una sussidiarietà, se non addirittura ad una perfetta autonomia tra ambiti di applicazione degli artt. 190 e 507 c.p.p.
38
Mazza, I diritti fondamentali dell’individuo come limite alla prova in fase di ammissione e di assunzione, in www.penalecontemporaneo.it,
definisce il processo come la celebrazione di un rito istituzionalmente volto all’accertamento della responsabilità dell’imputato.
Secondo l’A., il processo non persegue esclusivamente l’obiettivo, tipicamente giurisdizionale, di attuare la legge penale nel caso concreto, ma riveste una ben più alta funzione politica di tutela di tutti i valori e gli interessi in gioco, a partire dai diritti fondamentali dell’imputato. In quest’ottica, il processo penale può essere descritto come la disciplina dei limiti imposti dalla legge
(processuale) al potere statuale nell’amministrazione della giustizia penale per garantire il rispetto di diritti pari o addirittura
superiori al valore rappresentato dall’accertamento delle responsabilità e alla conseguente punizione dei colpevoli. La finalità
cognitiva e l’accertamento delle responsabilità devono dunque essere contemperate alla garanzia dei diritti fondamentali, in
primo luogo, dell’imputato che direttamente e personalmente subisce la pretesa punitiva dello Stato.
39
Critico in questo senso, Calamandrei, Processo e democrazia, Padova, 1954, p. 47, osservava che quando il giudice diventa
attore sulla scena probatoria a venire messa in discussione è l’idea stessa di giustizia, che ha nel valore dell’imparzialità la sua
qualità immanente e che esprime il modo di essere dell’organo deputato a renderla.
40
Tale problematica, invero, coinvolge il rapporto tra l’esercizio del potere probatorio del giudice e la regola di giudizio
dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che, a seguito della modifica legislativa intervenuta nel 2006, è ora espressamente codificata
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lato, attraverso la definizione dei presupposti per l’esercizio del potere, codificati nell’art. 507 c.p.p. 41.
Indiscussa è la collocazione temporale del potere ufficioso del giudice, «terminata l’acquisizione delle prove» e quindi successivamente rispetto all’esercizio del diritto alla prova in capo alle parti 42 e del
correlato potere di ammissione da parte del giudice. Rimessa, invece, alle incertezze dell’interpretazione giurisprudenziale è l’individuazione della natura (eccezionale o residuale) del potere ufficioso
del giudice, che si traduce nella determinazione dei casi in cui «può» essere disposta l’assunzione di
nuove prove. Due le tesi principali espresse dalla dottrina.
Secondo un orientamento più restrittivo, l’art. 507 c.p.p. introduce nel sistema una norma di carattere eccezionale. In tale prospettiva, il codice del 1988 deve configurarsi come un modello accusatorio puro 43, nel quale il giudice è soggetto neutrale che deve limitarsi ad integrare le tesi sostenute dalle parti
ma rimaste, in chiave probatoria, incomplete 44.
All’opposto, in una prospettiva estensiva, all’art. 507 c.p.p. viene riconosciuta valenza residuale (di
clausola di salvaguardia si è prima detto), in un sistema accusatorio «temperato, a disponibilità attenuata, in un processo di tipo cognitivo» 45. Ed allora, potenzialmente, il potere probatorio del giudice
non deve essere soggetto a nessun limite, purché sia «assolutamente necessario» a raggiungere lo scopo
del processo penale: l’accertamento della verità 46. Autorevoli conferme di questa impostazione si rintracciano sia nella giurisprudenza di legittimità 47, sia nelle pronunce della Consulta precedenti la riforma costituzionale 48.
dall’art. 533, comma 1, c.p.p. Ci si chiede, in particolare, quali siano i limiti di compatibilità con la presunzione di non colpevolezza. A seguito del mancato assolvimento dell’onere probatorio sostanziale, se non ci fosse l’art. 507 il giudice dovrebbe assolvere applicando gli artt. 530 comma 2 (regola di giudizio) e 533 (regola probatoria). Sul significato di “ragionevole dubbio”, Ferrua, Il “giusto processo”, Torino, p. 207 ss., evidenzia che la locuzione normativa introdotta nel 2006 ha una duplice funzione: garantire l’imputato dal rischio di una condanna ingiusta; assicurare che il giudizio di colpevolezza sia suffragato da un solido e
coerente quadro probatorio.
41
Per una approfondita panoramica sul punto, Belluta, Imparzialità, cit., p. 157 ss.; nonché Caraceni, Poteri d’ufficio, cit., p. 141 ss.
42
A confermare la portata esclusivamente temporale dell’inciso di cui all’art. 507 c.p.p., escludendo che presupponga
l’acquisizione di prove richieste dalle parti, Cass., sez. un., 6 novembre 1992, Martin, in Cass. pen., 1993, p. 280, con nota di Iacoviello, Processo di parti e poteri probatori del giudice. Peraltro, solo terminata l’acquisizione delle prove il giudice potrà valutare
l’assoluta necessità del mezzo di prova da assumere. Contra Cass., sez. V, 4 maggio 2005, in Dir. pen. proc., 2006, p. 475. In senso
estensivo Cass., sez. V, 22 ottobre 1993, in CED Cass. n. 196222, ammette la possibilità di esercitare il potere probatorio d’ufficio
anche una volta conclusa la discussione.
43
Il modello angloamericano ha elaborato una teoria sportiva del processo in base alla quale ciò che conta è che la prova
venga assunta nel rispetto delle regole (contraddittorio nella sua formazione) e poi vinca il migliore. Scopo del processo penale
diventa pertanto non più la tutela di interessi pubblici quanto la risoluzione di una lite tra le parti. Portando alle estreme conseguenze tale impostazione, si ammette un processo penale senza verità. In questa chiave prospettica, il principio dispositivo non
soffre di alcun limite, configura un diritto alla prova totalmente rinunciabile e disponibile, se la parte non lo esercita il giudice
non ha alcun potere di supplenza attraverso l’iniziativa probatoria d’ufficio. Tonini, Iniziativa d’ufficio del giudice e onere della prova tra principio di imparzialità e funzione cognitiva del processo penale, in Cass. pen., 2011, p. 2010 ss.
44
Portata alle estreme conseguenze, questa impostazione presuppone per l’esercizio del potere d’ufficio del giudice il preliminare svolgimento di attività istruttoria in capo alle parti, di integrazione e di completamento della prova richiesta dalle stesse.
Condivide tale lettura interpretativa una parte della giurisprudenza di legittimità che, soprattutto dopo la modifica dell’art. 111
Cost., ha evidenziato come l’iniziativa del giudice abbia una funzione di «supporto probatorio»; così espressamente Cass., sez.
V, 1 dicembre 2004, n. 15631, in CED Cass. n. 232156. Conforme, Cass., sez. I, 8 giugno 2000, n. 8566.
45
Tonini, Iniziativa d’ufficio, cit., p. 2010 ss., osserva che il processo penale ha una funzione cognitiva, finalizzata ad arrivare
al miglior accertamento dei fatti. Oggetto del processo sono diritti indisponibili (poiché la condanna incide direttamente o indirettamente sulla libertà personale che è inviolabile) e l’accertamento dei fatti non può essere lasciato alla disponibilità delle parti, perché condiziona l’irrogazione di una sanzione che si può sostanziare direttamente o indirettamente in una limitazione della
libertà personale del soggetto. In relazione a tale modello, il contraddittorio nella formazione della prova assume valenza duplice: è diritto individuale, ma anche metodo oggettivo di conoscenza (nella disponibilità delle parti) per giungere al miglior accertamento della verità.
46
In questa chiave di lettura, il principio del dispositivo di cui all’art. 190 c.p.p. deve essere inteso in senso espansivo e non
preclusivo. Anzi, l’analisi del rapporto tra regola ed eccezione viene in certo modo invertita: sono i poteri ufficiosi del giudice
che delimitano il diritto alla prova delle parti, sia verso l’alto (come potere di escludere a monte la stessa ammissione di alcune
prove), sia verso il basso (tramite l’integrazione delle prove dedotte dalle parti attraverso il meccanismo di cui all’art. 507 c.p.p.).
Sul punto, più approfonditamente, Nappi, L’art. 507 c.p.p.: un eccessivo self restraint giurisprudenziale, in Cass. pen., 1991, p. 775.
47
Cass., sez. un., 6 novembre 1992, cit. aveva stabilito che «il giudice in base all’art. 507 c.p.p., qualora risulti assolutamente
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51
Tuttavia, con la modifica del quadro costituzionale di riferimento, anche la giurisprudenza di legittimità ha dovuto ripensare il rapporto tra diritto alla prova e potere probatorio d’ufficio del giudice. Il
risultato perseguito è sempre, in una prospettiva estensiva, quello di segnare i confini di un potere giudiziale di controllo rispetto agli errori, all’inerzia o alla rinuncia del pubblico ministero. La via percorsa
passa però dalla svalutazione del requisito della «novità» della prova ed ammette l’assunzione ex officio
anche quando non vi sia stata in precedenza alcuna acquisizione probatoria 49. L’assoluta necessità della
prova ai fini del decidere resta, pertanto, l’unica condizione effettiva per l’esercizio del potere di integrazione probatoria d’ufficio 50. Così, da ultimo, sia le Sezioni Unite della Cassazione, sia la Corte Costituzionale hanno confermato come la lettura estensiva dei presupposti di cui all’art. 507 c.p.p. superi il
vaglio di compatibilità con i “nuovi” principi costituzionali di terzietà ed imparzialità del giudice e di
parità delle armi 51.
necessario, può assumere anche prove che le parti avrebbero potuto chiedere nel termine stabilito dall’art. 468 c.p.p. e non hanno richiesto». La Cassazione ha chiarito che: il giudizio di inammissibilità non riguarda la prova ma la richiesta come atto di parte
del pm; “terminata l’acquisizione delle prove” indica il punto dell’istruzione dibattimentale in cui può avvenire l’ammissione di
nuove prove e non il presupposto per l’esercizio del potere del giudice; l’art. 507 c.p.p. non può essere usato per vagliare ipotesi
ricostruttive autonomamente formulate dal giudice. La prova, quindi, deve avere il carattere della decisività ed il potere deve
essere esercitato nell’ambito delle ricostruzioni fornite dalle parti e non per supportare una diversa ricostruzione da parte del
giudice. Resta comunque salvo, in una prospettiva di tutela dell’effettività della difesa, il diritto alla controprova in capo alle
parti. Come evidenziato da Caraceni, Poteri d’ufficio, cit., p. 147 s., due sono le argomentazioni di fondo utilizzate dalle Sezioni
Unite: l’irretrattabilità dell’azione penale rende necessario prevedere strumenti istruttori azionabili d’ufficio dal giudice per far
fronte ad eventuali carenze probatorie; il sistema di accertamento deve necessariamente consentire l’intervento del giudice soprattutto nei casi in cui l’inerzia delle parti è totale.
48
In particolare, secondo la Corte costituzionale, una lettura restrittiva dell’art. 507 c.p.p. contrasta con la ricerca della verità
che è il fine primario ed ineludibile del processo penale. Tanto è vero che la Consulta afferma: «il metodo dialogico che preside
alla formazione della prova in dibattimento non può porsi come ostacolo al pieno accertamento dei fatti»; così C. cost., 24 marzo
1993, n. 111. In dottrina, in senso adesivo alla posizione della Corte Costituzionale, si è sottolineato che l’interpretazione è in linea con la natura di processo accusatorio non rigido (come individuato, peraltro, dalla direttiva n. 73 l.d.) e con i principi costituzionali in tema di obbligatorietà ed irretrattabilità dell’azione penale, salvaguarda l’esigenza sociale di accertamento dei fatti,
non violando il principio di parità delle parti. In senso critico, per contro, sono stati evidenziati i rischi di questa soluzione interpretativa: l’elusione del principio del dispositivo, la compromissione della terzietà del giudice, la forte personalizzazione delle prove raccolte ex officio, la crisi della presunzione di non colpevolezza, l’enfatizzazione del concetto di verità processuale, il
conflitto con i principi sovranazionali di giusto processo. Per una panoramica esaustiva si veda Corbetta, sub art. 507, cit., p.
6473 ss.
49
In dottrina, Caraceni, Poteri d’ufficio, cit., p. 168 ss. L’interpretazione del presupposto della novità della prova in senso
marcatamente cognitivo estende l’ambito di operatività del potere istruttorio d’ufficio del giudice a qualunque elemento probatorio non ancora acquisito al fascicolo dibattimentale, fosse esso preesistente o sopravvenuto. La nuova prova, allora, è «quella
non acquisita, indipendentemente dai motivi della mancata acquisizione»; così Ferrua, I poteri probatori del giudice dibattimentale:
ragionevolezza delle Sezioni Unite e dogmatismo della Corte costituzionale, in Studi sul processo penale, III, Torino, 1997, p. 12. Anche di
recente, la giurisprudenza ha ribadito che deve trattarsi di novità processuale e non di novità come esistenza fisica: tra le altre,
Cass., sez. IV, 8 febbraio 2005, in CED Cass. n. 231726.
50
La giurisprudenza ha cercato di dare un contenuto preciso a tale locuzione normativa, evidenziando che il requisito
dell’assoluta necessità è integrato quando il mezzo di prova risulta dagli atti del giudizio e la sua assunzione appaia decisiva; da
ultimo, Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 41281, in Cass. pen., 2007, 952 ed ivi, 2008, p. 1078 con note in chiave critica di Aprile,
Sui limiti di applicabilità dell’art. 507 c.p.p.: una nuova sentenza che non elimina ogni dubbio interpretativo; in senso adesivo di Belluta,
Irripetibilità congenita degli atti di indagine e poteri istruttori del giudice dibattimentale: dalle sezioni un intervento (non proprio) chiarificatore. Circa gli oneri motivazionali ed il controllo di legittimità, Cass., sez. V, 16 aprile 1998, n. 5806, ivi, 1999, p. 2233, ha precisato
che il giudice ha obbligo di motivazione sul mancato esercizio del potere istruttorio sollecitato da una parte, la decisione discrezionale sulla non assoluta necessità può essere sindacata in cassazione nei limiti in cui la motivazione appaia difettosa. Nello
stesso senso sugli oneri motivazionali gravanti sul giudice, più recentemente, Cass., sez. II, 3 dicembre 2013, n. 51740. In senso
difforme, da ultimo, Cass. sez. II, 6 marzo 2013, n. 26738, sostiene che la decisione con cui il giudice sospende la deliberazione
della sentenza per assoluta impossibilità determinata dall’esigenza di assumere nuove prove è il prodotto di una valutazione in
fatto, non suscettibile di controllo di legittimità.
51
Così Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 41281, cit. Secondo le Sezioni Unite, nello specifico, posto che l’art. 507 c.p.p. ha lo
scopo di consentire un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti, il giudice può esercitare il potere di disporre
d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e
non hanno richiesto. Al superamento del principio generale di ricerca della verità in favore della completezza dell’accertamento
probatorio segue la compatibilità con il quadro dei principi costituzionali (terzietà, ma anche diritto di difesa e principio di parità delle parti). Nello stesso senso, C. cost., 10 febbraio 2010, n. 73, in Giur. cost., 2010, p. 842 ss., con nota di Paulesu, Iniziative
probatorie del giudice dibattimentale e «giusto processo». La Consulta, nel dichiarare manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 507 c.p.p., in rapporto all’art. 111 Cost., ha chiarito che l’inammissibilità della prova legata al man AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INIZIATIVA PROBATORIA DEL GIUDICE NEL PROCESSO PENALE ACCUSATORIO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
52
LE «NUOVE PROVE» ASSUMIBILI EX ART. 507 C.P.P. LE PROVE GIÀ DICHIARATE INUTILIZZABILI: LE TESI
DELLA CORTE D’ASSISE E DELLA CORTE D’ASSISE D’APPELLO
Una tendenza estensiva si registra anche nella determinazione, per via interpretativa, di quali siano le
tipologie di prove assumibili dal giudice d’ufficio. A fronte di un autorevole orientamento della dottrina rimasto minoritario 52, l’indirizzo maggioritario ritiene che nell’espressione «nuove prove» vadano
ricompresi tanto i mezzi di prova quanto i mezzi di ricerca della prova 53. La problematica di maggiore
rilievo, tuttavia, concerne la possibile assunzione d’ufficio da parte del giudice di prove viziate perché
già precedentemente dichiarate inutilizzabili.
Nel caso di specie, la Corte d’assise decide nel senso della acquisizione e della utilizzabilità del contenuto della conversazione valorizzando la rilevanza della prova rispetto ai fatti oggetto del processo 54,
interpretando in chiave estensiva il “potere di completamento istruttorio” attribuito al giudice del dibattimento dall’art. 507 c.p.p. 55 e ritenendo, comunque, la prova «non viziata in sé» 56. In generale, come
già sopra precisato, la lettura interpretativa dei giudici di merito presuppone l’individuazione di due
distinte fasi di acquisizione della prova: la prima, in apertura del dibattimento, ad iniziativa delle parti;
la seconda, eventuale, in conclusione dell’istruttoria, disposta d’ufficio dal giudice. L’esercizio del potere di completamento istruttorio in questa seconda fase consentirebbe l’acquisizione di prove già dichiarate, in un primo momento, inutilizzabili. Tale tesi pare condivisa da una parte della giurisprudenza di
legittimità, in chiave estensiva dell’ambito di operatività dell’art. 507 c.p.p. 57. I precedenti evocati, però,
cato rispetto del termine per richiederla (nello specifico, la lista testimoniale) è sanzione soggettiva (che riguarda la richiesta) e
non oggettiva (che riguarda la prova). Conformi, successivamente, in sede di legittimità: Cass., sez. VI, 11 giugno 2010, n. 25157,
in Cass. pen., 2011, p. 4382; Cass., sez. I, 27 giugno 2013, n. 29490.
52
Così Nappi, Guida al Codice di procedura penale, Milano, 2007, p. 500, secondo il quale, dal testo dell’art. 507 c.p.p. sono
espressamente esclusi i mezzi di ricerca della prova, salvo che tendano alla ricerca di una cosa o di un documento la cui acquisizione sia per legge obbligatoria o la cui esistenza o collocazione risulti dagli atti.
53
Specificamente, sul punto, in dottrina, Manzione, sub artt. 506-507, cit., p. 388. Concorda la maggioritaria giurisprudenza,
che ha valorizzato argomenti di carattere letterale e teleologico (così Cass., sez. VI, 20 maggio 1994, in CED Cass. n. 199450) ed
ha, anche di recente, ammesso che il potere del giudice di assumere nuove prove all’esito dell’istruttoria dibattimentale non incontra limitazioni quanto al relativo mezzo di ricerca della prova (così Cass., sez. IV, 12 luglio 2004, n. 44481, in Cass. pen., 2005,
p. 3395). Con specifico riguardo ad intercettazioni in procedimenti diversi, Ass. S. Maria C.V., 5 marzo 2003, Schiavone, ivi,
2003, p. 2794. In relazione alle dichiarazioni de relato, Cass., sez. V, 25 gennaio 2007, 6522, ivi, pp. 2008, 2030; Cass., sez. IV, 24
ottobre 2005, n. 1151, ivi, 2007, p. 718.
54
Già da queste prime battute si può notare un difetto nel percorso argomentativo dei giudici di merito: la rilevanza della
prova per l’oggetto della causa è un dato di fatto che, soprattutto per il tipo di prova in questione (l’intercettazione di una comunicazione telefonica il cui contenuto non era conoscibile dalla Corte d’assise prima della trascrizione), non era in alcun modo
pre-determinabile a priori nel momento processuale in cui viene compiuta la valutazione di assoluta necessità necessaria per disporre l’acquisizione ex art. 507 c.p.p.
55
Le argomentazioni spese dalle Corti di merito vengono così ricostruite dalla Cassazione nella sentenza in commento: «la
sanzione di inutilizzabilità relativa agli atti non depositati in sede di udienza preliminare non preclude l’esercizio di siffatto potere istruttorio ex officio, data l’ampiezza della sua configurazione e la finalità di accertamento della verità allo stesso sottesa».Torna l’evocazione del principio immanente della ricerca della verità che, negli anni immediatamente successivi all’entrata
in vigore del Codice del 1988 aveva mosso la giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in senso critico rispetto a diversi
meccanismi processuali proprio in tema di ingresso della prova a dibattimento. Per una panoramica sul punto, Ferrua, Il “giusto
processo”, cit., p. 3 ss.
56
Potrebbe avere rilievo, a sostegno di questa tesi, la distinzione tra vizio genetico e vizio funzionale dell’atto: infatti, il
mancato deposito integra un vizio funzionale, che non incide sulla genuinità del dato probatorio e sul rispetto delle norme per
la sua legittima formazione.
57
Cass., sez. I, 13 febbraio 1997, n. 5364, in Cass. pen., 1998, p. 1134, in un caso in cui il giudice di primo grado aveva disposto
l’acquisizione agli atti, in forza dell’art. 507 c.p.p., di tabulati relativi a conversazioni telefoniche che non erano state prodotte per
l’udienza preliminare, poi esclusi dalla Corte in grado d’appello perché dichiarati inutilizzabili. La Suprema Corte, sul punto, ha
annullato con rinvio la sentenza emessa in appello, evidenziando che «in materia di prove, la inutilizzabilità degli atti non trasmessi al giudice dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 416 comma 2 c.p.p. è una sanzione di carattere generale […] pur tuttavia detti atti possono essere acquisiti, e conseguentemente utilizzati, dal giudice del dibattimento ex art. 507 c.p.p., attesa la natura
sostanziale di tale norma che è diretta alla ricerca della verità, indipendentemente dalle vicende processuali che determinano la
decadenza della parte al diritto alla prova». Conforme Cass., sez. IV, 23 febbraio 2005, n. 27370, in CED Cass. n. 231730. Così, da
ultimo, Cass., sez. I, 27 febbraio 2013, n. 22053, in CED Cass. n. 256077, ha stabilito che «è legittima l’acquisizione, ex art. 507 c.p.p.,
delle intercettazioni autorizzate ed eseguite in procedimenti diversi e fatte oggetto di trascrizione peritale nel procedimento di
importazione, ancorché non depositate e trasmesse, a norma degli artt. 415, secondo comma, e 416, secondo comma, c.p.p.».
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
53
impostano la risoluzione della questione processuale su due argomenti fondamentali. In primo luogo,
le limitazioni temporali fissate dagli artt. 415-bis e 416 c.p.p. sono operative solo con riguardo alle indagini effettuate nell’ambito dello stesso procedimento e per atti di indagine già a conoscenza del pubblico
ministero 58. Inoltre, il mancato deposito non integra comunque una causa di nullità bensì una inutilizzabilità superabile attraverso la successiva acquisizione (su richiesta di parte o) d’ufficio, anche ai sensi
dell’art. 507 c.p.p., laddove la prova risulti assolutamente necessaria per la decisione. Seguendo questa
interpretazione, l’unico limite al potere di acquisizione di cui al 507 c.p.p. si avrebbe nel caso di prove
vietate; ipotesi che i giudici di merito escludono nel caso di specie, ritenendo l’intercettazione assolutamente valida: sia tramite l’applicazione della disciplina di utilizzazione delle intercettazioni in altro
procedimento; sia perché non risulterebbe integrato alcuno dei divieti previsti dall’art. 271 c.p.p.
LA DIVERSA POSIZIONE DELLA SUPREMA CORTE
La Cassazione censura l’interpretazione offerta dai giudici di merito, evidenziando che la previsione di
cui all’art. 507 c.p.p. ha natura eccezionale e, pertanto, non può essere utilizzata in chiave «sanante di
condotte determinanti un vero e proprio vizio del procedimento probatorio». L’orientamento della
pronuncia di legittimità sembra intervenire in chiave restrittiva dell’ambito di operatività del potere di
completamento probatorio d’ufficio, valorizzando la sussistenza di limiti correlati alla natura delle prove da assumere (devono essere escluse le prove vietate) ed alla non sanabilità dei vizi già maturati (non
è possibile acquisire prove dichiarate inutilizzabili).
In particolare, la Suprema Corte evidenzia che l’esercizio del potere di cui all’art. 507 c.p.p. deve
avere ad oggetto l’acquisizione di «nuove prove», non potendo tra queste essere incluse anche prove
già esistenti ma viziate. Se, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha interpretato il requisito della “novità” in senso strettamente processuale, tale lettura non può essere estesa fino a far rientrare, nel novero
delle tipologie di prove assumibili d’ufficio dal giudice, anche quelle già esistenti (sia fisicamente, sia
processualmente) e non depositate 59.
Inoltre, non trovano alcuno spazio le argomentazioni spese dai giudici di merito quanto all’applicabilità dell’art. 270 c.p.p., posto che nel caso di specie le intercettazioni non depositate erano state
disposte nell’ambito di un unico procedimento. L’identità del procedimento, peraltro, viene rilevata
dalla Cassazione sia dal punto di vista formale-strutturale (come riferibilità dell’attività di indagine ad
un medesimo fascicolo processuale), sia dal punto di vista sostanziale-funzionale (come rapporto tra il
mezzo istruttorio ed il fatto storico per cui si procede) 60. Tale dato è di fondamentale rilevanza per
escludere l’estensione al caso di specie dei precedenti giurisprudenziali già evocati a sostegno della tesi
espressa in sede di merito 61.
Ritiene, infine, la Corte che l’interpretazione del dettato normativo in chiave finalistica rispetto allo
scopo del processo non sia sufficiente a superare l’integrazione di un vizio che determina pacificamente
l’inutilizzabilità dell’atto 62. Proprio la natura del vizio esclude l’applicabilità analogica al caso di specie
58
Così espressamente Cass., sez. I, 27 febbraio 2013, n. 22053, cit.; nonché, in senso conforme Cass., sez. VI, 16 maggio 2002,
n. 30966, in CED Cass. n. 222574.
59
Più precisamente: «la novità può essere interpretata anche in senso meramente processuale (e da qui la possibile ammissione come testi di soggetti non indicati nella relativa lista, superando non già un vizio ma una semplice decadenza) ma si tratta
essenzialmente di fonti nuove perché non ricomprese nel fascicolo processuale, che vengono peraltro sottoposte ad esame incrociato in contraddittorio, non certo del recupero di un atto (peraltro ontologicamente irripetibile) già esistente nel medesimo
fascicolo e non depositato»; così la Cassazione nella sentenza in commento.
60
Evocativo della «riferibilità oggettiva» di cui supra, § 3, nota 16. In giurisprudenza, Cass., sez. II, 10 ottobre 2013, n. 3253, in
CED Cass. n. 258951, ribadisce che la nozione di identico procedimento, che esclude l’operatività del divieto di utilizzazione di
cui all’art. 270 c.p.p., può prescindere da elementi formali (come il numero del procedimento) ed impone una valutazione sostanziale; pertanto il procedimento è considerato identico quando tra il contenuto dell’originaria notizia di reato e quello dei
reati per cui si procede vi sia una stretta connessione sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico.
61
Supra § 5, nonché nota 54.
62
In questa prospettiva, ben avrebbe potuto essere valorizzata dalla Cassazione anche la distinzione tra inammissibilità ed
inutilizzabilità. Ed infatti, l’inammissibilità ha chiara natura soggettiva, riguarda la richiesta di parte e determina la decadenza
da un diritto; l’inutilizzabilità, per contro, trae origine da un vizio (genetico o funzionale), ha natura oggettiva ed investe direttamente l’oggetto della prova.
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54
dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo all’omesso tempestivo deposito
della lista testimoniale. Se, infatti, per consolidata interpretazione giurisprudenziale, l’art. 507 c.p.p.
può legittimamente essere utilizzato per acquisire quelle prove che le parti avrebbero potuto chiedere e
non hanno chiesto 63, ben diverso è il caso in cui si voglia, per il tramite dell’esercizio del potere probatorio d’ufficio del giudice, pretendere di recuperare un atto viziato ed ontologicamente non ripetibile a
dibattimento.
Conclude, pertanto, la Suprema Corte affermando che «l’esercizio del potere istruttorio ex officio di
cui all’art. 507 c.p.p. non può ritenersi consentito al fine di recuperare al fascicolo per il dibattimento un
atto ontologicamente irripetibile del medesimo procedimento dichiarato inutilizzabile in virtù del suo
omesso deposito ai sensi degli artt. 415-bis e 416 c.p.p.».
UN POSSIBILE DIVERSO APPROCCIO ALLA QUESTIONE. I PROFILI NON ANALIZZATI DALLA SENTENZA: NATURA DELLA PROVA E VIOLAZIONE DELL’ART. 111 COMMA 4 COST.
Alcune riflessioni conclusive devono essere svolte in ordine a due problematiche che la sentenza in
commento tocca senza però analizzare nello specifico: la natura della prova e la violazione degli artt.
111 comma 4 Cost., 195 e 526 c.p.p.
In primo luogo, resta irrisolta la qualificazione probatoria della registrazione della telefonata intercorsa tra l’operatore di polizia giudiziaria e la testimone. Se, infatti, si concorda con la Suprema Corte
laddove smentisce le conclusioni delle due sentenze di merito (che ravvisavano una intercettazione ovvero una spontanea dichiarazione), non del tutto calzante pare il richiamo all’art. 203 c.p.p. operato dai
giudici di legittimità. Le peculiarità del caso di specie paiono invece meglio ricordare, per analogia,
l’ipotesi in cui la polizia giudiziaria registra una conversazione intervenuta con una persona informata
dei fatti. Le modalità con le quali tale registrazione è in concreto avvenuta (non tra persone presenti ma
nel corso di un colloquio telefonico) escludono l’estensibilità al caso di specie della qualifica di documento (nella forma della fonoregistrazione), evocando la categoria della prova atipica. In questa prospettiva, l’eventuale illegittimità della captazione telefonica andrà valutata, vuoi tramite i parametri di
cui all’art. 189 c.p.p., vuoi in una prospettiva sistematica tramite il richiamo ai divieti legali delineati
per le singole prove tipiche.
Inoltre, decidere nel senso dell’utilizzabilità della registrazione ha comportato una evidente violazione del diritto al contraddittorio nella formazione della prova (ex art. 111, comma 4, Cost.): il mancato
esame della testimone-fonte (sentita a dibattimento prima dell’acquisizione dell’intercettazione, e quindi mai esaminata sul contenuto del colloquio telefonico) ha determinato un giudizio di colpevolezza
fondato su dichiarazioni di un soggetto sottratto all’esame dell’imputato e del suo difensore.
Resta sullo sfondo una soluzione radicalmente diversa: la nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari per omesso deposito di atti di indagine. La preferenza per la sanzione della nullità
(come già sopra rilevato maggiormente coerente con le finalità di completezza della discovery) avrebbe
meglio tutelato anche l’effettivo esercizio del diritto di difesa, rimettendo l’imputato nella totalità delle
scelte processuali percorribili. Ed, infatti, la decisione della Cassazione ha determinato l’annullamento
con rinvio per svolgere un nuovo esame della testimone, precludendo però alla difesa dell’imputato la
facoltà di richiedere il giudizio abbreviato.
63
Così, Cass., sez. un., 17 ottobre 2006, n. 41281, cit., più approfonditamente supra, nota 50.
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L’incompatibilità del giudice che ha applicato
la pena su richiesta nei confronti
del concorrente necessario
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 26 GIUGNO 2014, N. 36847 – PRES. SANTACROCE; REL.
CONTI
L’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 – che ha
dichiarato la incostituzionalità dell’art. 34, comma 2,c.p.p.”nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia stata già comunque valutata” – sussiste anche in riferimento alla ipotesi in cui il giudice del
dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei
confronti di un concorrente necessario dello stesso reato.
[Omissis]
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 30 settembre-3 ottobre 2013, la Corte di appello di Roma dichiarava inammissibile la ricusazione, proposta con atto depositato il 27 settembre 2013, nell’interesse degli imputati
D.G.A. e D.G.P., nei confronti dei componenti del Collegio della Quarta Sezione penale del Tribunale di
Roma.
2. Esponeva la Corte di appello che l’indicato Tribunale, investito del dibattimento a carico di L.G. e
altri, all’udienza del 25 settembre 2013, aveva, previa separazione della relativa posizione, pronunciato
sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. nei confronti del coimputato L.L. in relazione a tutti i reati contestatigli. I componenti del Tribunale – che aveva ripreso nello stesso giorno la trattazione del dibattimento
nei confronti dei restanti imputati – su sollecitazione dei difensori di D.G.A. e D.G.P., fondata sul fatto
che i medesimi giudici avevano poco prima applicato la pena richiesta nei confronti del predetto coimputato, dichiaravano di astenersi dalla partecipazione al giudizio, pur dando atto di non avere in tale
sede valutato “profili di merito relativi alla posizione degli attuali imputati”. Con provvedimento
emesso in quella stessa mattina, il Presidente del Tribunale non accoglieva la dichiarazione di astensione, osservando che i membri del Collegio, secondo quanto risultava dalla motivazione della sentenza di
patteggiamento relativa a L.L., non avevano, neppure implicitamente, valutato la posizione dei coimputati. Alla ulteriore ripresa del dibattimento, avvenuta sempre nello stesso 25 settembre 2013, i difensori di D.G.A. e P., e questi ultimi di persona, preso atto di detto provvedimento, dichiaravano di ricusare i componenti del Collegio ai sensi dell’art. 37 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 36, comma 1,
lett. g), e 34 cod. proc. pen.. Il Tribunale disponeva conseguentemente la trasmissione al Presidente della Corte di appello di Roma di copia del verbale di udienza, del provvedimento preso dal Presidente
del Tribunale sulla dichiarazione di astensione, della sentenza di applicazione di pena emessa nei confronti di L.L. e del decreto di giudizio immediato. L’atto di ricusazione veniva poi dai difensori di
D.G.A. e P. ulteriormente formalizzato in data 27 settembre 2013, con corredo di documentazione, mediante deposito nella Cancelleria della Corte di appello di Roma. In tale atto veniva in particolare richiamata la sentenza C. cost. n. 371 del 1996, che aveva dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art.
34, secondo comma, cod. proc. pen. “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata”. Si osservava poi che con la sentenza
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
56
di patteggiamento emessa nei confronti di L.L. i giudici del Tribunale “avevano sicuramente operato,
quanto meno in relazione al delitto di cui all’art. 416 cod. pen., una valutazione sulla responsabilità dei
restanti (tre) coimputati del reato associativo con il L. (capo B)”; e, conseguentemente, avevano “matematicamente ritenuto che almeno due dei restanti [tre] coimputati al Capo B [...] si siano associati con lo
stesso. Altrimenti, il reato associativo, per cui il L. è stato riconosciuto colpevole, non potrebbe sussistere”. Secondo le parti ricusanti, “si tratta proprio di un caso del tutto simile a quello su cui si è pronunciata la Corte costituzionale con la sentenza 371/96”.
3. La Corte di appello, con la ordinanza in epigrafe, osservava che la dichiarazione di ricusazione era
inammissibile in quanto manifestamente infondata, dal momento che dall’esame della sentenza di patteggiamento emergeva che nessuna valutazione sulla responsabilità di altri imputati era stata effettuata
dal Tribunale, né in assoluto, né con riferimento all’ipotesi di cui all’art. 416 cod. pen.. Considerava, altresì, destituita di fondamento la tesi difensiva secondo cui tale valutazione, nel caso in esame, aveva
investito logicamente e “matematicamente” i ricorrenti, non essendo essi gli unici altri due concorrenti
necessari della contestata ipotesi associativa, atteso che dalla lettura del capo di imputazione si evinceva che il delitto associativo era stato contestato anche a L.G. e a I.M., nelle more deceduto, in concorso
con D.G.M. e I.G.
4. Avverso detta ordinanza hanno proposto ricorso per cassazione nell’interesse di D.G.A. e di
D.G.P. i comuni difensori avvocati Alfonso Stile e Giro P. Sepe, denunciando, con un unico motivo, la
inosservanza di norme processuali e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 34 e 37 ss., 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., nonché violazione degli artt. Ili Cost. e 6 CEDU. Rilevano i ricorrenti che,
diversamente dalle indicazioni contenute nell’ordinanza impugnata, il reato di cui all’art. 416 cod. pen.
è stato contestato nel decreto di giudizio immediato a L.G., D.G.A., D.G.P. e L.L.; mentre D.G.M. e I.G.,
pure destinatane del medesimo decreto di giudizio immediato, erano coimputate per i solo reati-fine e
non erano, quindi, chiamate a rispondere del reato associativo. Si osserva poi, con argomentazioni che
ricalcano quelle contenute nell’atto di ricusazione, che il caso in esame è analogo a quelli in relazione ai
quali è intervenuta la sentenza n. 371 del 1996 della Corte costituzionale, atteso che, almeno con riguardo al contestato reato di cui all’art. 416 cod. pen., il Tribunale, nella sentenza di patteggiamento relativa
a L.L., ha operato una valutazione sulla responsabilità penale dei restanti coimputati, avendo “matematicamente” ritenuto che almeno due di essi si fossero associati con lui.
[Omissis]
7.2. Ciò premesso, l’ordinanza procede ad una ricognizione della giurisprudenza costituzionale in
tema di incompatibilità in caso di pluralità di procedimenti nei confronti di concorrenti nel medesimo
reato. In tale ricognizione si evidenzia l’orientamento, affermato fin dalle pronunce iniziali della Corte
costituzionale, che esclude in tal caso una incompatibilità del giudice sulla base del principio che
l’identità dell’oggetto del giudizio non è “ravvisabile nell’ipotesi di concorso di persone nel medesimo
reato, perché alla comunanza dell’imputazione fa necessariamente riscontro una pluralità di condotte
distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del giudizio di responsabilità, devono formare oggetto di autonome valutazioni sotto il profilo tanto materiale che psicologico, e ben possono, quindi, sfociare in un accertamento positivo per l’uno e negativo per l’altro” (così, ex plurimis,
sent. n. 186 del 1992). Tale indirizzo è stato ribadito anche in relazione a casi in cui la fattispecie oggetto
del giudizio a quo è a concorso necessario (da ultimo, ord. n. 86 del 2013). La Quinta Sezione ricorda
peraltro il rilievo dato alla “ipotesi estrema” presa in esame dalla sentenza n. 371 del 1996, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o
concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione
di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata. In tal
sentenza la Corte costituzionale, pur confermando in linea di massima il tradizionale orientamento,
prendendo in esame la peculiare ipotesi di reati a concorso necessario (in una fattispecie di associazione
per delinquere composta da tre persone in relazione alla quale il giudice, dopo aver giudicato due dei
concorrenti, era stato chiamato a giudicare il terzo associato), ha osservato che nel caso “in cui non solo
vi sia concorso nel medesimo reato ma la posizione di uno dei concorrenti costituisca elemento essenziale per la stessa configurabilità del reato contestato agli altri concorrenti, ai quali soltanto sia formalmente riferita l’imputazione per la quale si procede, la valutazione della posizione del terzo, dalla quale
non si sia potuto prescindere ai fini dell’accertamento della responsabilità degli imputati, costituisce si AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INCOMPATIBILITÀ DEL GIUDICE CHE HA APPLICATO LA PENA
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curo ed evidente motivo di incompatibilità nel successivo processo a carico di tale terzo”. L’incompatibilità, precisa la sentenza in esame, sussiste “non solo quando nel primo giudizio la posizione del
terzo sia stata valutata a seguito di un puntuale ed esauriente esame delle prove raccolte a suo carico,
ma anche quando abbia formato oggetto di una delibazione di merito superficiale e sommaria, apparendo anzi, in questa seconda ipotesi, ancor più evidente e grave la situazione di pregiudizio nella quale il giudice verrebbe a trovarsi”.
7.3. La deduzione difensiva circa la riconducibilità della fattispecie in esame nella sfera applicativa
della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale statuita con la sent. n. 371 del 1996 impone – secondo la Sezione rimettente – di affrontare la questione relativa alla valenza pregiudicante della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti: in altri termini, si pone la questione se l’ipotesi
di incompatibilità, introdotta dalla sentenza n. 371 del 1996, a partecipare al giudizio nei confronti di un
imputato del giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata, sia configurabile anche quando la precedente sentenza sia di
applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 cod. proc. pen. Sulla questione la Quinta Sezione segnala indirizzi discordanti nella giurisprudenza di legittimità.
7.4. Un primo orientamento esclude in radice la configurabilità della incompatibilità in esame, valorizzando la peculiarità della sentenza di applicazione della pena: il giudice che abbia deciso ai sensi
dell’art. 444 cod. proc. pen. nei confronti di un concorrente nel reato, pur quando questo sia necessariamente plurisoggettivo, non è incompatibile con il giudizio degli altri concorrenti che non abbiano
patteggiato la pena, data la peculiarità di una simile sentenza, che non postula la dimostrazione in positivo della responsabilità dell’imputato, ma solo l’accertamento della inesistenza di cause di non punibilità a norma dell’art. 129 dello stesso codice (Sez. 2, n. 36536 del 20/06/2003, Lucarelli, Rv. 226453; Sez.
6, n. 1752 del 14/05/1998, Cerciello Rv. 211078; Sez. 6, n. 1385 del 16/04/1998, Ferrantelli, Rv. 210664;
Sez. 6, n. 3771 del 03/10/1997, Giallombardo, Rv. 209077). La Quinta Sezione prosegue evidenziando
che il nucleo essenziale dell’orientamento da ultimo ricordato, incentrato sulla natura della valutazione
negativa dell’applicabilità dell’art. 129 cod. proc. pen., non è smentito dalle conclusioni cui è pervenuta
Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518. Tesa alla ricostruzione degli effetti della
sentenza di patteggiamento (più che alla definizione della natura del relativo accertamento), la pronuncia delle Sezioni Unite ha ritenuto di dover “assegnare valore esclusivamente normativo al principio di
equiparazione” e, argomentando con riferimento alla assoggettabilità a revisione della sentenza ex art.
444 cod. proc. pen., è giunta alla conclusione che tale equiparazione, da un lato, implica l’applicazione
di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna non categoricamente escluse, e, dall’altro,
non implica un processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di pronuncia.
7.5. Un ulteriore indirizzo della giurisprudenza di legittimità non esclude, in via generale,
l’attitudine della sentenza ex art. 444 cod. proc. pen. ad assumere valenza pregiudicante ai fini dell’incompatibilità del giudice, ma circoscrive la portata di detta attitudine all’ipotesi in cui, nel vagliare le
altrui posizioni, il giudice stesso abbia effettuato anche una concreta delibazione dell’accusa concernente l’imputato rimasto estraneo alla richiesta di patteggiamento (Sez. 5, n. 8472 del 26/01/2005, Cacciurri, Rv. 231490; Sez. 6, n. 32424 del 14/07/2003, Tagliafierro, Rv. 226511). L’indirizzo è stato affermato
anche con riguardo al reato necessariamente plurisoggettivo: pertanto non può essere ricusato, da parte
dell’imputato, ai sensi dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. (come inciso dalla sent. n. 371 del 1996 della
Corte Costituzionale), il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza di patteggiamento nei confronti di un soggetto coimputato dell’istante quando detta sentenza – anche se relativa
a reato necessariamente plurisoggettivo – non contenga alcun cenno alla posizione dell’imputato concorrente in quel reato, per il quale il procedimento sia proseguito nelle forme ordinarie. Tuttavia, una
situazione di incompatibilità è configurabile allorché venga accertato che il giudice del patteggiamento,
anziché limitarsi al controllo giuridico della fattispecie contestata ed alla verifica della inesistenza di
ipotesi di non punibilità, abbia invece proceduto a valutazioni di merito, tali da poter vulnerare la posizione del terzo (Sez. 4, n. 44511 del 23/09/2003, Broch, Rv. 226409).
7.6. Il terzo orientamento individuato nell’ordinanza di rimessione si contrappone al primo, affermando che sulla base della sent. n. 371 del 1996 della Corte costituzionale deve ritenersi sussistere
l’incompatibilità a giudicare un imputato in ogni caso in cui il giudice abbia, in una precedente sentenza, espresso incidentalmente valutazioni di merito in ordine alla sua responsabilità penale: tale princi AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INCOMPATIBILITÀ DEL GIUDICE CHE HA APPLICATO LA PENA
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pio trova applicazione anche nel caso in cui la precedente sentenza sia stata pronunciata a norma
dell’art. 444 cod. proc. pen., atteso che se è vero che con la sentenza applicativa della pena su richiesta
delle parti il giudice non compie un giudizio di colpevolezza “pieno e incondizionato”, egli tuttavia
perviene comunque a una valutazione di merito dei fatti, idonea a pregiudicare la sua imparzialità nel
successivo giudizio (Sez. 6, n. 3822 del 11/12/1996, dep. 1997, Di Donato, Rv. 208192). L’orientamento
in esame, dunque, propende per il riconoscimento della valenza pregiudicante della sentenza di patteggiamento, nelle ipotesi riconducibili alla sentenza n. 371 del 1996, anche in assenza di espliciti riferimenti, nella sentenza ex art. 444 cod. proc. pen., alla posizione di alcuno dei terzi coimputati (sulla
stessa linea, Sez. 2, n. 106 del 13/01/1999, Compagnon, Rv. 212785).
7.7. Stante il ravvisato contrasto giurisprudenziale la Quinta Sezione ha dunque ritenuto sussistere i
presupposti per investire della decisione del ricorso le Sezioni unite.
8. Con decreto in data 23 aprile 2014, il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite,
fissandone per la trattazione l’odierna udienza camerale.
[Omissis]
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. La questione per la quale il ricorso congiuntamente proposto da D.G.A. e D.G.P. è stato rimesso
alle Sezioni Unite è così riassumibile: “Se l’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 34, comma
2, cod. proc. pen., “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di
un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei
confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata” – sussiste anche per il giudice del dibattimento che, in un
separato procedimento, abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato oggetto del giudizio”. [Omissis]
2.1. Una giurisprudenza che può dirsi consolidata esclude che il difensore possa “attendere” l’esito
della procedura di astensione prima di presentare la dichiarazione di ricusazione (v. tra le altre Sez. 6,
n. 49080 del 03/12/2013, Pagnotta, Rv. 258364; Sez. 5, n. 33422 del 26/06/2008, Scaramucci, Rv. 241385;
Sez. 2, n. 9166 del 19/02/2008, Farruggio, Rv. 239553; Sez. 4, n. 2057 del 29/08/1996, Costa, Rv. 206105).
Va peraltro considerato che nel caso di specie: l’invito alla astensione è stato formulato nel corso della
udienza dibattimentale nello stesso giorno in cui era stata emessa la sentenza ex art. 444 cod. proc. pen.
considerata pregiudicante a carico di un coimputato; il Presidente del Tribunale aveva nella stessa mattina emesso il provvedimento di rigetto; l’udienza era stata ripresa sempre nella stessa mattina; e, appresa la decisione, i difensori avevano immediatamente proposto la dichiarazione di ricusazione. A
prescindere da tale considerazione, deve essere esclusa la tardività della dichiarazione di ricusazione
per il solo fatto che essa sia stata preceduta dall’invito astenersi una volta che i termini ex art. 38, comma 2, cod. proc. pen. per proporre la dichiarazione di ricusazione siano rispettati, come – per quello che
subito si osserverà – deve ritenersi appunto essere avvenuto nel caso in esame.
[Omissis]
2.2. Un secondo aspetto che occorre esaminare deriva dal fatto che la dichiarazione di ricusazione
venne proposta nella stessa udienza ma la sua formalizzazione avvenne solo due giorni dopo mediante
il rituale deposito di essa nella Cancelleria della Corte di appello con il corredo della relativa documentazione. L’art. 38, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. prevede che se la causa di ricusazione sia
divenuta nota nel corso della udienza (come appunto è il caso di specie) la dichiarazione di ricusazione
deve essere proposta in ogni caso “prima del termine della udienza”. Le parti hanno effettivamente reso la dichiarazione prima del termine della udienza, ma l’hanno proposta oralmente davanti allo stesso
Tribunale, per di più senza corredo di documentazione, e non, come prescritto, davanti alla Corte di
appello. Come detto, la formalizzazione della dichiarazione avvenne solo due giorni dopo. La giurisprudenza si è più volte occupata del problema derivante dal rigore della previsione secondo cui se la
causa di ricusazione sia divenuta nota nel corso della udienza la dichiarazione di ricusazione deve essere proposta in ogni caso “prima del termine della udienza”. Si è al riguardo affermato che nel caso in
cui la cancelleria del giudice competente a ricevere la dichiarazione di ricusazione è collocata in luogo
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diverso da quello in cui si svolge l’udienza, e se la formale dichiarazione non può essere presentata
prima dell’esaurimento della udienza, trova applicazione il termine di tre giorni previsto dall’art. 38,
comma 2, primo periodo, cod. proc. pen. (v. tra le altre Sez. 2, n. 49457 del 07/11/2013, Piazza, Rv.
257501; Sez. 5, n. 36624 del 26/05/2009, Turku, Rv. 245129). Ad avviso del Collegio deve affermarsi che,
a prescindere dalla collocazione della sede del giudice competente a ricevere la dichiarazione di ricusazione, non potendo essere imposto alla parte di abbandonare l’udienza per presentare la dichiarazione
di ricusazione nella cancelleria competente (v. Sez. 1, n. 8247 del 06/02/2008, Bontempo, Rv. 239045), è
solo onere della stessa di formulare in udienza la dichiarazione di ricusazione, con riserva di formalizzare tale dichiarazione nel termine di tre giorni previsto dall’art. 38 comma 2, primo periodo, cod. proc.
pen. (in questo senso, Sez. 4, n. 11072 del 15/01/2013, Gravina, n.m.; Sez. 2, n. 46310 del 23/11/2011,
Maniglia, Rv. 251531; Sez. 5, n. 26994 del 26/05/2009, Bontempo, Rv. 244483). D’altra parte, nel caso in
esame, dopo la dichiarazione di ricusazione fatta in udienza, lo stesso Tribunale dispose la trasmissione
al Presidente della Corte di appello di Roma di copia del verbale di udienza, del provvedimento preso
dal Presidente del Tribunale sulla dichiarazione di astensione, della sentenza di applicazione di pena
emessa nei confronti di L.L. e del decreto di giudizio immediato, in tal modo sostanzialmente anticipando la formalizzazione della dichiarazione di ricusazione ad opera delle parti, avvenuta comunque
due giorni dopo.
2.3. La dichiarazione di ricusazione deve dunque essere ritenuta tempestivamente proposta.
[Omissis]
3.1. In punto di fatto va precisato che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, nella
imputazione a “concorso necessario” di cui all’art. 416 cod. pen. (capo B) non risultano coinvolte le imputate D.G.M. e I.G., che rispondono di altre imputazioni, in concorso “non necessario” con i ricorrenti
e altri imputati, e per le quali imputazioni non si pone, e comunque non è stata posta, la tematica del
“pregiudizio” derivante dalla sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di L.L. Il reato di
cui all’art. 416 cod. pen. è stato infatti contestato ai seguenti imputati: L.G., D.G.A., D.G.P., L.L.
(quest’ultimo patteggiante), in concorso tra loro e con I.M., nelle more deceduto.
3.2. Ciò posto, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, non si è verificata nella specie alcuna
“matematica” anticipazione di giudizio sulla posizione dei ricorrenti D.G.A. e P. per effetto della sentenza di patteggiamento pronunciata dallo stesso Collegio del Tribunale nei confronti del coimputato
L.L. I ricorrenti, partendo dal presupposto che la contestazione di cui all’art. 416 cod. pen. (capo B)
coinvolgesse, oltre ad essi e a L.L., il solo L.G., osservano che almeno due dei tre correi dell’imputato
patteggiante (e quindi almeno uno di essi ricorrenti) sarebbero stati necessariamente implicati dalla
sentenza di patteggiamento. Tale assunto trova però smentita nel fatto che anche il deceduto I.M. era
considerato partecipe dell’associazione per delinquere, sicché il Tribunale, nel decidere sulla posizione
del patteggiante L.L. non doveva, nemmeno implicitamente, coinvolgere “matematicamente” quella dei
ricorrenti D.G.A. e P., dal momento che l’associazione poteva “reggersi” considerando come associati,
oltre a L.L., i soli L.G. e I.M., nulla rilevando che quest’ultimo fosse poi deceduto.
3.3. Va tuttavia avvertito che la precisazione sopra indicata su questo punto “in fatto” potrebbe ritenersi non necessaria ove al quesito posto dall’ordinanza di rimessione si dovesse dare risposta negativa. Infatti, se alla sentenza di applicazione di pena non potesse in via di principio attribuirsi effetto pregiudicante ricorrendo la fattispecie descritta dalla sentenza C. cost. n. 371 del 1996, poco varrebbe stabilire se nella specie ne sussistessero i presupposti. Va dunque affrontato il tema posto dal quesito – su
cui, come riportato nella parte in fatto, cui si rinvia, è dato registrare un contrasto giurisprudenziale – e
ad esso deve essere data risposta positiva.
3.4. Infatti, la forza pregiudicante di una sentenza di merito rispetto a un successivo giudizio che riguardi la posizione di un concorrente nel medesimo reato “a concorso necessario” non dipende
dall’ambito di accertamento – pieno o limitato alla verifica dei presupposti di cui all’art. 129 cod. proc.
pen. – che il primo giudizio esprime, perché, quale che sia la valutazione di merito, inevitabilmente essa
tocca un fondamentale aspetto oggetto del successivo giudizio – quello della responsabilità penale – che
per la parte in tal modo “anticipata” ne risulta correlativamente pregiudicato. Venendo più specificamente al tema, la problematica posta dalla sentenza n. 371 del 1996 resta immutata se calata in una fattispecie in cui la prima sentenza sia di patteggiamento: dovendosi necessariamente stabilire se ricorre la
fattispecie minima del concorso di tre persone nel reato associativo, appare evidente che per taluno dei
concorrenti non coinvolto dal patteggiamento, che dovrà essere successivamente giudicato, sussisterà
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un pregiudizio sia pure limitatamente alla sussistenza di una delle cause di non punibilità di cui all’art.
129, comma 1, cod. proc. pen.
3.5. L’orientamento giurisprudenziale che collega l’effetto pregiudicante al quantum motivazionale
espresso dalla sentenza di patteggiamento non può dunque essere condiviso, perché non considera che
tale effetto si produce, sia pure in parte qua, anche nel caso in cui il giudice del patteggiamento si sia
limitato a stabilire la non ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 129, comma 1, cod. proc. pen.. Tale
orientamento, inoltre, ha il difetto di avallare, sia pure implicitamente, una prassi di “esuberanza” di
motivazione nelle sentenze emesse ex art. 444 cod. proc. pen. In questo genere di sentenze, infatti, il
giudice ha come esclusivo parametro di valutazione la non sussistenza “sulla base degli atti” delle condizioni legittimanti il proscioglimento di cui all’art. 129 cod. proc. pen., non essendo tenuto ad affrontare il “pieno merito” della responsabilità penale secondo i canoni di valutazione imposti al giudice del
dibattimento (o del giudizio abbreviato) dall’art. 530 cod. proc. pen. (v. tra le altre Sez. U, n. 10372 del
27/09/1995, Serafino, Rv. 202270; Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, Di Benedetto, Rv. 191135). Ed è per
tale ragione che il ricorso per cassazione avverso dette sentenze che attenga al merito della responsabilità penale deve essere considerato inammissibile (v. Sez. U, n. 20 del 27/10/1999, Fraccari, Rv. 214637).
3.6. Tenuto conto dei ristretti spazi cognitivi “di merito” in cui si muove il giudice del patteggiamento, non dovrebbe verificarsi l’ulteriore ipotesi presa in considerazione dalla sent. n. 371 del 1996 in cui,
al di là dei casi di reato a concorso necessario, nei quali la posizione del patteggiante non può prescindere, sotto l’aspetto numerico, da quella dei concorrenti, il giudice, “qualunque ne sia stato il motivo
[...], abbia incidentalmente espresso valutazioni di merito in ordine alla responsabilità penale di un terzo non imputato in quel processo”. Se ciò si tuttavia si verificasse accidentalmente, a causa di una deprecabile “esuberanza” motivazionale in relazione a posizioni e ad aspetti esterni a quel giudizio, essendo comunque pregiudicato il valore della imparzialità del giudice, non dovrebbe parlarsi di un caso
di incompatibilità ma di uno di ricusazione. Ciò è stato chiarito dalla stessa Corte costituzionale nelle
sentenze “trigemine” nn. 306, 307, 308 del 1997, e poi formalmente definito con la sentenza n. 283 del
2000, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, lett. b), cod.
proc. pen. “nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a
decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale,
una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto”: a prescindere, perciò,
dal carattere indebito di tale valutazione.
4. Va dunque enunciato il seguente principio di diritto: L’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità
dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata” – sussiste anche con riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento, pronunciato sentenza di
applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente necessario dello stesso reato".
5. Come anticipato, la sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti di L.L. si pone al di fuori della tematica del concorso necessario presa direttamente in esame dalla sentenza n. 371 del 1996. Resta ora da stabilire se essa sia stata in concreto idonea a pregiudicare la posizione degli altri imputati,
comunque concorrenti con L.L. nel reato di cui all’art. 416 cod. pen. Ora, a parte il rilievo che, per le ragioni dette, la fattispecie in esame non potrebbe comunque essere ricondotta ad alcuna delle ipotesi incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen., ma semmai a un caso di ricusazione ex art. 37, comma 1,
lett. b), cod. proc. pen., non considerato nella dichiarazione di ricusazione che si muove invece
nell’orbita di una situazione di incompatibilità de giudice, va osservato che nella sentenza di applicazione della pena emessa dal Tribunale di Roma nei confronti di L.L., assunta come atto pregiudicante,
non vi è il minimo cenno alla posizione degli altri coimputati e la motivazione, con riferimento
all’imputato patteggiale, si basa correttamente quali dati probatori, su atti di indagine (probatoriamente
non utilizzabili nei confronti degli imputati giudicati secondo il rito ordinario) e su. criterio della non
ravvisabilità di alcuna causa di proscioglimento ex art. 129, comma 1, cod. proc. pen., osservando, con
riguardo alle plurime imputazioni mosse al predetto imputato, e quindi non solo con specifico riferimento a quella di cui all’art. 416 cod. pen., che “dalla documentazione in atti contenuta nel fascicolo del
pubblico ministero e già visionata in occasione dell’emissione del sequestro conservativo de 27.3.2103, e
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segnatamente dalla visura camerale, dalle sentenze dichiarative de fallimento, dalle relazioni dei curatori, dalle denunce dei danneggiati e dagli atti di p.g., e dalla documentazione ad esse allegata, non
emergono elementi su cui fondare una pronuncia di assoluzione ex art. 129 cod. proc. pen.”. Nella sentenza in esame, dunque, non è stata espressa alcuna considerazione di merito che possa reputarsi in
concreto pregiudicante rispetto alla posizione dei correi.
6. I ricorsi vanno pertanto rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
[Omissis]
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LUCIA IANDOLO
Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bari “A. Moro”
Gli strumenti per rilevare il pre-giudizio di chi ha emesso
la sentenza di patteggiamento verso il coimputato
nel medesimo reato
Defining the tools to note when a judge has already voiced his own
conviction
La Corte di cassazione attesta il rilievo che ha la valutazione operata in sede di applicazione della pena su richiesta
ai fini dell’imparzialità del giudice, tanto da costituire evidente motivo di incompatibilità nei procedimenti a carico
dei concorrenti nel medesimo reato. Tuttavia la decisione, riconducendo la fattispecie nell’astratta sfera operativa
della declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 34 c.p.p. (C. cost., sent. 2 novembre 1996, n. 371)
elude l’effetto concreto riconducibile all’applicazione dell’art. 37 c.p.p. innovato (C. cost., sent. 14 luglio 2000, n.
283).
The decision seeks to define the needful tools to note when a judge has already voiced his own conviction. Italian
Superior Court argues as having raised the assessment made by judge about a bargaining agrreement for the purpose of impartiality: this constitutes a clear reason for incompatibility in criminal proceedings against competitors
in crime.
This judgement bring the case within fees of incompatibility, also raising doubts about Italian Constitution legitimacy,although it’s important to apply the legislative dictates about judge’s objection as Italian Constitutional Court
has just said.
I TERMINI DELLA VICENDA
Al vaglio della Cassazione, nella composizione a Sezioni unite, è sottoposta la questione relativa all’inammissibilità della dichiarazione di ricusazione in merito all’incompatibilità del giudice del dibattimento, che abbia già pronunciato sentenza di patteggiamento nei confronti di un coimputato, a giudicare, in un separato giudizio, gli altri concorrenti nel medesimo reato. La ricostruzione della vicenda
processuale è segnata da una serie di significativi passaggi che, risolta la questione preliminare sul punto della ricusazione, si sviluppano sul tema dell’incompatibilità in merito ai relativi profili: astratto (art.
34 c.p.p.) e concreto (art. 37 c.p.p.), ed anche sulla funzione ed effettività della sentenza di applicazione
della pena su richiesta. A tal fine il Collegio ripercorre le linee indicate dalla Sezione rimettente 1, in ordine a due punti: le rilevate eccezioni dei ricorrenti ed i discordanti indirizzi della giurisprudenza di legittimità, nonché procedendo alla ricognizione della giurisprudenza costituzionale in tema di incompatibilità in caso di pluralità di procedimenti.
La richiamata eccezione riguarda la dichiarazione di ricusazione proposta dalla difesa nel giudizio di
primo grado avverso i componenti del collegio investiti del giudizio immediato a carico di coimputati in
reato associativo, avendo gli stessi giudici già emesso sentenza di patteggiamento nei confronti di uno di
1
Cass., sez. V, 4 aprile 2014, n. 17078, in www.cortedicassazione.it.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | GLI STRUMENTI PER RILEVARE IL PRE-GIUDIZIO DI CHI HA EMESSO LA SENTENZA
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essi 2. La richiesta di ricusazione si incentrava sul presupposto che, nell’applicare la pena richiesta dal
coimputato, i giudici avevano «sicuramente operato una valutazione» estesa «logicamente e matematicamente» agli altri concorrenti. Sul punto, la difesa richiamava la sentenza della Corte costituzionale 371/96
che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 34 comma 2 c.p.p. «nella parte in cui non prevede
che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di
quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata».
L’altra questione, peraltro quella che più di ogni altra ha condizionato la Sezione V nel rimettere la
decisione alla Sezione collegiale, concerne i tre orientamenti giurisprudenziali formatisi in merito alla
situazione un “po’ troppo agitata” delle incompatibilità.
Secondo il primo, anche nell’evenienza di reato a concorso necessario, il giudice che ha pronunciato
sentenza di patteggiamento verso un concorrente non è incompatibile con il giudizio degli altri concorrenti, giacché il provvedimento non implica la dimostrazione in positivo della responsabilità dell’imputato, ma solo l’accertamento in negativo dell’inesistenza di cause di non punibilità ai sensi dell’art.
129 c.p.p. 3.
Un secondo indirizzo, invece, non esclude del tutto, bensì limita l’attitudine pregiudicante della sentenza ex art. 444 c.p.p. all’ipotesi in cui il giudice abbia effettuato, in modo esplicito e concreto, una delibazione dell’accusa nei confronti dell’imputato rimasto estraneo alla richiesta di patteggiamento 4.
Quanto al terzo, è incompatibile il giudice che nella precedente sentenza di applicazione della pena
abbia espresso incidentalmente valutazioni di merito sulla responsabilità dei coimputati, pur in assenza
di espliciti riferimenti, nella sentenza ex art. 444 c.p.p., alla posizione di alcuno dei coimputati 5.
GLI INTERVENTI COSTITUZIONALI SPECIFICI: LA SENTENZA N. 371 DEL 1996
Il sistema dell’incompatibilità si impone con determinazione nel contesto normativo nel quale potrebbe
apparire carente la condizione di impregiudicatezza, a garanzia di un giudizio imparziale, in tal senso,
l’art. 34 c.p.p. già nel testo originario predispone, sotto forma di un astratto schema indicativo, una serie
di condizioni di “pre-giudizio” tali da determinare criteri di organizzazione preventiva della funzione
giurisdizionale 6. Purtuttavia, dagli anni ‘90 in poi si è assistito ad una intersecazione tra interventi legislativi 7 ed una sequenza di sentenze additive della Corte costituzionale 8 che hanno contribuito a riscrivere
la disposizione, per l’affermazione dei valori costituzionali di un processo giusto in ordine ai caratteri
soggettivi ed oggettivi della giurisdizione; con il limite, nondimeno, di riferirsi sempre e soltanto alla incompatibilità nel medesimo ambito procedurale o processuale. L’insistenza dei giudici nel vaglio di incostituzionalità della disposizione viene ricondotta a svariate ragioni: nell’intento di individuare normati-
2
In merito al contrasto giurisprudenziale sulla competenza ad emettere sentenza ex art. 444 c.p.p. richiesta nel corso di un
giudizio immediato, da parte del giudice del dibattimento (Cass., sez. I, 20 ottobre 2000, n. 6238, in CED Cass. n. 218177; Cass.,
sez. I, 20 novembre 2000, n. 268, in CED Cass. n. 216272) ovvero da parte del g.u.p. (Cass., sez. I, 17 aprile 2002, n. 1641, in CED
Cass. n. 221423; Cass. 30 gennaio 2001, n. 15045, in CED Cass. n. 218296) la Cassazione, nella composizione a Sezioni unite ha affermato che la «competenza in questione ha carattere funzionale perché è connaturata alla costruzione normativa della ripartizione delle attribuzioni del giudice in relazione allo sviluppo del processo». Cfr. Cass., sez. un., 8 febbraio 2005, n. 1283, in Cass.
pen., 2005, p. 1501.
3
Si richiamano: Cass., sez. II, 20 giugno 2003, n. 36536, in CED Cass. n. 226453; Cass., sez. VI, 14 maggio 1998, n.1752, in CED
Cass. n. 211078; Cass., sez. VI, 16 aprile 1998, n. 1385, in CED Cass. n. 210664.
4
Cass., sez. V, 26 gennaio 2005, n. 8472, in CED Cass. n. 231490; Cass., sez. VI, 14 luglio 2003, n. 32424, in CED Cass. n.
2265111.
5
Cass., sez. II, 13 gennaio 1999, n. 106, in CED Cass. n. 212785; Cass., sez. VI, 11 dicembre 1996, n. 3822, in CED Cass. n. 208192.
6
Il giudice non può essere investito della medesima res iudicanda, da subito oppure dal momento in cui si chiude la fase processuale in cui si è pregiudicato: come evidenzia G. Di Chiara, Linee evolutive della giurisprudenza costituzionale in tema di imparzialità del giudice, in Riv. it. dir. pen., 2000, p. 85.
7
D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, modificato dall’art. 1, l. 16 giugno 1998, n. 188; l. 8 aprile 2004, n. 95; art. 11, l. 16 dicembre
1999, n. 479; d.l. 7 aprile 2000, n. 82, conv. in l. 5 giugno 2000, n. 144.
8
Le sentenze della Corte costituzionale più specifiche sull’incompatibilità “alla funzione di giudizio”: C. cost., sent. 30 dicembre
1991, n. 502; C. cost., sent. 30 dicembre 1994, n. 455; C. cost., sent. 24 aprile 1996, n. 131, tutte reperibili in www.giurcost.org.
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vamente casi tassativi 9; ovvero «nella struttura bifasica del processo che impone la verginità conoscitiva
del giudice» 10, bensì, forse più realisticamente, a voler “rafforzare” la tutela dell’incompatibilità 11 .
Nella indicata panoramica di pronunce di incostituzionalità risalta la sentenza della Corte costituzionale n. 371 del 1996 che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 34, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui
non prevede l’incompatibilità del giudice del dibattimento a giudicare gli imputati la cui posizione abbia già dovuto esaminare incidenter tantum nella sentenza emessa, a seguito di separazione di processi,
nei confronti di altri coimputati del medesimo reato» 12.
La Corte, è intervenuta incisivamente sull’incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p., tra l’altro distinguendosi parzialmente dalle precedenti sentenze 13, poiché la questione riguarda una causa di incompatibilità in merito alle situazioni di parcellizzazione del processo «nella peculiare ipotesi di reati a concorso
necessario», allorquando il giudice già si sia pronunciato sulla responsabilità di alcuni concorrenti, sui
presupposti che si tratti di concorso nel medesimo reato e la posizione di uno dei concorrenti costituisca
«elemento essenziale per la stessa configurabilità del reato contestato agli altri concorrenti» 14. La valutazione del giudice verrebbe, inevitabilmente, condizionata dalla “propensione” del giudice a confermare la propria precedente decisione.
2. ... E LA SENTENZA N. 283 DEL 2000
Le cause di incompatibilità comportano l’onere di organizzare preventivamente la terzietà del giudice,
richiesto allorché il pregiudizio all’imparzialità sia la conseguenza di funzioni esercitate in un medesimo procedimento penale (art. 34 c.p.p.); allorquando, invece, il pregiudizio derivi dall’esercizio di funzioni in un procedimento diverso, lo strumento di garanzia della terzietà deve attenersi, di regola,
all’area degli istituti dell’astensione(art. 36 c.p.p.) e della ricusazione (art. 37 c.p.p.).
In virtù di questa logica consequenzialità l’art. 36 c.p.p. ipotizza, difatti, l’obbligo per il giudice di
astenersi «se si trova in taluna delle situazioni di incompatibilità stabilite dagli artt. 34 e 35 c.p.p. e dalle
leggi di ordinamento giudiziario». La disposizione, tuttavia, non opera soltanto con il rinvio alle cause
di incompatibilità degli articoli precedenti, perché dispone anche determinate e specifiche fattispecie,
ed in particolare una norma di chiusura a cui devono essere ricondotte tutte le ipotesi non ricadenti nelle precedenti lettere e nelle quali tuttavia l’imparzialità del giudice sia da ritenere compromessa. Si tratta della locuzione di cui al comma 1 lett. h) «se esistono altre gravi ragioni di convenienza» 15, che si
evidenzia per il rilievo assunto nella sentenza costituzionale 113/2000 laddove il giudice ha ritenuto
non fondata la sollevata questione di legittimità dell’art. 36 c.p.p. nella parte in cui «non prevede tra le
cause di astensione l’aver il giudice precedentemente pronunciato sentenza di patteggiamento nei confronti di più concorrenti nel reato».
Ad avviso della Corte, difatti, l’art. 36 c.p.p. con la previsione di cui al comma 1, lett. h), ha una sfera
di applicazione già «sufficientemente ampia» da comprendere anche le ipotesi in cui il pregiudizio alla
9
Opinione di G. Spangher, Art. 34 c.p.p.: i punti fermi della giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 2003, p. 1139.
10
G. Di Chiara, L’incompatibilità endoprocessuale del giudice, Torino, 2000, p. 8.
11
Secondo P. Ferrua, Il giusto processo, Bologna, 2005, p. 45.
12
C. cost., sent. 2 novembre 1996, n. 371, in Giur. cost., 1996, p. 1449 ss.
13
In due altre sentenze la Corte costituzionale ha escluso l’incompatibilità del giudice nelle ipotesi di concorso di persone
nel medesimo reato sul rilievo che «alla comunanza dell’imputazione fa necessariamente riscontro una pluralità di condotte distintamente ascrivibili a ciascuno dei concorrenti, le quali, ai fini del giudizio di responsabilità devono formare oggetto di autonome valutazioni». Cfr. C. cost., sent. 2 dicembre 1993, n. 439 e C. cost., sent. 23 aprile 1992, n. 186, in www.giurcost.org.
14
Si tratta delle ipotesi:di concorso necessario di persone nel reato che rientra nella categoria di reati nei quali la pluralità di
agenti è richiesta come elemento costitutivo del reato per cui il giudice, al fine di determinare la sussistenza del reato, deve vagliare contemporaneamente la posizione di tutti i concorrenti; e del concorso eventuale di persone nel reato allorquando il giudice, nella pronuncia già emessa in ordine ad un concorrente, abbia espresso valutazioni concernenti la responsabilità dell’imputato.
15
Non importa se “altre” stia qui per “diverse” o per “ulteriori”; rileva unicamente il fatto che grazie all’uso di questo termine tutte le cause di astensione elencate nelle precedenti lettere dello stesso comma 1 dell’art. 36, nel linguaggio del legislatore,
sono da considerare, a loro volta, “altre” e, quindi, “ragioni di convenienza” anch’esse.: C. cost., sent. 20 aprile 2000, n. 113, in
www.giurcost.org.
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terzietà del giudice derivi da funzioni esercitate in un diverso procedimento. La formula “altre gravi
ragioni di convenienza” induce a ritenere applicabile una valutazione caso per caso, pertanto, alla fattispecie plurisoggettiva dovrebbe corrispondere sul piano processuale l’onere di realizzare il simultaneus
processus nei confronti di tutti i concorrenti; l’ipotesi di processi separati comporterebbe un automatico
dovere di astensione del giudice nel successivo giudizio.
Al pari dell’astensione, anche la ricusazione ha la funzione di rimedio attivato ex post per consentire
di rimuovere un giudice già designato per un determinato procedimento, in presenza di situazioni che
ne comprometterebbero l’imparzialità; tuttavia tra i due strumenti non si ravvisa una totale coincidenza, considerate le divergenze in ordine al procedimento 16, agli effetti 17, ed ai motivi, solo in parte comuni, visto l’espresso rinvio dell’art. 37 c.p.p. alla precedente disposizione. Per la sola ricusazione, in
effetti, rileva ai fini della compromessa imparzialità del giudice «la indebita manifestazione da parte del
giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, del proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione»
(art. 37, lett. b) c.p.p.), causa che già da sé amplia il raggio di applicazione ben oltre il ristretto ambito
endoprocedimentale dell’art. 34 c.p.p.
A dilatare ancor più i confini della eccezione di incompatibilità su richiesta di parte è intervenuta la
declaratoria di parziale illegittimità costituzionale dell’art. 37 c.p.p., disposta nella sentenza della Corte
costituzionale n. 283 del 2000 18. La pronuncia si evidenzia per aver introdotto un motivo specifico di
ricusazione del giudice che, «chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato, abbia espresso in
altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del
medesimo soggetto».
Nella sentenza della Consulta, già in premessa, l’incompatibilità è annoverata, in forma di specie,
nel più ampio concetto di imparzialità, non “soltanto formale” ma “concreta e tangibile” come elemento catalizzante l’essenza del procedimento penale in tutte le sue fasi; il risultato è un più ampio riferimento applicativo dell’art. 37 c.p.p. rispetto a quello più angusto di cui all’art. 34 c.p.p. Laddove, infatti,
lo strumento della ricusazione, rivolgendosi ad una situazione effettiva, non incontra il limite
dell’endoprocedimentalità, le cause di incompatibilità, determinate invece dalla prevedibilità, indicano
“il pregiudizio” associato, in astratto, ad atti prestabiliti compiuti nel medesimo procedimento 19.
La Corte, nelle sue argomentazioni richiama le pronunce che hanno riguardato l’art. 34 c.p.p. laddove è affermato che le situazioni di incompatibilità “prevedibili” siano anche “prevenibili” da richiedere
l’onere di “organizzare” preventivamente la neutralità del giudice (C. cost., sent. n. 306 del 1997), in
quanto espressione di un modo di essere della giurisdizione nella sua oggettività, piuttosto che un diritto delle parti ad un giudice terzo (C. cost., sent. n. 307 del 1997) 20.
Uno specifica considerazione sull’apporto innovativo della sentenza n. 371 del 1996 che non avrebbe
“contraddetto” il carattere di fondo delle situazioni di incompatibilità – il costante riferimento a rapporti che riguardano il medesimo procedimento – giacché tale decisione attiene alla specifica ipotesi in cui
la valutazione pregiudicante, pur espressa in un procedimento formalmente diverso, concerne una vicenda sostanzialmente unitaria che avrebbe dovuto essere risolta nel medesimo contesto processuale.
Ad avviso della Corte risultano evidenti le ragioni per le quali le situazioni che danno luogo alla
astensione-ricusazione, debbano essere oggetto di una «puntuale valutazione di merito» che permetta
di dare attuazione alla tutela della neutralità del giudice (quale principio del giusto processo) «previa
16
La procedura per l’astensione è semplificata, per la ricusazione, viceversa, è articolata in un giudizio incidentale che assicura criteri oggettivi per l’individuazione del giudice sostituto del ricusato.
17
Il giudice che dichiara di astenersi, sospende ogni attività mentre la semplice presentazione della dichiarazione di ricusazione non comporta per il giudice ricusato alcuna limitazione di poteri nello svolgimento dei suoi compiti.
18
C. cost., sent., 14 ottobre 2000, n. 283, in Giur. cost., 2000, p. 2186 ss.
19
L’art. 34 c.p.p. riguarda incompatibilità interne al procedimento penale, le cui cause impongono il ricorso ad atti organizzativi finalizzati ad assegnare il procedimento ad altro giudice, «solo quando tali atti siano omessi l’incompatibilità si trasforma
in motivi di astensione o ricusazione»: G. Spangher, Art. 34 c.p.p.: i punti fermi della giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost.
2003, p. 1139.
20
La sentenza costituzionale n. 283 del 2000 trova la sua paternità proprio nelle menzionate pronunce (C. cost. 1 novembre
1997, nn. 306, 307 e 308, in www.giurcost.org) giacché, nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità dell’art. 34 c.p.p. allora sollevate, la Corte sollecitava un ulteriore intervento diretto ad ampliare l’ambito di applicazione degli istituti dell’astensione e ricusazione, «ove il pregiudizio per l’imparzialità del giudice non fosse riconducibile ad alcuna delle ipotesi già previste
dall’ordinamento».
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verifica in concreto dell’eventuale effetto pregiudicante»; considerata la difficoltà di prevedere una
«astrazione e tipicizzazione» idonea ad individuare a priori tutte le situazioni in cui il giudice potrebbe
trovarsi in una situazione di imparzialità.
Dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, c.p.p., ambito di applicazione della
ricusazione, in modo puntuale, la Corte ne ha determinato i presupposti stabilendo, in negativo, i criteri
utilizzabili in merito all’attività pregiudicante – oltre la mera cognizione dei fatti di causa o l’aver
espresso giudizi solo incidentalmente – ed, in positivo, le specie per il cui tramite si profila la valutazione pregiudicante del giudice – altre decisioni di merito, non solo sentenze 21.
UNA QUAESTIO PRELIMINARMENTE AFFRONTATA
La Suprema Corte, in via preliminare, affronta e risolve il quesito in merito alla “tempestività della dichiarazione di ricusazione”, «in relazione al fatto che le parti ricusanti l’hanno formalizzata dopo avere
invitato i giudici ad astenersi e solo dopo il provvedimento di non accoglimento della astensione». Sul
punto, il Collegio, richiamando l’orientamento della Cassazione nel senso di escludere che la parte
«debba attendere l’esito della procedura di astensione prima di presentare la richiesta di ricusazione» 22,
ha ritenuto tempestiva la dichiarazione di ricusazione in ordine al rispetto dei termini ex art. 38, comma
2, c.p.p. Nella specie, difatti, la parte, avendo già invitato il giudice ad astenersi, e confidando nel riconoscimento di «una situazione di pregiudizio alla imparzialità e serenità del giudizio», avrebbe, a ragione, supposto superfluo presentare una richiesta di ricusazione fondata sugli stessi motivi 23. Pertanto, la “tempestività” appare osservata anche se la ricusazione sia stata inizialmente proposta in forma
orale e, solo successivamente formalizzata in cancelleria nel prescritto termine di tre giorni di cui all’art.
38, comma 2, primo periodo, c.p.p. 24; comunque in un momento precedente la conclusione dell’udienza 25. Sul punto si profila una causa di ricusazione “sorta” o “divenuta nota” a norma dell’art. 38,
comma 2, c.p.p., conforme alle cadenze temporali di cui al comma 1 della disposizione. Le due condizioni alternative, che comunque richiedono una conoscenza reale da parte del legittimato alla ricusazione, si configurano in merito a cause di ricusazione noviter repertae, cioè effettivamente sopravvenute,
escludendo, pertanto, quelle noviter productae, non rilevate dalle parti, per negligenza, nel termine ex art.
38, comma 1, c.p.p.
LA VALENZA PREGIUDICANTE DELLA SENTENZA EMESSA A SEGUITO DI PATTEGGIAMENTO
Risolto il tema preliminare, il Supremo collegio prosegue con la verifica dell’effetto pregiudicante attribuito alla sentenza di applicazione della pena e, in conformità con l’orientamento della Sezione rimettente, riconduce i termini della questione alla fattispecie descritta dalla sentenza della Corte costituzionale 371/96 avente ad oggetto le ipotesi di incompatibilità di cui all’art. 34 c.p.p. A tal fine la Cassazione riesamina i diversi percorsi giurisprudenziali già esposti dogmaticamente dalla Sezione rimettente.
In merito al primo che esclude l’incompatibilità in quanto la sentenza negoziata esula dall’accertamento di responsabilità dell’imputato, il Collegio oppone il principio di diritto in base al quale la
«forza della prevenzione» di una decisione di merito derivante dalla citata sentenza costituzionale «non
dipende dall’ambito di accertamento che il primo giudizio esprime» in quanto riguarda l’aspetto della
responsabilità penale che «per la parte anticipata risulta correlativamente pregiudicato».
21
A commento della sentenza costituzionale in esame: G. Di Chiara, Appunti in tema di imparzialità del giudice penale, ricusabilità “per invasione” e previa manifestazione “non indebita”di convincimento sui fatti di causa, in Cass. pen., 2001, p. 1101 ss.
22
v. Cass., sez. VI, 3 dicembre 2013, n. 49080, in CED Cass. n. 258364; Cass., sez. V, 26 giugno 2008, n. 33422, in CED Cass. n.
241385; Cass., sez. II, 19 febbraio 2008, n. 9166, in CED Cass. n. 239553.
23
In tal senso, Cass., sez. VI, 11 aprile 2002, n. 3853, in CED Cass. n. 224054.
24
Si accoglie la tesi giurisprudenziale secondo la quale la dichiarazione di ricusazione può essere proposta oralmente in
udienza nell’ipotesi in cui la cancelleria competente a riceverla si trovi in un luogo diverso: Cass., sez. II, 23 novembre 2011, n.
46669, in CED Cass. n. 251531; Cass., sez. IV, 29 maggio 2009, n. 23613, in CED Cass. n. 244483.
25
Cass., sez. II, 7 novembre 2013, n. 49457, in CED Cass. n. 257501; Cass., sez. V, 26 maggio 2009, n. 36624, in CED Cass. n.
245129.
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La Corte non condivide neppure il secondo orientamento giurisprudenziale che ricollega gli effetti
pregiudicanti della sentenza ex art. 444 c.p.p. all’eventuale “quantum motivazionale” per due motivi:
l’uno di ordine sistematico per il quale nella sentenza di patteggiamento il giudice non valuta la responsabilità penale secondo i canoni “di pieno merito” del giudice dibattimentale, ma si attiene alla valutazione sulla base degli atti; l’altro, di natura pragmatica, che avallerebbe una situazione di “esuberanza” di motivazione nelle sentenze di applicazione della pena su richiesta.
Le Sezioni unite, quindi, accogliendo il terzo indirizzo della giurisprudenza di legittimità enunciano
il principio di diritto per il quale l’incompatibilità del giudice ex art. 34 c.p.p., nella parte in cui è stato
dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 371 del 1996, sussiste anche in riferimento
alla sentenza di patteggiamento nei riguardi di un concorrente necessario dello stesso reato; salvo poi
evidenziare che la fattispecie si pone «al di fuori della tematica del concorso necessario presa direttamente in esame dalla sentenza 371/96» 26.
Alcuni rilievi sulla sentenza delle Sezioni unite prendono spunto dallo snodo della questione che ha
riguardato l’eccepita incompatibilità: la sentenza di patteggiamento, la cui rilevanza è stata equiparata
dalle Sezioni unite, senza ombra di dubbio, alla pronuncia di condanna (art. 445, comma 1 bis, c.p.p.).
Rimane, pertanto, da chiarire se si tratta di una sentenza “accertativa” 27 e, quindi, risultato di un accertamento di responsabilità, ovvero “non accertativa” 28, trattandosi di un provvedimento autonomo, distinto dalla sentenza di condanna ed alla stessa “equiparato” 29 solo con riguardo a determinati effetti.
La soluzione mediata, in adesione al principio nulla poena sine iudicio, attribuisce alla sentenza patteggiata valore di una vera e propria sentenza di merito ovvero una delibazione mediante la quale il giudice non formula un giudizio di colpevolezza “pieno e incondizionato”, ma perviene, comunque, ad una
valutazione di merito dei fatti. La differenza, quindi, tra sentenza di condanna e di patteggiamento risiede nel “diverso grado di approfondimento” della cognizione del giudice, in conformità all’art. 111
Cost. che consente espressamente una deroga al principio del contraddittorio nella formazione della
prova, su consenso dell’imputato.
La Cassazione, pur eludendo l’indagine sugli effetti della sentenza di patteggiamento, chiarisce in
conformità con la sentenza costituzionale n. 371 del 1996 che l’incompatibilità sussiste «non solo quando nel primo giudizio la posizione del terzo sia stata valutata a seguito di un puntuale ed esauriente
esame delle prove raccolte a suo carico, ma anche quando abbia formato oggetto di una delibazione di
merito superficiale e sommaria, apparendo anzi, in questa seconda ipotesi, ancor più evidente e grave
la situazione di pregiudizio nella quale il giudice verrebbe a trovarsi», affermando, così, la valenza pregiudicante della sentenza di patteggiamento.
L’accertata idoneità della sentenza negoziata a pregiudicare la neutralità del giudice in un giudizio
successivo, pertanto supera, anzi in un certo qual modo raccorda tra loro, gli orientamenti giurisprudenziali formatisi in merito alla valutazione delle situazioni di incompatibilità.
Dal percorso esegetico della sentenza traspare, tuttavia, una sorta di approssimazione in ordine alla
valutazione delle situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità, perché la questione è stata risolta mediante il richiamo nell’unica direzione della pronuncia costituzionale n. 371 del 1996. Al Supremo collegio è stata rimessa sì una questione di incompatibilità del giudice dibattimentale che abbia già pronunciato una sentenza di patteggiamento nei confronti di un concorrente necessario nello stesso reato og-
26
In punto di fatto, la Cassazione individua gli imputati nei cui confronti era stata formulata imputazione di reato a “concorso necessario”, escludendo coloro i quali rispondono di altre imputazioni, in “concorso non necessario” con i ricorrenti e altri
imputati e per le cui imputazioni non si pone, e peraltro non è stata posta, la questione del pregiudizio effetto della sentenza di
patteggiamento.
27
La legge processuale connette determinati effetti alla condanna, non tanto in ragione del fatto che esiste una sentenza di
quel formale tenore, quanto piuttosto per l’accertamento di responsabilità che la sentenza stessa racchiude e, al contempo, documenta. La stessa non può spiegare simili effetti, se non contiene quell’accertamento: R. Orlandi, Procedimenti speciali, in G.
Conso-V. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, VII, 2014, p. 710.
28
Si tratta della tesi suffragata in giurisprudenza sul fatto, in particolare, che alla sentenza di patteggiamento non potrebbe
applicarsi integralmente il modello di cui all’art. 546 comma 1, lett. e) c.p.p.: la più recente Cass., sez. fer., 19 agosto 2014, n.
36087 conforme a Cass., sez. un., 27 marzo 1992, in Giur. it. 1993, p. 203 ss.
29
La equiparazione fa si che la sentenza abbia gli effetti processuali e sostanziali dalla condanna, salvo che la legge disponga
diversamente, ove la legge non dispone diversamente, gli effetti si applicano di diritto, puntualmente specificato da: P. Tonini,
Manuale di procedura penale, XV, Milano, 2014, p. 802.
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getto del giudizio, ma è altrettanto rilevante che, nella specie, si è trattato di una causa di incompatibilità non invocata dallo stesso giudice, che ha chiesto di astenersi, bensì eccepita da una delle parti, ricorrendo allo strumento della ricusazione.
L’essenza delle situazioni di incompatibilità di cui all’art. 34 c.p.p., “non contraddetta” dalla sentenza n. 371 del 1996, ha riguardo a rapporti che interessano una vicenda processuale unitaria; diversamente, gli strumenti dell’astensione e ricusazione sono connotati dal riferimento a vicende pregiudizievoli per l’imparzialità del giudice che «normalmente preesistono» al procedimento, ovvero «si collocano al di fuori del procedimento» 30.
I giudici della Cassazione, pertanto, applicando ai fini della loro decisione la causa di incompatibilità
ex art. 34 c.p.p., hanno trascurato di approfondire, avendola tuttavia in parte indicata, la riconducibilità
della fattispecie nella sfera applicativa dell’art. 37 c.p.p., ridefinito dalla sentenza costituzionale n. 283
del 2000, nel senso di accogliere la dichiarazione di ricusazione nei confronti del giudice che, investito
di una decisione processuale, «abbia precedentemente espresso una valutazione di merito sullo stesso
fatto e nei confronti del medesimo soggetto, al di fuori della vicenda processuale e a prescindere dal carattere indebito di tale valutazione».
Le Sezioni unite avrebbero dovuto delineare i termini della questione in merito alla situazione pregiudizievole nella più ampia accezione di imparzialità – neutralità del giudice, piuttosto che di mera
incompatibilità; intravedendo la soluzione nella disposizione di cui all’art. 37 c.p.p., specialmente in
merito alla rilettura e riscrittura operata dalla Corte costituzionale nella sentenza 283/2000. Non si configura, pertanto, sufficientemente inquadrata nel sistema normativo la ragione del “pregiudizio” descritta in sentenza prevalentemente sulla statuizione “astratta” dell’incompatibilità ogni qualvolta il
giudice possa apparire condizionato da proprie precedenti valutazioni sulla responsabilità dell’imputato, (art. 34 c.p.p.) che induce ad attribuire alla sentenza di patteggiamento funzione pregiudicante,
salvo escluderla in merito alla questione di specie (la condizione del concorso necessario nel reato).
Diversamente, la questione sottoposta al giudizio delle Sezioni unite avrebbe ottenuto adeguata rilevanza se fosse stata articolata sulla funzione della ricusazione (art. 37 c.p.p.) strumentale ad una verifica “concreta” delle situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità della funzione giudicante 31, quando la
valutazione di merito è stata espressa in un procedimento e gli effetti pregiudicanti debbano essere accertati in un diverso contesto processuale.
30
Tali forme di incompatibilità si connotano sia nei rapporti relativi ad un procedimento che avrebbero dovuto essere risolti
nel medesimo contesto processuale, sia, per analogia, nelle situazioni in cui la valutazione pregiudicante sia stata espressa in
precedente procedimento avente ad oggetto il medesimo fatto storico successivamente addebitato allo stesso imputato. Così
chiarito nella esaminata sentenza della C. cost. n. 283 del 2000, cit.
31
Ai fini del pregiudizio per l’imparzialità è necessario che «il giudice venga chiamato ad effettuare una valutazione di merito collegata alla decisione finale della causa»: A. Diddi, Nuovi orizzonti nei rapporti tra incompatibilità e ricusazione, in Giust. pen.,
2000, I, p. 291.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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Restituzione delle cose sequestrate:
incertezze interpretative
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I, SENTENZA 4 GIUGNO 2014, N. 23333 – PRES. SIOTTO; REL. MAGI
La disposizione dell’art. 263, comma 3, c.p.p., richiamato in sede esecutiva dall’art. 676, comma 2, c.p.p., secondo
la quale il giudice penale, adito per la restituzione dei beni sequestrati, rimette le parti davanti al giudice civile in
caso di controversia sulla proprietà dei beni, mantenendo il sequestro, trova applicazione anche in assenza di formale pendenza della lite davanti a quest’ultimo, purché in tale ipotesi, il giudice penale dia adeguato apprezzamento in motivazione della serietà della potenziale controversia.
È impugnabile, inoltre, con ricorso per Cassazione il provvedimento emesso ai sensi dell’art. 263, comma 3, c.p.p.,
dal giudice penale quale giudice dell’esecuzione quando, in relazione ad un procedimento ormai definito (nella
specie, per archiviazione), rigetta la richiesta di restituzione di beni sequestrati e rimette le parti dinanzi al giudice
civile per la risoluzione della questione sulla proprietà, in assenza di lite pendente davanti a quest’ultimo, atteso
che, in tale ipotesi, in ragione dell’impossibilità per l’interessato di ricevere “aliunde” tutela da parte dell’autorità
giudiziaria, deve escludersi la natura interlocutoria della decisione.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con ordinanza emessa in data 18 dicembre 2012 il GIP del Tribunale di Firenze, quale giudice
dell’esecuzione, decidendo su opposizione (ai sensi dell’art. 667 c.p.p., comma 4) proposta da (Omissis)
avverso precedente provvedimento – che dichiarava non luogo a provvedere sull’istanza di restituzione di un dipinto ((Omissis), olio su tavola raffigurante “scena familiare napoletana”) per essere stata
rimessa al giudice civile la controversia circa la proprietà del bene in sequestro penale, ai sensi dell’art.
263 c.p.p., comma 3 e art. 676 c.p.p., comma 2 – rigettava l’opposizione, confermando il provvedimento
già emesso.
Dagli atti risulta che (Omissis) è stata originariamente iscritta – nell’ambito di una più vasta indagine – nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen. per l’ipotesi di ricettazione dato che l’opera (rinvenuta
in possesso della (Omissis) il 26.11.2009) era stata oggetto di furto denunziato da (Omissis) ed avvenuto
a (Omissis).
Nel corso dell’indagine venivano ricostruite le modalità dell’acquisto del dipinto da parte della
(Omissis), avvenuto nell’anno 2008 presso una galleria d’arte in Firenze e si riteneva dimostrata, a fini
penalistici, la buona fede della stessa (Omissis), la cui posizione veniva stralciata ed archiviata in data 4
ottobre 2011. Risulta che il procedimento penale è invece proseguito con esercizio dell’azione nei confronti dei titolari della galleria d’arte (Omissis) (anche per la ricettazione di altre opere) e che l’originario provvedimento di sequestro è stato allegato agli atti di tale procedimento, ove la (Omissis) viene indicata quale persona offesa.
Ad avviso del GIP, pronunziatosi in sede esecutiva (e ciò in rapporto alla intervenuta archiviazione)
a nulla vale l’assenza – dimostrata in sede di opposizione – di una formale controversia civilistica tra
(Omissis) e (Omissis), posto che entrambi hanno manifestato la volontà di ottenere la restituzione del
dipinto. Da ciò l’applicazione – essendovi controversia sulla proprietà – della disposizione normativa di
cui all’art. 263 c.p.p., comma 3.
2. Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione (Omissis), a mezzo del difensore di fiducia, articolando un unico motivo con cui si deduce erronea applicazione dell’art. 263, comma
3, vizio di motivazione e abnormità dell’ordinanza.
La difesa, nel ricostruire l’intera vicenda ribadisce – come già documentato in sede di opposizione –
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che nessuna controversia circa la proprietà del dipinto è in corso tra la (Omissis) e (Omissis) e pertanto
contesta l’applicabilità della speciale previsione di cui all’art. 263 cod. proc. pen.
D’altra parte tale ipotizzata controversia non avrebbe alcuna ragione di venire ad esistenza, dato che
nel corso delle indagini è stata accertata la buona fede della (Omissis), con correlata applicabilità della
norma di cui all’art. 1153 cod. civ. (il possesso in buona fede all’atto dell’acquisto è titolo).
Mancherebbe pertanto l’interesse della (Omissis) ad instaurare un giudizio civile per affermare ciò
che è già stato verificato, né appare possibile – in assenza di formale rivendica da parte del (Omissis) –
attivare l’azione negatoria di cui all’art. 949 cod. civ.
Non sussistendo alcuna reale controversia, l’ordinanza applica erroneamente il disposto normativo
in parola e determina, altresì una irragionevole stasi del procedimento, con profili di abnormità.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il provvedimento va ritenuto impugnabile ex art. 666 c.p.p., comma 6 ed il ricorso risulta fondato
e va accolto, per le ragioni che seguono.
1.1 Va anzitutto precisato che la norma in rilievo – l’art. 263 c.p.p., comma 3 (richiamato, in sede esecutiva, dall’art. 676, comma 2) – è oggetto di diverse interpretazioni maturate nella presente sede di legittimità, proprio in rapporto alla individuazione della particolare ratio sottesa alla medesima ed alla
necessità di inserire detta previsione nel delicato sistema codicistico delle questioni pregiudiziali e dei
rapporti, in genere, tra procedimento penale e procedimento civile.
Ci si confronta, infatti, sul reale significato da attribuire alla espressione utilizzata dal legislatore ...
in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate ... posto che per la prevalente opinione
(espressa, tra le molte, da Sez. 2 n. 12445 del 18.3.2008 rv 239763, Sez. 2 n. 29751 del 8.7.2003 rv 226510,
Sez. 5 n. 5056 del 21.10.1999 rv 215630 e di recente da Sez. 2 Civ. n. 4003 del 18.2.2011) con ciò si intende
ricomprendere non soltanto il caso di una “lite” già insorta e pendente ma anche le ipotesi di controversia “potenziale” e non ancora in atto, purché ne siano chiari i poli del possibile contraddittorio.
In tal senso il mantenimento del sequestro risulterebbe “servente” non già ad una esigenza del procedimento penale (sia esso in corso o definito) ma ad una esigenza di “mantenimento” del vincolo tesa
ad impedire la sottrazione della res in un momento in cui non vi è la necessaria chiarezza circa
l’identità dell’avente diritto alla restituzione (in ciò trattasi di corollario di quanto stabilito nel precedente comma 1 che sottolinea a fini di restituzione la necessità di assenza di “dubbio” sulla appartenenza). Ciò sia nell’ipotesi di conflitto già formalizzato che nell’ipotesi di conflitto da formalizzare, tanto che la norma impone la “rimessione” della soluzione della controversia al giudice civile del luogo
competente in primo grado.
In effetti, tale previsione, tende a confermare – data la estrema genericità della locuzione normativa
che pone l’onere di individuazione del giudice civile competente non alle parti, quanto all’autorità penale – la bontà dell’orientamento prevalente in punto di controversia anche “potenziale”, dato che se il
legislatore avesse presupposto l’esistenza di una controversia già formalizzata avrebbe utilizzato altra
espressione (come, ad esempio, avviene per gli artt. 3 e 479 cod. proc. pen. ove si fa riferimento ad azione civile già in corso a fini di sospensione del procedimento penale per pregiudizialità facoltativa). Ad
avviso del Collegio non risulta – pertanto – condivisibile l’orientamento, di recente espresso da Sez. 2 n.
26914 del 6.6.2013, rv 255747 (ed in precedenza da Sez. 3 n. 41879 del 11.10.2007, rv 237939) per cui la
norma in parola andrebbe applicata solo ove sia “già pendente” una causa civile avente ad oggetto la
controversia sulla proprietà dei beni, pur se alcuni contenuti di detta decisione pongono temi di rilevante interesse, che verranno ripresi in seguito sotto diverso profilo.
Da ciò deriva una prima considerazione, esprimibile nei seguenti termini: l’art. 263 c.p.p., comma 3 è
norma da cui deriva un dovere di “protezione” in capo al giudice penale degli interessi civilistici – in
tema di diritto di proprietà – correlati ad un conflitto già manifestatosi tra le parti, anche in assenza di
formale pendenza della controversia innanzi al giudice civile.
1.2 Tuttavia ciò non toglie che nella sua applicazione la norma non va svincolata da alcuni parametri
di fondo, inerenti l’ambito applicativo delle questioni pregiudiziali ed il dovere del giudice penale di
risolvere – anche in via incidentale – ogni questione da cui dipende la decisione, come testualmente recita l’art. 2 c.p.p., comma 1.
E ciò in particolare quando il procedimento penale posto “a monte”, come nel caso in esame, sia – in
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reflazione alla posizione dell’istante – definito e la questione venga in rilievo in sede esecutiva, ai sensi
dell’art. 676 c.p.p., comma 2.
Se infatti la collocazione sistematica dell’art. 263, comma 3 nell’ambito del titolo 3 (mezzi di ricerca
della prova) del libro 3 del codice di rito (in tema di prova) implica una connotazione marcatamente incidentale del provvedimento negatorio della restituzione della res in sequestro lì dove il procedimento
sia in corso, con possibilità di reiterazione dell’istanza anche in rapporto agli sviluppi della procedura
penalistica, diverso è il valore della negazione alla restituzione lì dove il procedimento penale sia definito (non a caso la norma dell’art. 676 recita ..qualora sorga una controversia sulla proprietà..).
Ciò perché la definizione del procedimento penale, ove si ponga mente a quanto previsto dall’art. 2
cod. proc. pen. – è sede tendenzialmente idonea ad ogni statuizione in tema di mantenimento o meno
di vincoli aventi natura cautelare, vincoli che a procedimento definito non hanno ragion d’essere (argomentandosi in tal senso dalle chiare disposizioni dell’art. 300 in punto di cautele personali, dell’art.
323 in punto di sequestro preventivo, dell’art. 262 in tema di sequestro a fini di prova).
Da ciò una prima conseguenza, che è opportuno evidenziare nel caso in esame, anche in tema di impugnabilità con ricorso per cassazione del provvedimento che nega la restituzione della res in sequestro
a procedimento definito, nell’ipotesi di attivazione della translatio di cui all’art. 263, comma 3 e in assenza di lite civilistica formalizzata. In tal caso, infatti, il provvedimento va ritenuto impugnabile con
ricorso per cassazione in virtù della generale previsione di cui all’art. 666 c.p.., comma 6, non potendosi
ritenere preclusiva la pretesa natura interlocutoria della decisione de qua (in difformità dal prevalente
orientamento espresso, di recente, da Sez. 2 n. 23662 del 20.5.2010, rv 247412 e richiamato nella requisitoria scritta dal P.G. presso questa Corte).
Tale natura interlocutoria ha infatti reale fondamento soltanto nell’ipotesi di lite civilistica già instaurata (perché in tal caso l’istante è anche parte di un giudizio cognitivo civile nel cui ambito può ricevere tutela) e collide, peraltro, con il preciso dovere del giudice dell’esecuzione di provvedere sull’istanza, essendo per definizione definito il procedimento penale posto a monte.
1.3 Dunque, trattandosi nel caso in esame di provvedimento impugnabile, in quanto emesso in fase
esecutiva e in assenza di controversia civilistica già in atto, occorre esaminarne il fondamento motivazionale nell’ambito del più ampio contesto sistematico, con riferimento ai principi desumibili dalle
norme generali di cui agli artt. 2, 3 e 479 cod. proc. pen.
Ciò che occorre evidenziare è infatti la natura eccezionale della norma di cui all’art. 263 c.p.p., comma 3, dato che la stessa espressamente deroga alla generale “decidibilità” di ogni questione giuridica
sottoposta, anche in via incidentale, alla cognizione del giudice penale.
Da ciò deriva che nella sua applicazione concreta non può prescindersi da un accurato esame della
“serietà” della controversia (effettiva o potenziale che sia) pur se tale espressione, utilizzata dal legislatore nelle analoga previsione (salvo ciò che si preciserà in seguito) dell’art. 3 cod. proc. pen. (e sostanzialmente riproposta nell’art. 479 ove si fa riferimento alla particolare complessità) non è testualmente
riprodotta nel dettato normativo in esame.
Ciò perché, ragionando in termini sistematici, il giudice penale non può spogliarsi del potere/dovere di risolvere il tema essenziale di un qualsiasi giudizio, in favore della giurisdizione civile, se
non nei casi in cui la questione presenti in sé aspetti di particolare complessità e di serietà, pena la violazione del diritto della parte presso cui la res è stata sequestrata di ottenerne l’immediata restituzione,
una volta che sia stata verificata l’assenza di rilevanza penale della sua condotta. Tale valutazione preliminare, da ritenersi presupposta nella stretta locuzione normativa, va in particolar modo rafforzata lì
dove la controversia civilistica sia solo potenziale e siano solo stati individuati “in astratto” i poli del
potenziale contraddittorio, come nel caso in esame (in ciò ritenendosi condivisibile la parte motiva della
decisione Sez. 2 n. 26914 del 6.6.2013, rv 255747 ove si rimarca il rischio di impasse processuale correlato all’ipotesi di riassunzione di una causa civile in realtà inesistente), ma va ritenuta indefettibile anche
nel caso di controversia già in atto, posto che rappresenta il fondamento logico e sistematico dell’omessa pronunzia del giudice penale in punto di restituzione. In altre parole, ad avviso del Collegio,
la norma di cui all’art. 263 c.p.p., comma 3, proprio in rapporto alla sua eccezionalità, va ritenuta limitativa della generale previsione di cui all’art. 2 cod. proc. pen. e va pertanto letta – pur non potendosi parlare di pregiudizialità in senso stretto per l’assenza di un necessario seguito penalistico influenzato
dall’esito del diverso giudizio – sul piano sistematico, in aderenza ai principi espressi nelle previsioni
di cui agli artt. 3 e 479 cod. proc. pen., norme da cui può trarsi un generale riferimento di metodo teso
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ad orientare tutti i casi di “cessione” ad altra giurisdizione della potestà decisoria (si vedano, in particolare, sull’obbligo di motivare circa la serietà della questione civile o amministrativa determinante la sospensione del procedimento penale, data la deroga ai contenuti dell’art. 2 Sez. 5 n. 3670 del 5.5.1992, rv
189788, Sez. 2 n. 31057 del 13.6.2003, rv 226113, Sez. 5 n. 14972 del 24.3.2005, rv 231326).
1.4 Calando tale ragionamento nel caso in esame, è palese che la motivazione del provvedimento
impugnato risulta carente e non rispettosa dei suddetti parametri.
Pur dandosi atto del conflitto potenziale tra la pretesa alla restituzione dell’opera vantata dalla
(OMISSIS) e quella manifestata dal soggetto che ebbe a denunziare il furto, il giudice dell’esecuzione
non affronta il tema della “serietà” di tale potenziale controversia, a fronte di un esito dell’indagine penale che tende, in verità, ad evidenziare la ricorrenza della buona fede dell’istante all’atto della consegna e che pertanto depone per l’applicabilità dell’art. 1153 cod. civ., come invocato dal ricorrente.
In tal senso, la stessa decisione di investire della soluzione di tale controversia il giudice civile non appare sostenuta da obiettiva necessità in riferimento alle norme regolatrici e va in questa sede annullata.
Va tuttavia valutato, ed anche in tal senso risulta doveroso il rinvio, se il provvedimento di sequestro sia stato o meno effettivamente acquisito agli atti del procedimento penale ancora in corso nei confronti di (Omissis) (nel cui ambito l’istante risulta persona offesa) posto che ciò comporterebbe diversa
attribuzione in punto di competenza, tema non sollevato nel ricorso ma emergente dagli atti.
[Omissis]
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ROBERTO DE ROSSI
Dottore in Giurisprudenza – Università degli Studi di Foggia
Procedimento di restituzione delle cose sequestrate:
potenziali equivoci e problemi applicativi
Process of confiscated goods: potential misunderstandings
and application problems
L’art. 263, comma 3, del codice di rito è una norma che non brilla di certo per chiarezza di formulazione. Ciò comporta il sorgere di incertezze interpretative che sono quanto mai pericolose per la prassi, venendo in gioco peraltro
diritti di rango costituzionale, che non possono e non devono essere limitati dalla giurisprudenza di legittimità. Le
questioni che vengono in rilievo sono di carattere prettamente civilistico e il procedimento di restituzione che ne
deriva deve essere ispirato alla ratio legis di garantire snellezza e celerità allo stesso.
The Article 263, paragraph 3, of the Criminal Procedure Code, is a rule that does not shine for clearness of wording. This leads to the emergence of interpretative uncertainty, which are extremely dangerous for the procedure,
being involved, however, constitutional rights, which cannot and should not be limited by the Supreme Court. The
questions that arise from the rule are purely civil and the restitution process that results should be inspired to the
spirit and the purpose of guaranteeing slenderness and promptness to the criminal trial.
LA VICENDA DE QUA
Lo spunto per una riflessione sulla particolare ratio sottesa all’art. 263, comma 3, c.p.p. è stato offerto
dalla sentenza in commento, la quale origina da una vicenda relativa ad un’imputazione di ricettazione
di un dipinto oggetto di furto. La posizione dell’indagata, in seguito alla ricostruzione delle modalità
dell’acquisto del dipinto, veniva in seguito stralciata ed archiviata; il procedimento penale, però, proseguiva nei confronti dei titolari della galleria d’arte e l’originario provvedimento di sequestro del dipinto veniva allegato agli atti del procedimento, ove la signora veniva indicata quale persona offesa.
Il g.i.p. del Tribunale di Firenze, quale giudice dell’esecuzione, decidendo sull’opposizione proposta
dalla signora avverso il precedente provvedimento che dichiarava non luogo a provvedere sull’istanza
di restituzione del dipinto per essere stata rimessa al giudice civile la controversia circa la proprietà del
bene in sequestro penale, rigettava l’opposizione, confermando il provvedimento già emesso.
Ad avviso del g.i.p., pronunziatosi in sede esecutiva, non è necessaria la dimostrazione dell’assenza
di una formale controversia civilistica, posto che sia la signora sia il soggetto che denunciò il furto del
dipinto manifestarono la volontà di ottenere la restituzione dell’opera. Pertanto, essendo in atto una
controversia circa la proprietà del dipinto, si è resa indispensabile l’applicazione del disposto normativo di cui all’art. 263, comma 3, c.p.p.
Avverso detto provvedimento la signora, a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per
cassazione, nel quale – con unico motivo – ha dedotto l’erronea applicazione dell’art. 263, comma 3,
c.p.p., vizio di motivazione e abnormità dell’ordinanza.
La difesa, nell’accurata ricostruzione della vicenda, ha sottolineato come nessuna controversia circa
la proprietà del dipinto fosse in corso e, data l’accertata buona fede della signora e la conseguente applicabilità dell’art. 1153 c.c., mancava l’interesse della stessa ad instaurare un giudizio civile per affermare ciò che era già stato verificato.
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La Corte di legittimità ha accolto il ricorso, articolando un particolare impianto motivazionale, scansionato su tre piani sistematici tra loro correlati; il ragionamento ha ripercorso, anzitutto, le riflessioni
della giurisprudenza di legittimità sul disposto di cui all’art. 263, comma 3, c.p.p., osservando come lo
stesso sia stato oggetto di diverse interpretazioni in rapporto alla individuazione della ratio sottesa alla
norma ed alla necessità di inserire detta previsione nel sistema delle questioni pregiudiziali e dei rapporti tra procedimento penale e procedimento civile.
Veniva in questione, in particolare, il reale significato da attribuire all’espressione utilizzata dal legislatore «…in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate…»; secondo l’orientamento prevalente 1, con tale espressione si intende non soltanto il caso di una controversia già insorta e pendente, ma
anche le ipotesi di controversia non ancora in atto. I giudici di legittimità evidenziano la bontà di tale
orientamento in punto di controversia anche “potenziale”, sostenendo che se il legislatore avesse presupposto l’esistenza di una controversia già formalizzata avrebbe utilizzato altra espressione, come avviene ad esempio per gli artt. 3 e 479 c.p.p. 2.
Poi la Corte ha affrontato un ulteriore aspetto. Poiché la norma de qua si inserisce nell’ambito applicativo delle questioni pregiudiziali e del dovere del giudice penale di risolvere – anche in via incidentale – ogni questione da cui dipende la sua decisione, occorreva valutare il valore della negazione alla restituzione delle cose lì dove il procedimento penale fosse, come nel caso di specie, definito. I giudici di
legittimità rilevano che il procedimento penale, come si evince dal disposto di cui all’art. 2 c.p.p., è sede
idonea ad ogni statuizione in tema di mantenimento di vincoli di natura cautelare, vincoli però che non
hanno ragion d’essere a procedimento definito.
Da questo corollario deriva l’impugnabilità del provvedimento giudiziale con ricorso per cassazione
in virtù della generale previsione di cui all’art. 666, comma 6, c.p.p., non potendosi ritenere preclusiva
la natura interlocutoria della decisione in esame.
Infine, la Suprema Corte ha esaminato il fondamento motivazionale del provvedimento giudiziale
nell’ambito del contesto sistematico delineato dal combinato disposto di cui agli artt. 2 3, 3 e 479 c.p.p..
Viene risaltata la natura eccezionale della norma di cui all’art. 263, comma 3, c.p.p., dato che la stessa deroga alla generale “decidibilità” di ogni questione giuridica sottoposta alla cognizione del giudice penale.
Pertanto, il giudice penale deve sempre accertare la “serietà” della controversia, poiché egli non può spogliarsi del potere/dovere di risolvere il tema essenziale di un qualsiasi giudizio, in favore della giurisdizione civile. Tale assunto assume ancor più valore nel caso di controversia civilistica “potenziale”.
Alla luce dei suddetti rilievi, la Corte di cassazione ha ritenuto che la motivazione del provvedimento impugnato fosse carente e non rispettosa dei suddetti parametri; il giudice dell’esecuzione, ad avviso
dei giudici, non ha affrontato il tema della “serietà” di tale potenziale controversia e la decisione di investire della soluzione della controversia il giudice civile viene annullata e rinviata per un nuovo esame
al g.i.p. del Tribunale di Firenze.
NATURA DELLA CONTROVERSIA
Il punto di partenza per una corretta interpretazione della questione di diritto sottesa al caso di specie ruota
attorno all’esatto significato da attribuire all’espressione contenuta nell’art. 263, comma 3, c.p.p., «... in caso di
controversia sulla proprietà delle cose sequestrate …». Queste, brevemente, le coordinate della quaestio iuris.
1
Cass., sez. II, 18 marzo 2008, n. 12445, in CED Cass. n. 239763; Cass., sez. II, 8 luglio 2003, n. 29751, in CED Cass. n. 226510;
Cass., sez. V, 21 ottobre 1999, n. 5056, in CED Cass. n. 215630.
2
Il combinato disposto degli artt. 3 e 479 c.p.p. dà luogo alla disciplina della pregiudizialità al processo penale. La prima
ipotesi si riferisce all’insorgenza di una questione pregiudiziale civile o amministrativa relativa non genericamente allo stato
delle persone, bensì soltanto allo “stato di famiglia o di cittadinanza”. La seconda ipotesi di sospensione per questioni pregiudiziali, civili o amministrative, diverse da quelle sullo stato di famiglia o di cittadinanza, è prevista nell’art. 479 ed è contenuta in
limiti assai rigorosi, per evidenti considerazioni legate alle esigenze di celerità del processo penale. Sul punto cfr. per tutti, G.
Spangher, La pratica del processo penale, III, Milano, 2014, p. 13 ss.
3
L’art. 2 c.p.p., rappresenta un novum abbastanza significativo, frutto di un serio tentativo di disarticolare il principio della
c.d. unità delle giurisdizioni e certo in linea con la moderna tendenza a privilegiare la separazione delle giurisdizioni rispetto ad
un’idea che sta sempre più tramontando di un’attività giurisdizionale comune alle varie esperienze, penale e civile. Illuminanti,
sul punto, le considerazioni di A. Giarda, sub art. 479 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Milano, 2010, p. 239 ss.
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Come noto, ove insorga, nell’ambito del procedimento di cognizione, una controversia di questo tipo, relativa quindi alla proprietà della cosa sequestrata 4, il giudice penale deve, in forza del disposto di
cui all’art. 263, comma 3, c.p.p., rimettere la risoluzione della questione al giudice civile del luogo competente in primo grado, mantenendo nel frattempo il sequestro 5.
Analogamente, nella fase di esecuzione, ai sensi dell’art. 676, comma 2, c.p.p., trova applicazione,
per espresso richiamo normativo, la disposizione suddetta con la conseguenza che anche in caso di controversia sulla proprietà sorta in executivis, il giudice dell’esecuzione deve rimettere la relativa questione a quello civile 6.
L’art. 263, comma 3, c.p.p. pone come presupposto per la rimessione della questione al giudice civile
il «caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate», senza operare alcun esplicito riferimento
all’effettiva pendenza di un contenzioso in sede giudiziaria 7.
La citata disposizione – invero assai laconica nella sua espressione letterale – lascia residuare più di
un dubbio sul punto centrale affrontato dalla sentenza de qua, ovvero se per controversia debba intendersi ogni situazione di contrasto, comunque prospettato, sull’appartenenza del bene, che sia idonea a
porre in pericolo le ragioni del legittimo proprietario, ovvero se occorra una vera e propria pendenza di
una controversia formale presso il giudice civile competente. Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità si registrano due filoni contrastanti.
L’orientamento prevalente 8 ritiene che l’espressione utilizzata dal legislatore ricomprenda non solo
il caso di una “lite” già insorta e pendente, ma anche l’ipotesi di controversia “potenziale” e non ancora
in atto, non formalizzata. Il sequestro, in tal caso, avrebbe la precipua funzione di “mantenimento” del
vincolo per impedire la sottrazione della res in un momento in cui non vi è la necessaria chiarezza circa
l’identità dell’avente diritto alla restituzione e, pertanto, vi sia un dubbio sulla appartenenza 9. Il giudice, in tali casi, deve di propria iniziativa verificare se, sul piano astratto, la restituzione della cosa sequestrata ad una determinata persona possa ledere il diritto di proprietà di un’altra. A sostegno della
bontà di tale tesi, i giudici di Piazza Cavour sottolineano che qualora il legislatore avesse presupposto
l’esistenza di una controversia già formalizzata avrebbe sicuramente utilizzato altra espressione, come
avviene per gli artt. 3 e 479 c.p.p. 10.
Inoltre, l’orientamento prevalente nella giurisprudenza di legittimità risalta la differenza sostanziale
che intercorre tra la buona fede ai fini penalistici e quella nel diritto civile: infatti, una cosa è la buona
fede ai fini penalistici, altra è la nozione di buona fede nel diritto civile 11, in quanto la prima, se è ido-
4
Dalle norme contenute negli artt. 262 e 263 c.p.p. è prescritto che l’autorità giudiziaria disponga la restituzione delle cose
già assoggettate a sequestro penale, o in corso di processo, se non presentano più utilità probatoria e, quindi, se non è necessario
mantenerle ancora sotto vincolo. Se si instaura, poi, una controversia sulla proprietà delle cose sequestrate, il giudice penale la
rimette tout corurt, senza alcuna delibazione sulla sua fondatezza, al giudice civile territorialmente competente in primo grado,
mantenendo, nel frattempo, il sequestro. In dottrina, sul punto, G. Trachina, Sequestro, II, Sequestro penale, in Enc. giur., XXVIII,
Roma, 1992, p. 9; F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1991; A. Dalia, Sequestro penale, in G. Vassalli (a cura di), Dizionario di diritto e procedura penale, Milano, 1986, p. 939.
5
Per una panoramica completa della disciplina sul sequestro, cfr. D. Curtotti, sub art. 253 c.p.p., in G. Spangher (coordinato
da) Atti processuali penali, Milano, 2013.
6
A tal riguardo, interessanti i rilievi di G. Sambuco, Il procedimento di restituzione delle cose sequestrate o confiscate, in AA.VV.,
La giustizia penale differenziata, III, Torino, 2011, p. 1077 ss.; cfr., inoltre, P. Gualtieri, Sequestro preventivo, in A. Scalfati (a cura di),
Prove e misure cautelari, II, t. 2 (Trattato di procedura penale diretto da G. Spangher), Torino, 2008, p. 459.
7
La controversia sulla proprietà potrebbe essere sfociata in contenzioso giudiziario, tanto in separato processo civile, quanto
nello stesso processo penale mediante la costituzione di parte civile.
8
Cass., sez. V, 6 marzo 1998, n. 1414, in CED Cass. n. 211268; Cass., sez. V, 21 ottobre 1999, n. 5056, in CED Cass. n. 215630;
Cass., sez. II, 18 marzo 2008, n. 12445, in CED Cass. n. 239763.
9
Il sequestro, come noto, è il mezzo con il quale l’a.g., attraverso uno spossessamento coattivo, crea un vincolo
d’indisponibilità su una cosa mobile o immobile che rappresenta il corpo del reato o una cosa pertinente al reato necessaria al
suo accertamento. Esso serve ad acquisire cose o tracce preesistenti al procedimento, dotate di attitudine probatoria. Reperta
materiali che, una volta prodotti dall’indagante ed ammessi dal giudice, entrano direttamente nel fascicolo del dibattimento in
qualità di prova. Sul punto, cfr., per tutti, D. Curtotti, sub art. 253 c.p.p., cit., p. 1188.
10
In entrambe le norme si fa riferimento ad azione civile “già in corso” a fini di sospensione del procedimento penale per
pregiudizialità facoltativa.
11
Il codice civile annovera una pluralità di norme che si riferiscono variamente alla buona fede quale criterio generale di carattere oggettivo alla stregua del quale valutare la condotta delle parti. L’agire del contraente in buona fede è sostanzialmente
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nea ad escludere la sussistenza di reati, potrebbe non essere sufficiente per acquisire la proprietà del
bene mediante il possesso.
Secondo l’orientamento minoritario, invece, il principio per il quale nel caso di contestazione della
proprietà il giudice penale rinvia la decisione della controversia al giudice civile, mantenendo nel frattempo il sequestro, deve essere inteso nel senso che il giudice ha l’onere di accertare, "in limine",
l’esistenza di una controversia che deve essere effettiva e, quindi, già instaurata oppure instauranda in
ordine alla proprietà del bene sottoposto al vincolo e, a tal fine, non è sufficiente la mera constatazione
di una controversia sul bene dedotta dai meri rilievi difensivi.
A fronte di questa panoramica giurisprudenziale, vanno effettuati alcuni rilievi. Non si condivide,
innanzitutto, l’adesione del Supremo Collegio all’orientamento prevalente. Per un corretto approccio
alla questione, occorre anzitutto partire da alcune considerazioni di fondo.
In primis, il sequestro è disposto in sede penale per fini che riguardano il procedimento penale: nella
specie, fini probatori 12. Esso, come noto, serve ad acquisire cose o tracce preesistenti al procedimento,
dotate di attitudine probatoria 13. La parte che ritenga di vantare diritti sulla cosa sequestrata ad un terzo, può sempre agire, indipendentemente dal procedimento penale e dalle misure cautelari che siano
disposte nel suddetto procedimento, in sede civile a tutela delle proprie ragioni.
È evidente che una volta che il procedimento penale nell’ambito del quale il sequestro è stato disposto si concluda – come nella fattispecie in esame – addirittura per archiviazione 14, viene automaticamente meno anche il sequestro proprio perché, essendosi esaurita anche la funzione del giudice penale,
non avrebbe alcuna ragione d’essere né fattuale né giuridica il mantenimento di un sequestro disposto
per determinati fini processuali di natura penalistica.
Costituisce, infatti, principio generale che, una volta che il titolo giuridico per il quale il sequestro è
stato disposto, venga meno, il bene sequestrato deve essere restituito all’avente diritto. A tal riguardo,
viene in mente il disposto normativo di cui all’art. 262 c.p.p. 15; la finalità probatoria del sequestro, infatti, giustifica proprio la previsione, da parte della suddetta norma, di una durata temporale del vincolo.
La cosa, in altri termini, va restituita all’avente diritto quando il sequestro non ha più ragione di sussistere 16.
un agire teleologicamente orientato alla salvaguardia della sfera giuridica altrui, in omaggio non già ad una rigida determinazione dei contenuti, bensì ad un apprezzamento di questi per il perseguimento di un equilibrio contrattuale. In dottrina civilistica, cfr. M.L. Loi-F. Tessitore, Buona fede e responsabilità precontrattuale, Milano, 1975, p. 27 ss.
12
Il sequestro di cui all’art. 253, caratterizzato da uno scopo endo-processuale, va collocato tra i mezzi di ricerca della prova,
e si distingue conseguentemente dai tipi di sequestro rientranti nell’ambito delle misure cautelari, e cioè il sequestro preventivo,
volto ad evitare il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze
di esso o agevolare la commissione di altri reati, e quello conservativo, tendente ad impedire che vengano meno le garanzie patrimoniali per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese e dei crediti dello Stato connessi al procedimento. Sul punto, cfr.
P.P. Rivello, sub art. 253 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., pp. 2470-2471.
13
La tematica della restituzione dei beni sequestrati assume notevole rilievo giuridico poiché attraverso il meccanismo delineato dal legislatore può essere rimossa quella situazione di indisponibilità di ciò che ne era gravato. Anche per tale ragione,
tale tematica costituisce argomento che ha suscitato – e, in verità, continua a suscitare – una vivace querelle giuridica, soprattutto
con specifico riferimento alle disposizioni normative ad essa applicabili, mancando un sistema di norme che, compiutamente ed
organicamente, disciplinino la questione. Per una disamina approfondita della questione, v. M. Montagna, I sequestri nel sistema
delle cautele penali, Padova, 2005, p. 3 ss.; P. Ferrone, Il sequestro nel processo penale, Milano, 1974, I, pp. 177-178.
14
L’archiviazione è la scelta alternativa all’esercizio dell’azione penale. Il p.m. è chiamato a sciogliere tale dilemma all’esito
delle indagini preliminari, che consistono appunto nel compimento di tutti gli atti necessari per le determinazioni inerenti
all’esercizio dell’azione penale. L’opzione verso la chiusura anticipata del procedimento è sottoposta ad un controllo giurisdizionale che può essere anche molto penetrante, fino a obbligare il p.m. a formulare l’imputazione. In siffatto contesto un potere
assai rilevante è attribuito alla persona offesa dal reato. Sul punto, interessanti appaiono le considerazioni di C. Conti, Archiviazione, in G. Spangher-G. Garuti (a cura di), Trattato di procedura penale, Milano, 2009, p. 729 ss.
15
La persistenza del vincolo non ha più ragion d’essere quando cessano le condizioni per la sua applicabilità. La restituzione, come noto, è disposta dal giudice con ordinanza e, nel corso delle indagini preliminari, dal p.m. con decreto motivato avverso il quale gli interessati possono proporre opposizione su cui provvede il giudice nelle forme camerali dell’art. 127. In dottrina,
cfr. D. Curtotti, sub art. 262 c.p.p., cit., p. 1219 ss.
16
L’art. 262 ricollega la vicenda estintiva del vincolo operato dal sequestro al venir meno delle esigenze probatorie che hanno indotto ad emettere il relativo provvedimento; in tal caso, la restituzione va disposta anche d’ufficio, poiché la pertinenza del
vincolo non ha più ragion d’essere qualora siano cessate le condizioni per la sua applicabilità. La disciplina normativa in esame
è finalizzata a garantire il contemperamento tra le esigenze processuali che stanno alla base del sequestro e i diritti vantati dal
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È, poi, del tutto ovvio che il processo penale, perseguendo il fine suo proprio che consiste nell’accertare se un determinato soggetto sia o no colpevole di un determinato reato 17, non ha certo come
scopo anche quello di accertare la proprietà del bene sequestrato essendo una questione che involge
problematiche fattuali e giuridiche di chiara natura civilistica e, quindi, non di competenza del giudice
penale.
A tal riguardo, viene in rilievo il principio generale del favor restitutionis cui si è ispirato il legislatore
del 1988 18 e che ha trovato espressa attuazione nella citata disposizione normativa di cui all’art. 262,
comma 1, c.p.p. laddove è stabilita la regola secondo cui, non appena cessate le esigenze probatorie, le
cose sequestrate «sono restituite» a chi ne abbia diritto 19. Tra il processo penale e quello civile, poi, intercorrono differenze strutturali e finalistiche evidenti, essendo improntati a logiche diverse e rispondendo a differenti criteri. Risulta, a questo proposito, pienamente condivisibile l’affermazione secondo
la quale «una cosa è la buona fede ai fini penalistici, altra è la nozione di buona fede nel diritto civile, in
quanto la prima, se è idonea ad escludere la sussistenza di reati, potrebbe non essere sufficiente per acquisire la proprietà del bene mediante il possesso» 20.
Ma è proprio tenendo presente tale peculiarità del processo penale, che s’impone la conclusione secondo la quale il bene sequestrato va restituito alla parte alla quale, in quel momento, secondo quanto
si è fino ad allora accertato in sede penale, risulti appartenere legittimamente il bene sequestrato: il che
non significa che il giudice civile, eventualmente investito della controversia sulla proprietà del bene,
non possa giungere a diversa conclusione.
A tali conclusioni si giunge anche considerando il profilo logico – o forse sarebbe più corretto dire
teleologico – della questione; la lettera del codice appare chiaramente ispirata alla voluntas legis di evitare che il giudice penale possa entrare nel merito di una controversia prettamente civilistica. Infatti, laddove fosse sufficiente ad ottenere la rimessione della controversia alla cognizione del giudice civile, con
il conseguente mantenimento del sequestro, la mera contestazione della proprietà altrui, si consentirebbe di dare rilievo giuridico anche a pretese manifestamente infondate, con il relativo ed inevitabile pregiudizio di chi abbia effettivamente diritto alla restituzione 21.
In altri termini, l’art. 263 c.p.p. va letto ed interpretato alla luce dei principi del sistema penale: il legislatore, cioè, ha voluto che il bene sequestrato nell’ambito di un determinato procedimento penale,
una volta che venga meno il titolo giuridico per il quale è stato disposto il sequestro, debba essere restituito a quella parte alla quale, in quel momento, il bene risulti legittimamente appartenere, secondo
quanto si è potuto accertare.
Unica eccezione a tale meccanismo è costituita dal fatto che vi sia «controversia sulla proprietà delle cose
sequestrate»: la ratio è chiara e va individuata nella circostanza che il legislatore, sia al fine di evitare che
il bene possa essere sottratto definitivamente all’effettivo avente diritto, sia al fine di evitare una duplicazione di procedimenti incidentali anche in sede civile (ossia procedimenti cautelari sul bene in quesingolo sui beni che ne costituiscono l’oggetto, assicurando che il sacrificio degli stessi sia giustificato dal perdurare di una necessità probatoria, il cui venir meno determina l’automatica esclusione della ragion d’essere della permanenza del vincolo di
indisponibilità dovuto al provvedimento di sequestro. Cfr., sul punto, P.P. Rivello, sub art. 262 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher
(a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., pp. 2540-2541.
17
Il processo penale, in questo senso, ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale. Il giudice, infatti, accerta se il fatto commesso dall’imputato rientra nella fattispecie prevista dalla legge penale incriminatrice e, in caso positivo,
l’imputato deve essere condannato. Interessanti, a tal riguardo, sono le considerazioni di P. Tonini, Manuale di procedura penale,
XIV ed., Milano, 2013, p. 1 ss.
18
Lo si evince, a chiare lettere, dalla Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, p. 69.
19
Il legislatore delegato del 1988 ha inteso escludere che il sequestro penale possa servire per fini diversi da quelli probatori
e prevede, in riferimento alle cose pertinenti al reato, che le cose sequestrate siano, non solo utili o indispensabili, ma anche “necessarie per l’accertamento dei fatti”. In questi termini, D. Curtotti, Sulla competenza del giudice per la restituzione delle cose sequestrate, in Cass. pen., 1995, p. 1021.
20
M. L. Loi-F. Tessitore, Buona fede e responsabilità precontrattuale, cit., p. 27 ss.
21
Sul punto, ampiamente, C. Politi, Controversia sulla proprietà delle cose sequestrate. Limiti e poteri del giudice penale, in Giur. di
Merito, 2006, p. 2496, la quale sostiene che in tal caso «chiunque potrebbe ottenere l’effetto di far permanere un vincolo di indisponibilità sulla cosa altrui, semplicemente qualificandosi come titolare di un diritto reale sul bene in sequestro, anche al di là di
quelle che sono le condizioni che l’art. 670 c.p.c. prevede per colui il quale voglia, in sede civile, ottenere il sequestro giudiziario,
impedendo, al contempo, al legittimo proprietario la possibilità di evidenziare la assoluta pretestuosità della contrapposta posizione». In giurisprudenza, Trib. Roma, 15 marzo 2006, in Giur. di Merito, 2006, p. 2492.
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stione), ha disposto il mantenimento del sequestro trasferendo tutta la controversia in sede civile.
Si verifica, quindi, una peculiare situazione giuridica per cui, sebbene il sequestro sia mantenuto dal
giudice penale, di fatto, diventa esclusivamente funzionale al processo civile il cui esito diventa determinante sia al fine di stabilire a quale delle parti il bene deve essere restituito sia a quale di essa devono
essere addebitate le eventuali spese di custodia e mantenimento del bene in sequestro. È chiaro, pertanto, che tutto il suddetto meccanismo ha una sua ragion d’essere nella sola ipotesi in cui vi sia già in atto
tra le parti una controversia perché, in caso contrario, non avrebbe alcun senso giuridico rimettere la
soluzione ad un giudice civile non ancora adito da alcuna parte. Deve, pertanto, concludersi che non è
configurabile un sequestro che sia mantenuto senza alcun titolo – essendo quello penale venuto meno –
nell’ipotetica attesa che una parte inizi la causa civile. Nel caso di specie, poi, è pacifico che non esiste
alcun processo pendente fra le parti in ordine alla controversia del bene. Si ritiene, pertanto, che
l’interpretazione adottata dal g.i.p. del Tribunale di Firenze snaturi, di fatto, la ratio della disciplina de
qua e determini un venir meno della coerenza di una struttura sistematica, congegnata in termini di
stretta connessione fra mantenimento del sequestro e controversia sulla proprietà formalizzata.
Quanto rilevato non esime, in ogni caso, il giudice penale dal valutare preventivamente la reale consistenza delle pretese eventualmente avanzate da taluno in ordine alla proprietà della cosa sequestrata 22 al
fine di frustrare eventuali pretestuose iniziative volte esclusivamente a ritardare i tempi della restituzione
delle cose, con evidente e correlata compromissione dei diritti del soggetto effettivamente legittimato.
Venute, infatti, meno le esigenze di carattere processuale poste alla base del sequestro, il mantenimento della misura reale ai sensi dell’art. 263, comma 3, c.p.p. può giustificarsi esclusivamente come
cautela operante nelle more della definizione, davanti al giudice civile competente, della controversia
civilistica che, profilatasi in sede penale, rappresenta una situazione di potenziale pericolo per le ragioni dell’avente diritto 23.
IMPUGNABILITÀ DEL PROVVEDIMENTO NEGATORIO DELLA RESTITUZIONE DELLA RES
Un secondo profilo critico sotteso alla sentenza de qua concerne la statuizione relativa alla ritenuta impugnabilità del provvedimento del giudice che nega la restituzione della res in sequestro. Il Supremo
Collegio, a tal proposito, opera anzitutto una distinzione con riferimento al valore del provvedimento
giudiziale in relazione alla fase in cui si trova il procedimento penale.
Ad avviso della Suprema Corte, infatti, qualora si volgesse lo sguardo alla collocazione sistematica
dell’art. 263, comma 3, c.p.p. all’interno del codice di rito, e quindi nell’ambito dei mezzi di ricerca della
prova, emergerebbe in tutta la sua evidenza la natura meramente incidentale del provvedimento in
esame nei procedimenti in corso; valore, però, che muta radicalmente lì dove il procedimento penale sia
definito e la questione venga in rilievo, come nel caso di specie, in sede esecutiva.
Il fondamento motivazionale di tale assunto risiede, secondo i giudici di legittimità, nella caratteristica del procedimento penale, quale sede idonea ad ogni statuizione relativa a qualsiasi vincolo di natura cautelare; vincolo che, però, non ha più ragion d’essere a procedimento definito.
Poste queste premesse teoriche, pertanto, si rileva l’impugnabilità con ricorso per cassazione del
provvedimento del giudice in virtù della generale previsione di cui all’art. 666, comma 6, c.p.p., non potendosi ritenere preclusiva la pretesa natura interlocutoria della decisione giudiziale. La natura interlocutoria, ad avviso della Suprema Corte, ha un reale fondamento solo nei casi di controversia civile già
instaurata, poiché in tal caso l’istante è parte di un giudizio cognitivo civile nel cui ambito può ricevere
tutela; tale natura, inoltre, collide con il dovere del giudice di provvedere sull’istanza, essendo definito
il procedimento penale posto a monte.
Pur apprezzando, sotto il profilo logico, il percorso argomentativo seguito dal Supremo Collegio, è
necessario effettuare alcuni rilievi di carattere teorico.
22
In tal senso, cfr. Pretore Bari (ord. 16 ottobre 1996), in Dir. pen. proc., 1997, p. 727, con nota di A.V. Seghetti, secondo cui la
devoluzione obbligatoria della questione al giudice civile, non esime tuttavia il giudice penale «da un preliminare accertamento
relativo all’effettiva esistenza di una controversia seria ed obiettiva in ordine alla titolarità del bene» in assenza del quale «si darebbe ingresso a pretese manifestamente pretestuose con evidente e grave pregiudizio dell’avente diritto alla restituzione».
23
Interessanti, a tal riguardo, i rilievi di A.V. Seghetti, Controversia sulla proprietà della cosa sequestrata, in Dir. pen. proc., 1997,
p. 727.
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Il procedimento per la restituzione delle cose sequestrate, come noto, è attivabile dai soggetti interessati, ovvero da chi ha ricevuto un pregiudizio a causa del provvedimento temporaneamente ablativo. Tale connotazione astratta sfugge al mero riferimento alla situazione possessoria, involgendo anche
soggetti terzi, di modo che il diritto alla restituzione possa essere esercitato da chi possa vantare una
pretesa giuridicamente meritevole e fornisca una prova positiva della relazione con il bene 24.
La legittimazione si connota diversamente a seconda dei diritti in rilievo 25; prevale in giurisprudenza un’impostazione propensa al mantenimento del sequestro qualora, pur in mancanza di controversia
sul diritto alla restituzione, non emerga la titolarità di alcun soggetto. Nel caso, invece, di vera e propria
controversia sulla proprietà delle cose sequestrate, il giudice penale, al quale venga richiesta la restituzione, deve rimettere gli atti al giudice civile per la decisione della questione, mantenendo nel frattempo il sequestro 26. Il giudice penale è chiamato, come rilevato nel paragrafo precedente, a verificare la
serietà e l’obiettività della controversia sulla titolarità del diritto, onde evitare iniziative pretestuose e
infondate miranti unicamente a procrastinare la tempistica di restituzione del bene o la cessazione del
vincolo 27.
Nel caso de quo, in particolare, la questione veniva in rilievo in sede esecutiva e il nodo interpretativo
concerneva l’eventuale impugnabilità del provvedimento negatorio di restituzione della res in sequestro.
La Suprema Corte, al fine di sostenere l’impugnabilità del provvedimento di negazione di restituzione della res del g.i.p. del Tribunale di Firenze, adotta un impianto motivazionale imperniato su due
capisaldi: la definizione del procedimento penale posto “a monte” e la conseguente poco fondata natura interlocutoria del suddetto provvedimento.
Quanto al primo aspetto, va anzitutto detto, con specifico riguardo alla competenza, che allorquando il procedimento venga definito con provvedimento di archiviazione, competente a pronunciarsi sul
dissequestro è il g.i.p. che ha definito il procedimento, che dovrà seguire la procedura prevista dall’art.
676, comma 1, c.p.p. 28. Riguardo all’intervento giudiziale in executivis, sono necessarie alcune riflessioni
di carattere sistematico.
La metodologia procedimentale nell’ambito della quale il giudice dell’esecuzione provvede alla restituzione dei beni risulta caratterizzata, come si evince dal dato normativo, da una evidente celerità e
dalla snellezza di forme. Ciò si evince dalla disposizione di cui all’art. 676 c.p.p. che, per le sole competenze ivi previste, attribuite tassativamente alla cognizione del giudice dell’esecuzione, rinvia espressamente alle modalità del rito semplificato sancite dall’art. 667, comma 4, c.p.p., a contraddittorio eventuale e differito.
Tuttavia, la finalità dell’economia processuale e della celerità non appaiono appaganti per giustificare la semplificazione insita nella procedura decisionale de qua, giacché questa, più opportunamente, deve essere ricondotta alla ritenuta «presumibile scarsa dialetticità delle questioni risolvibili de plano, unita alla necessità di operare rapidamente nell’interesse stesso del condannato» 29.
24
Secondo Cass., sez. I, 9 giugno 2009, n. 26475, in CED Cass. n. 244035, non può vantare alcun diritto alla restituzione dei
beni sequestrati colui il quale abbia reso nel corso delle indagini delle dichiarazioni confessorie in merito alla ricettazione del
bene poi sequestrato, in quanto tale confessione ai fini civilistici fornisce la prova dell’illiceità dell’acquisto; in precedenza,
Cass., sez. un., 27 settembre 1995, n. 10372, in Cass. pen., 1996, p. 67.
25
Ad esempio, nel contratto di leasing, la legittimazione spetta, oltre che al proprietario concedente, all’utilizzatore in quanto
soggetto obbligato a corrispondere il canone mensile per il suo utilizzo. Emblematica, a tal riguardo, Cass., sez. III, 3 febbraio
2011, n. 13118, in CED Cass. n. 249928.
26
Cass., sez. II, 18 marzo 2008, n. 12445, cit.. In dottrina, A. Furgiuele, Rapporti fra giurisdizione penale e civile in tema di restituzione delle cose sequestrate, in Cass. pen., 2006, p. 3885.
27
Sul punto, illuminanti le osservazioni di A.V. Seghetti, Controversia sulla proprietà della cosa dissequestrata, cit., p. 727 ss.; C.
Politi, Controversia sulla proprietà delle cose sequestrate, cit., p. 2494. In giurisprudenza, Trib. Roma, 15 marzo 2006, cit., p. 2492.
28
In giurisprudenza, cfr. Cass., sez. I, 24 marzo 2009, n. 12880, in CED Cass. n. 243046, secondo cui «la regola stabilita
dall’art. 263, comma 6, c.p.p., secondo cui, dopo la sentenza non più soggetta ad impugnazione, sulla richiesta di restituzione
delle cose sequestrate provvede il giudice dell’esecuzione, trova applicazione anche nel caso in cui il procedimento penale sia
stato definito con archiviazione, per cui su detta richiesta dovrà pronunciarsi il GIP che ha adottato quel provvedimento e la
procedura sarà quella stabilita dall’art. 676, comma 1, c.p.p.».
29
Espressamente, F. Corbi-F. Nuzzo, Guida pratica all’esecuzione penale, Torino, 2003, p. 218; nello stesso senso, G. Dean, Ideologie e modelli dell’esecuzione penale, Torino, 2004, p. 113.
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Sostanzialmente, nell’ambito della fase d’esecuzione, la decisione, sollecitata su istanza di parte, viene assunta senza formalità, senza alcun contributo dialettico delle parti, de plano appunto, e l’ordinanza
viene poi notificata al p.m. e all’interessato. Come si può agevolmente dedurre, il giudizio esecutivo si
caratterizza su una elaborazione della prova improntata a principi di stampo inquisitorio, prediligendo
un materiale informativo di tipo prettamente documentale 30, all’esito del quale perviene ad una decisione che si presta a potenziali carenze contenutistiche 31.
Non si condivide la conclusione cui giunge la Suprema Corte con riferimento al diverso valore da riconoscere al provvedimento di negazione della restituzione della cosa sequestrata quando il procedimento penale sia definito. Per comprendere la ragioni del dissenso, basti pensare che l’operatività della
previsione dell’art. 263 c.p.p. scatta soprattutto in conseguenza di un provvedimento giudiziale che definisca il “procedimento” (decreto di archiviazione) ovvero il “processo” (sentenza). Non esiste alcun
mutamento di valore nel caso di definizione del procedimento; anzi, proprio in questi casi il giudice si
spoglia della cognizione e deve rilevare, a norma dell’art. 262 c.p.p., la cessazione delle esigenze probatorie nel processo penale e, ove riconosca l’esistenza di una controversia sulla proprietà, rimettere la risoluzione della questione al giudice civile.
A suffragare tali rilievi, sovviene inoltre il dato normativo imposto dall’impianto codicistico.
Nella fase di esecuzione, ove insorga una controversia relativa alla proprietà della cosa sequestrata,
ai sensi dell’art. 676, comma 2, c.p.p., trova applicazione, per espresso richiamo normativo, la disposizione di cui all’art. 263, comma 3, c.p.p., con la conseguenza, pertanto, che anche in caso di controversia
sulla proprietà sorta in executivis, il giudice dell’esecuzione deve rimettere la relativa questione a quello
civile.
Quanto alla natura interlocutoria, poi, è noto che il provvedimento con il quale il giudice penale, investito della richiesta di restituzione di beni sequestrati, rigetti la stessa ha natura interlocutoria e, poiché non pregiudica l’interesse delle parti che potranno far valere le loro ragioni davanti al giudice civile, è inoppugnabile. Il provvedimento, pertanto, non è revocabile, con la conseguenza che, nelle more di
un eventuale giudizio civile, la parte può, se del caso, far valere le proprie legittimazioni davanti al
giudice civile 32.
Ritenere impugnabile il suddetto provvedimento in quanto emesso in fase esecutiva e attribuire a tal
fine poca rilevanza alla nota natura interlocutoria dello stesso, oltre ad essere una soluzione poco confortata dal dato normativo, è foriera di rischi anche con riferimento al carico giudiziario che affanna
quotidianamente le aule della Suprema Corte; sarebbero, infatti, centinaia, se non migliaia, i ricorsi che
penderebbero dinanzi alla Corte di cassazione su questioni, peraltro, di carattere prettamente civilistico.
Si può, dunque, concludere, con riferimento a tale delicata questione, che, nel crogiuolo di criticità
operative che caratterizza la sentenza in commento, la natura interlocutoria del provvedimento giudiziale
di negazione della restituzione della cosa sottoposta a sequestro e i potenziali rimedi attivabili in sede civile impongono l’adozione di una soluzione diversa da quella cui perviene la Suprema Corte nella sentenza in commento, tesa a tutelare le ragioni di chi abbia effettivamente diritto alla restituzione.
NUOVA FATTISPECIE DI “PREGIUDIZIALE”?
Un ultimo profilo, d’indubbio interesse, è quello che discende dall’eventuale rapporto che potrebbe instaurarsi tra il processo penale e quello civile. Invero, l’interpretazione letterale del disposto normativo
di cui all’art. 263, comma 3, c.p.p., espressamente richiamato dall’art. 676, comma 2, c.p.p., e pertanto
applicabile in executivis, potrebbe dar luogo a fuorvianti considerazioni nel senso di ritenere la previsione come sorta di “nuova” fattispecie di pregiudiziale civile al processo penale.
La Corte di cassazione, nella sentenza in esame, affronta tale questione, optando per una parziale
simmetria delle due discipline. Si tratta di rilievi che non si condividono.
30
Sul punto, cfr. N. La Rocca, La prova nel procedimento di esecuzione e di sorveglianza, in A. Gaito (diretto da), La prova penale,
Torino, 2008, II, p. 807 ss.
31
Interessanti, a tal riguardo, le riflessioni di G. Sambuco, Il procedimento di restituzione delle cose sequestrate o confiscate, cit., p. 1087.
32
In giurisprudenza, sul punto, cfr. Cass, sez. II, 20 maggio 2010, n. 23662, in CED Cass. n. 247412; Cass., sez. III, 13 gennaio
1999, n. 2296, in CED Cass. n. 213155.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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Una cosa va subito chiarita. Si tratta di un terreno insidioso, nel quale apparenti analogie possono
portare a conclusioni errate con pericolosi risvolti in chiave processuale. Infatti, l’interprete che si trovi
ad esaminare il contenuto della fattispecie normativa, sarebbe portato a pensare che l’individuazione
della persona alla quale la cosa sequestrata dovrebbe essere restituita, dipenda dalla definizione, in sede civile, dell’accertamento sulla proprietà.
Muovendo da tale premessa, ne deriverebbe, ad esempio, che il sequestro dovrebbe essere mantenuto necessariamente fino al passaggio in giudicato della sentenza civile.
La principale fonte di perplessità ermeneutiche risiede nel collegamento operato dalla norma – attraverso l’inserimento della particella «ne» – fra «la controversia sulla proprietà» e la «risoluzione» da rimettersi al
giudice civile. Infatti, l’interpretazione letterale della norma potrebbe indurre a ritenere che l’individuazione della persona a cui la cosa sequestrata vada restituita debba seguire e dipendere dalla definizione del
processo civile di accertamento sulla proprietà, mantenendo nel frattempo il vincolo del sequestro 33. Si
tratterebbe, in altri termini, di una nuova fattispecie di pregiudiziale civile al processo penale.
Siffatta interpretazione non appare affatto convincente ove solo si presti attenzione alla profonda ed
evidente diversità, di natura ontologica e funzionale, fra la disposizione contenuta nell’art. 263, comma
3, c.p.p. e l’istituto della “pregiudiziale civile” al processo penale disciplinato dagli artt. 3 e 479 c.p.p. 34.
A tal riguardo, va posto in rilievo che le questioni pregiudiziali concernono il merito della vicenda
sottoposta all’attenzione del giudice penale e riguardano situazioni regolate dalle disposizioni del diritto civile o amministrativo che condizionano, “pregiudicandola” appunto, la decisione che il giudice penale è chiamato ad adottare. La pregiudizialità sta ad indicare proprio quel legame che collega la questione civile con quella penale in un rapporto di dipendenza logico-giuridica, per cui la decisione sulla
pregiudiziale deve necessariamente precedere quella penale, proprio perché la condiziona 35.
Questa è la ragione sottesa alla previsione da parte del legislatore per cui, ove il giudice penale non
ritenga di decidere sulla questione civile incidenter tantum, da un lato il procedimento penale resti sospeso in attesa della decisione sulla questione affidata al giudice civile e, dall’altro, la decisione debba
essere adottata con una “sentenza” passata in giudicato.
Completamente diverse sono le esigenze logico-giuridiche poste alla base della disciplina prevista
per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro; qui, infatti, la risoluzione della questione rimessa al
giudice civile è del tutto irrilevante ai fini della prosecuzione e della definizione del processo penale.
Ed invero, il legislatore ha previsto che la rimessione al giudice civile ex art. 263, comma 3, c.p.p.
possa essere disposta solo quando il giudice penale abbia già verificato, a norma dell’art. 262 c.p.p., che
per l’accertamento da compiersi nel processo penale «non è necessario mantenere il sequestro a fini di
prova» ed indipendentemente dall’adozione di un provvedimento di sospensione pronunziato a norma
dell’art. 479 c.p.p.
In altri termini, l’operatività delle previsioni contenute nell’intero art. 263 c.p.p. presuppone che il
giudice penale abbia già escluso la permanenza delle esigenze probatorie penali, a norma dell’art. 262
c.p.p., e riguarda soltanto la fase esecutiva del dissequestro. In particolare, come ampiamente illustrato
nei paragrafi precedenti, la disposizione del comma 3 dell’art. 263 c.p.p. concerne esclusivamente il
problema dell’individuazione della persona a cui restituire il bene, del tutto irrilevante per il prosieguo
e la definizione del processo penale.
33
Interessanti, a tal riguardo, le considerazioni di A. Furgiuele, Rapporti fra giurisdizione penale e giurisdizione civile, cit., p.
3891, secondo cui «in questo modo, la disposizione normativa sarebbe interpretata come la previsione di una nuova e particolare fattispecie di pregiudiziale civile al processo penale; ove, però, l’accertamento effettuato in sede civile sarebbe destinato a
condizionare non già l’esito del processo penale, bensì solamente il provvedimento relativo alla restituzione della cosa sequestrata, che, evidentemente, dovrebbe essere successivamente adottato dal giudice penale».
34
Su tale istituto, in generale, cfr. Paola, Questioni pregiudiziali, in Dig. pen., X, Torino, 1995, p. 603; P.P. Rivello, Sospensione del
processo, in Dig. pen., XVI, Torino, 1999, p. 482; G. Ubertis, Sospensione del processo penale, in Enc. dir., I Agg., Milano, 1997, p. 942.
35
La disciplina della pregiudizialità al processo penale è stata collocata in due articoli ben differenziati, anche nella dislocazione sistematica. Da un lato l’art. 3, al quale fa riferimento, con un rinvio, l’incipit dell’art. 479 c.p.p., e, dall’altro, proprio l’art.
479 che riporta, rispetto alla precedente disciplina, varianti non sempre apprezzabili e non facilmente comprensibili anche alla
luce di quella spinta di fondo, presente in molte scelte tecniche, verso un’accelerazione per favorire il formarsi del giudicato. Il
legislatore del 1988 ha sostanzialmente preso atto che, al di fuori delle controversie di cui all’art. 3 del codice, ve ne possono essere altre di natura civile o amministrativa dalle quali può dipendere “la decisione sull’esistenza del reato”. In dottrina, sul punto, A. Giarda, sub art. 479 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, cit., pp. 6232-6233.
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Ciò è confermato dal fatto che il legislatore ha previsto una disciplina assolutamente diversa da
quella adottata per le pregiudiziali. Innanzitutto, non è stata stabilita la sospensione del processo, in
virtù dell’irrilevanza della risoluzione della questione riservata al giudice civile, rispetto al proseguimento e alla definizione del procedimento penale. In parallelo, la norma non fa alcun riferimento ad
una decisione, da adottarsi con “sentenza passata in cosa giudicata” come espressamente previsto per
le pregiudiziali, bensì ad una “risoluzione” al fine di rimarcarne il carattere incidentale la possibilità
che il provvedimento assuma la forma dell’ordinanza.
Sostanzialmente, qualora il legislatore avesse inteso configurare una sorta di pregiudiziale anche per
il caso previsto dall’art. 263 c.p.p., avrebbe dovuto provvedere una simmetria di disciplina con quella
riservata alle fattispecie tipiche di pregiudiziali (artt. 3 e 479 c.p.p.). Sarebbe stato necessario, in altri
termini, chiarire espressamente che la rimessione al giudice civile avrebbe comportato la sospensione
del procedimento di esecuzione; con la conseguenza che, all’esito del processo civile, il giudice penale
avrebbe dovuto adottare il provvedimento di restituzione.
In sintesi, tutto lascia intendere che la previsione contenuta nell’art. 263, comma 3, c.p.p. sia funzionale ad assicurare la snellezza e celerità nel processo penale, esonerando il giudice penale dalla necessità di occuparsi della risoluzione di una questione civile che non presenti alcuna rilevanza per l’accertamento nel processo penale.
La correttezza di questa conclusione appare evidente ove si pensi che l’operatività della norma scatta anche in conseguenza di un provvedimento giurisdizionale che definisca il procedimento, come il
decreto di archiviazione. È proprio in questi casi che il giudice, spogliandosi definitivamente della cognizione, deve rilevare la cessazione delle esigenze probatorie nel processo penale e, ove riconosca
l’esistenza di una controversia sulla proprietà, rimettere la questione inerente alla restituzione al giudice civile.
Notata la differenza tra l’istituto della pregiudiziale civile al processo penale e la situazione processuale determinata dall’art. 263, comma 3, c.p.p., non si possono condividere i rilievi della Suprema Corte nella sentenza in commento sul tema; i giudici di piazza Cavour, infatti, esaminando il fondamento
motivazionale del provvedimento del g.i.p. di Firenze con riferimento ai principi desumibili proprio
dagli artt. 2, 3 e 479 c.p.p., giungono a ritenere che la norma di cui all’art. 263, comma 3, c.p.p. vada letta
in aderenza ai principi espressi dagli artt. 3 e 479 c.p.p. con conseguente dovere del giudice penale di
rimettere la soluzione della questione al giudice civile solo quando quest’ultima sia seria e complessa.
In realtà, si tratta di due situazione processuali completamente differenti, attesa la diversità oncologica e funzionale tra la disposizione contenuta sub art. 263, comma 3, c.p.p. e, in generale, l’istituto della
pregiudiziale civile sancito dal combinato disposto di cui agli artt. 3 e 479 c.p.p., bastando in conclusione rilevare come, nel procedimento per la restituzione delle cose sequestrate, la risoluzione della questione rimessa al giudice civile ha una connotazione irrilevante ai fini della prosecuzione del processo
penale.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
La sentenza annotata costituisce un ottimo spunto per alcune riflessioni di carattere sistematico, che
non vogliono tanto rappresentare una sollecitazione all’intesa sull’interpretazione normativa, se pur
auspicabile, quanto stimolare analisi più approfondite su una fattispecie normativa equivoca.
Poiché è con la norma, più che con la disposizione giuridica 36, che l’interprete deve confrontarsi, osservando il corso del suo processo di formazione, e poiché notoriamente la posizione della dottrina tradizionale è sempre in contrasto con le aperture giurisprudenziali, dovrebbero svolgersi riflessioni più
approfondite allo scopo di fornire un’interpretazione adeguatrice dell’art. 263 c.p.p.
Come si è potuto notare, infatti, la suddetta norma non brilla certo per chiarezza di formulazione; le
incertezze che possono derivare nella prassi sono rilevanti e quanto mai pericolose. Dal concetto di
“controversia”, alla potenziale impugnabilità del provvedimento negatorio di restituzione della res fino
alla natura dei provvedimenti giudiziali di rimessione al giudice civile o di negazione della restituzione
36
Con riferimento alla distinzione tra disposizione e norma si veda V. Crisafulli, Disposizione (e norma), in Enc. dir., XII, Milano, 1964, p. 195 ss.
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della cosa sequestrata. Questioni che, se pur derivanti da un solo comma di una disposizione normativa, per gli interessi in gioco devono essere assolutamente sviscerate e risolte.
Il problema, ad avviso di chi scrive, risiede “a monte”.
L’equivoca e, per certi versi, ermetica formulazione della previsione contenuta nell’art. 263, comma
3, c.p.p., rappresenta il risultato della scelta, sicuramente poco felice, del legislatore del 1988 di riprodurre pedissequamente le disposizioni contenute negli artt. 618 e 624 c.p.p. 1930.
Il legislatore penale, pur nella manifesta intenzione esplicitata nella Relazione al progetto preliminare di strutturare la disciplina dei sequestri in considerazione dell’esigenza di tutela del diritto dei cittadini alla libera disponibilità sulle cose, non sembra avere tenuto nel giusto conto il dato evidente che il
codice del 1930, ispirato ad un modello processuale strutturalmente diverso da quello attuale, disciplinava il sequestro in maniera assai scarna.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti gli operatori del diritto. Problemi interpretativi e oscillazioni giurisprudenziali che disorientano gli interpreti e tutti coloro che si confrontano con la predetta disposizione normativa.
Il presente contributo, lungi dal rappresentare un’interpretazione autentica di una norma assai
equivoca, può costituire un invito a riflettere per adottare soluzioni condivise che costituiscano una
bussola per gli operatori del diritto. L’unica soluzione plausibile, allo stato dell’arte, è quella di ritenere
che la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 263 c.p.p. vada correttamente interpretata nel senso
che il mantenimento temporaneo del vincolo sulla cosa, quando siano cessate le esigenze probatorie, sia
esclusivamente funzionale alla possibilità di permettere al soggetto interessato di adire il giudice civile
affinché provveda all’individuazione della persona a cui la cosa sequestrata debba essere restituita.
In tale procedimento, l’esistenza di una formale controversia sulla proprietà rappresenta il presupposto perché il giudice penale sia esonerato dal compito di risolvere la questione, irrilevante per il processo penale, unicamente inerente all’individuazione della persona a cui la cosa debba essere restituita.
Pertanto, è stabilito che siffatta risoluzione sia affidata, su iniziativa della parte interessata, al giudice
civile in conformità con gli istituti previsti dal codice di procedura civile.
Trattandosi di questioni devolute al giudice civile con la conseguente natura interlocutoria dei provvedimenti giudiziali emessi nell’ambito di tale procedimento, non possono tollerarsi impugnazioni che
affannino ulteriormente il carico della Suprema Corte; siamo dinanzi, peraltro, ad un procedimento che si
discosta sotto tutti i profili dall’istituto della pregiudiziale civile sancito dal combinato disposto di cui agli
artt. 3 e 479 c.p.p., nel quale la decisione del giudice civile è decisiva per le sorti del processo penale.
Si tratta, come ampiamente scritto supra, di una norma che appare ispirata dalla volontà del legislatore di evitare che il giudice penale possa entrare nel merito di una controversia strettamente civilistica,
assicurando alla risoluzione della questione celerità e snellezza.
Siamo dinanzi, comunque, a temi di ampio respiro su cui inevitabilmente occorrerà rimeditare, posta l’ormai imprescindibile esigenza di certezza del diritto.
È chiaro che tali conclusioni sono in parziale contrasto con la giurisprudenza di legittimità, la quale
probabilmente farà una levata di scudi tesa a risolvere le problematiche afferenti il procedimento di restituzione della cosa sequestrata il più possibile nell’ambito penale.
Ma per la certezza del diritto occorre perentorietà da parte degli interpreti, poiché le idee forti gettano radici profonde e i loro effetti resistono al tempo, sino a diventare la pietra fondante di una costruzione tanto coraggiosa quanto inedita.
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L’invalidità dell’accertamento fiscale
e i suoi effetti sul processo penale
CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 1° APRILE 2014, N. 2487 – PRES. SQUASSONI; REL. FRANCO
In materia di sequestro per violazioni tributarie, gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le verifiche
compiute dalla Guardia di Finanza per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e delle imposte dirette sono
sempre utilizzabili quale notitia criminis, in quanto a tali attività non è applicabile la disciplina prevista dal codice di
rito per l’operato della polizia giudiziaria. Perciò, la mancanza o l’irregolarità formale dell’autorizzazione, se è causa
di invalidità dell’accertamento fiscale, non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale.
[Omissis]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del 19 ottobre 2013 il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma autorizzò la perquisizione e il sequestro presso la società cooperativa 29 giugno e nei confronti di B.S. di cose
necessarie allo accertamento di violazioni tributarie ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 75, e D.P.R.
n. 600 del 1973, art. 70, ed in particolare a reati tributari in materia di IVA e di imposte sui redditi.
Il tribunale del riesame di Roma, con l’ordinanza in epigrafe, confermò il provvedimento di sequestro probatorio ritenendo sussistente il fumus delle violazioni ipotizzate stante lo scollamento tra il volume d’affari e i redditi della società cooperativa ed in considerazione dei rapporti tra tale società e il B.,
anche con riferimento ai redditi della moglie erogati dalla società ed alle cospicue proprietà immobiliari
del B. La documentazione sequestrata era poi pertinente agli accertamenti in corso. Il tribunale, peraltro, annullò il provvedimento di sequestro con riferimento alle banconote, all’orologio ed ai gioielli sequestrati.
L’indagato, a mezzo dell’avv. Alessandro Diddi, propone ricorso per cassazione deducendo mancanza di motivazione sui presupposti del provvedimento adottato. Ricorda che la guardia di finanza
aveva chiesto la autorizzazione ad effettuare un accesso presso una privata dimora e ad acquisire documentazione ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52. In base a tale disposizione l’accesso poteva essere autorizzato solo in caso di gravi indizi di violazioni alle norme del decreto stesso. Sul punto
l’ordinanza impugnata è totalmente priva di motivazione perché si limita a fare riferimento ad una asserita sproporzione tra i redditi del B. e il suo patrimonio, priva però di riscontro. L’ordinanza impugnata non svolge alcuna valutazione sui dati indicati nella relazione della guardia di finanza specialmente sul giudizio di sproporzione tra redditi e patrimonio (che non vengono nemmeno indicati) sicché l’affermazione di una sproporzione è del tutto apodittica. Del resto la mancanza di motivazione
colpisce anche la relazione della GdF la quale si limita a riprodurre i redditi degli ultimi tre anni e ad
elencare il patrimonio formato tra il 1987 e il 2007. Il giudizio di sproporzione non può quindi effettuarsi trattandosi di grandezze tra loro prive di alcuna correlazione causale.
Deduce inoltre che l’art. 52 cit. postula la ricorrenza di gravi indizi di violazione delle norme di cui
al decreto sull’IVA. Ora, anche ad ammettere che esista la suddetta grave sproporzione, non si comprende come essa potrebbe essere grave indizio di violazione delle norme in materia di IVA. Lamenta
poi che l’ordinanza impugnata è totalmente priva di motivazione sul vincolo di pertinenzialità tra
quanto sequestrato e le violazioni che si assumono commesse.
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MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene il Collegio che il ricorso sia inammissibile perché ha ad oggetto un provvedimento che non
costituisce valida decisione di una richiesta di riesame relativa ad una misura probatoria o cautelare
reale e che pertanto non può essere impugnato con un ricorso per cassazione secondo la procedura
prevista per detti provvedimenti dall’art. 325 c.p.p.
Nella specie, infatti, si è trattato non già di una misura cautelare reale o di una sequestro probatorio,
bensì semplicemente di una autorizzazione rilasciata dal PM alla GdF per accedere, nel corso delle
normali attività ispettive di natura amministrativa, a locali adibiti anche ad abitazione o a locali diversi
da quelli indicati dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 1. Questa disposizione, invero, prevede, al primo comma, che gli impiegati dell’Amministrazione finanziaria e la GdF possono accedere
nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, agricole, artistiche o professionali, nonché in
quelli utilizzati dagli enti non commerciali, per procedere ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione
dell’evasione e delle altre violazioni. Tuttavia, per accedere in locali che siano adibiti anche ad abitazione, è necessaria anche l’autorizzazione del procuratore della Repubblica. Il secondo comma inoltre dispone che qualora si tratti di locali diversi da quelli indicati nel primo comma, l’accesso “può essere
eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme del presente decreto, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”.
È pacifico che si tratta di attività amministrativa e non di polizia giudiziaria. Secondo la giurisprudenza, invero, “In materia di illeciti tributari gli elementi raccolti durante gli accessi, le ispezioni e le
verifiche compiute dalla Guardia di Finanza per l’accertamento dell’imposta sul valore aggiunto e delle
imposte dirette sono sempre utilizzabili quale notitia criminis, in quanto a tali attività non è applicabile
la disciplina prevista dal codice di rito per l’operato della polizia giudiziaria, sicché la mancanza o
l’irregolarità formale dell’autorizzazione, se è causa di invalidità dell’accertamento fiscale, non riverbera i suoi effetti sull’accertamento penale” (Sez. 3^, 7.2.2007, n. 12017, Monni, m.235927; conf. Sez. 3^,
3.12.1997, n. 1668 del 1998, Riberti, m.209572; Sez. 3^, 11.10.1995, n. 11307, Pariani, m. 202943).
L’autorizzazione del procuratore della Repubblica, pertanto, opera solo sul piano amministrativo e
non si risolve in un provvedimento con cui venga disposta o autorizzata una misura cautelare o probatoria ai fini penali. Del resto, l’accesso nei locali in questione è finalizzato non già al sequestro di beni o
documenti ma solo “allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”. L’art. 52 cit., comma 7, dispone che “i documenti e le scritture possono essere sequestrati soltanto se non è possibile riprodurne o farne constare il contenuto nel verbale, nonché in caso di mancata
sottoscrizione o di contestazione del contenuto del verbale. I libri e i registri non possono essere sequestrati; gli organi procedenti possono eseguirne o farne eseguire copie o estratti, possono apporre nelle
parti che interessano la propria firma o sigla insieme con la data e il bollo d’ufficio e possono adottare le
cautele atte ad impedire l’alterazione o la sottrazione dei libri e dei registri”. L’accesso pertanto non è
diretto al sequestro preventivo o probatorio di cose o documenti, ma specificamente ad estrarre copie di
documenti, libri o registri e ad impedire la loro futura alterazione o sottrazione. Nella specie, del resto,
non risulta che documenti, libri o registri siano stati sequestrati.
Pertanto, contro il provvedimento del procuratore della Repubblica di autorizzazione all’accesso in
locali adibiti anche ad abitazione o in locali diversi da quelli di cui all’art. 52 cit., comma 1, non era
esperibile il rimedio della richiesta di riesame al tribunale, non trattandosi appunto di provvedimento
che disponeva una misura cautelare o probatoria secondo le norme del codice di rito.
Ed il provvedimento erroneamente emesso dal tribunale del riesame non è di conseguenza nemmeno impugnabile con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325 c.p.p.
In realtà, nel caso in esame era ravvisabile una impropria misura probatoria (o cautelare) assunta di
iniziativa della GdF solo relativamente al sequestro dell’orologio Rolex, dei gioielli e delle banconote, in
relazione ai quali non si estendeva certamente l’autorizzazione all’accesso rilasciata dal procuratore
della Repubblica solo ai sensi dell’art. 52 cit. Di tali beni peraltro il tribunale del riesame ha correttamente disposto la restituzione, sicché il ricorso per cassazione non può ritenersi ammissibile nemmeno
sotto questo limitato profilo.
In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
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Poiché deve ritenersi che la causa di inammissibilità del ricorso non sia colpevole, essendo giustificata dall’errore in cui è incorso il tribunale del riesame nel ritenere che i documenti, i libri e le scritture
fossero stati sottoposti a sequestro probatorio o a misura cautelare reale, non può essere pronunciata
condanna al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende. Il ricorrente va quindi
condannato solo al pagamento delle spese del procedimento.
[Omissis]
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INVALIDITÀ DELL’ACCERTAMENTO FISCALE E I SUOI EFFETTI SUL PROCESSO PENALE
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TERESA ALESCI
Dottore di ricerca in Procedura penale – Seconda Università degli Studi di Napoli
L’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso
presso i locali del contribuente: natura e regime giuridico
The Public Prosecutor’s authorization to access into the premises
of taxpayer: legal nature
La Suprema Corte ribadisce la natura amministrativa dell’autorizzazione emessa dal procuratore della Repubblica
ex art. 52 del d.p.r. 633/1972, in materia di violazioni tributarie, ed esclude l’esperibilità della richiesta di riesame
avverso tale provvedimento. La soluzione prospettata dalla Corte, tuttavia, mostra delle criticità in ordine alle sanzioni processuali penali applicabili in caso di irregolarità dell’autorizzazione.
Supreme Court confirms the administrative nature of the Prosecutor’s authorization in tax law and excludes any
challenge against that decision. The solution shows some criticality.
IL CASO
La sentenza in commento trae origine da un ricorso per Cassazione presentato dal difensore dell’indagato avverso la decisione del riesame, che confermava il provvedimento di “sequestro probatorio”.
In particolare, si censurava la mancanza di motivazione sui presupposti del provvedimento, emesso ai
sensi dell’art. 52 del d.p.r. 633/1972. La Terza Sezione ha dichiarato inammissibile il ricorso, perché
avente ad oggetto un provvedimento che non costituisce valida decisione di una richiesta di riesame e
in quanto tale non impugnabile con ricorso per Cassazione.
La sentenza in commento offre molteplici spunti di riflessione e consente di analizzare diverse questioni. Da un lato, la natura del provvedimento de quo ed il rapporto tra procedimento tributario e penale, focalizzando l’attenzione sulle conseguenze delle violazione delle prescrizioni tributarie. Dall’altro,
la pronuncia consente di svolgere alcune considerazioni sulla tassatività dei mezzi di impugnazione e
sui provvedimenti che possono essere oggetto di riesame.
LA NATURA GIURIDICA DEL PROVVEDIMENTO EX ART. 52 D.P.R. N. 633/1972
La specificità del caso sottoposto alla valutazione della Suprema Corte attira l’attenzione sui poteri
istruttori attribuiti all’amministrazione finanziaria, aventi ad oggetto accessi, ispezioni e verifiche. Essi
sono disciplinati dall’art. 52 del d.p.r. 26 ottobre 1972, n. 633 in tema di IVA, integralmente richiamato,
per le imposte sui redditi, dall’art. 33 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 1.
1
Alle norme citate bisogna aggiungere l’art. 12 dello Statuto del contribuente (l. 27 luglio 2000, n. 212) che integra la disciplina degli accessi, delle ispezioni e delle verifiche. Secondo tale disposizione, la verifica fiscale presso il contribuente si effettua
sulla base di esigenze effettive di indagine e controllo sul luogo, da svolgersi, salvo casi eccezionali, durante l’orario di esercizio
dell’attività ed in modo da arrecare la minore turbativa possibile. Peraltro, in conformità con il diritto di difesa di cui all’art. 24
della Cost., il secondo comma prevede che il contribuente venga informato delle ragioni della verifica e della facoltà di farsi assistere da un legale. Sul punto si veda M. Augugliaro, La formazione della prova durante la fase istruttoria dell’accertamento tributario
nell’ambito dei rapporti tra il diritto processuale penale e il procedimento tributario, www.rivista.ssfe.it.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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Tale disciplina trova il proprio fondamento negli artt. 13 e 14 della Costituzione, relativi all’inviolabilità della libertà personale e del domicilio 2. L’art. 14, pur sancendo l’inviolabilità del domicilio, detta una disciplina sostanzialmente divergente rispetto a quella prevista dall’art. 13 Cost., poiché introduce una vistosa eccezione al principio della riserva giurisdizionale. Il comma 3, infatti, consente di applicare in via amministrativa atti limitativi della libertà domiciliare per motivi di sanità, di incolumità
pubbliche o per motivi economici-fiscali 3.
Senza pretese di esaustività in questa sede, l’accesso, ex art. 52 cit., si sostanzia nell’ingresso e nella
permanenza, anche contro la volontà dell’interessato, in locali ed ambienti al fine di eseguirvi le operazioni richieste dallo specifico servizio 4; l’ispezione, invece, si concretizza nell’esame delle scritture contabili e più in generale di tutta la documentazione rilevante ai fini impositivi. Sui limiti e sulle modalità
di attuazione dell’ispezione si registra un vivace dibattito in dottrina. Secondo alcuni, tale ispezione,
pur rientrando nell’ambito di un’attività amministrativa a carattere repressivo, è soggetta al regime
previsto dal codice di rito 5. Altri, invece, ritengono che la specificità dell’oggetto dell’ispezione consenta esclusivamente l’applicazione della disciplina specifica (art. 52 d.p.r. n. 633 del 1972 ed artt. 32-33
d.p.r. n. 600 del 1973) 6.
Tra i poteri istruttori rientra anche la verifica finalizzata al controllo concernente qualità, entità e
consistenza degli elementi oggettivi e soggettivi 7.
I presupposti e le condizioni per procedere all’accesso si diversificano a seconda del tipo di locale interessato ovvero in base al diverso grado di incidenza nella sfera di riservatezza del privato. Nello specifico, per accedere nei locali adibiti esclusivamente ad attività agricole o commerciali in generale è sufficiente l’autorizzazione rilasciata dal capo dell’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria 8. Diversamente, qualora i locali siano destinati promiscuamente anche ad abitazione, è necessaria l’autorizzazione
del procuratore della Repubblica 9, oltre a quella rilasciata dal capo dell’Ufficio amministrativo. Una disciplina ancora più specifica è prevista dal secondo comma della disposizione, relativa all’accesso nelle
abitazioni private dei contribuenti o di terzi. In tali casi, l’accesso può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, solo in presenza di “gravi indizi” di violazioni tributarie e al
precipuo scopo di reperire libri, registri, scritture contabili e altri documenti, idonei a provare la commissione delle violazioni medesime 10. La sussistenza dei gravi indizi di commissione di un illecito fiscale “consente” di superare il principio di inviolabilità del domicilio 11. Sull’espressione “gravi indizi”
2
Cfr. A. Viotto, I poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria nel quadro dei diritti inviolabili di libertà sanciti dalla Costituzione, Milano, 2002, p. 184 ss., cui si rinvia per l’approfondito esame delle garanzie previste dalla Costituzione a tutela delle libertà inviolabili, rispetto alle limitazioni connesse all’esercizio dei poteri di indagine dell’Amministrazione finanziaria.
3
Tale norma fonda la legittimità costituzionale di tutti i poteri ispettivi e di controllo incidenti sul domicilio previsti da leggi
speciali. Cfr. G. Locatelli, Perquisizioni ed accessi in materia tributaria, in Il fisco, XVIII, 1992, p. 4559.
4
Si veda G. Pezzuto-S. Screpanti, La verifica fiscale, Milano, 2003, p. 41 ss.
5
Cfr. S. Valentini, Ispezione (diritto amministrativo), in Enc. dir., XII, Milano, 1972, p. 936.
6
Cfr. S. Capolupo, Manuale dell’accertamento delle imposte, Milano, 2003, p. 788 ss.
7
Per una più ampia analisi si rinvia a P. Russo, Manuale di diritto tributario, III ed., Milano, 1999, p. 265 ss.
8
Una disciplina parzialmente diversa è prevista per l’accesso negli studi dei professionisti. Fino al 1991, per accedere presso
studi artistici o professionali, era necessaria la preventiva autorizzazione del procuratore della Repubblica. Dopo l’emanazione
della l. 30 dicembre 1991, n. 413 che ha modificato l’art. 52 del d.p.r. n. 633 del 1972, l’autorizzazione dell’organo giurisdizionale
non è più necessaria. Tuttavia, al fine di salvaguardare la particolare attività svolta, il legislatore ha previsto uno specifico requisito di legittimazione, teso a tutelare il “segreto professionale”: l’accesso deve essere eseguito alla presenza del titolare dello
studio o di un suo delegato. Sul punto si veda L. Salvini, Accesso ed ispezioni negli studi professionali, in Riv. dir. tributario, I, 1992, p. 28.
9
Si tratta, nel silenzio della legge in merito alla competenza, del procuratore nella cui giurisdizione si trova il domicilio cui
accedere. Cfr. A. Giovanardi, Gli accessi, V. Uckmar-F. Tundo (a cura di), Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, Piacenza, 2005,
128. Di diverso avviso S. Dragone, Accesso nel domicilio e sindacato della Commissione tributaria: la inutilizzabilità della prova illegittimamente acquisita, in Riv. tributario, 1989, p. 991, secondo cui non potrebbe escludersi “la competenza anche di diverso Ufficio
del procuratore nella cui giurisdizione sono stati eseguiti gli atti di preliminare accertamento”.
10
Di recente è stato puntualizzato che l’autorizzazione del procuratore è subordinata alla presenza di gravi indizi di violazioni soltanto ai fini dell’accesso in locali adibiti esclusivamente ad abitazione e non anche quando si tratti di locali ad uso promiscuo; si veda Cass. civ., sez. trib., 16 dicembre 2013, n. 28608, in Riv. giur. tributaria, III, 2014, p. 189.
11
Si veda R. Lupi, Diritto tributario, parte generale, Milano, 1998, p. 122, secondo cui «la gravità dell’indizio è un parametro
per una mediazione tra interessi diversi: l’esito di questo giudizio discrezionale può sacrificare alcuni interessi del contribuente,
come la riservatezza, l’inviolabilità del domicilio, la corrispondenza».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
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di violazioni 12 permane, tuttavia, una grande ambiguità. Se da un lato è pacifico che essa non equivalga
alla presunzione grave di cui all’art. 2729 c.c. o all’art. 39 del d.p.r. n. 600/1973 13, considerato che la
presunzione è una prova, dall’altra si riscontrano delle opinioni difformi sulla possibile equivalenza
con i gravi indizi di cui al 273 c.p.p. Secondo alcuni, infatti, vi sarebbe una similitudine sul piano della
efficacia suggestiva 14, consistente nella obiettiva e seria ragione di sospetto, nel ragionevole fumus di
avvenuto compimento della violazione, tale da giustificare la violazione del domicilio.
Con l’utilizzo della formula “gravi indizi”, il legislatore ha cercato di bilanciare due diversi interessi
in gioco: da un lato il pubblico ius impositionis e dall’altro il diritto, di tipo individuale, all’inviolabilità
del domicilio 15. In tal caso il provvedimento emesso dal magistrato, lungi dall’essere un mero atto dovuto, è un atto di controllo sulla legittimità “sostanziale” dell’attività amministrativa che, tuttavia, non
deve cadere nel “merito” dell’opportunità dell’azione del Fisco. Tale argomentazione consente di svolgere una breve riflessione sulla necessità della motivazione. Respinta la tesi del controllo solo formale e
non anche sostanziale, l’obbligo di motivazione sussiste sia che si tratti di provvedimento giurisdizionale, ex art. 111 Cost., sia qualora si opti per la natura di atto amministrativo, alla luce dell’art. 3 della
l.241 del 1990 sul procedimento amministrativo 16.
La problematica di maggiore rilievo, ai nostri fini, concerne la natura dell’autorizzazione dell’organo
giurisdizionale, che oscilla tra il piano amministrativo e quello giurisdizionale. La rilevanza dell’esatta
individuazione del genus dell’atto non si esaurisce esclusivamente in un mero interesse accademico ma
risulta foriera di conseguenze pratiche, poiché sostenere l’una o l’altra delle opinioni reca in sé “una diversa prospettazione circa il mezzo di impugnazione e di tutela contro le eventuali irregolarità connesse
all’autorizzazione” 17.
Secondo un orientamento constante in giurisprudenza e risalente nel tempo, la natura amministrativa del provvedimento sarebbe giustificata dalla circostanza che lo stesso atto partecipa direttamente
della natura amministrativa del procedimento nel quale si inserisce, “condizionandone la legittimità” 18.
In dottrina, invece, si registrano opinioni contrastanti. Taluni hanno sostenuto che tale atto sia amministrativo, non solo dal punto di vista oggettivo, ma anche da quello soggettivo, trattandosi di un atto adottato da un magistrato che eccezionalmente riveste la natura di organo amministrativo 19. Se la
giurisprudenza appare concorde sulla natura amministrativa dell’atto, alcuni sollevano qualche perplessità sulla possibilità di qualificare il soggetto cui è affidato il compito di emettere il provvedimento
come appartenente all’organizzazione amministrativa 20. Seguendo tale impostazione teorica, l’illegittimità dell’accesso sarebbe censurabile esclusivamente dal giudice ordinario o da quello tributario
nella sede in cui viene in discussione, tra le parti, la legittimità della pretesa tributaria 21.
12
Sul punto F. Pezzotti, I poteri di accertamento della polizia tributaria: accessi, ispezioni perquisizioni e verifiche, in Giust. pen., X,
1987, pp. 594-601.
13
Si veda Cass., sez. un., 21 novembre 2002, n. 16424, in Riv. giur. tributaria, II, 2003, p. 138, con commento di A. Grassotti,
L’accesso domiciliare illegittimo rende invalido l’accertamento.
14
Cfr. A. Marcheselli, Limiti agli accessi, mancata collaborazione del contribuente nell’istruttoria e preclusione alla prova nel processo
tributario, in Riv. giur. tributaria, III, 2014, p. 194.
15
Cfr. Cass., sez. I civ., 14 giugno 1995, n. 153, inedita.
16
Cfr. P. Russo, Manuale di diritto tributario, cit., p. 268.
17
Così G. Bersani, Accertamento tributario e tutela del domicilio del contribuente, in Corriere trib., V, 1996, pp. 5-24.
18
Si veda Cass., sez. un. civ., 8 agosto 1990, n. 8062, in Riv. dir. tributario, II, 1991, p. 383.
19
Così G. Vanz, Poteri istruttori, in Enc. Treccani “Diritto on line” 2014, www.treccani.it.
20
Secondo P. Russo, Manuale di diritto tributario, cit., 268, tale constatazione si porrebbe in contrasto con il principio di separazione dei poteri, per cui un organo non potrebbe cumulare in sé tanto la veste giurisdizionale quanto quella amministrativa. A
sostegno di tale tesi, l’A. ricorda altre ipotesi di atti sostanzialmente amministrativi posti in essere da organi giurisdizionali,
come gli atti di esecuzione penale e gli atti di volontaria giurisdizione. Anche C. Zunino, Perquisizioni personali, apertura coattiva
di borse, V. Uckmar-F. Tundo (a cura di), Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, esclude che il provvedimento possa essere considerato soggettivamente amministrativo.
21
Secondo P. Dell’Anno, Osservazioni a Cass., sez. III, 11 ottobre 1995, n. 11307, in Cass. Pen., 1996, p. 1611, anche avvalorando
la tesi della natura amministrativa dell’atto, «al giudice penale pur sempre appartiene il potere dovere di vagliare il contenuto dello stesso
ed eventualmente censurarlo per eventuali vizi che inficiano in radice la sua motivazione escludendo la utilizzabilità delle prove che si siano
formate in forza di esso».
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
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Un’altra parte della dottrina opta, invece, per la natura giurisdizionale dell’atto autorizzativo 22, con
conseguente ammissibilità del ricorso alla Corte Suprema, ai sensi dell’art. 111 Cost., con un evidente
estensione dell’applicabilità della disposizione costituzionale al di là dei provvedimenti limitativi della
libertà personale (e cioè anche, ad esempio, a quelli compromissori del domicilio) 23. Risulta eccentrica,
tuttavia, la teoria di coloro che inseriscono tale autorizzazione del magistrato tra gli atti c.d. “processuali” o “atipici” del potere giudiziario, sul presupposto che la qualifica di atto giurisdizionale debba essere riconosciuta solo alle sentenze e alle pronunce giurisdizionali, provenienti dall’autorità giudiziaria, e
quelle di atti amministrativi solo a quelli emanati da un autorità amministrativa 24.
Con la pronuncia in esame, la Suprema Corte ha confermato, in maniera apodittica, la natura amministrativa dell’autorizzazione del procuratore della Repubblica, conformandosi ai precedenti pressoché
conformi, in considerazione del fatto che l’atto si inserisce in un tipico procedimento amministrativo
attraverso il quale l’Amministrazione finanziaria esercita il potere impositivo 25.
L’UTILIZZABILITÀ DEGLI ELEMENTI ACQUISITI SENZA L’OSSERVANZA DELLE PRESCRIZIONI IMPOSTE DALLA NORMATIVA TRIBUTARIA
Ora occorre analizzare il problema relativo alle conseguenze dell’illegittimità dell’attività istruttoria
compiuta dall’Amministrazione finanziaria. In via preliminare, appare opportuno soffermarsi sul particolare legame che unisce il procedimento tributario a quello penale 26.
L’attività istruttoria prevista dalla normativa tributaria può comportare l’acquisizione di elementi
utili all’individuazione sia di illeciti di natura fiscale sia di violazioni di natura penal-tributaria e, di
conseguenza, determinare interferenze tra procedimento amministrativo, volto all’accertamento di violazioni fiscali, e procedimento penale 27. I rapporti tra i due procedimenti sono ispirati al principio generale dell’autonomia reciproca, che trova riscontro sia nell’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000 28, sia negli art.
4 e 479 c.p.p. 29 La piena autonomia tra i due processi si evince anche dalla disciplina relativa all’efficacia del giudicato penale nel processo tributario, sancita dall’art. 654 c.p.p. 30. Secondo tale disposizione, l’efficacia del giudicato penale nel procedimento tributario è condizionata alla circostanza che
la legge tributaria non ponga limiti alla prova della posizione soggettiva controversa; considerata la
presenza di precise limitazioni al diritto di prova nella legislazione tributaria, non essendo consentita la
prova testimoniale, la sentenza di proscioglimento non fa stato nel processo tributario 31. Alla luce di
22
Tra i sostenitori della natura giurisdizionale dell’autorizzazione de qua si veda C. Albanello, Utilizzabilità nel giudizio tributario delle prove acquisite nel processo penale, in Riv. dir. tributario, II, 1992, p. 549 ss.; C. Balzarini, In tema di utilizzabilità ai fini
dell’accertamento tributario delle prove documentali acquisite nel corso di indagini penali, in Dir. e prat. trib., II, 1992, p. 1377.
23
Cfr. M. Casella, Poteri istruttori tributari, segreto bancario e prove illecite, F. Moschetti (a cura di), Procedimento tributario e garanzie del cittadino, Padova, 1984, p. 31 ss.
24
Si veda M.S. Giannini, Atto amministrativo, in Enc. dir., IV, 1959, pp. 187-188. L’A. ritiene che l’atto amministrativo sia solo
il provvedimento emanato da un’Autorità amministrativa. Secondo un’altra parte della dottrina, invece, inserisce tale provvedimento tra gli “atti sostanzialmente amministrativi”, ma “formalmente normativi o giudiziari”. Cfr. P. Russo, Questioni vecchie
e nuove in tema di operatività, in Riv. dir. tributario, I, 1991, p. 80.
25
Così Cass., sez. un., 8 agosto 1990, n. 8062, cit.; Cass., sez. III, 11 ottobre 1995, n. 11307, Cass. pen., 1996, p. 1608; Cass., sez.
III, 7 febbraio 2007, n. 12017, in Riv. dir. tributario, III, 2007, p. 92.
26
Sul punto si veda F. Fontana, L’agevole ingresso nel procedimento penale delle risultanze dell’attività ispettiva degli organi di Polizia tributaria, in Riv. giur. tributario, X, 2007, p. 874 ss.
27
Le violazioni di cui agli artt. 52 del d.p.r. n. 633/1972 e 33 del d.p.r. n. 600/1973 sono sia quelle amministrative che penali.
Cfr. sul punto Cass., 2 marzo 1990, in Riv. pen., 1991, p. 110.
28
Secondo l’art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 il procedimento tributario non può essere sospeso in pendenza di un procedimento penale avente per oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione della vertenza
tributaria.
29
L’interpretazione sistematica di queste due norme esclude che il giudice penale abbia il potere di sospendere il processo in
attesa della definizione del procedimento tributario.
30
Con l’abrogazione dell’art. 12 della legge 7 agosto 1982, n. 516 ad opera dell’art. 25 del d.lgs. n. 74 del 2000 è stato eliminato dall’ordinamento il principio di interdipendenza tra processo penale e tributario, consentendo l’applicazione del solo art. 654
c.p.p.
31
La questione relativa all’efficacia del giudicato penale nel processo tributario è stata ampiamente sviluppata dalla giuri-
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
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questo principio, che segna una netta cesura tra i due procedimenti, e nel solco di un indirizzo giurisprudenziale ormai consolidato, la Suprema Corte, con la pronuncia in esame, affronta la questione
concernente l’utilizzabilità, nel procedimento penale, di elementi di prova acquisiti nel corso di un accesso fiscale illegittimo.
La ricostruzione dell’intima connessione tra i due procedimenti consente di analizzare gli effetti
dell’accesso illegittimo sul piano tributario e in ambito processual-penalistico.
Sul piano tributario, infatti, la giurisprudenza pressoché unanime riconosce l’operatività in materia
tributaria del principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente raccolte 32, nonostante in passato
parte della dottrina ne avesse escluso l’applicabilità, fondando il ragionamento sulla riferibilità dell’art.
191 c.p.p. al solo processo penale. Altri autori, invece, sostengono l’applicabilità al processo tributario
della regola di cui al 191 del codice di rito attraverso l’esegesi sistematica di due norme, l’art. 70 del
d.p.r. n. 600/1973 e l’art. 75 del decreto IVA, che prevedono l’applicabilità, ove possibile, delle norme
del c.p.p. 33. Il rinvio mostrerebbe il chiaro intento del legislatore tributario di voler assimilare le due
procedure 34.
Dunque, la giurisprudenza tributaria, che ha reiteratamente riconosciuto la violazione delle prescrizioni previste dall’art. 52 cit. in merito all’attività di ricerca ed alle modalità di acquisizione, ha affermato la nullità della successiva acquisizione documentale, nonché del conseguente accertamento fiscale
per la parte che trovi su essa essenziale fondamento 35.
Per quanto attiene al piano processual-penalistico, la Suprema Corte, nella pronuncia in esame, richiamando un consolidato orientamento giurisprudenziale, ritiene che gli elementi raccolti durante le
attività compiute ai sensi dell’art. 52 del d.p.r. n. 633 del 1972 sono comunque utilizzabili come notitia
criminis. In particolare, la Corte ha affermato che l’irregolarità dell’autorizzazione, se può essere considerata causa di invalidità dell’accertamento fiscale, non produce effetti preclusivi sul giudizio penale
che si sia instaurato sulla base della notitia criminis emersa nel corso dell’accesso “illegittimo” 36.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte, ancorata ad un orientamento pacifico, alimenta molte
perplessità 37. L’iter argomentativo tralascia la disciplina prevista dalle disposizioni attuative, trascurando di verificare se nel caso specifico la Guardia di Finanza avesse dovuto agire nel rispetto del codice di rito 38.
Invero, l’art. 220 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale 39 stabilisce che,
qualora nel corso delle attività di verifica tributaria emergano degli indizi di reato, gli atti necessari
per assicurare le fonti di prova devono essere compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice
sprudenza di legittimità. Per un riferimento generale vedi F. Fontana, La valenza probatoria della testimonianza penale nel processo
tributario, in Riv. giur. tributaria, VIII, 2002, p. 737 ss.; E. Della Valle, Il processo tributario, Padova, 2008, p. 239; G. Mandò-D.
Mandò, Manuale dell’imposta sul valore aggiunto, Milano, 2012, p. 883.
32
Cfr. Cass. sez. un., 21 novembre 2002, n. 16424, in Riv. dir. tributario, II, 2002, p. 786; in senso conforme più recentemente
Cass., 4 novembre 2008, n. 26454, in Dir. e giustizia on line, 2008; Cass. civ., sez. trib., 20 marzo 2009, n. 6836, in Giust. civ. mass.,
III, 2009, p. 496; Cass. civ., sez. trib., 28 luglio 2011, n. 16570, in Dir. e giustizia on line, 2011.
33
In tal senso si veda S. Muleo, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, pp.
122-124; secondo S. Stufano, La tutela del contribuente nelle indagini tributarie, Milano, 2011, p. 193 ss., anche da un punto di vista
metodologico, appare corretto utilizzare la disposizione penalistica per integrare contenuti e significati non direttamente desumibili dalla norma tributaria. Si veda di recente anche A. Viotto, Le violazioni commesse nel corso dell’attività d’indagine tra inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite e principio di conservazione degli atti amministrativi, in Riv. dir. tributario, I, 2014, p. 7 ss.
34
Cfr. A. Stesuri, Il consenso tacito del contribuente negli accessi fiscali, in Riv. giur. tributaria, VII, 1996, p. 150.
35
V. Cass. civ., sez. I, 1 luglio 1997, n. 1036, in Il fisco, 44, 1998, p. 14451.
36
Si veda Cass., sez. III, 11 ottobre 1995, n. 11307, in Cass. pen., 1996, p. 1608. Secondo tale pronuncia, l’eventuale irregolarità
verificatasi nell’esercizio dell’attività amministrativa «può inficiare solo la validità dell’accertamento fiscale, ma non può rendere nulli o
inutilizzabili gli elementi di prova raccolti in ordine alla sussistenza di reati»; in senso conforme Cass., sez. III, 3 dicembre 1997, n.
1668.
37
Si veda I. Guerini, La perquisizione sul posto: ambito di operatività e profili problematici, in questa Rivista, III, 2014, p. 65.
38
Con tale pronuncia, la Corte si limita ad affermare che l’eventuale inosservanza delle norme previste dalla legge per la regolarità dell’accertamento degli illeciti fiscali non produce effetti sull’accertamento penale e, quindi, gli elementi raccolti
nell’ambito delle attività ispettive, per quanto illegittimamente acquisiti, possono essere validamente utilizzati come notitia criminis.
39
Si veda P. Rossi, Sull’utilizzabilità in sede penale di elementi acquisiti senza l’osservanza di prescrizioni imposte dalla normativa tributaria, in Il fisco, IX, 1999, p. 3078.
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di rito 40. Le garanzie penalistiche non si applicano dunque agli atti anteriori all’emersione degli indizi di reato 41. Al contrario, al sorgere di questi, le attività di ricerca e di acquisizione coattiva sostanzialmente corrispondenti a quelle tipizzate dal codice di rito debbono essere eseguite nelle forme vincolate dalla disciplina codicistica, ovvero attraverso la perquisizione ed il sequestro.
L’emersione degli indizi di reato, quindi, segna il passaggio dall’attività amministrativa a quella penale 42, e sotto il profilo soggettivo, comporta l’assunzione da parte del contribuente semplicemente sottoposto a verifica fiscale della qualità di soggetto indagato per reati tributari, con conseguente rispetto
delle formalità e delle garanzie previste dal codice di rito 43. Si pone, così, un profilo di coordinamento
tra le disposizioni tributarie che disciplinano accessi, ispezioni e esame documentale e il rispetto delle
garanzie difensive, qualora da tali attività dovessero emergere fatti penalmente rilevanti. Epperò, seppur il sistema di garanzie previste in sede di ispezione tributaria è stato ritenuto sufficientemente rispettoso dei diritti di difesa dei contribuenti, ben diversa è la situazione qualora nel corso di una verifica fiscale emerga una notitia criminis.
La cristallizzazione del momento in cui, nel corso di una verifica fiscale, correttamente o non correttamente iniziata, sorge il sospetto della realizzazione di una fattispecie di reato da parte del contribuente 44, risulta, in alcuni casi, poco agevole.
Ancor di più con riferimento alla fattispecie in esame, disciplinata dal secondo comma dell’art. 52
cit.. Come già accennato, l’accesso è subordinato, oltre che ad un requisito formale individuato nell’autorizzazione del p.m., anche nell’elemento oggettivo della sussistenza di gravi indizi di violazioni
delle norme tributarie. Secondo questa ricostruzione esegetica, se la polizia tributaria ha fondato motivo di ritenere che quei gravi indizi riguardino la commissione di un fatto penalmente rilevante, non
dovrebbe agire secondo le modalità di cui all’art. 52, ma secondo le disposizioni del codice di procedura penale. Tuttavia, nella prassi l’indicazione delle violazione tributaria non costituisce indice della sua
sussistenza, che deve ancora essere verificata, ma risulta utile per introdurre un sospetto suscettibile di
divenire indizio qualificato di violazione di norme tributarie. Nell’intento degli organi verificatori, si
determina, pertanto, uno spostamento dell’emersione sostanziale degli indizi di reato ad un periodo
successivo, pur dichiarandone formalmente l’esistenza, con il conseguente rischio del mancato riconoscimento delle garanzie richieste dall’art. 220 disp. att. c.p.p. 45.
Quanto al compimento degli atti successivi all’emergere della notizia di reato, sorgono alcune criticità evidenti sotto due profili diversi.
Dal punto di vista soggettivo, risulta essenziale che tali atti siano compiuti dal pm o dalla polizia
giudiziaria. Secondo la dottrina maggioritaria, tuttavia, l’art. 220 norme att. non intende estendere
l’attribuzione di funzioni di polizia giudiziaria a qualunque agente pubblico che, nel corso di una attività amministrativa, accerti incidentalmente fatti costituenti reato 46. Ne consegue che se tale soggetto ri-
40
Diversa era la situazione nel previgente codice di procedura penale. Sul punto si veda Cass., sez. III, 11 maggio 1989, n.
7065, secondo cui «in materia tributaria qualsiasi investigazione può portare a conoscenza situazioni penalmente rilevanti, ma ciò non
comporta che alle regole di procedura stabilite dalle singole leggi di imposta debba sostituirsi, per l’organo investigativo, l’osservanza delle
norme del codice di rito, sicché la GdF per redigere il verbale di constatazione non deve applicare le norme del codice né alcuna garanzia difensiva».
41
Cfr. R. Orlandi, Atti e informazioni della autorità amministrativa nel processo penale. Contributo allo studio delle prove extracostituite, Milano, 1992, p. 142.
42
Cfr. R. Schiavolin, L’utilizzazione fiscale delle risultanze penali, Milano, 1994, p. 76 ss., secondo il quale il sorgere degli indizi
di reato non dovrebbe impedire la prosecuzione dell’attività amministrativa di vigilanza ed accertamento, che dovrebbe potersi
svolgere parallelamente a quella penale.
43
In proposito si veda I. Cherchi, L’utilizzabilità in sede penale degli elementi acquisti nel corso delle indagini tributarie, V. UckmarF. Tundo (a cura di), Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, cit., p. 692.
44
Secondo Cass. sez. un., 28 novembre 2001, n. 45477, Giur. it., 2002, p. 1235, il presupposto dell’operatività dell’art. 220
norme att. c.p.p. non è l’insorgenza di una prova indiretta quale indicata dall’art. 192 c.p.p., bensì la sussistenza della mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge;
analogamente anche Cass., sez. II, 13 dicembre 2005, n. 2601.
45
Sul punto si veda A. Sciello, Indizi di reità emersi nel corso della verifica fiscale ed applicazione dell’art. 220 disp. att. c.p.p.: inutilizzabilità delle prove acquisite dalla Guardia di Finanza, in Dir. e prat. trib., IV, 2002, pp. 827-828.
46
Cfr. R.E. Kostoris, Art. 220, E. Amodio-O. Dominioni (diretto da), Commentario del nuovo codice di procedura penale, Appendice. Norme di coordinamento e transitorie, II, Milano, 1990, p. 80.
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veste la qualifica di organo di polizia giudiziaria in base a leggi speciali, deve procedere agli accertamenti secondo le norme del codice di rito; diversamente, la polizia amministrativa dovrà sospendere
immediatamente l’attività di accertamento e trasmettere denunzia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. 47.
Appare opportuna una breve digressione sulla differenza tra attività di polizia tributaria e giudiziaria. Nella sentenza, infatti, si evidenzia, senza particolare approfondimento, che l’attività compiuta dalla polizia tributaria è di natura amministrativa e non di polizia giudiziaria. La differenza non è solo
formale, posto che da ciò discende l’applicabilità della disciplina codicistica. In particolare, le attività di
ispezione e di accesso, previste dalla normativa tributaria, possono essere compiute sia dagli appartenenti all’Amministrazione finanziaria sia dalla Guardia di Finanza. Quest’ultima può operare sia con
poteri di polizia tributaria che giudiziaria, e la convergenza dei due poteri in capo ad un unico organo
può causare degli equivoci. Il passaggio dalla funzione di polizia amministrativa a quella di polizia
giudiziaria è individuato, ex art. 220 norme att. c.p.p., proprio dal sorgere degli indizi di reato 48.
Ne discende che gli accertamenti e le verifiche svolte dalla Guardia di Finanza in via autonoma, come previsto dagli artt. 51 e 52 del d.p.r. n. 633/1972 non possono essere utilizzati per la ricerca di fonti
di prova, con conseguente sequestro probatorio, nel caso in cui la notizia di reato sia già sussistente e
provenga da un esposto presentato da un soggetto identificato ed informato dei fatti. In tal caso, infatti,
i verificatori avranno l’obbligo di informare il pm, organo titolare delle indagini preliminari, che dovranno essere attivate e completate, a pena di inutilizzabilità degli atti raccolti, nel rispetto dei termini
di legge previsti per la loro durata 49.
Sul versante oggettivo, nel compimento degli atti successivi al sorgere della notizia di reato, la polizia giudiziaria dovrà, dunque, garantire il rispetto delle previsioni codicistiche 50.
Intervenuta sul tema della violazione delle garanzie previste dall’art. 220 norme att., la giurisprudenza di legittimità ha sancito che l’acquisizione degli atti necessari ad assicurarne le fonti di prova
senza l’osservanza delle disposizioni del codice di rito integra una nullità di ordine generale, ex art. 178,
co 1 lett. c 51. Peraltro, si è rilevato che gli elementi raccolti in violazione della disposizione de quo non
possono fondare, neppure tramite la loro riproduzione in forma testimoniale, l’accertamento della responsabilità per illeciti penali 52.
SUI MEZZI DI IMPUGNAZIONE
Per quanto attiene al profilo relativo alla impugnabilità del provvedimento emesso dal procuratore ai
sensi dell’art. 52 d.p.r. n. 633 del 1972, la soluzione adottata dalla Corte nella sentenza in commento
mostra carenze argomentative ed estrema sinteticità espositiva. Pur conformandosi ai precedenti in
termini, la Suprema Corte non sembra analizzare approfonditamente il profilo de quo né sembra individuare i rigorosi confini tra processo penale e tributario.
Invero, il provvedimento emesso dal procuratore, non impugnabile direttamente 53, è sindacabile dal
47
Sul punto si veda E. Lemmo, Le norme di coordinamento e transitorie, G. Conso-V. Grevi, Profili del nuovo codice, Padova,
1990, p. 557.
48
Si veda sul punto N. Furin, Polizia amministrativa e polizia giudiziaria: possono le pretese distinzioni tra queste funzioni limitare le
garanzie difensive nell’ambito dell’attività ispettiva e di vigilanza amministrativa?, in Cass. pen., 1999, p. 2437 ss.
49
Cfr. Cass., sez. III, 8 novembre 2005, 44262, Niceta, in Riv. pen., XII, 2006, p. 1370. Nel caso esaminato da tale sentenza, la
Suprema Corte ha dichiarato la nullità del provvedimento di sequestro e della relativa convalida del pm avvenuti oltre il termine di sei mesi dalla ricezione della notitia criminis.
50
Nel caso specifico di un accesso, che faccia emergere indizi di reato, la norma imporrebbe agli operanti di avvertire la persona sottoposta all’accertamento (divenuto nelle more indagato) della facoltà di nominare un difensore e di farsi assistere da
una persona di fiducia prontamente reperibile durante il compimento dell’atto istruttorio.
51
Cfr. Cass., sez. fer., 27 luglio 2010, n. 38393, in Cass. pen., I, 2012, p. 206.
52
Cfr. Trib. Rimini, 22 giugno 2001, in Dir. e prat. trib., 2002, p. 825.
53
Il provvedimento autorizzativo non è compreso nell’elencazione tassativa degli atti impugnabili di cui all’art. 19, comma 1
del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Sui limiti di tale impostazione nell’ottica dell’immediatezza e dell’efficacia della tutela delle
posizioni giuridiche soggettive lese dall’irrituale svolgimento dell’attività istruttoria, si veda S. La Rosa, Sui riflessi procedimentali
e processuali delle indagini tributarie irregolari, in Riv. dir. tributario, 2002, II, p. 294; C. Albanello, Accesso in abitazioni provate: ammissibilità di tutela giurisdizionale, anche immediata della libertà di domicilio, in Riv. dir. tributario, 1991, II, p. 393 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
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solo giudice tributario al quale sia in contestazione la pretesa che si fonda sulle prove reperite nel corso
dell’accesso.
Tuttavia, la questione presenta profili di problematicità nella parte in cui, come nel caso di specie,
l’autorizzazione all’accesso abbia determinato l’apprensione della documentazione fiscale. Secondo
l’interpretazione della Suprema Corte, l’accesso nei locali è finalizzato non già al sequestro di beni o
documenti, ma solo “allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni”.
Ed infatti, il comma settimo dell’art. 52 cit. dispone che i documenti e le scritture possono essere sequestrati soltanto se non è possibile riprodurne o farne constare il contenuto nel verbale. D’altro canto, i libri e i registri non possono essere sequestrati, ma gli organi procedenti possono estrarre copie ed impedire la loro futura alterazione.
La Suprema Corte ritiene che con il provvedimento non venga disposta o autorizzata una misura
cautelare o probatoria ai fini penali. E, di conseguenza, esclude l’esperibilità del riesame avverso tale
provvedimento, ritenendo “erroneo” il provvedimento emesso dal tribunale della Libertà che aveva
confermato il sequestro operato dalla Guardia di Finanza. Ne ha, così, escluso l’impugnabilità con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325 c.p.p.
Epperò, la questione potrebbe assumere una diversa configurazione se, pur in assenza del provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria, il contribuente esibisce spontaneamente i documenti ed
acconsente all’estrazione di copie degli stessi. A tal proposito, è stato considerato insuscettibile di essere
impugnato l’atto con cui la Polizia giudiziaria dispone l’estrazione di copia di atti o documenti rinvenuti all’esito di perquisizione 54, in ottemperanza al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, ex
art. 568, comma 1 c.p.p.
In particolare, la questione è stata approfondita dai giudici di legittimità con riferimento alla pratica
investigativa dell’estrazione di copie dai documenti sequestrati con conseguente restituzione degli originali. Secondo un orientamento consolidato, mancherebbe l’interesse al gravame, in considerazione
della decadenza del vincolo ablativo 55. Il codice di rito, che pur disciplina con una disposizione ad hoc
l’estrazione di copie del materiale sequestrato, si disinteressa delle implicazioni di tale attività, apparentemente innocua, ed anzi capace di dirimere la tensione tra due diversi interessi in conflitto, quella
dell’accertamento e quella di chi vanti il possesso materiale della res. L’art. 258 c.p.p., infatti, non contempla alcuna forma di controllo su simili iniziative e non si sofferma sulla natura dell’assicurazione di
dati conoscitivi riprodotti in copia 56. Tuttavia, la constatazione che l’esito cui tende il sequestro viene,
attraverso la copia, ugualmente raggiunto, ha indotto taluno a qualificare tale operazione di copiatura
come un anomalo mezzo di ricerca della prova, elusivo delle garanzie dettate dall’atto tipico 57. In effetti, il problema si pone proprio con riferimento ai beni di natura documentale ove ciò che rileva non è la
base naturale, il contenitore, quanto il contenuto probatorio in esso incorporato.
Tuttavia, l’obbiettiva equiparazione dal punto di vista finalistico tra tali attività di apprensione del
contenuto ed il sequestro si scontra con una giurisprudenza tesa a riconoscere l’applicabilità della normativa sui sequestri ai soli spossessamenti disposti in via autoritativa 58. Si insiste sulla distinzione concettuale e giuridica, tra provvedimenti ablativi disposti ex art. 253 c.p.p. e qualsiasi altra attività di acquisizione probatoria. La Suprema Corte 59 ha affermato che, in virtù del generale principio di libertà
dei mezzi di prova non vietati o non tipicamente disciplinati dalla legge ex art. 187 c.p.p., la distinzione
fra attività di ricerca o acquisizione coattiva di cose e documenti ed altre attività di acquisizione proba-
54
Cass., sez. II, 30 giugno 2010, n. 29022, in Cass. pen., XII, 2011, p. 4394.
55
Cass., sez. un., 7 maggio 2008, n. 18253, in Dir. pen. proc., IV, 2009, p. 469.
56
Si veda S. Carnevale, Copia e restituzione di documenti informatici sequestrati: il problema dell’interesse ad impugnare, in Dir. pen.
proc., IV, 2009, p. 472 ss.
57
Per una nota critica si veda V. Bonsignore, L’acquisizione di copie in luogo del sequestro: un atto atipico elusivo delle garanzie difensive, in Cass. pen., 1998, p. 1504 ss.
58
Cass., sez. VI, 14 luglio 1995, in Cass. pen., 1996, p. 2328. Con tale sentenza, la Suprema Corte ha escluso l’impugnabilità
del decreto emesso ai sensi dell’art. 248, comma 2, poiché la parte può far valere eventuali ragioni difensive nella fase di acquisizione dei documenti al processo, rappresentando in quella sede eventuali vizi comportanti nullità o inutilizzabilità; in dottrina
sul punto si veda R. Cantone, Perquisizione e sequestri: dalle tecniche investigative alle problematiche processuali, in Arch. n. proc. pen.,
I, 2001, p. 1; si veda anche Cass., sez. VI, 23 maggio 2003, Bonaduce.
59
Cfr. Cass., 30 giugno 1995, Catastini, in Cass. pen., 1996, p. 887 ss.
AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’AUTORIZZAZIONE DEL PROCURATORE DELLA REPUBBLICA
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toria non va ricercata nell’effetto pratico, sostanzialmente analogo, ma nella natura autoritativa della
prima attività, esplicata nell’esercizio di un potere dovere rispetto al quale corrisponde una posizione
di mera soggezione 60. In altri termini, la conclusione conseguirebbe non dall’effetto acquisitivo che è
riconnesso all’estrazione della copia, ma dal carattere coercitivo ricollegabile al sequestro e non rinvenibile in altri provvedimenti.
Il problema dell’esperibilità di rimedi avverso provvedimenti acquisitivi di documenti è intimamente collegato allo sbarramento individuato dall’interesse ad impugnare. Tuttavia, non si può trascurare
un orientamento minoritario che riconosce al gravame un diverso scopo. Riguardando un mezzo di ricerca della prova (tipico o atipico), diretto per sua natura all’acquisizione di elementi di conoscenza
spendibili nel procedimento, il riesame potrebbe essere finalizzato a censurare iniziative intraprese in
assenza dei requisiti legittimanti. L’obbiettivo del controllo incidentale, pertanto, non sarebbe soltanto
la riespansione dei diritti sul bene acquisito dagli inquirenti ma un accertamento sulla correttezza del
loro operato 61. Una verifica, cioè, tesa ad assicurare l’osservanza dei limiti posti dalla disciplina processuale all’uso dei poteri investigativi. Si tratta di un orientamento minoritario che ritiene ammissibile
una impugnazione sorretta da un “mero interesse alla prova” 62, tesa ad ottenere una statuizione anticipata sulla non fruibilità, in giudizio, del dato appreso 63. Tale ricostruzione ermeneutica è stata accusata
di “astrattezza”, posto che lo scrutinio del giudice della cautela non potrebbe sfociare esclusivamente in
una censura giuridica o di riprovazione degli organi responsabili di un provvedimento illegittimo 64.
Secondo l’orientamento restrittivo, invece, l’ordinamento prefigura la possibilità di sollevare, a tempo
debito, apposite eccezioni di inammissibilità, nullità o inutilizzabilità, e di conseguenza il riesame non
sarebbe la sede per esercitare un vaglio preventivo sul compendio probatorio 65.
La ricostruzione ermeneutica minoritaria, sebbene originale 66, se avallata dalla giurisprudenza, consentirebbe, nel caso di specie, al contribuente-indagato di proporre riesame avverso l’attività di copia
dei documenti rinvenuti durante l’accesso privo di autorizzazione, e di far emergere, appunto, l’assenza dei presupposti e l’illegittimità dell’accertamento.
60
Sul punto G. Spangher, Banche: richiesta di consegna ed istanza di riesame, in Cass. pen., III, 1996, p. 888. L’illustre autore analizza il rapporto tra sequestro e la richiesta di consegna ex art. 248 c.p.p., ritenendo quest’ultimo un atto complesso condizionato, «assommante in sé, sia la perquisizione sia il successivo sequestro». Da questa considerazione, discende l’esperibilità del riesame ex
art. 257 c.p.p.
61
Cfr. Cass., sez. VI, 31 maggio 2007, n. 40380, in Cass. pen., XI, 2008, p. 4276.
62
Così era stato definito nel vigore del codice Rocco, quando la questione iniziava ad essere oggetto di interesse da parte
della giurisprudenza. Si veda G. Paolozzi, Commento all’art. 343 bis, G. Conso-V. Grevi (a cura di), Commentario breve al codice di
procedura penale, Padova, 1987, p. 969.
63
Tale visione è condivisa in dottrina da G. Tranchina, voce Sequestro penale, in Enc. Giur., XXVII, Roma, 1992, p. 6; secondo
S. Montone, voce Sequestro penale, in Dig. pen., XIII, 1997, p. 260, l’interesse ad impugnare è collegato allo scopo di impedire che
la res possa entrare a far parte del materiale probatorio utilizzabile.
64
Sul punto Cass., sez. un., 11 maggio 1993, n. 6203, in Cass. pen., 1993, p. 2808; Cass., sez. un., 24 marzo 1995, n. 9616, in Dir.
pen. proc., 1995, p. 3308.
65
Cass., sez. V, 13 settembre 1990, Menci, in Arch. n. proc. pen., 1991, p. 293; Cass., sez. VI, 1 luglio 2003, Ronco, in Cass. pen.,
2005, p. 914.
66
Essa è tesa al riconoscimento di strumenti difensivi idonei, qualora l’attività istruttoria degli organi fiscali presenti dei profili di illegittimità.
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Dibattiti tra norme e prassi
Debates: Law and Praxis
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | MESSA ALLA PROVA PER ADULTI: ANATOMIA DI UN NUOVO MODELLO PROCESSUALE
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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LORENZO PULITO
Dottore di ricerca in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” (Sede di Taranto)
Messa alla prova per adulti:
anatomia di un nuovo modello processuale
Probation for adults:
analysis of a new proceedings model
La messa alla prova per gli adulti rappresenta una “rivoluzione culturale” prima ancora che giuridica; ad ispirarla,
tuttavia, non già la volontà di realizzare un effettivo recupero sociale dell’autore del reato, quanto la necessità di
deflazionare il carico giudiziario e ridurre il sovraffollamento carcerario. Ma la natura incerta dell’istituto, alcuni limiti
irragionevoli alla sua fruibilità e la penuria di risorse destinate al suo funzionamento ne minano le potenzialità applicative anche in relazione a questi ultimi obiettivi. Solo un’interpretazione flessibile delle norme istitutive ed il sapiente lavoro degli operatori potranno rimediare agli ostacoli emergenti nella prassi, affinché si raggiungano non
solo gli obiettivi auspicati dal legislatore, ma anche un effettivo recupero sociale dell’autore del reato ed il soddisfacimento degli interessi della vittima, nella prospettiva di un progressivo abbandono del sistema carcero-centrico
e di una più ampia valorizzazione della mediazione penale e della giustizia riparativa.
Probation for adults represents primarily a “cultural revolution”, even before being a judicial innovation. It was not
simply inspired by the willingness to effectively recover the offender from the social point of view, but also by the
need to reduce the judicial burden and minimize the prison overcrowding. Nevertheless the uncertainty of such
institution, some unreasonable limitations to its usability and the lack of resources available for its enforcement
undermine its applicative potential, especially in the light of the last mentioned objectives. Only a flexible interpretation of the founding laws and the wise efforts of experts could remedy the issues raising from its application.
This would not only make possible the achievement of the goals intended by the legislator, but also guarantee an
effective social recovery of the offender and the satisfaction of the victim, in the perspective of the progressive
forsaking of a prison-centred system and a broader valorisation of the victim-offender mediation, as well as of the
restorative justice.
PREMESSE – SOPRATTUTTO “CULTURALI” – SUL NUOVO MODELLO PROCESSUALE
La legge 28 aprile 2014, n. 67, recante «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei
confronti degli irreperibili», entrata in vigore il 17 maggio 2014, ha introdotto nel sistema della giustizia penale ordinaria l’istituto della “messa alla prova” 1, già previsto da oltre un ventennio nell’ambito del pro1
Tra i vari commenti alle disposizioni in tema di sospensione del procedimento e messa alla prova degli adulti, contenute nella
l. n. 67 del 2014, in G.U., serie generale, 2 maggio 2014, n. 100 – si ricordano, senza pretesa di esaustività, G. Amato, L’impegno è servizi sociali e lavori di pubblica utilità, in Guida dir., 2014, 21, p. 87 ss.; R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una
goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, in Dir. pen. proc., 2014, 6, p. 659 ss.; V. Bove, Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della l. 67/2014, in www.penalecontemporaneo.it; M. S. Calabretta-A. Mari, La sospensione del procedimento (l. 28 aprile 2014, n. 67), Milano, 2014; R. De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Questione giustizia, 2013, 6, p. 9 ss.; A. Di Tullio D’Elisiis, La
messa alla prova per l’imputato, Rimini, 2014; F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena riducono la diffusione, in Guida dir., 2014, 21, p. 68 s.;
Id., Revoca discrezionale per chi viola il programma, ivi, p. 83 ss.; Id., Risarcire la vittima è condizione imprescindibile, ivi, p. 75 ss.; Id., Rivoluzione copernicana per la giustizia riparativa, ivi, p. 63 ss.; Id., Una sola volta nella storia giudiziaria del condannato, ivi, p. 70 ss.; Id., Volontariato quale forma di “riparazione sociale”, ivi, p. 78 ss.; R. Fonti, Novità legislative interne, in Proc. pen. giust., 2014, 4, p. 10 ss.; A. Ma-
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cesso penale minorile (artt. 28-29 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448; art. 27 d.lgs. 28 luglio 1989, n. 272).
L’approvazione della proposta di prevedere la messa alla prova anche per gli adulti, già da tempo
presente nella riflessione della dottrina 2 e nelle aule parlamentari 3, rappresenta una “rivoluzione culturale” prima ancora che giuridica, sebbene verosimilmente dovuta non tanto ad una mutata sensibilità
dell’opinione pubblica, famelica di effettività e certezza della pena, quanto alla cronica esigenza di deflazione carceraria ed all’ultimatum imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo 4.
Si è giustamente osservato come la trasposizione del probation dalla giustizia minorile al processo
penale ordinario sia figlia di una nuova premessa culturale che contrappone l’obiettivo dell’“inclusione” del reo a quello della sua “reclusione”, scardinando la logica reato-pena, che, sia pure nelle variegate sequenze possibili, ha condotto nel tempo ad un’ipertrofia del sistema giudiziario penale, da cui
sono conseguiti numerosi effetti distorsivi, quali il venir meno della certezza della pena in tempi ragionevoli e una crescente percezione sociale di ineffettività della sanzione 5.
La diversion dal normale corso del processo e dagli steccati, anche fisici, della risposta penale classica si
prefigge lo scopo di responsabilizzare, prima che di condannare, l’autore del reato, favorendone il reinserimento sociale ed il recupero in un contesto ambientale che non è più solo quello della devianza e degli istituti di pena (fertile terreno criminogenetico), consentendo nello stesso tempo alla vittima di vedersi riparate
le conseguenze del reato in maniera più rapida e senza rivivere nell’ambito del processo i patemi subiti 6.
È su queste premesse che s’incardina il secondo comma dell’art. 168-bis c.p., che delinea i contenuti
del regime di messa alla prova, conferendo rilievo prioritario alle condotte riparative: «prestazione di
condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove
possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato».
Se la dimensione riparativa dell’illecito quale danno sociale viene considerata dal legislatore nella
misura in cui è prevista l’obbligatoria effettuazione del lavoro di pubblica utilità o un’attività di volontariato, è sul terreno della tutela della vittima che il nuovo istituto si propone di segnare il traguardo, in
quanto chiaramente ispirato alla restorative justice (o giustizia riparativa), modello “dialogico” di giustizia penale capace di fondere interessi apparentemente antitetici, coniugando componenti riabilitative,
vittimologiche e riparatrici 7: da un lato la rieducazione non stigmatizzante dell’autore, dall’altro la tutela di esigenze della persona offesa.
Il suo esito tipico è, infatti, la realizzazione, da parte del reo, di prestazioni riparativo-risarcitorie in
favore della vittima 8.
randola, La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, in Dir. pen. proc.,
2014, p. 674 ss.; M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni, in www.penalecontemporaneo.it; C. ContiA. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014; R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di
sospensione del procedimento con messa alla prova, in R. Piccirillo-P. Silvestri, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili – Rel. dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione n.
III/07/2014, Novità legislative: legge 28 aprile 2014, n. 67, in www.cortedicassazione.it; P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2014,
p. 824 ss.; N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscioglimento per tenuità del fatto, Torino,
2014; G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in www.questionegiustizia.it.
2
D. Vigoni, La metamorfosi della pena nella dinamica dell’ordinamento, Milano, 2011, p. 308 ss.
3
Sui disegni di legge in materia M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia riparativa, in Proc.
pen. giust., 2012, 6, p. 123 ss.; D. Vigoni, La metamorfosi della pena nella dinamica dell’ordinamento, cit., p. 314 ss.; F. Zaccaria, Scenari
de iure condendo: la messa alla prova anche per gli adulti?, in N. Triggiani (a cura di), La messa alla prova dell’imputato minorenne tra
passato, presente e futuro. L’esperienza del Tribunale di Taranto, Bari, 2011, p. 153 ss.
4
Cfr. Corte e.d.u., 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, in Cass. pen., 2013, 1, p. 11 ss., con nota di G. Tamburino, La sentenza
Torreggiani e altri della Corte di Strasburgo, che ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 C.e.d.u. per non aver garantito ai
detenuti uno spazio minimo «considerato accettabile dal Comitato per la prevenzione della tortura». Tra i commentatori della
sentenza, cfr. anche G. Della Morte, La situazione carceraria italiana viola strutturalmente gli standard sui diritti umani (a margine della
sentenza Torreggiani c. Italia), in Dir. um. dir. int., 2013, 1, p. 147 ss.; M. Dova, Torreggiani c. Italia, un barlume di speranza nella cronaca del sistema sanzionatorio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 2, p. 948 ss.; F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento
delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in www.penalecontemporaneo.it.
5
R. De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, cit., p. 10 ss.
6
F. Fiorentin, Rivoluzione copernicana, cit., pp. 63 e 66.
7
M. M. Herrera, Rehabilitación y restablecimiento social. Valoración del potencial rehabilitador de la justicia restauradora desde
planteamientos de teoría jurídica terapéutica, in Cuadernos de derecho judicial, 2006, p. 171.
8
In tema A. Ceretti-C. Mazzuccato, Mediazione e giustizia riparativa tra Consiglio d’Europa e O.N.U., in Dir. pen. proc., 2001, 5, p.
772 ss.; G. Mannozzi, La giustizia senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003.
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La l. n. 67 del 2014 apre, poi, una nuova finestra per la mediazione penale nel nostro ordinamento, in
quanto tra i contenuti essenziali del programma di trattamento sono previste le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa.
Il nuovo riferimento normativo alla mediazione realizza l’estensione di una pratica che, pur raccomandata da numerose disposizioni comunitarie e internazionali, ha trovato finora riconoscimenti circoscritti agli ambiti del rito minorile 9 e del processo penale davanti al giudice di pace 10.
Con il nuovo art. 464-bis, comma 4, c.p.p. la mediazione fa dunque ingresso nel procedimento penale
ordinario, condividendo la medesima lacunosità che connota la disciplina dei sottosistemi che già la
contemplavano.
La soddisfazione della vittima è lo sforzo a cui si deve protendere, ma non necessariamente l’obiettivo
da raggiungere. L’inciso “ove possibile” – che caratterizza sia le disposizioni procedurali dedicate alla
promozione dell’esperimento conciliativo, sia quelle sostanziali dedicate al risarcimento del danno nel
programma di messa alla prova (art. 168-bis, comma 2, c.p.) – rafforza questa conclusione, sicché, tanto in
fase di ammissione della misura quanto in fase di valutazione dei suoi esiti, si dovrà dare rilievo alla disponibilità e alla serietà degli sforzi profusi dall’imputato sul versante della riparazione inter-soggettiva,
piuttosto che all’effettivo conseguimento del risultato o alla soddisfazione manifestata dalla persona offesa che – in questo contesto, così come in quello dell’art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 – si pone quale interlocutrice necessaria ma non vincolante del giudice e degli uffici dell’esecuzione penale 11.
Sia pure tra luci ed ombre, l’integrazione apportata nel sistema normativo vigente è un fattore apprezzabile verso la costruzione di un modello di giustizia alternativo, per il cui corretto funzionamento
è altresì propedeutica la diffusione di una adeguata cultura della mediazione penale e della giustizia
riparativa, che sicuramente questa nuova “finestra” normativa contribuirà a far sedimentare, prima ancora negli operatori del diritto che nella società stessa.
Vi è però che per plurime ragioni l’estensione agli adulti dell’istituto minorile, di sicura portata dirompente sul piano teorico, rischia in concreto di non avere la fortunata sperimentazione dell’archetipo e di non riuscire a raggiungere i prefissati obiettivi di deflazione carceraria e del carico giudiziario.
9
Sull’attività di mediazione nell’ambito del processo penale minorile si vedano, tra gli altri, M. Bouchard, Vittime e colpevoli:
c’è spazio per una giustizia riparatrice?, in Questioni giustizia, 1995, 4, p. 887 ss.; C. Cavallo, Le nuove linee di indirizzo e di coordinamento in materia di mediazione penale minorile, in Minori giustizia, 2008, p. 357 ss.; A. Ceretti, Progetti per un ufficio di mediazione penale presso il Tribunale per i minorenni di Milano, in G. Pisapia-D. Antonaci (a cura di), La sfida della mediazione, Padova, 1997, p. 97
ss.; P. Grillo, Brevi riflessioni su di un istituto dalle molteplici sfaccettature: la mediazione minorile nei conflitti in famiglia e nel processo
penale davanti al tribunale per i minorenni, in Arch. n. proc. pen., 2008, p. 643 ss.; P. Martucci, Gli spazi della mediazione penale nel processo minorile: riflessioni su dieci anni di “sperimentazioni”, in Dir. pen. proc., 2006, p. 1413 ss.; F. Micela, La mediazione è un alibi per il
processo penale minorile?, Minori giustizia, 2009, 4, p. 183 ss.; F.P. Occhiogrosso, La mediazione nella giustizia minorile, ivi, 2008, p.
161 ss.; L. Picotti (a cura di), La mediazione nel sistema penale minorile, Padova, 1998; G. Ponti (a cura di), Tutela della vittima e mediazione penale, Milano, 1995; G. Scardaccione-A. Baldry-M. Scali, La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile,
Milano, 1998; C. Scivoletto, Mediazione penale minorile. Rappresentazioni e pratiche, Milano, 2010; Id., La mediazione penale minorile in
Italia. Un cantiere aperto, I. Mastropasqua-N. Buccellato (a cura di), 1° Rapporto nazionale sulla mediazione penale minorile, Roma,
2012, p. 39 ss.; G. Sergio, Mediazione e processo penale minorile, in Crit. pen., 1998, p. 398 ss.; S. Tigano, Giustizia riparativa e mediazione penale, Rassegna penitenziaria e criminologica, 2006, p. 25 ss.; G. Turri, La mediazione penale minorile: prospettive e implicazioni, in
Minori giustizia, 2005, p. 41 ss.; M. Valieri, Sulla mediazione nel processo penale minorile, in Dir. famiglia, 2003, p. 492 ss.
10
Cfr. D. Chinnici, Il giudice di pace: profili peculiari della fase del giudizio e riflessioni in margine alla “scommessa” sulla mediazione,
in Cass. pen., 2002, p. 876; L. Eusebi, Strumenti di definizione anticipata del processo e sanzioni relative alla competenza penale del giudice
di pace: il ruolo del principio conciliativo, in L. Picotti-G. Spangher (a cura di), Competenza penale del giudice di pace e “nuove” pene non
detentive. Effettività e mitezza della sua giurisdizione, Milano, 2003, p. 72 ss.; E. Gallucci, La conciliazione nel procedimento dinanzi al
giudice di pace, in AA.VV., Le definizioni alternative del processo penale davanti al giudice di pace. Conciliazione, irrilevanza del fatto e
condotte riparatorie (Quaderni della rivista Il Giudice di pace), Milano, 2003, p. 33 ss.; G. Garuti, Conciliazione, in Enc. giur., VII,
Roma, 2003, p. 3 ss.; M. Gialuz, Mediazione e conciliazione, in M. Gialuz-F. Peroni, La giustizia penale consensuale. Concordati, mediazione e conciliazione, Torino, 2004, p. 114 ss.; E. Mattevi, La conciliazione e la mediazione, in AA.VV., Le definizioni alternative del processo penale, cit., p. 9 ss.; C. Sotis, La mediazione nel sistema penale del giudice di pace, in G. Mannozzi (a cura di), Mediazione e diritto
penale. Dalla punizione del reo alla composizione con la vittima, Milano, 2004, p. 47 ss.
11
In questo senso F. Fiorentin, Risarcire la vittima è condizione imprescindibile, cit., p. 76.
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CONDIZIONE SOSPENSIVA DEL PROCEDIMENTO AD INNESTO CONSENSUALE DALLA NATURA INCERTA
Per come configurata, la sospensione con messa alla prova del maggiorenne ha poco a che fare con
l’archetipo 12, se non con riferimento alla sequenza sospensione, messa alla prova, estinzione del reato e,
conseguentemente, proscioglimento nell’ipotesi di positivo esito della prova.
Eccezion fatta per quest’affinità, l’istituto di nuovo conio sembra in realtà mascherare l’applicazione
su richiesta di una sanzione sostitutiva ad un soggetto riconosciuto colpevole, risultando l’ordinanza
sospensiva un provvedimento avente natura sanzionatoria, una «criptocondanna» 13, più che una messa
alla prova cui segue un proscioglimento.
Tale affermazione si fonda sul fatto che presupposto (implicito) dell’ordinanza di messa alla prova
sembra essere l’accertamento della sussistenza del fatto di reato e della responsabilità dell’imputato, sia perché
questo risulterebbe pacifico anche con riferimento all’istituto minorile 14, sia perché la legge in esame,
evocando la commissione di ulteriori reati (sia nell’art. 168-quater, comma 2, c.p. che nell’art. 464-quater,
comma 3, c.p.p.), sottintende all’evidenza che un reato sia già stato commesso, sia perché, ancora,
l’emanazione dell’ordinanza di sospensione con messa alla prova si struttura seguendo le medesime
cadenze della sentenza di applicazione della pena concordata, richiedendosi – quanto meno in fase di
indagine – il consenso del pubblico ministero e la verifica da parte del giudice circa la non ricorrenza
nella fattispecie dei presupposti per l’emanazione di una sentenza ex art. 129 c.p.p.
Il principio di legalità e la presunzione di non colpevolezza risulterebbero compromessi laddove
l’imputato subisse delle limitazioni alla propria libertà personale, che l’esperimento della prova implica, senza che risultasse essersi reso responsabile di un fatto di reato 15.
In particolare, dunque, si prevede la concessione della messa alla prova allorquando si abbia motivo
di ritenere che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati, secondo un giudizio prognostico comune a quello cui è subordinato il perdono giudiziale oppure la sospensione condizionale della pena,
provvedimenti adottati però nei confronti di un soggetto che è stato già condannato.
È allora di palmare evidenza la differenza con la messa alla prova minorile, nella quale è all’esito del
probation che si formula nei confronti del minore una prognosi di recidivanza, laddove nell’istituto degli adulti la prognosi sembrerebbe essere il presupposto per l’emissione dell’ordinanza sospensiva.
La prevalenza di logiche sanzionatorie risulta evidente anche dall’esame dei contenuti della prova,
volendosi sottolineare come il lavoro di pubblica utilità – prestazione cui è espressamente subordinata
12
Sul quale, ex plurimis, A. Ciavola-V. Patané, La specificità delle formule decisorie minorili, E. Zappalà (a cura di), La giurisdizione
specializzata nella giustizia penale minorile, Torino, 2009, p. 178 ss.; M. G. Basco-S. De Gennaro, La messa alla prova nel processo penale
minorile, Torino, 1997; C. Cesari, sub artt. 28-29, in G. Giostra (a cura di), Il processo penale minorile. Commento al D.P.R. 448/1988,
III, Milano, 2009, p. 341 ss.; M. Colamussi, La messa alla prova, Padova, 2010; G. Grasso, sub art. 28 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448,
in G. Canzio-G. Tranchina (a cura di), Leggi complementari al codice di procedura penale, Milano, 2013, p. 196 ss.; S. Larizza, Il diritto
penale dei minori. Evoluzione e rischi di involuzione, Milano, 2005, p. 294 ss.; Martucci, sub artt. 28-29 d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448,
in G. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, III, Milano, 2010, p. 9023 ss.; N. Triggiani, La sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato minorenne: finalità, presupposti, prospettive, in Id. (a cura di), La messa alla prova
dell’imputato minorenne tra passato, presente e futuro, cit., p. 31 ss.
13
F. Caprioli, Audizione del 03.07.2012 in Commissione II Giustizia della Camera dei Deputati, Raccolta di documentazione per
l’esame parlamentare dell’Atto Senato n. 925, recante delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia
di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili n. 37 della XVII legislatura, in Servizio Studi del Senato (a cura di), Roma, 2013, p. 47.
14
In tal senso, cfr., tra gli altri, M. G. Basco-S. De Gennaro, La messa alla prova nel processo penale minorile, cit., p. 16; M.
Bouchard, Processo penale minorile, in Dig. pen., X, Torino, 1995, p. 152; Caraceni, Processo penale minorile, in Enc. dir., IV Agg.,
Milano, 2000, p. 1038; Cesari, sub art. 28, cit., p. 347. In giurisprudenza, v., per tutte, Cass., sez. I, 23 marzo 1990, n. 5399, Giur.
it., 1991, II, p. 289, con nota di Manera, Sull’applicabilità della “probation” processuale nel giudizio di appello; App. Roma, sez. Minorile, 17 maggio 1995, in Giur. merito, 1995, II, p. 764, con nota di G. Santacroce, Ancora sui presupposti per l’applicazione del probation: la natura provvisoria dell’affermazione di responsabilità contenuta nell’ordinanza di sospensione del processo e messa alla prova e i
suoi effetti. Per C. cost., sent. 14 aprile 1995, n. 125, in Giur. cost., 1995, p. 972, l’accertamento di responsabilità è il «presupposto
logico essenziale del provvedimento dispositivo della messa alla prova».
15
Considerazioni analoghe in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti sono svolte da A.A. Arru, L’applicazione
della pena su richiesta delle parti, in L. Filippi (a cura di), Procedimenti speciali. Giudizio. Procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, Torino, 2008, IV, p. 45; G. Lozzi, Una sentenza sorprendente in tema di patteggiamento allargato, in Riv. it. dir. proc.
pen., 2004, p. 677, secondo cui negare il preventivo necessario accertamento della responsabilità sarebbe come negare l’essenza
stessa del processo; S. Marcolini, Il patteggiamento nel sistema della giustizia penale negoziata, Milano, 2005, p. 161.
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la concessione della messa alla prova –, l’obbligo di osservare le prescrizioni che il giudice dovesse indicare e l’obbligo di eliminare le conseguenze dannose derivanti dall’illecito, promuovendo, ove possibile, la mediazione con la persona offesa, sono sicuramente contenuti afflittivi, coincidenti in buona
parte con quelli imposti a varie tipologie di condannati in espiazione di pena.
Un altro presupposto essenziale è l’adesione alla messa alla prova da parte del beneficiario, che si
manifesta con un espresso consenso all’adozione della misura; l’assoggettamento volontario al trattamento risocializzante cui tende la “sanzione”, premiato con l’effetto estintivo, conferisce al probation
l’essenza di modulo processuale “patteggiato” 16, dove il richiedente – da un lato – accetta un training
rieducativo anticipato, fondato su un accertamento sommario della responsabilità, ricevendo in cambio
– dall’altro – la declaratoria di estinzione del reato.
Il consenso – che la dottrina ritiene necessario anche per la prova minorile, nonostante l’incidentale
affermazione contraria della Corte costituzionale 17 – dovrebbe preservare le garanzie del diritto di difesa e del giusto processo, manifestandosi quale rinunzia espressa al contraddittorio: tuttavia, ciò non
sembra eliminare del tutto il rischio che venga scardinata la regola fondamentale per cui le pene possono conseguire soltanto alle sentenze di condanna 18.
In effetti, guardando all’esperienza degli altri paesi europei, la prova si atteggia quale misura alternativa alla pena detentiva e viene impartita unitamente alla pronuncia di condanna: in Inghilterra, ad
esempio, il Probation Offenders Act prevede la facoltà per il giudice, dopo la pronuncia di colpevolezza,
di astenersi dalla condanna detentiva e di emanare un probation order, laddove a tale alternativa l’imputato abbia prestato il proprio consenso 19.
Nel nostro ordinamento la prova è stata congegnata come condizione sospensiva del procedimento,
il cui esito positivo comporta l’estinzione del reato. Il carattere eventuale dell’epilogo alternativo determina, da una parte, un certo scostamento rispetto al “rito patteggiato” e, dall’altra parte, che
l’obiettivo della deflazione, sotteso alla sua introduzione, appare un traguardo anch’esso aleatorio, risultando ben possibile che il procedimento debba riprendere, anche a notevole distanza di tempo dalla
sua sospensione, per il verificarsi di un’ipotesi comportante la revoca della misura ovvero per l’esito
negativo del probation. A ciò si aggiunga che tanto l’assenza di una previsione dei termini entro cui
l’ufficio di esecuzione penale esterna debba predisporre il programma, quanto la possibilità che un
soggetto imputato in più procedimenti formuli strumentalmente in ognuno di essi una richiesta di sospensione, sono solo alcune delle manovre dilatorie che potrebbero essere attuate per far decorrere la
prescrizione, il cui corso resta sospeso solo «durante il periodo di sospensione del procedimento» disposto ex art. 464-quater c.p.p.
La deflazione massima potrebbe essere “lucrata” ove la sospensione sortisse esito positivo dopo essere stata disposta in fase d’indagine, in ciò consistendo l’ennesima differenza con l’omologo istituto
minorile, che può essere adottato soltanto dopo l’esercizio dell’azione penale 20, a meno di non considerare che la formulazione dell’imputazione ex art. 464-ter, comma 3, c.p.p. rappresenti un nuovo caso di
esercizio consensuale dell’accusa insieme a quello previsto in tema di patteggiamento in indagini 21.
La “ondivaga” collocazione dell’istituto – gli artt. 168-bis, ter e quater c.p. sono inseriti nel capo I, titolo VI del libro I del codice penale, laddove le disposizioni di cui agli artt. 464-bis, ter, quater, quinquies,
sexies, septies, octies e novies c.p.p. sono allocate nel libro VI (sui procedimenti speciali), dopo il titolo V,
nell’ambito del (nuovo) titolo V bis – non aiuta a dirimere i dubbi sulla natura sostanziale o processuale
dell’istituto, questione di non poco momento per la risoluzione delle problematiche applicative della
messa alla prova, a partire da quella circa l’applicabilità delle disposizioni in esame ai processi in corso.
16
C. Cesari, Trasferire la messa alla prova nel processo penale per adulti, in L. Mastropasqua-S. Mordeglia (a cura di), Esperienze di
Probation in Italia ed in Europa, Roma, 2011, p. 155.
17
Su questi aspetti, anche per i molteplici riferimenti di dottrina, N. Triggiani, La sospensione del processo con messa alla prova
dell’imputato minorenne, cit., p. 58.
18
F. Caprioli, Audizione del 03.07.2012, cit., p. 18.
19
A. Pedrinazzi, Le misure alternative in Europa, in Dignitas, 2003, 2, p. 57 ss.
20
C. Pansini, Processo penale a carico di imputati minorenni, in G. Garuti (a cura di), Modelli differenziati di accertamento, Torino,
2011, VII, p. 1323.
21
In questi termini S. Marcolini, voce Patteggiamento (dir. proc. pen.), in www.treccani.it.
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LA “PARADIGMATICA” QUESTIONE INTERTEMPORALE
La mancanza di norme di diritto intertemporale ha imposto come uno dei primi problemi pratici da
affrontare la questione se la nuova disciplina possa trovare applicazione anche nel processo che abbia
superato la fase processuale indicata dal secondo comma del nuovo art. 464-bis c.p.p., entro la quale
può essere formulata, a pena di decadenza, la richiesta di sospensione con messa alla prova 22.
La soluzione passa attraverso l’inquadramento sistematico dell’istituto, nella cui disciplina sono individuabili sia profili di carattere sostanziale, trattandosi di una nuova causa di estinzione del reato inserita nel codice penale, sia profili di carattere processuale, trattandosi di una “alternativa ad alcun
giudizio” sorretta da specifici momenti processuali per la richiesta.
Muovendo dalla ritenuta natura sostanziale del nuovo istituto e dalla configurazione del mancato rispetto del termine di cui all’art. 464-bis c.p.p. come causa di forza maggiore, si è ritenuto applicabile
l’istituto della restituzione in termini di cui all’art. 175 c.p.p. onde consentire all’imputato di poter richiedere la messa alla prova 23.
In effetti, i profili sostanziali dell’istituto farebbero propendere per l’applicazione dell’evoluzione
giurisprudenziale riguardante il principio di retroattività della lex mitior, che non limita questo alle sole
disposizioni concernenti la misura della pena, ma lo reputa estensibile a tutte le norme sostanziali che,
pur riguardando profili diversi dalla sanzione in senso stretto, incidono sul complessivo trattamento
riservato al reo 24: sarebbe agevole affermare un’applicazione immediata dell’art. 2, comma 4, c.p. il
quale, come chiarito anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, deve essere interpretato nel
senso «che la locuzione “disposizioni più favorevoli al reo” si riferisce a tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del reato» 25.
Senonché nella giurisprudenza della Corte costituzionale è ormai consolidata l’affermazione che dalla lettura del precetto costituzionale si possa ricavare «il solo principio della irretroattività della legge
penale incriminatrice», ma non anche quello «della retroattività della legge più favorevole al reo» 26.
Benché la Corte e.d.u. abbia affermato che dall’art. 7, paragrafo 1, C.e.d.u. si ricavi implicitamente il
principio della retroattività della legge penale meno severa 27, la Corte costituzionale ha sottolineato
come ciò non escluda la possibilità che, in presenza di particolari situazioni, il principio di retroattività
della lex mitior possa subire deroghe o limitazioni quando sorrette da valida giustificazione 28 e come ta-
22
In dottrina, sulla questione, A. Diddi, La fase di ammissione alla prova, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria, cit.,
p. 137 ss.
23
Cfr. sul punto Trib. Torino, ord. 25 maggio 2014, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di M. Miedico, Sospensione del
processo e messa alla prova per imputati maggiorenni: un primo provvedimento del Tribunale di Torino. A commento della decisione v.
altresì G. Negri, Per i processi in corso scatta la messa alla prova, in Il Sole 24 Ore, 2014, 153, p. 48; G. Zaccaro, Prima applicazione della
messa alla prova per adulti, cit. V. pure Trib. Brindisi, ord. 11 giugno 2014, in www.archiviopenale.it, che ha disposto il rinvio
dell’udienza proprio per valutare l’applicazione dell’istituto ai processi in corso. Nella stessa direzione del tribunale piemontese, in dottrina, S. Perelli, L’impatto della messa alla prova e del processo in absentia sui processi in corso e, particolare, sul giudizio di appello, in www.questionegiustizia.it.
24
Così, con riferimento alla c.d. legge ex Cirielli, C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, in Cass. pen., 2006, p. 419 ss., con note di
E.M. Ambrosetti, La nuova disciplina della prescrizione: primo passo verso la "costituzionalizzazione" del principio di retroattività delle
norme penali favorevoli al reo e di O. Mazza, Il diritto intertemporale (ir)ragionevole (a proposito della legge ex Cirielli), in Dir. e giustizia,
2006, n. 45, p. 46 ss., con nota di P. Ferrua, Ex Cirielli, così cade la norma transitoria. Ombre sul controllo di ragionevolezza, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, legge 5 dicembre 2005, n. 251, limitatamente alle parole “«dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento». La medesima questione è stata
affrontata anche da C. cost, sent. 28 marzo 2008, n. 72, Cass. pen., 2008, p. 1338 ss., con nota di G. Santalucia, Sulla transitoria della
legge ex Cirielli non vi è ancora chiarezza.
25
Così C. cost., sent. 23 novembre 2006, n. 393, in Giur. cost., 2006, p. 4106 ss., con osservazioni di G. Dodaro, Principio di retroattività favorevole e «termini più brevi» di prescrizione dei reati.
26
Così C. cost., sent. 6 marzo 1995, n. 80, in Giur. cost., 1995, p. 726 ss. e, più di recente, C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, cit.
27
Così, ancora, Corte e.d.u., 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, in Cass. pen., 2010, p. 832 ss., con nota di G. Ichino, L’“affaire Scoppola c. Italia” e l’obbligo dell’Italia di conformarsi alla decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo; nonché in Riv. it. dir.
proc. pen., 2010, p. 397, con nota di C. Pecorella, Il caso Scoppola davanti alla Corte di Strasburgo, e in Cass. pen., 2010, p. 2020 ss., con
nota di M. Gambardella, Il "caso Scoppola": per la Corte europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge
penale più favorevole.
28
In tal senso, ancora, C. cost., sent. 22 luglio 2011, n. 236, cit.
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le principio presupponga un’omogeneità tra i contesti fattuali o normativi in cui operano le disposizioni, che dovrebbero comunque riguardare la fattispecie incriminatrice e la pena e non già ipotesi in cui
non si verificano mutamenti nella valutazione del fatto che portino a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità.
È sulla scia di tali affermazioni che trova spazio la soluzione interpretativa fondata sul canone tempus regit actum.
La natura di “rito/procedura” radicalmente alternativa al giudizio ha portato in un recente arresto
la Cassazione ad affermarne l’incompatibilità “con alcun giudizio di impugnazione” 29, dal momento
che il contesto del processo che non sia giunto a sentenza in primo grado e di quello che si trovi in una
fase di impugnazione sono strutturalmente e sistematicamente differenti e non permettono di dare applicazione retroattiva alla nuova disciplina, a ciò potendosi giungere solo con esplicita, specifica ed articolata scelta sistematica del legislatore, che se ne sarebbe dovuto fare carico con apposita disciplina
transitoria. La diversità dei contesti, in definitiva, costituisce – secondo la Corte – il ragionevole fondamento della deroga al dispiegarsi del principio di retroattività della legge favorevole.
Sul punto, appare necessario segnalare che era stata rimessa alle sezioni unite la questione se l’istituto sia applicabile per i processi già in corso all’entrata in vigore della legge istitutiva, pur essendo spirati i termini previsti a pena di decadenza 30: nonostante il decisum della sezione feriale, resta quanto
meno aperta la questione se la sospensione per la messa alla prova possa essere richiesta per i processi
in corso, in fase dibattimentale, pendenti al momento dell’entrata in vigore della legge 31.
DIVERSION UNA TANTUM DI SCARSO APPEAL
Sul terreno dei limiti alla fruibilità della messa alla prova per gli adulti rispetto alla gravità del reato, priva di
qualsiasi limitazione nel rito minorile, si gioca buona parte del successo dell’istituto lungo il crinale della deflazione del carico dei procedimenti pendenti e dell’insostenibile situazione di sovraffollamento carcerario.
Obiettivi nobili, il cui raggiungimento, oramai improrogabile, deve fare i conti anche con l’opinione
pubblica, che, in caso di un deciso allargamento dell’area di operatività della misura, avrebbe obiettato
come si consentisse di pagare il proprio debito con la giustizia, «in cambio di qualche lavoretto», a pericolosi soggetti criminali, lasciati liberi di circolare 32.
La scelta della legge in commento è alla fine caduta sulla limitazione della sfera di applicabilità ai
reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria (di qualunque importo) o con la pena edittale detentiva
non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, ovvero ai
delitti indicati dall’art. 550, comma 2, c.p.p.
Come rilevato, il nuovo istituto copre approssimativamente l’area delle misure alternative alla detenzione, collocandosi nella medesima portata applicativa dell’affidamento in prova al servizio sociale 33.
Non è chiarito se la contestazione di aggravanti o di più reati in continuazione fra loro incida negativamente sull’ammissibilità della messa alla prova: l’esigenza di ampliare l’accessibilità al nuovo istituto rende preferibile l’opinione di chi ritiene rilevante solo la pena prevista per la fattispecie base e per il
reato più grave fra quelli contestati 34.
29
Cass., sez. fer., 31 luglio 2014, n. 35717, in www.cortedicassazione.it.
30
Cass., sez. VI, 9 luglio 2014, n. 30559, in www.archiviopenale.it, con nota di F. Giunchedi, In nome della nomofiliachia. La Cassazione cerca di prevenire i fenomeni di overruling, il quale segnala come la questione sia stata però cancellata dal ruolo delle Sezioni
Unite dal Primo Presidente, stante l’imminenza del termine di prescrizione del reato oggetto del ricorso.
31
G. Zaccaro, No alla “messa alla prova” in Cassazione, in www.questionegiustizia.it. Da ultimo, Trib. Genova, ord. 12 ottobre
2014, in www.questionegiustizia.it, ritenendo che «una disposizione processuale idonea a determinare l’estinzione del reato ha
evidenti ricadute sostanziali perché può far venir meno la possibilità stessa che una pena sia inflitta», ha giudicato non preclusa
la sospensione del giudizio di primo grado sol perché al momento dell’entrata in vigore della l. n. 67 del 2014 i termini di cui
all’art. 464, comma 2, c.p.p. erano ormai decorsi, in quanto la diversa soluzione che limiti il principio di retroattività in mitius in
relazione ai processi pendenti in dibattimento non sarebbe sorretta da una giustificazione oggettivamente ragionevole, invece
configurabile per i processi pendenti in grado di appello o in sede di legittimità, essendo stato l’istituto della messa alla prova
«espressamente disciplinato solo con riferimento al processo di primo grado».
32
In questi termini, F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2013, p. 1305.
33
F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena, cit., p. 68.
34
G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, cit., p. 9.
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Pur essendo stato esteso il limite rispetto ad alcuni precedenti disegni di legge, resta difficile prevedere che la misura sia appetibile per i suoi potenziali destinatari, potendo la gran parte di essi confidare
sull’applicazione di una pena sospesa o, al limite, sull’affidamento in prova al servizio sociale, sicuramente più attraente rispetto all’opzione maggiormente afflittiva della messa alla prova, in quanto subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità ed allo svolgimento di attività di volontariato di
rilievo sociale nonché a più pregnanti e monitorabili obblighi riparativi verso la vittima.
È soltanto la ristretta cerchia di coloro i quali vorrebbero evitare in radice le conseguenze negative di
una condanna o di un patteggiamento, per ragioni extraprocessuali, che potrebbe avere interesse a scegliere l’opzione de qua; lo stesso dicasi per coloro che non potrebbero più accedere alla sospensione
condizionale in ragione delle precedenti condanne subite o del probabile superamento del limite dei
due anni di reclusione della pena concretamente inflitta.
Tuttavia, questi ultimi soggetti interessati al procedimento di messa alla prova potrebbero di fatto
non essere ammessi all’istituto, in quanto loro sfavorevole la prognosi di recidivanza, sicché lo scopo
della deflazione carceraria appare difficilmente raggiungibile, visto che i potenziali clienti dell’istituto
sembrerebbero essere soggetti che non corrono neppure il rischio di finire in carcere.
Nessuna espressa preclusione sembra sussistere qualora il richiedente sia attinto da misura cautelare
personale, nonostante, da un lato, per lo svolgimento del programma appaia fondamentale che l’interessato sia libero e, dall’altro lato, la prognosi favorevole all’imputato, che per essere ammesso alla
sospensione deve ritenersi che non commetterà altri reati, risulti evidentemente incompatibile con la
permanenza delle esigenze cautelari che di regola le cautele sottendono 35.
Le condotte che connotano la prova, soprattutto per l’impegno che le attività riparative e conciliative
richiedono, presuppongono una piena capacità di intendere e volere dell’interessato, laddove non è necessaria la sua confessione, sebbene la sperimentazione della riconciliazione con la persona offesa richiederebbe per il suo positivo esito un certo grado di ammissione dell’addebito 36.
Costituisce un limite di segno oggettivo anche il pregresso ricorso all’istituto della messa alla prova, da intendersi esclusa sia nell’accezione in cui essa abbia sortito esito positivo, sia in quella in cui l’epilogo sia
culminato nella ripresa del procedimento, vuoi perché revocata, vuoi perché – tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite – conclusa negativamente: la scelta
del legislatore di vietare l’accesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova all’imputato
cui sia già stata concessa una volta, estranea all’archetipo minorile, è indice di una presunzione negativa circa la possibilità di recupero dell’interessato, che viene formulata in termini assoluti (non distinguendosi tra casi in cui la prova si è conclusa positivamente e casi in cui si è conclusa negativamente).
Sotto questo profilo sicuramente ha giocato un ruolo dirimente l’ontologica diversità tra la personalità strutturata dell’adulto e quella in fieri del minore: tale limite oggettivo desta peraltro perplessità 37,
così come un certo scetticismo suscita il fatto che la messa alla prova non possa essere estesa in corso di
esecuzione ad altri procedimenti che dovessero sopravvenire, restando il limite dei quattro anni riferibile ad un unico procedimento a carico dell’imputato 38.
In effetti, si tratta di una politica legislativa di segno opposto a quella osservata in relazione alle misure alternative alla detenzione, laddove il divieto (sancito ex art. 94, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n.
309) di una terza concessione dell’affidamento in prova in casi particolari al condannato nei cui confronti il medesimo beneficio fosse stato già concesso due volte, è stato rimosso (con l’art. 2, comma 1,
35
V. Bove, Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della l. 67/2014, cit., p. 16; A. Di Tullio D’Elisiis, La messa alla prova
per l’imputato, cit., p. 77.
36
La direttiva 25 ottobre 2012, n. 2012/29/UE del Parlamento e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di assistenza e protezione delle vittime di reato (su cui S. Civello Conigliaro, La nuova normativa europea a tutela delle vittime di reato, in
www.dirittopenalecontemporaneo.it) richiede come condizione per il ricorso ai servizi di giustizia riparativa che l’autore del reato
riconosca prima i «fatti essenziali del caso». Su questi aspetti si rimanda a F. Parisi, II diritto penale tra neutralità istituzionale e
umanizzazione comunitaria, ivi. Per M. Montagna, Sospensione del procedimento con messa alla prova, in C. Conti-A. Marandola-G.
Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, cit., 404, la confessione, per quanto non prevista, «potrebbe costituire,
comunque, un dato sintomatico da cui desumere il ravvedimento dell’imputato, quale premessa di un giudizio prognostico positivo sulla sua rieducazione e sul suo reinserimento sociale».
37
Sul punto, v. F. Fiorentin, Una sola volta nella storia giudiziaria del condannato, cit., p. 70 ss.; A. Scalfati, La debole convergenza
di scopi nella deflazione promossa dalla l. n. 67 del 2014, in Proc. pen. giust., 2014, p. 146.
38
Cfr. F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena, cit., p. 69.
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d.l. 23 dicembre 2013, n. 146), traducendosi tale preclusione in una presunzione assoluta di inefficacia
di un’ulteriore misura terapeutica, del tutto illogica allorquando, ad esempio, il condannato avesse usufruito correttamente delle altre due precedenti chances di evitare il carcere.
Ma, mancando un raccordo tra la messa alla prova e la sospensione condizionale, di cui si erano fatti
carico altri progetti normativi 39, è prevalsa l’esigenza di evitare la eccessiva cumulabilità tra le sospensioni 40.
Tuttavia, la riproposizione di un limite oggettivo “rigido” come quello in parola, previsto dall’art.
168-bis c.p., oltre che suscitare le medesime perplessità poi dissipate in relazione alla citata misura alternativa, potrebbe minare le potenzialità deflattive e risocializzanti che costituiscono la ratio del nuovo
istituto.
Non sono solo i limiti oggettivi di accessibilità alla sospensione a destare perplessità, dal momento
che è sotto il profilo delle preclusioni soggettive che si profila nella prassi applicativa l’insidia maggiore
per l’efficacia dell’istituto.
Sotto il profilo delle preclusioni soggettive una delle principali difficoltà derivanti dall’operazione di
“trapianto” della messa alla prova dal corpo del processo minorile a quello ordinario era legata certamente al dato di fondo per cui il primo è per molti versi un “processo della personalità”, mentre quello
degli adulti è essenzialmente un “processo del fatto”.
Si doveva scegliere, allora, se introdurre nel processo ordinario un’opzione culturale nuova, ma che
avrebbe avuto risvolti negativi se applicata su larga scala a tutti gli imputati, oppure se disegnare i presupposti di attivazione e valutazione del probation in senso marcatamente oggettivo, dando rilievo alle
modalità del fatto illecito, ai precedenti penali e, in sede di verifica finale, al puntuale rispetto delle prescrizioni del programma svolto 41.
È quest’ultima l’opzione prescelta, come si evince – in relazione alla fase di ammissione alla prova –
dalla rievocazione dei parametri di cui all’art. 133 c.p. («La sospensione […] è disposta […] in base ai
parametri dell’art. 133 del codice penale»), che intervengono in ausilio del giudice in sede di applicazione della pena sotto il duplice profilo della gravità del reato, desunta dalle modalità dell’azione, dalla
gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato nonché dalla intensità del dolo
o dal grado della colpa, e della capacità a delinquere del reo, desunta dai motivi a delinquere, dal carattere, dai precedenti, dalla condotta contemporanea o susseguente al reato nonché dalle condizioni di
vita individuale, familiare e sociale; nonché – in fase di valutazione della prova – dall’ancoraggio della
valutazione positiva del probation al dato obiettivo del ligio rispetto delle prescrizioni impartite («il giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo») 42.
Per sospendere il procedimento, dunque, il giudice dovrà valutare in base ai suddetti parametri di
dosimetria della pena la «idoneità del programma» e ritenere che l’imputato «si asterrà dal commettere
ulteriori reati».
Se nel rito minorile la prognosi cui è chiamato il giudice si fonda sulla circostanza che il reato non
costituisce indice di una scelta di vita, ma sia manifestazione di un disagio temporaneo dell’adolescente, conclusioni cui si addiviene dopo gli accertamenti sulla personalità, e se nel probation penitenziario il giudizio prognostico di rieducabilità e di prevenzione del pericolo di recidiva sono supportati
dall’osservazione della personalità condotta in istituto penitenziario (quando il beneficio è chiesto da soggetto in detenzione) o desunta dal comportamento tenuto in libertà dal condannato (quando l’istanza è
39
Nel Dossier n. 89 della XII legislatura, a cura del Servizio Studi del Senato, Roma, 2013, p. 38, si ricorda come nel progetto di
riforma del codice penale della Commissione Pisapia si vietasse di concedere per più di una volta la sospensione condizionale
della pena a chi avesse già usufruito della sospensione del processo con messa alla prova in relazione ad un reato punito con
pena detentiva.
40
Come sottolinea F. Caprioli, Audizione del 03.07.2012, cit., p. 49, della messa alla prova «potrebbe avvalersi non solo chi
avesse già interamente consumato il beneficio della sospensione condizionale ma, anche chi si fosse già avvalso della messa alla
prova, il quale potrebbe, seguito, usufruire senza limiti del beneficio» della pena sospesa.
41
P. Felicioni, Gli epiloghi, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, cit., p. 423, rileva come «la valenza rieducativa dell’istituto appare svilita dalla previsione di soli presupposti oggettivi».
42
Diversamente F. Nevoli, La sospensione del procedimento e la decisione “sulla prova”, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione
giudiziaria, cit., p. 171, «appare riduttivo, però, risolvere l’esito positivo della prova nella mera verifica dell’osservanza delle previsioni impartite e degli impegni assunti».
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proposta prima dell’esecuzione della pena), nella fattispecie, invece, la prognosi si dovrebbe compiere
“allo stato degli atti”, tra i quali – ipotizzando che la richiesta avvenga in dibattimento (i casi di richiesta in udienza preliminare si appalesano in realtà del tutto marginali) – non vi sarebbero a rigore neppure quelli contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, mancando una norma come quella di cui
all’art. 556 c.p.p.
Ne consegue, da un lato, che il giudizio di idoneità sembrerebbe rapportato non tanto alle possibilità
di evoluzione in positivo della personalità dell’interessato, quanto ai profili retributivi e riparativi, che
costituiscono l’essenza del programma stesso; dall’altro lato, che la prognosi recidivante sembrerebbe
concentrata più sulla necessità di fronteggiare la pericolosità sociale dell’imputato attraverso la prova
stessa 43, che sulle possibilità di concreta realizzazione di un processo rieducativo e risocializzante, che
resta affidato al solo lavoro di pubblica utilità.
Né la facoltà del giudice di acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare,
sociale ed economiche (queste ultime non si comprende in forza di quali strumenti) dell’imputato vale
a spostare il baricentro del processo ordinario dal fatto verso l’autore, in quanto tale facoltà appare funzionale a meglio calibrare la concessione della misura in base sempre ai dati oggettivi.
Se quella marcatamente oggettiva è l’opzione seguita sul versante soggettivo, bisogna essere però
consapevoli che la scelta rischia di annoverare tra i fruitori della misura soltanto i “colletti bianchi”, ovvero quella particolare tipologia di criminali che gode di stabilità di affetti, di relazioni sociali e di risorse professionali tali da rendere più facile per loro prevedere una positiva prognosi di reinserimento 44.
Ritornando al dato normativo, troviamo che la sospensione del procedimento con messa alla prova
non si applica ai delinquenti abituali, professionali ed a chi è stato dichiarato delinquente per tendenza 45, secondo
quanto previsto dagli artt. 102, 103, 104, 105 e 108 c.p.
Anche sotto questo profilo, appare evidente la simmetria rispetto alla disciplina di cui all’art. 444,
comma 1-bis, c.p.p.; quest’ultima previsione, tuttavia, annovera tra i soggetti esclusi dal patteggiamento
“allargato” anche quelli recidivi ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p., inclusione che la giurisprudenza di
legittimità ha ritenuto concretamente ostativa solo nell’ipotesi in cui questa sia ritenuta applicabile dal giudice 46, laddove nella messa alla prova non è neppure astrattamente preclusa per costoro.
È agevole riflettere che saranno verosimilmente proprio i recidivi, che non potranno beneficiare della sospensione condizionale della pena, i più propensi a richiedere la messa alla prova ed è altrettanto
facile scommettere che nei confronti di questi si registreranno provvedimenti di rigetto dell’istanza di
sospensione stessa, sicché la perplessità circa l’effettivo perseguimento dell’obiettivo della deflazione
giudiziaria e del contenimento dei tempi del processo appaiono fondate.
L’AFFIDAMENTO AL SERVIZIO SOCIALE ED IL NODO DELLE RISORSE
Alle condotte riparatorie si associa l’affidamento dell’imputato al servizio sociale per lo svolgimento
del programma di trattamento, da elaborarsi d’intesa con l’ufficio di esecuzione penale esterna, indicato
dall’art. 464-bis, comma 4, c.p.p. quale allegazione necessaria dell’istanza prevista dal comma 1, al fine
evidentemente di garantire la serietà della proposta e di scongiurare il rischio di iniziative strumentali
(è invece sufficiente la mera richiesta di elaborazione del programma ove non sia stato possibile munirsene per tempo, evenienza che si profila non rara laddove l’istanza di sospensione con messa alla prova
sia formulata nell’ambito del giudizio direttissimo, ovvero a seguito di notifica del decreto di giudizio
immediato o del decreto penale di condanna).
43
R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, cit., p. 668.
44
Di questo parere C. Cesari, Trasferire la messa alla prova nel processo penale per adulti, cit., p. 153.
45
Per l’inquadramento di tali categorie di reo si rinvia a E.M. Ambrosetti, sub artt. 102-108 c.p., in M. Ronco-B. Romano (a
cura di), Codice penale commentato, Torino, 2012, p. 737 ss.; M. Bertolino, Il reo e la persona offesa. Il diritto penale minorile, C.F. Grosso-T. Padovani-A. Pagliaro (diretto da), Trattato di diritto penale, III, Milano, 2009, p. 193 ss.; T. Padovani, in Diritto penale, Milano,
2012, p. 352 ss.; G. Pavan, Le figure tradizionali di pericolosità sociale, in M. Ronco (diretto da), Commentario sistematico al codice penale, III, Bologna, 2006, p. 191 ss.
46
Cass., sez. un., 5 ottobre 2010, n. 35738, in Proc. pen. giust., 2011, 1, p. 34 ss., con nota di A. Diddi, Contestazione della recidiva
reiterata e patteggiamento “allargato”.
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Tra i contenuti essenziali del programma si annoverano: a) le modalità di coinvolgimento dell’imputato, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò
risulti necessario e possibile; b) le prescrizioni comportamentali e gli impegni specifici che l’imputato
assume secondo una prospettiva riparatoria, orientata sia verso la vittima (elisione o attenuazione delle
conseguenze del reato; eventuale risarcimento del danno; restituzioni) che verso la collettività (prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale); c) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa.
Alcuni contenuti del programma sono declinati dalla norma sostanziale (art. 168-bis, comma 2, c.p.)
in termini soltanto “potenziali”: esso «può implicare, tra l’altro» lo svolgimento di attività di volontariato sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
L’art. 141-ter norme att. c.p.p. sancisce il collegamento con il probation penitenziario, richiamando
espressamente l’art. 72, l. 26 luglio 1975, n. 354 47, così estendendo alla messa alla prova per gli adulti le
funzioni dei servizi sociali già svolte dagli uffici locali di esecuzione penale esterna, quali lo svolgimento di indagini socio-familiari per l’applicazione delle misure alternative alla detenzione; la proposta dei
programmi di trattamento ai condannati che aspirano all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare; il controllo dell’esecuzione dei programmi e la proposta di modificazione e revoca 48.
A questi stessi uffici l’imputato deve domandare la predisposizione del programma depositando gli
atti del procedimento penale (ove siano accessibili al soggetto istante), con eventuali osservazioni e
proposte. L’ufficio istruisce la domanda mediante l’indagine socio-familiare e redige il progetto, acquisendo il consenso dell’imputato e l’adesione dell’ente o del soggetto presso il quale l’imputato è chiamato a svolgere le prestazioni lavorative di pubblica utilità o l’attività di volontariato sociale. Il programma è quindi trasmesso dall’ufficio penale di esecuzione esterna al giudice, corredato dell’indagine
socio-familiare e delle «considerazioni che lo sostengono», che non possono prescindere da una relazione sulle possibilità economiche dell’imputato, sulla sua capacità di svolgere attività riparatorie, sulle
chances di una mediazione, da sperimentare eventualmente con la collaborazione di centri e strutture
pubbliche o private presenti sul territorio.
Il comma 4 della norma di attuazione disciplina i compiti dell’ufficio penale di esecuzione esterna,
una volta che sia intervenuto il provvedimento giudiziale di ammissione alla sospensione con messa
alla prova, che consistono: nella informazione periodica circa l’attività trattamentale svolta e il comportamento dell’imputato, secondo cadenze regolate dal giudice e comunque non eccedenti il trimestre,
nella formulazione di proposte di modifiche contenutistiche e temporali (abbreviazioni) ovvero di revoca del programma in caso di «reiterata o grave trasgressione».
Il comma 5 assegna allo stesso ufficio la responsabilità di redigere la “dettagliata” relazione finale,
da depositare nella cancelleria del giudice, insieme alle relazioni periodiche, non meno di dieci giorni
prima dell’udienza fissata per l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 464-septies c.p.p., con facoltà
per le parti di prenderne visione ed estrarne copia.
Il servizio sociale assume quindi la “gestione” della misura, divenendone elemento caratterizzante,
giacché la messa in prova viene applicata sul presupposto che il trattamento relativo sia svolto secondo
i metodi e le tecniche di servizio sociale.
Tutto apprezzabile, sicuramente. Ma occorre fare i conti con la realtà.
Si tratta di compiti che gli uffici suddetti riescono a malapena ad espletare in relazione alle misure
alternative tradizionali, per cui vi è più di un sospetto che la nuova legge abbia operato un “trasferimento di inefficienza” dal processo penale al sistema di Welfare.
Occorre considerare che, se i costi della giustizia potrebbero ridursi in ragione dei processi penali
sospesi per effetto della messa alla prova, quelli dei servizi sociali tenderebbero parallelamente ad aumentare 49: così come il successo della messa alla prova minorile è influenzato da fattori sociali strutturali estrinseci all’interessato, anche per quella degli adulti si profila il medesimo rischio di carenza di
47
Per un approfondimento sistematico dell’articolo richiamato si rimanda a D. Verrina, sub art. 72, in F. Della Casa (a cura
di) Ordinamento penitenziario commentato, II, Padova, 2011, p. 1210 ss.
48
L. Castellucci, sub art. 72, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, III, Milano, 2010, p.
10709 ss.
49
C. Cesari, Trasferire la messa alla prova nel processo penale per adulti, cit., p. 154.
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risorse 50, che dovrebbero essere “adeguate”, come impone la raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole del Consiglio d’Europa in materia di probation 51.
Il sovraccarico di incombenze che, in conseguenza del nuovo istituto, graverà sugli uffici dell’esecuzione penale esterna, spiega la previsione dell’art. 7 della l. n. 67 del 2014, il quale stabilisce il monitoraggio annuale dell’attuazione delle disposizioni sulla messa alla prova e la proposta ministeriale, ricorrendone la necessità, di incrementi delle piante organiche da effettuare per legge, previi appositi
stanziamenti.
Non vi è dubbio che l’efficiente applicazione della messa alla prova passi anche attraverso la riorganizzazione ed il potenziamento degli uffici per l’esecuzione penale esterna, in modo tale che costituiscano un sistema organizzato in grado di gestire il probation, senza scaricare su quest’ultimo le inefficienze del sistema processuale. La disorganizzazione dei servizi finirebbe per far percepire la misura
come la strada per l’impunità.
LA FORMAZIONE DI BUONE PRASSI: LINEE GUIDA E LAVORO DI PUBBLICA UTILITA’ ANCHE SENZA “CONVENZIONE”
Come per la messa alla prova minorile, gli operatori stanno sopperendo nella prassi alla cronica carenza di risorse ed alle “incongruenze” della normativa, concertando indicazioni operative sull’applicazione della nuova disciplina, tese ad agevolare coloro che, a vario titolo, sono da subito chiamati ad
applicarla, e a orientare l’interpretazione di previsioni non univoche, favorendo il funzionamento delle
strutture deputate all’esecuzione dell’istituto della messa alla prova.
Mette conto segnalare le linee guida elaborate dal Tribunale di Milano 52, dirette a rendere più snello
il procedimento di ammissione e a garantire l’effettività dell’esecuzione delle messe alla prova.
La collaborazione tra avvocati, magistrati e personale addetto all’esecuzione costituisce, a parere degli estensori del documento, l’unica possibilità per consentire al nuovo istituto di ottenere i risultati che
il legislatore si è proposto con l’ampliamento dell’applicazione della messa alla prova agli imputati
maggiorenni.
In tal senso si è prevista una preliminare delibazione di ammissibilità al fine di evitare all’Uepe la
stesura di programmi nei casi in cui le istanze siano inammissibili. Si è infatti tenuto conto delle gravi
difficoltà dell’Uepe.
Oltre all’elaborazione di appositi formulari, spicca tra le linee guida quella volta ad uniformare il più
possibile le indicazioni relative alla durata della messa alla prova e fornire a tutti gli operatori un quadro di riferimento dei limiti temporali, obiettivo per raggiungere il quale si sono suddivisi i reati per fasce, facendo riferimento alla pena edittale massima prevista per i reati per i quali l’istituto è applicabile.
Il massimo è stato individuato in 18 mesi a fronte di una previsione di legge di 24 per mantenere la possibilità di proroga da parte del Giudice ove necessario, così come previsto.
Si tratta di una soluzione che pone un argine importante all’immane discrezionalità del giudice in
subiecta materia, che sarebbe auspicabile implementare mercé la predisposizione di indicazioni operative condivise anche in relazione alla durata del lavoro di pubblica utilità, la cui connotazione sanzionatoria induce a rilevare, come una lacuna significativa, la mancata previsione dei criteri cui il giudice deve attenersi nel vaglio di congruità della sua durata complessiva e della sua intensità 53.
Il legislatore, invero, ha previsto come contenuto indefettibile della nuova misura il lavoro di pub-
50
R. De Vito, La scommessa della messa alla prova dell’adulto, cit., p. 18.
51
Per un’illustrazione della quale si rinvia a R. Turrini Vita, Europeanrules of probation: la Raccomandazione europea sui servizi di
probation in corso di approvazione presso il Consiglio d’Europa, in I. Mastropasqua-S. Mordeglia (a cura di), Esperienze di probation
in Italia ed in Europa, Roma, 2011, p. 53 ss. Un’interessante analisi comparativa dei servizi di probation nei paesi europei si trova
in A.M. Van Kalmthout-Durnescu (Edited by), Probation in Europe, Nijmegen (The Netherlands), 2008.
52
Le linee guida sono reperibili in www.tribunale.milano.it. Da segnalare in merito F. Filice, Messa alla prova: un vademecum da
Vercelli, in www.questionegiustizia.it, autore di un documento e alcuni modelli redatti dall’autore per i colleghi del Tribunale, con
all’interno anche un breve spunto su possibili percorsi di mediazione penale.
53
Critica l’ampia discrezionalità del giudice, tanto da dubitare della legittimità costituzionale della legge, sotto il profilo
dell’assenza di determinatezza, R. Bartoli, La sospensione del procedimento con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, cit., p. 670.
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blica utilità, nonostante i risultati statisticamente non incoraggianti 54, del quale l’art. 168-bis, comma 3,
c.p. offre una definizione mutuata da quelle già contenute in disposizioni vigenti che contemplano la
misura quale pena sostitutiva (art. 54 d.lgs. n. 274 del 2000 in tema di competenza penale del giudice di
pace; artt. 186, comma 9-bis e 187, comma 8-bis, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285; art. 73, commi 5-bis e 5-ter,
d.p.r. n. 9 ottobre 1990, n. 309) o quale obbligo correlato alla sospensione condizionale della pena (art.
165 c.p.).
Si tratta di prestazioni non retribuite in favore della collettività, affidate tenendo conto «delle specifiche professionalità e attitudini lavorative dell’imputato», articolate secondo un orario giornaliero non
superiore alle otto ore, da svolgere per non meno di dieci giorni, anche non continuativi, e da modulare
in termini compatibili con le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato.
La centralità del lavoro gratuito nell’economia della misura è confermata dalla previsione dell’art.
168-quater c.p., che individua il rifiuto opposto dall’imputato «alla prestazione del lavoro di pubblica
utilità» come autonoma causa di revoca anticipata; da quella del nuovo art. 464-bis, comma 4, lett. b),
c.p.p., che indica «le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato
di rilievo sociale» tra i contenuti obbligatori del programma di trattamento che l’imputato deve allegare
all’istanza di ammissione; e anche dal disposto del nuovo art. 141-ter, comma 3, norme att. c.p.p., che
richiede, tra gli allegati che devono corredare il programma di trattamento da sottoporre al giudice in
vista dell’ammissione alla misura, l’adesione dell’ente «presso il quale l’imputato è chiamato a svolgere
le proprie prestazioni», locuzione talmente perentoria quest’ultima da non lasciare alcun margine di
dubbio.
La stessa individuazione dell’estensione temporale astratta del lavoro può essere ricavata solo indirettamente: se la durata minima (dieci giorni) è chiaramente indicata, quella massima, in assenza di diverse indicazioni, deve ritenersi possa coincidere con i termini massimi di sospensione del procedimento (uno o due anni, a seconda della natura della pena edittale); è prevista poi un’intensità massima quotidiana di otto ore giornaliere, senza indicazione del minimo.
Non risultando necessario che la prestazione del lavoro gratuito copra l’intero periodo della sospensione, dal momento che, diversamente, non avrebbe senso la previsione di un limite minimo di dieci
giorni, resta il problema di individuare degli indici commisurativi.
Escluso che possano trovare applicazione i criteri dettati nei casi in cui il lavoro gratuito è previsto
come pena sostitutiva di quella detentiva, sia perché la “messa alla prova” (e la prestazione lavorativa
che vi è inclusa) si applica anche a reati sanzionati con pena esclusivamente pecuniaria, sia perché qui
manca, per definizione, una condanna che possa fungere da limite e parametro di “ragguaglio”, si è
proposta l’applicazione in via analogica degli indici dettati dall’art. 133 c.p. per la commisurazione della pena, con una prospettiva che tenga conto, a un tempo, della valutazione “virtuale” della gravità
concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché delle sue necessità di risocializzazione 55.
La soluzione lascia troppi margini di ambiguità e potrebbe incidere negativamente sulla scelta di
aderire alla messa alla prova.
Certo è che il legislatore ha esaltato l’essenzialità del lavoro di pubblica utilità, superando le perplessità di coloro che, evidenziando il rischio che il mancato rinvenimento del lavoro nonostante la seria ricerca del medesimo od il suo disagevole espletamento in rapporto al singolo caso concreto penalizzassero alcuni imputati, suggerivano di contemplarlo come eventuale o quanto meno sostituibile con una
misura compensativa 56 .
Pertanto, per coloro i quali, pur essendosi tempestivamente e concretamente attivati, non siano riusciti a procurarsi un’occasione di lavoro gratuito, l’accesso alla prova resterà esclusa. La chiarezza e la
perentorietà del dato normativo («la concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità») non consentono di condividere la prospettazione secondo cui, in
sede interpretativa, si potrebbero adoperare soluzioni propense a riconoscere un dovere del giudice di
54
C. Valbonesi, I profili penali della sospensione del procedimento, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove
norme sulla giustizia penale, cit., p. 363.
55
R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 9.
56
Esprime perplessità sulle prospettive pratiche di successo della misura F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della
deflazione, in Cass. pen., 2012, p. 7 ss.
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valutare la serietà dello sforzo profuso dall’imputato, a prescindere dai risultati conseguiti 57.
Infatti, anziché rinunciare alla prestazione lavorativa, il legislatore ha preferito apporre dei correttivi
alle criticità già sperimentate negli altri ambiti in cui il lavoro di pubblica utilità è già previsto quale pena
sostitutiva o obbligo del condannato a pena sospesa, come la ritrosia degli enti a rendersi disponibili
all’assunzione dei soggetti interessati alla messa alla prova. A tal proposito, da un lato, sono stati ampliati
gli enti presso cui la prestazione potrebbe essere espletata, inserendo anche le aziende sanitarie e gli enti
od organizzazioni internazionali che operano in Italia, dediti all’assistenza sociale o sanitaria o al volontariato; dall’altro lato, non si richiede che gli organismi beneficiari delle prestazioni dell’imputato ammesso
al probation siano “convenzionati” 58. Se è vero che l’art. 8 l. n. 67 del 2014 prevede l’adozione da parte del
Ministero della Giustizia o dei presidenti di tribunale delegati, entro tre mesi dalla data di sua entrata in
vigore, di convenzioni da stipulare con gli enti o le organizzazioni, ciò non lascia necessariamente intendere che tali convenzioni siano presupposto indefettibile per il collocamento del “messo alla prova” presso un determinato ente, considerato altresì che l’art. 168-bis c.p. non esige tale presupposto né rinvia – a
differenza dell’art. 54, d.lgs. n. 274 del 2000 – alle determinazioni del Ministero.
Nel corso delle audizioni dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati era emersa
quale causa dello scarso successo del lavoro gratuito proprio il timore delle organizzazioni di assumere,
stipulando le convenzioni, il rischio di dover accettare «soggetti che dessero più problemi che vantaggi» e di trovarsi continuamente esposte, in ragione della pubblicazione degli elenchi contenenti gli istituti convenzionati, al contatto con i soggetti interessati a richiedere il beneficio 59.
La libertà di assegnare i soggetti messi alla prova ad enti non convenzionati, confermata dall’art.
141-ter, comma 3, norme att. c.p.p. – che onera i servizi sociali di corredare il programma di trattamento
con l’adesione dell’ente o del soggetto presso il quale l’imputato è chiamato a svolgere le proprie prestazioni –, dovrebbe agevolare la sperimentazione dell’impiego di questa categoria di soggetti e favorire poi la consapevole adesione al sistema delle convenzioni, consentendo così di superare i risultati non
lusinghieri sino ad oggi conseguiti sul piano operativo dal lavoro di pubblica utilità.
Sia pure con i limiti innanzi evidenziati e con le ulteriori altre criticità sottolineate dalla dottrina 60, è
auspicabile che la “rivoluzione culturale” iniziata possa dare gli esiti positivi “lumeggiati” dall’archetipo, stimolando il legislatore a proseguire sulla strada intrapresa con scelte più coraggiose, quali
l’innalzamento dei limiti di pena per l’applicabilità della messa alla prova 61, ed a rimediare agli ostacoli
via via emergenti nella prassi applicativa, che andrà opportunamente monitorata 62, al fine di perfezionare ed individuare soluzioni normative che non abbiano di mira soltanto la deflazione del carico dei
procedimenti e del sovraffollamento carcerario, ma soprattutto l’effettivo recupero sociale dell’autore
del reato e il soddisfacimento degli interessi della vittima, nella prospettiva di un progressivo abbandono del sistema carcero-centrico e di una più ampia valorizzazione della mediazione penale e della
giustizia riparativa 63.
57
In tal senso, R. Piccirillo, Le nuove disposizioni in tema di sospensione del procedimento, cit., p. 7, il quale richiama quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alle condotte risarcitorie e restitutorie sussunte nella causa di estinzione
del reato prevista dall’art. 35, d.lgs. n. 274 del 2000 o nella circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 6, c.p., ambiti nei quali si è
ritenuto non vincolante il rifiuto opposto dalla persona offesa all’offerta risarcitoria, quando quest’ultima sia reputata esaustiva
e satisfattiva delle istanze retributive e special-preventive sottese all’istituto.
58
Accogliendo forse recenti segnali giurisprudenziali, sui quali A. Menghini-E. Mattevi, Recenti orientamenti sul lavoro di pubblica utilità, in www.penalecontemporaneo.it.
59
A. Salvadori, Audizione del 29 maggio 2013 in Commissione II Giustizia della Camera dei Deputati nell’ambito dell’indagine conoscitiva sull’efficacia del sistema giudiziario in relazione all’esame della proposta di legge C. 331 Ferranti, recante la delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, in Resoconto stenografico, Roma, 2013, p. 7.
60
Cfr. al riguardo V. Bove, Messa alla prova per gli adulti: una prima lettura della l. 67/2014, cit., p. 15 ss.; A. Di Tullio D’Elisiis,
La messa alla prova per l’imputato, cit., p. 77 ss.
61
Dello stesso avviso sono M. Miedico, Sospensione del processo e messa alla prova anche per i maggiorenni, cit., p. 5; O. Murro, Le
nuove dimensioni del probation per l’imputato adulto, in www.treccani.it, p. 3, e G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti, cit.
62
Al riguardo, merita di essere segnalato che l’art. 7, comma 2, l. n. 67 del 2014 stabilisce che, entro il 31 maggio di ciascun
anno, il Ministro della Giustizia debba riferire alle competenti Commissioni parlamentari sullo stato di attuazione delle disposizioni in materia di messa alla prova.
63
In questi termini N. Triggiani, Dal probation minorile alla messa alla prova degli imputati adulti, in Id. (a cura di), La deflazione
giudiziaria, cit., p. 75.
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ANTONINO PULVIRENTI
Ricercatore confermato di Diritto processuale penale – Università di Roma LUMSA – Sede di Palermo
Sequestro e internet: un difficile binomio
tra “vecchie” norme e “nuove” esigenze
Seizure and internet: a "difficult" combination
between old standards and new requirements
Le esigenze preventive e probatorie che si annidano nel composito (e deregolamentato) “macrocosmo informatico” costituito dalla rete internet (im)pongono con impellenza all’attenzione dell’interprete e del legislatore istanze
di adeguamento del dato normativo di riferimento. Nel silenzio legislativo, la giurisprudenza ha adottato, pur non
senza disagio, soluzioni eterogenee (anche se sempre accomunate dalla cifra stilistica dell’horror vacui) e di compromesso che mal si conciliano con i dettami costituzionali e convenzionali.
L’A. ricostruendo analiticamente i tratti salienti della disciplina normativa di riferimento, dopo essersi soffermato
sulle opzioni esegetiche individuate dai vari formanti giurisprudenziali, individua il “punto di svolta” del tema in argomento nel quadro dell’ormai consolidato sistema della multilevel governance.
The preventive and evidentiary requirements that are located in the composite (and unregulated) “internet world”
(im)pose with urgency to the attention of the interpreter and the legislature instances of adjustment as the reference standard. In the silence of legislation, case law adopted, though not without discomfort, heterogeneous solutions and compromise that do not accord with the indications of constitutional and conventional.
The Author analytically reconstructing the salient features of the legal framework, having dwelt on the options
identified by various exegetical forming jurisprudence, find the “turning point" of the issue in question within the
framework of the consolidated system of multilevel governance.
1. IL QUADRO NORMATIVO IN TEMA DI SEQUESTRO DELLA STAMPA
Si dibatte, in giurisprudenza e in dottrina, in ordine alla possibilità di disporre il sequestro probatorio o
preventivo di un sito internet o di un altro mezzo di comunicazione a questo tecnicamente assimilabile
(ad esempio, il blog) 1. Chi risolve positivamente questo dubbio, si interroga ulteriormente sui limiti entro i quali tali misure reali sono ammesse.
La questione, lungi dal potersi definire risolta, origina dal silenzio del legislatore su tale tema, posto
che né il codice di procedura penale né altre leggi speciali successive ad esso hanno, fin qui, affrontato
esplicitamente il problema. La soluzione del quale, conseguentemente, passa attraverso il tentativo ermeneutico di “adeguare” il significato di norme preesistenti (storicamente nate per altre esigenze) alle
nuove “emergenze” tecnologiche, pur con tutti i limiti e rischi che un’operazione di tal genere inevitabilmente comporta.
Si tratta, invero, da un lato, di “maneggiare con cura” una materia che risulta fortemente condizio-
1
Con il termine “blog” (letteralmente contrazione di web-log, ovvero “diario in rete”) «si definisce quel particolare tipo di sito
web, gestito da uno o più blogger, che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post
(concetto assimilabile o avvicinabile ad un articolo di giornale), che vengono visualizzati in ordine cronologico, partendo dal più recente, in
funzione del loro carattere di attualità». Definizione tratta da Cass.. sez. V, 30 ottobre 2013, n. 11895, in Dir. e giustizia, 12 marzo
2014, con nota di A. Ievolella.
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nata dal punto di vista costituzionale e, da un altro lato, di non lasciarsi andare alla tentazione di porre
in essere, nella colpevole inerzia del legislatore, una vera e propria manipolazione “machiavellica” di
norme anelastiche. Per quanto, cioè, possa essere individuata, in astratto, una lettura adeguatrice delle
norme esistenti che, sotto il profilo finalistico, ne determini l’allineamento ai principi costituzionali afferenti al tema; occorre prima, sotto il profilo metodologico, verificare che tale lettura non oltrepassi quel
tasso di elasticità semantica di cui gode ogni disposizione normativa e, travalicato il quale, la norma
stessa non viene più “interpretata” ma “creata” (o, volendo rendere in altro modo l’idea: non ci si limita
più ad esplorare e massimizzare il potenziale concettuale della disposizione linguistica, ma lo si integra
contenutisticamente a dispetto di argini letterali ben delimitati).
Il dato normativo prioritario dal quale muovere è rinvenibile nell’art. 21 Cost., la cui tecnica di formulazione, com’è noto, ha una duplice natura: di principio e di dettaglio. La norma di principio è solennemente enunciata nel primo comma della disposizione, ove è riconosciuto a «tutti» il «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»; la normativa
diviene di dettaglio (a tratti, quasi di tipo codicistico) nei commi successivi, allorquando la Carta fondamentale innalza il livello della tutela a vantaggio di quella specifica forma di manifestazione del pensiero che è costituita dalla «stampa». Di questa, infatti, viene garantito il libero esercizio sia in fase preventiva, giacché si pone il divieto di assoggettarla «ad autorizzazioni o censure» (comma 2) 2, sia in fase
repressiva, giacché se ne vieta il «sequestro» con le sole eccezioni dei «delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi» e delle «violazioni delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei
responsabili» (comma 3). Eccezioni in presenza delle quali, si può procedere a sequestro «soltanto per atto
motivato dell’Autorità giudiziaria» (comma 3) o, qualora si tratti di «stampa periodica» e «vi sia assoluta urgenza», tramite l’intervento di «ufficiali di polizia giudiziaria» da sottoporre «immediatamente» alla «convalida» dell’autorità giudiziaria (comma 4) 3.
Meno determinata, ma non per questo meno incisiva, è la tutela approntata dall’art. 10 Cedu per la
«libertà di espressione». La formulazione più “aperta” utilizzata da tale disposizione internazionale ben si
spiega per la fisiologica necessità dello strumento convenzionale di addivenire a conclusioni di compromesso, le quali, pur fissando un nucleo “forte” di garanzia, non intacchino (o intacchino il meno
possibile) le singole tradizioni storico-giuridiche degli Stati aderenti e, conseguentemente, riconoscano
a questi un certo margine di apprezzamento nella selezione delle modalità di attuazione della garanzia.
Così, l’art. 10 Cedu, dapprima, definisce il «diritto alla libertà di espressione» come diritto che «include la
libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle
autorità pubbliche e senza riguardo alla nazionalità» 4; per poi precisare, al paragrafo successivo, che
«l’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere subordinato a determinate formalità,
condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge e costituenti misure necessarie in una società democratica,
per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la
protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».
Il che, come anticipato, non fa, però, della tutela convenzionale una tutela meno incisiva di quella
approntata dalla nostra Carta fondamentale. Anzi, per certi versi, potrebbe sostenersi esattamente il
contrario, atteso che nella sua concreta dimensione giurisprudenziale –quella datagli progressivamente
dalle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo– l’art. 10 Cedu ha acquisito elementi di garanzia aggiuntivi rispetto a quelli enucleabili dall’art. 21 Cost. o che, comunque, il nostro Giudice delle
2
Con il solo limite posto dall’ultimo comma dello stesso art. 21 Cost., che, vietando «le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e
tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume», attribuisce alla legge il compito di stabilire «provvedimenti adeguati a prevenire
e a reprimere le violazioni».
3
In verità, l’art. 21, comma 4, Cost., pur prescrivendo che gli ufficiali di polizia giudiziaria denunzino «immediatamente»
all’autorità giudiziaria il provvedimento di sequestro adottato in via di urgenza, aggiunge che tale adempimento non può, in
ogni caso, essere effettuato «oltre ventiquattro ore»; ed, altresì, che «il sequestro s’intende revocato e privo d’ogni effetto», se l’autorità
giudiziaria «non lo convalida nelle ventiquattro ore successive». Trattasi di cadenze temporali ancora più rigorose di quelle previste
dall’art. 13, comma 3, Cost., in tema di libertà personale, la quale, in casi eccezionali di necessità ed urgenza, può essere ristretta
con provvedimento provvisorio dell’autorità di pubblica sicurezza, da comunicare all’autorità giudiziaria «entro quarantotto ore»
e che quest’ultima deve convalidare, a pena di inefficacia dell’atto, «nelle successive quarantotto ore».
4
Il primo paragrafo dell’art. 10 Cedu stabilisce, inoltre, che il suo contenuto «non impedisce che gli Stati sottopongano a un regime di autorizzazione le imprese di radio-diffusione, di cinema o di televisione».
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leggi ha ritenuto di poter enucleare da tale disposizione costituzionale 5.
Si pensi, in tal senso, a quanto la Corte, peraltro condannando proprio l’Italia, ha recentemente affermato in ordine al tipo di sanzione penale che gli Stati possono comminare nei confronti di chi, esercitando il diritto alla libertà di espressione, ne oltrepassa i limiti e si rende responsabile di condotte diffamatorie.
I giudici di Strasburgo partono dal presupposto che la tutela di detta libertà, anche quando riguardi
un giornalista, deve trovare un «ragionevole bilanciamento» con altri interessi di pari rilevanza, tra i quali
«l’interesse pubblico all’accertamento e alla repressione dei reati» 6; così che essa non è automaticamente incompatibile con la previsione di emettere una sentenza di condanna, per colpa, contro il direttore responsabile di un giornale, dovendosi, piuttosto, effettuare sempre il suddetto bilanciamento «calandosi
nel caso concreto» 7 e valutando l’ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio della libertà in argomento alla luce dei principi di «proporzionalità e pertinenza» 8. Principi che –ritiene ancora la Corte e.d.u.–
rendono la condanna per diffamazione contraria alla convenzione «per il solo fatto di disporre la sanzione
del carcere», ovvero una sanzione che, esercitando un eccessivo effetto deterrente sulla libertà di espressione, può considerarsi legittima esclusivamente in presenza di circostanze eccezionali, quali i casi di
«incitamento all’odio o alla violenza» 9.
In sintesi, raffrontando l’art. 21 Cost. con l’art. 10 Cedu, è necessario non fermarsi al solo dato letterale, poiché, se è vero che la disposizione internazionale non sancisce espressamente alcun divieto o limite inerente all’applicazione di misure cautelari aventi ad oggetto i prodotti della libertà di espressione, a differenza dell’art. 21 Cost. che tali limiti prevede e regolamenta in termini precisi; lo è anche che
l’art. 10 Cedu, se letto con le specificazioni che, nel corso degli anni, la Corte e.d.u. vi ha apportato, assume una “forza precettiva” di ben altro spessore, la quale, come meglio si dirà in seguito, potrebbe
avere rilevanza anche per il tema da noi trattato.
Tornando al dato normativo interno, è necessario richiamare il r.d.lg. 31 maggio 1946, n. 561, che,
contenendo «norme sul sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni» e non avendo, ancora oggi, il nostro
legislatore emanato una nuova «legge sulla stampa», continua a costituire il solo testo normativo ricollegabile alla riserva di legge di cui al terzo comma dell’art. 21 Cost. 10.
L’art. 1, comma 1, r.d.lg. n. 561 del 1946 vieta che possa procedersi «al sequestro della edizione dei giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o "stampato" (...) se non in virtù di una sentenza irrevocabile dell’autorità
giudiziaria». Prima del giudicato, però, è «consentito all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro di non oltre tre esemplari dei giornali o delle pubblicazioni o stampati che importino una violazione della legge penale»
(comma 2).
La norma deve essere coordinata con il vigente codice di procedura penale, dovendosi, in particolare, verificare se il termine «sequestro» in essa contenuto possa essere riferito ad entrambe le forme di sequestro disciplinate dal codice del 1988 (probatorio e preventivo) o vada, al contrario, circoscritto ad
una sola di queste 11. Quest’ultima è la tesi prioritariamente seguita nella giurisprudenza di legittimità,
secondo cui la deroga contenuta nell’art. 1, comma 2, r.d.lg. n. 561 del 1946 è riferibile al solo sequestro
probatorio, sia per ragioni storiche (all’epoca esisteva soltanto questa forma di sequestro), sia per ragioni di logica, considerato che «un sequestro preventivo limitato a tre copie sarebbe davvero senza ragione» 12
5
Per una ricostruzione della giurisprudenza europea sul tema, cfr. Corte e.d.u., Grande Chambre, 14 settembre 2010, n.
38224, Sanoma Uitgevers B.V. c. Paesi Bassi, in Cass. pen., 2011, p. 397; Corte e.d.u., sez.. V, 20 marzo 2012, n. 30002, Martin e altro c. Francia, in Cass. pen., 2012, p. 3910.
6
Sul punto, cfr. Corte e.d.u., sez. V, 20 marzo 2012, Martin e altro c. Francia, cit.
7
Ibidem.
8
Corte e.d.u., sez. I, 19 giugno 2012, Krone Verlag c. Austria, www.echr.coe.int.
9
Corte e.d.u, sez. II, 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia, in Guida dir., 2013, n. 42, p. 100, con nota di M. Castellaneta.
10
A conferma di ciò si rammenti che il d.lgs. 1 dicembre 2009 n. 179 ha inserito il r.d.lg. n. 561 del 1946 tra le «disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabili la permanenza in vigore, a norma dell’art. 14 l. 28 novembre
2005, n. 246».
11
In realtà, il c.p.p. del 1988 ha introdotto anche il «sequestro conservativo» (art. 316 c.p.p.), il cui ambito operativo, tuttavia,
concernendo le garanzie per il pagamento della pena pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta
all’erario dello Stato, oltre che le garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato, non è pertinente alla nostra indagine.
12
Cass., sez. V, 7 dicembre 2007, n. 7319, in Arch. n. proc. pen., 2008, p. 440; conf. Cass., sez. V, 10 gennaio 2011, n. 7155, in
Cass. pen., 2012, p. 246; Cass., sez. V, 24 gennaio 2006, n. 15961, in Riv. pen., 2007, p. 331. Cfr., però, anche Cass., sez. V, 4 giugno
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(non comprendendosi, in effetti, come un sequestro finalizzato ad impedire l’aggravamento o la protrazione dell’attività criminosa possa, determinando un “vincolo” solo su pochi esemplari, adempiere al
suo scopo) 13. Né, ad avviso della stessa giurisprudenza, potrebbe sostenersi che il sequestro preventivo
prescinde dal r.d.lg. n. 561 del 1946 e trova la sua autonoma legittimazione nella sopravvenienza
dell’art. 321 c.p.p., poiché l’art. 21, comma 3, Cost. ha istituito una «garanzia negativa rafforzata da riserva
di legge specifica». Il fatto, quindi, che la Costituzione ammetta il sequestro preventivo «solo in certi casi»
– quelli previsti da norme riguardanti la materia della stampa – «non può non escludere la legittimità della
misura in ogni altro caso» 14.
A ben vedere, però, vi è un’ipotesi in cui, eccezionalmente, il sequestro della stampa può essere di tipo preventivo e riguardare tutte le copie pubblicate. È il caso della “stampa clandestina” 15, cioè di quei
giornali o altri periodici che sono pubblicati senza il previo rispetto degli adempimenti previsti dalla l. 8
febbraio 1948 n. 47: a) nomina di un direttore responsabile, avente determinati requisiti, con indicazione
del relativo domicilio (art. 3); b) registrazione presso la cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione la
pubblicazione deve effettuarsi; c) annotazione ordinata dal presidente del tribunale con un provvedimento ad hoc, dopo la verifica della regolarità della documentazione prodotta. Mancando tali adempimenti, il sequestro trova la sua legittimazione in quella parte dell’art. 21, comma 3, Cost. dove si fa riferimento alla «violazione delle norme che la legge (sulla stampa) prescriva per l’individuazione dei responsabili».
Ne consegue l’inapplicabilità dell’art. 1 r.d.lg. n. 561 del 1946, il cui limite numerico riguarda «le ipotesi di
commissione di reati, nei quali il giornale sia stato il mezzo attraverso il quale tale violazione sia stata commessa»; e
non anche la fattispecie in cui «è la stampa in sé a costituire l’oggetto del reato» 16.
Nessun limite numerico sussiste, infine, per il «sequestro dei giornali o delle altre pubblicazioni o stampati, che, ai sensi della legge penale, sono da ritenere osceni o offensivi della pubblica decenza». In questi casi, l’art.
2 r.d.lg. n. 561 del 1946 prevede, testualmente, che al sequestro possa farsi luogo «in deroga» a quanto
stabilito nell’art. 1 dello stesso decreto.
2. IL SEQUESTRO DEL SITO INTERNET O DEL BLOG: SONO APPLICABILI LE STESSE GARANZIE COSTITUZIONALI PREVISTE PER LA STAMPA?
Nessuno dubita del fatto che internet, nelle sue varie forme di estrinsecazione (il sito web, il social network, il blog, il quotidiano on line, la mailing list, ecc.), costituisca un mezzo di comunicazione attraverso
il quale è possibile manifestare il proprio pensiero. Da qui l’ovvia conclusione secondo cui internet, pur
essendosi diffuso in epoca successiva all’entrata in vigore dell’art. 21 Cost., rientra a pieno titolo nella
sfera di protezione del primo comma della suddetta norma costituzionale, il cui tenore letterale è così
2004, n. 27996, in Riv. pen., 2005, p. 611, secondo cui «in tema di sequestro di pubblicazioni a stampa, il limite di tre esemplari previsto
dall’art. 1, comma 1, del r.d.lg. 31 maggio 1946, n. 561 dev’essere osservato anche quando trattasi di sequestro con finalità preventiva, disposto ai sensi dell’art. 321 c.p.p.». In particolare – afferma tale sentenza nella sua parte motiva – il sequestro assumerebbe una «funzione preventiva» («ancorché all’epoca l’istituto non fosse autonomamente previsto») nelle ipotesi di cui all’art. 2 del citato decreto, laddove si prevede «il sequestro delle pubblicazioni o stampati che, ai sensi della legge penale, sono da ritenere osceni od offensivi della pubblica decenza ...»; ovvero, in ipotesi in cui «la pubblicazione non manifesta un’opinione (…), bensì incide direttamente sul buon costume».
Sembra, seppure implicitamente, ammettere che il sequestro in oggetto possa essere anche di tipo preventivo, Cass., sez. IV, 4
dicembre 2013, n. 3087, in CED Cass., n. 227790: «in tema di norme sul sequestro di giornali, e delle altre pubblicazioni, la disposizione di
cui al secondo comma di cui all’art. 1 r.d.lg. 31 maggio 1946, n. 561 – che consente all’autorità giudiziaria di disporre il sequestro di non
oltre tre esemplari delle pubblicazioni le quali comportino una violazione della legge penale – non opera alcuna distinzione tra i tipi di sequestro (preventivo o probatorio) che possono essere ordinati dall’autorità giudiziaria».
13
Facilmente comprensibile, invece, appare la limitazione nell’ipotesi di sequestro probatorio, «le cui precipue finalità ben possono essere adeguatamente assicurate dall’imposizione del vincolo su un numero ridotto di copie, che, al tempo stesso, vale ad impedire, nel
pieno rispetto della logica costituzionale, che la misura cautelare, se estesa all’intero territorio nazionale, possa risolversi in strumento surrettizio di controllo, censura o, comunque, di indebita limitazione della libertà di stampa tutelata dall’art. 21 Cost.». Così, in motivazione,
Cass., sez. V, 24 gennaio 2006, n. 15961, cit.
14
Cfr., in motivazione, Cass., sez. V, 7 dicembre 2007, n. 7319, cit.
15
Il reato di «stampa clandestina» è punito, con la reclusione fino a due anni o la multa fino a lire 500.000, dall’art. 16, comma
1, l. n. 47 del 1948. Due le condotte sanzionate: a) chiunque intraprende la pubblicazione di un giornale o altro periodico senza
che sia stata eseguita la registrazione; b) chiunque pubblica uno stampato non periodico, dal quale non risulti il nome
dell’editore né quello dello stampatore o nel quale questi non siano indicati in modo conforme al vero.
16
Cass., sez. V, 25 giugno 2002, n. 35108, in Riv. pen., 2005, p. 252.
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ampio da poter recepire qualsiasi nuovo prodotto comunicativo generato dal progresso tecnologico.
La conclusione, invece, non è così agevole non appena si provi a spostare l’obiettivo sui commi successivi dell’art. 21 Cost., quelli che, come sappiamo, accordano una tutela rafforzata alla libertà di
«stampa» 17. Un dato è fuori discussione: allorquando l’Assemblea Costituente elaborò tale tutela lo fece
con il preciso intento di accordare una particolare protezione a quella specifica forma di comunicazione
che si esplicava tramite la parola scritta e la sua successiva divulgazione; vale a dire a quella modalità
di manifestazione del pensiero che il precedente regime autoritario aveva fortemente limitato e che,
pertanto, appariva, all’epoca, come la più vulnerabile.
Sappiamo, però, come il dato storico non sia decisivo nel percorso ermeneutico e, soprattutto, come
ciò sia tanto più vero quanto più ci si allontani dall’epoca di entrata in vigore della disposizione normativa. Quel che rileva, difatti, è verificare se, al di là della sua ben definita origine storica, il termine
«stampa» adoperato nell’art. 21 Cost. possa, dal punto di vista letterale, teleologico e sistematico, assumere una portata più ampia, idonea a ricomprendere anche le nuove forme di trasmissione “non scritta” della parola.
Un esito positivo di tale verifica si riscontra nella giurisprudenza di merito, dove, pur senza il sostegno di una motivazione particolarmente analitica, è stato affermato che l’art. 21, comma 3, Cost., nella
parte in cui limita la possibilità del sequestro della stampa ai soli delitti per i quali la legge della stampa
espressamente lo autorizzi, deve essere «interpretata in senso evolutivo per adeguarla alle nuove tecnologie
sopravvenute ed ai nuovi mezzi di espressione del libero pensiero». Un’interpretazione evolutiva dalla quale,
quindi, dovrebbe farsi derivare l’applicabilità dell’art. 1, comma 1, r.d.lg. n. 561 del 1946 anche al sito
web, con l’ulteriore conseguenza che questo, se pure avesse contenuto diffamatorio, non potrebbe essere
sequestrato 18. La norma citata, invero, «vieta il sequestro della edizione di giornali o di qualsiasi altra pubblicazione o stampato» con ciò riferendosi al sequestro inteso come «chiusura» del giornale (o «oscuramento»
del sito web), incidente, cioè, sull’attività di «edizione in sé e non su singoli e ben determinati supporti cartacei
o di altro tipo» 19.
Non tutti i nuovi mezzi di comunicazione riconducibili a internet potrebbero, però, «in blocco, solo
perché tali, essere inclusi nel concetto di stampa ai sensi dell’art. 21, comma 3, Cost., prescindendo dalle caratteristiche specifiche di ciascuno di esse»; occorrendo, invece, «valutare caso per caso le caratteristiche ed il contenuto del mezzo di comunicazione, onde stabilire se presenti caratteri “omologhi” a quelli della stampa tradizionalmente intesi». Fatta questa precisazione, i fautori dell’interpretazione evolutiva hanno ritenuto che sia
assimilabile alla stampa il «blog» avente «contenuto squisitamente politico-informativo», dato che esso «non
si differenzia – nella sostanza – da una qualsiasi rivista di opinione, nella quale vengono espresse giudizi e idee
che, condivisibili o meno, costituiscono espressione della libertà di critica politica» 20.
L’apertura interpretativa tentata dalla giurisprudenza di merito, qui esposta, ha presto trovato la
ferma opposizione della giurisprudenza di legittimità, la quale, con due pronunce ravvicinate, ha categoricamente escluso che il sito internet possa godere delle stesse tutele assicurate dalla legge al mezzo
della stampa, rispetto allo strumento cautelare del sequestro 21. Quel che ha indotto la Cassazione a tale
chiusura è, principalmente, l’ostacolo di ordine storico-letterale: «il termine “stampa” è dizione tecnica 22, e,
17
Sulla problematicità di tale rapporto, cfr. A. Papa, La disciplina della libertà di stampa alla prova delle nuove tecnologie, in Dir.
informaz. e informatica, 2011, p. 477 ss.; C. Giunta, I forum davanti alla Cassazione: incertezze giurisprudenziali sulla nozione di stampa,
in Giur. cost., 2009, p. 2115 ss.
18
Al di fuori delle eccezioni espressamente stabilite nel secondo comma e nell’art. 2 del medesimo regio decreto legislativo.
Così, G.i.p. Nocera Inferiore, 20 settembre 2010, in Giur. di Merito, 2011, p. 1373.
19
Ibidem.
20
Ibidem.
21
Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, www.penale.it; Cass., sez. V, 30 ottobre 2013, n. 11895, cit. Conf., con specifico riferimento ai «messaggi pubblicati su forum di discussione su internet», Cass., sez. III, 11 dicembre 2008, n. 10535, in Foro it., 2010, II,
p. 95, con nota di M. Chiarolla, Riflessioni intorno al concetto di prodotto editoriale digitale.
22
Ai sensi dell’art. 1 l. n. 47 del 1948 (disposizioni sulla stampa), sono considerati “stampe o stampati tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisici chimici, in qualsiasi modo destinati alla pubblicazione”. Quindi, perché il prodotto stampa sussista in senso giuridico sono necessarie due condizioni: 1) un’attività di riproduzione tipografica; 2) la destinazione alla pubblicazione del risultato di tale attività. L’accezione tecnica del termine stampa trova autorevole conferma in C.
cost., sent. 24 giugno 1961 n. 38, www.giurcost.it.
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come tale, fu assunto nella norma costituzionale» 23; ostacolo che, peraltro, risulterebbe indirettamente confermato dal fatto che, già negli anni 80’, la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali aveva
proposto la introduzione di un nuovo articolo 21-ter nella Costituzione, proprio allo scopo di «omologare
le manifestazioni del pensiero espresse con “altri mezzi di diffusione dell’informazione” a quelle a mezzo stampa,
anche ai fini della eseguibilità del sequestro» 24. Un tentativo inutile – è questo il ragionamento implicito della Corte – se all’auspicata omologazione fosse stato possibile pervenire in via interpretativa.
In breve. Non essendo stata, la proposta della Commissione Bozzi, trasformata in legge, fino a quando
il legislatore non interverrà con una apposita riforma, l’art. 21 Cost. dovrà ritenersi impermeabile a qualsiasi esperimento interpretativo volto ad estenderne il significato alle pubblicazioni via internet.
Non può dirsi che, in direzione opposta, sia stata determinante l’approvazione della l. 7 marzo 2001,
n. 62, in materia di editoria e prodotti editoriali. Questa normativa ha introdotto una nozione molto
ampia di «prodotto editoriale», definendolo come «il prodotto realizzato su supporto cartaceo, ivi compreso il
libro, o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il
pubblico con ogni mezzo, anche elettronico, o attraverso la radiodiffusione sonora o televisiva, con esclusione dei
prodotti discografici o cinematografici» (art. 1, comma 1, l. n. 62 del 2001). Contestualmente, ha previsto
l’applicabilità «al prodotto editoriale» degli obblighi di cui all’art. 2 della l. n. 47 del 1948 (indicazioni sugli stampati) e degli ulteriori obblighi stabiliti dall’art. 5 della stessa legge (registrazione) al «prodotto
editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata».
Da qui, la tesi innovativa di una certa giurisprudenza di merito che ha ritenuto di poter ricavare da
tali riferimenti normativi una piena «equiparazione dei prodotti su supporto informatico destinati alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico a quelli cartacei e quindi la ricomprensione
dei primi, in quanto prodotti editoriali, nella nozione di stampa». In base a tale lettura, conseguentemente, ai
prodotti editoriali informatici (come le testate telematiche) regolarmente registrati dovrebbe, altresì,
estendersi il divieto di sequestro sancito dall’art. 21 Cost. 25.
Questo orientamento, però, è rimasto sporadico nella stessa giurisprudenza di merito e, soprattutto,
non ha ricevuto conferma nella giurisprudenza di legittimità. Il principale ostacolo frapposto dalla Cassazione alla presunta equiparazione tra stampa tradizionale e stampa telematica adottata dalla l. n. 62
del 2001 è rappresentato dal fatto che tale legge, per sua stessa ammissione, è una normativa di settore,
senza, perciò, alcuna pretesa di riordino organico della materia. Basta osservare, a tal riguardo, come il
suo art. 1, comma 1, nell’estendere la nozione di prodotto editoriale al «prodotto su supporto informatico»,
si affretti a precisare che tale definizione è data «ai fini della presente legge». E poiché la disciplina di
quest’ultima afferisce a vari interventi amministrativi di natura economica a sostegno del settore editoriale (quali concessione di contributi, erogazione di provvidenze, istituzione di fondi speciali, riconoscimento di credito d’imposta, ecc.), è evidente che la suddetta equiparazione tra pubblicazione cartacea e telematica non può valere se non allo scopo di usufruire di tali interventi, e non anche
dell’estensione alle testate telematiche delle garanzie di cui godono quelle cartacee ex art. 21 Cost. 26. Del
resto, una chiara conferma a tale assunto è rinvenibile nel d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70 27, il quale, intervenendo nuovamente sul tema, ha specificato, proprio al fine di dirimere i dubbi innescati dalla precedente l. n. 62 del 2001, che l’obbligo di registrazione delle testate editoriali telematiche è stato previsto da
quest’ultima legge «ai soli fini delle provvidenze economiche stabilite nella medesima legge» 28.
23
Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, cit.
24
Ibidem.
25
Trib. Padova, ord. 1 ottobre 2009, in Dir. ind., 2010, p. 73, con nota di P. Cimino, Le pubblicazioni telematiche e i prodotti editoriali; e in Nuova giur. comm, 2010, p. 406, con nota di V. Durante, Stampa on-line e sequestro dei siti internet.
26
Per un approfondimento del tema, cfr. P. Di Fabio, Blog, giornali on line e "obblighi facoltativi" di registrazione delle testate telematiche: tra confusione del legislatore e pericoli per la libera espressione del pensiero su internet, in Dir. informaz. e informatica, 2012, p.
1120 ss.; P. Costanzo, La stampa telematica (tuttora) tra ambiguità legislative e dissensi giurisprudenziali, in Giur. cost., 2010, p. 5239 ss.
27
Aderisce a tale tesi, L. Bacchini, Il sequestro di un forum on-line: l’applicazione della legge sulla stampa tutelerebbe la libertà di
manifestazione del pensiero in internet?, in Cass. pen., 2009, p. 512.
28
Sulla base di tali presupposti, Cass., sez. III, 10 maggio 2012, n. 23230, in CED Cass., n. 252979, ha escluso che l’omessa registrazione, preventiva alla diffusione di un giornale telematico, integri il reato previsto dagli artt. 5 e 16 l. n. 47 del 1948 (stampa clandestina), posto che, ragionando diversamente, si darebbe luogo a una interpretazione analogica in malam partem. Prima
di questo arresto giurisprudenziale, per una pronuncia nei termini della configurabilità del suddetto reato, nei confronti del responsabile del sito internet che non avesse adempiuto alla registrazione ex art. 5, l. n. 47 del 1948, v. Trib. Modica, 8 maggio 2008,
R., in Foro it., 2010, II, c. 95, con nota di M. Chiarolla.
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3. LO SCENARIO FUTURO TRA PROFILI DI (IL)LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE E INTERPRETAZIONE ANALOGICA
Dopo aver preso atto del diverso grado di tutela che attualmente la legge italiana accorda alla stampa
cartacea rispetto a quella telematica e dell’impossibilità di interpretare i dati normativi vigenti in chiave
evolutiva, occorre proiettare lo sguardo al futuro, per provare a immaginare se un tale quadro sia, ed
eventualmente come, destinato a mutare.
Una prima via potrebbe essere l’intervento di una declaratoria di illegittimità costituzionale delle
norme che limitano il sequestro della stampa cartacea, nella parte in cui non prevedono che i medesimi
limiti siano applicabili anche alla nuova stampa telematica. Siffatta pronuncia additiva, però, potrebbe
essere prospettata nella misura in cui fosse possibile affermare che il diverso trattamento è destinato a
situazioni uguali o, almeno, contenutisticamente omogenee. È proprio questo, invece, il presupposto
che, ad avviso della Cassazione, manca affinché la questione di legittimità costituzionale possa definirsi
non manifestamente infondata e possa, quindi, essere sollevata dinanzi al Giudice delle leggi. Quel che,
nello specifico, introdurrebbe una «differenza (sostanziale e non solo formale) tra stampa e informatica» è la
cd. «eternità mediatica», vale a dire la capacità della notizia immessa in rete di rimanere fruibile a tempo
indeterminato e per un numero indeterminato di fruitori 29. Caratteristiche che, invece, non avrebbe la
diffamazione realizzata attraverso i giornali, che «ha certamente un impatto minore e durata limitata, atteso
che, a meno di ulteriori ripubblicazioni, la sua diffusione (e la sua lesività) si esauriscono in breve spazio di tempo» 30.
Risulterebbe, dunque, ragionevole – secondo la Suprema Corte – che ad una diversa capacità lesiva
dei due mezzi, corrisponda un diverso grado di intensità dei limiti loro opponibili, tale per cui il sequestro risulti più incisivo dove la potenzialità offensiva del mezzo è maggiore e meno incisivo dove la
medesima potenzialità è minore.
L’assunto non convince appieno, poiché, da un lato, sembra enfatizzare una differenza di tipo meramente quantitativo, sempre più smentita, peraltro, dalla crescente capacità tecnologica di riprodurre,
con vari mezzi (fotocopie, scanner, archiviazione digitale, ecc.), il prodotto della stampa tradizionale e,
conseguentemente, di renderlo meno “definito” nel tempo e nello spazio; e, da un altro lato, sembra
sottovalutare che la ratio di garanzia sottesa all’art. 21, comma 3, Cost. appare pienamente riferibile anche a colui che manifesta il pensiero tramite internet, non potendo, a tal proposito, assumere rilevanza il
fatto che l’Autorità inibisca una parola scritta tramite un “getto d’inchiostro” su un supporto cartaceo,
invece che una parola scritta tramite una “digitazione” su un supporto immateriale. Ad entrambi i casi,
in sostanza, è riferibile la scelta valoriale insita nell’art. 21, comma 3, Cost., cioè di accettare il rischio di
una manifestazione del pensiero che sia offensiva dell’altrui reputazione, pur di scongiurare un rischio
ben più rilevante, quale quello di uno Stato che, tramite interventi autoritativi, vieti ai suoi consociati di
informare e di informarsi al fine di contribuire al fisiologico sviluppo di una società democratica. Anzi,
muovendo da questa consapevolezza, appare ormai anacronistico il surplus di tutela oggi riservato alla
stampa cartacea, il cui uso come strumento comunicativo è stato, in termini statistici e di accessibilità,
ampiamente soppiantato da quello della informazione telematica.
Una precisazione è però doverosa. L’equiparazione tra il diritto alla stampa cartacea e quello alla
stampa telematica non può non passare attraverso un loro allineamento anche sotto il profilo della responsabilità di chi tali diritti esercita. La lettura dell’art. 21 Cost., invero, non si presta ad equivoci nella
correlazione che pone tra libertà e responsabilità, allorquando, da una parte, non riferisce la prima alla
manifestazione di un pensiero “anonimo”, ma di un pensiero «proprio» (comma 1), la cui “paternità”,
cioè, sia attribuibile ad un soggetto determinato e, quindi, individuabile; e, da un’altra parte, esclude
dal novero della stampa non soggetta a sequestro la stampa clandestina (comma 3). Se, in un’ipotetica
unificazione delle garanzie costituzionali tra stampa cartacea e stampa telematica, non si tenesse conto
di ciò, si finirebbe per introdurre una disparità in senso inverso, a danno della prima. Ne deriva che, nel
caso in cui la Corte costituzionale ritenesse, un giorno, di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 r.d.lg. n. 561 del 1946, nella parte in cui le garanzie ivi previste non sono applicabili anche alla
stampa telematica, dovrebbe, a nostro avviso, farlo delimitando l’equiparazione a quei soli prodotti edi-
29
Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, cit.
30
Ibidem.
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toriali che, avvalendosi della facoltà a loro riservata dall’art. 1, comma 3, l. n. 62 del 2001, pongono in
essere gli adempimenti amministrativi (registrazione, nomina di un direttore responsabile, ecc.) funzionali alla loro soggettivizzazione esterna.
In dottrina, vi è chi ritiene che un passaggio di questo tipo sia superfluo, potendosi giungere alla
medesima equiparazione attraverso un’interpretazione analogica dell’art. 21, comma 3, Cost. e, conseguentemente, delle leggi che a tale garanzia danno attuazione, pur con il limite, ora esposto, della delimitazione ad esclusivo vantaggio delle testate editoriali individuabili in quanto formalmente registrate 31. La tesi origina, sostanzialmente, dalle stesse ragioni qui poste a fondamento degli ipotetici profili
di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, r.d.lg. n. 561 del 1946, con una ulteriore –e condivisibile– critica al ragionamento della Cassazione. L’Autore, in particolare, si riferisce a quella parte del ragionamento in cui la Cassazione rammenta come l’accezione strettamente tecnica della nozione di
stampa impedisca, per giurisprudenza costante, che al direttore di un sito internet o di una rivista telematica sia applicabile, in via analogica, la disposizione incriminatrice di cui all’art. 57 c.p. (per omesso
controllo sul contenuto del periodico da lui diretto) 32; e come da ciò derivi, quale conseguenza inevitabile, il divieto di applicazione analogica alla stampa telematica, non solo delle disposizioni di sfavore,
ma anche di quelle di favore (come quelle che escludono o limitano il sequestro), posto che «ubi commoda, ibi incommoda».
In realtà –si osserva correttamente– «il brocardo menzionato non trova alcun riscontro in campo criminale» e, inoltre, «sul fronte penale l’esistenza di una regola che vieta l’analogia in malam partem, di per sé, dimostra che l’applicazione di norme di favore, e cioè in bonam partem, è del tutto legittima e consentita, anzi forse
doverosa quando sia possibile, come in questo caso (…)».
A prescindere da ciò, il tentativo di colmare il vuoto di tutela del quale oggi, in tema di sequestro, risente la stampa telematica, tramite un’interpretazione analogica della norma costituzionale, sembra,
almeno in astratto, percorribile. È noto, infatti, che all’elenco dei beni giuridici espressamente tutelati
dalla nostra Costituzione se ne sono, nel corso dei decenni, aggiunti degli altri per via della formulazione aperta dell’art. 2 Cost.: il diritto all’ambiente, il diritto alla privacy, ecc. Tutti diritti “elaborati”
dalla Corte costituzionale in quanto rientranti, seppure non expressis verbis, nel rinvio “mobile” dell’art.
2 Cost. ai «diritti inviolabili dell’uomo». Non solo. Non mancano gli esempi in cui la giurisprudenza, oltre
a “riconoscere” ex art. 2 Cost. un nuovo diritto inviolabile, gli abbia attribuito una specifica garanzia
modale (come la riserva di giurisdizione per gli atti diretti a limitarne l’esercizio), pur nell’oggettivo silenzio della Carta fondamentale e in assonanza con il livello di tutela riservato dalla Costituzione scritta
ad altri beni giuridici di pari o superiore livello 33.
Quel che, però, a nostro avviso, nel caso di specie osta all’applicazione analogica dell’art. 21, comma
3, Cost. è il carattere derogatorio di questa disposizione normativa rispetto al principio generale del
primo comma dello stesso articolo. Il rapporto tra queste due parti dell’art. 21 Cost. porta all’individuazione di un principio generale in base al quale la libertà di manifestazione del pensiero è garantita a
tutti, a condizione che il suo esercizio non sia lesivo di altri beni costituzionalmente rilevanti e, quindi,
con la facoltà dell’ordinamento di porre in essere misure limitative (come il sequestro) volte ad attuare
il suddetto contemperamento; e, poi, di una deroga a tale principio generale, in virtù del quale, soltanto
laddove si tratti di «stampa» il bilanciamento tra contrapposti interessi è sempre risolto a vantaggio della manifestazione del pensiero, non potendo quest’ultimo essere limitato se non nei casi tassativi previ-
31
C. Melzi d’Eril, Il sequestro di siti on-line: una proposta di applicazione analogica dell’art. 21 Cost. “a dispetto” della giurisprudenza, in Dir. informaz. e informatica, 2014, p. 153.
32
Cfr., S. Peron, Internet, regime applicabile per i casi di diffamazione e responsabilità del direttore, in Resp. civ. e prev., 2011, p. 85
ss.; C. Melzi d’Eril, Roma locuta: la Cassazione esclude l’applicabilità dell’art. 57 c.p. al direttore della testata giornalistica on line, in Dir.
informaz. e informatica, 2010, p. 899 ss.
33
Si pensi all’operazione interpretativa intrapresa da Cass., sez. un., 28 marzo 2006, n. 26795, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2006,
p. 1537, con nota di A. Camon, al fine di affermare l’utilizzabilità, come prove atipiche, delle videoregistrazioni effettuate in
luoghi che, pur non rientrando nella nozione di «domicilio», sono costituzionalmente protetti in quanto luoghi nei quali la persona esercita il «diritto alla riservatezza». La Cassazione, non solo ha rinvenuto il fondamento costituzionale del diritto alla riservatezza nell’art. 2 Cost., ma ha anche ricavato da siffatta protezione (e nell’assoluto silenzio della Costituzione sul punto) la necessità che la limitazione di tale diritto sia disposta nel rispetto di un «livello minimo di garanzie»; nella specie, rappresentato dall’esigenza che la restrizione sia disposta con «provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, sia essa il pubblico ministero o il giudice».
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sti dalla stessa Costituzione. In altri termini, nel contesto dell’art. 21 Cost., la privazione al legislatore
ordinario del potere di valutare se e come la libertà di manifestazione del pensiero meriti un sacrificio, a
salvaguardia di altri interessi, costituisce una eccezione rispetto alla regola secondo cui tale potere è ordinariamente riconosciuto al legislatore. In quanto eccezionale, pertanto, il contenuto del terzo comma
dell’art. 21 Cost. non appare suscettibile di interpretazione analogica, indipendentemente dal fatto che
questa operi in malam partem o in bonam partem.
4. IL “DISAGIO” DELLA CASSAZIONE E L’ESIGENZA DI CONFORMARSI ALLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA
Volendo trarre le conclusioni di questa analisi, è possibile affermare che, attualmente, l’applicabilità a
internet delle garanzie prescritte dalla Costituzione a vantaggio della stampa non è praticabile, se non,
come si è visto, prospettando un intervento additivo della Corte costituzionale o una riforma del legislatore.
Non è detto, però, che tale assetto interpretativo, sia, pur “a carte ferme”, immutabile. Non si può,
cioè, escludere che la “forza espansiva” delle libertà connesse al mondo della comunicazione telematica
e informatica e la sempre crescente sensibilità che, sul tema, mostra di avere la comunità, porti, in un
futuro non troppo lontano, ad una rimeditazione della questione.
Per quanto possa apparire irrazionale, è già accaduto che un medesimo problema, dopo il consolidamento, nella giurisprudenza costituzionale o di legittimità, di una determinata posizione interpretativa, sia stato risolto in termini opposti, non perché nel frattempo fossero mutate le norme di riferimento, bensì in ragione della maggiore rilevanza assunta nella Costituzione materiale o in un’altra fonte
primaria esterna dall’interesse giuridico oggetto di tutela; tale da non fare più apparire compatibile la
dimensione giurisprudenziale concretamente data a quell’interesse con le nuove “pressioni” provenienti dai livelli normativi superiori 34.
Lo scenario non sembra così lontano o irrealistico, ove si rifletta sul fatto che la stessa giurisprudenza che
oggi oppone la nozione tecnica di stampa alle tesi volte ad estendere ad internet le garanzie di cui all’art. 21,
comma 3, Cost., esprime apertamente un certo disagio nel dover assumere una posizione così rigida.
Essa, invero, non solo “invoca” un intervento del legislatore che riordini la materia tenendo conto
delle nuove realtà comunicative e delle pressanti esigenze a queste connesse 35, ma, nell’attesa che il legislatore intervenga, fa un uso particolarmente restrittivo del sequestro preventivo tutte le volte in cui
dello stesso se ne chieda l’applicazione in tema di stampa telematica. L’impressione che si ricava nitidamente dalla lettura di tali pronunce è di una Cassazione che, formalmente, riconosce l’ammissibilità
del sequestro preventivo del sito internet o del blog (non potendo superare gli ostacoli di ordine testuale
sopra esposti), ma che, poi, in concreto, propenda per negarne l’applicazione tramite una lettura estremamente rigorosa dei suoi presupposti e, in particolare, del requisito del fumus commissi delicti.
Da quest’ultimo punto di vista, infatti, i giudici di legittimità non si limitano a censurare qualsiasi
tentativo di identificazione del requisito del fumus commissi delicti con l’astratta configurabilità del reato
in base alla prospettazione unilaterale del pubblico ministero e ad ammonire i giudici di merito in ordine alla necessità di confrontare siffatta prospettazione con gli elementi di prova materialmente acquisiti
dall’accusa e messi a disposizione del giudice 36. Essi aggiungono che, nel caso in cui il sequestro pre34
Si pensi al ripensamento operato da C. cost., sent. 9 luglio 1996 n. 238, in Cass. pen., 1997, p. 315, con nota di P. Felicioni, in
tema di prelievo ematico coattivo quale modalità esecutiva della perizia disposta dal giudice ex art. 220 c.p.p. In tale pronuncia,
la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, comma 2, c.p.p., per violazione della riserva di legge di cui
all’art. 13 Cost., nella parte in cui non predeterminava le modalità di siffatta misura invasiva della sfera fisica della persona. A
tale conclusione la Corte costituzionale è giunta nella piena consapevolezza di disattendere una sua precedente sentenza di segno diametralmente opposto (C. cost., sent. 24 marzo 1986 n. 54, in Foro it., 1987, I, c. 716), giustificando il suo revirement con
l’esigenza di dover «rimeditare» la questione e «pervenire a conclusioni diverse, tenuto conto anche della maggiore forza con cui il valore
della libertà personale si è affermato nel nuovo codice di procedura penale, ispirato in modo particolarmente accentuato al favor libertatis».
35
Cfr., ad esempio, quanto si afferma, sul punto, in Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, cit.: «un intervento del legislatore
(anche a livello costituzionale, come "tentato" negli anni passati) sarebbe quanto mai auspicabile».
36
Ammonimento che trova riscontro, con portata generale, in C. cost., ord. 4 maggio 2007 n. 153, in Giur. cost., 2007, p. 3; e,
soprattutto, in Cass., sez. III, 5 aprile 2011, n. 28221, in Dir. e giustizia, 20 luglio 2011, e Cass., sez. I, 17 giugno 2011, n. 40648, in
Dir. e giustizia, 12 novembre 2011, con nota di Conforti.
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ventivo cada su di uno strumento telematico destinato a comunicare fatti di cronaca o a criticare e denunziare aspetti della vita civile d’interesse pubblico, occorre che «la sua imposizione sia giustificata da effettiva necessità e da ragioni adeguate» 37. Il che – prosegue la Suprema Corte – «si traduce, in concreto, in
una valutazione della possibile riconducibilità del fatto all’area del penalmente rilevante e delle esigenze impeditive tanto serie quanto è vasta l’area della tolleranza costituzionalmente imposta per la libertà di parola» 38.
Ora, posto che non risulterebbe tollerabile, all’interno dell’area di operatività del sequestro preventivo, una distinzione tra casi nei quali l’atto ablativo è legittimo solo se “effettivamente necessario” e casi nei quali lo è anche “se non effettivamente necessario”; così come risulterebbe odiosa una distinzione
tra sequestri preventivi legittimi solo se sorretti da “ragioni adeguate” e sequestri preventivi legittimi
anche se sorretti da “ragioni inadeguate”; ciò che si può scorgere dall’uso ridondante di tali aggettivazioni è, per l’appunto, il disagio che vive la nostra giurisprudenza di legittimità nel dover “convalidare” misure cautelari formalmente ineccepibili ma sostanzialmente sproporzionate e inique rispetto alla
rilevanza della libertà che andrebbero a intaccare, posto che, nella sostanza, sono trattati in modo disomogeneo mezzi espressivi (stampa cartacea e stampa telematica) che assolvono alla stessa funzione e,
per di più, con modalità omogenee (il mero uso della parola).
Un disagio che è accentuato dalla consapevolezza di non poter intervenire con misure appropriate
alla specificità del caso concreto, essendo evidente che, allorquando si sequestra un sito, un quotidiano
telematico o un blog, in realtà, non lo si acquisisce materialmente, ma lo si “oscura”. Da questa aspecificità del rimedio cautelare, ad esempio, la giurisprudenza richiamata fa derivare la non sequestrabilità
del blog indipendentemente dal contenuto diffamatorio delle opinioni sullo stesso “postate” da terzi; in
quanto, cioè, il sequestro di un blog, inibendo a tutti gli utenti della rete l’accesso ai contenuti del sito,
finirebbe per «alterare la natura e la funzione del sequestro preventivo» e impedirebbe «al blogger la possibilità
di esprimersi» 39 (facendo così, in ultima analisi, venir meno il «nesso funzionale tra l’oggetto della richiesta
di sequestro e la possibile reiterazione dell’attività diffamatoria» 40.
È proprio questo, forse, il punto di svolta: il sequestro preventivo del sito internet o del blog potrebbe
essere espunto dal nostro sistema processuale penale, non in quanto contrastante con l’art. 21, comma
3, Cost., ma in quanto misura contraria all’art. 10 Cedu, il quale, da un lato, garantisce la libertà di
espressione senza ulteriori accezioni (non ponendo, così, quegli ostacoli di ordine testuale che, come si
è detto, pone la norma costituzionale riferendosi specificamente alla «stampa»); e, da un altro lato, prevede che tale libertà possa essere limitata con misure che siano «necessarie» per la tutela di altri interessi
dotati di pari rilevanza (sicurezza nazionale, reputazione, ecc.).
Il requisito della necessarietà non può che essere accertato in rapporto alle specifiche modalità con le
quali opera il mezzo espressivo e, per quanto ci riguarda, difetterebbe nel sequestro preventivo del sito
internet, atteso che la tutela della reputazione altrui ben potrebbe essere più adeguatamente assicurata
mediante misure diverse, quali prescrizioni di rettifica o di integrazione del post o articolo diffamatorio
(anche soltanto in via cautelare). Tali misure, invero, garantirebbero una piena corrispondenza funzionale tra la peculiarità offensiva di internet e la idoneità della tutela approntata, giacché all’eternità mediatica dell’offesa si contrapporrebbe l’eternità mediatica della misura riabilitativa. L’astratta configurabilità di tali – meno invasive – misure rende, di conseguenza, meno appropriato (rectius, non necessario) il sequestro.
Il ragionamento qui sinteticamente prospettato è già entrato, seppure ancora timidamente, nelle ma-
37
Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, cit. La stessa espressione si rinviene in Cass., sez. V, 10 gennaio 2011, n. 7155, cit.,
e in Cass., sez. V, 30 ottobre 2013, n. 11895, cit. Lo schema argomentativo utilizzato in queste pronunce, peraltro, non è innovativo, ricalcando perfettamente (e, a tratti, perfino letteralmente) quello utilizzato dalla stessa Cassazione per negare l’estensione
della specifica garanzia negativa apprestata dall’art. 21, comma 3, Cost., alle manifestazioni del pensiero destinate ad essere trasmesse per via televisiva: v. Cass., sez. V, 7 dicembre 2007, n. 7319, cit.
38
Cass., sez. V, 10 gennaio 2011, n. 7155, cit.
39
Così, Cass., sez. V, 30 ottobre 2013, n. 11895, cit., che esplicita il concetto sottolineando che «in casi del genere (...) il vincolo
non incide solamente sul diritto di proprietà del supporto o del mezzo di comunicazione, ma sul diritto di libertà di manifestazione del pensiero (cui si ricollegano l’esercizio dell’attività d’informazione, le notizie di cronaca, le manifestazioni di critica, le denunce civili con qualsiasi mezzo diffuse), che ha dignità pari a quello della libertà individuale e che trova la sua copertura non solo nell’art. 21 Cost., ma anche – in
ambito sovranazionale – nell’art. 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo nonché nell’art. 11 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea».
40
Cfr., Gip Nocera Inferiore, 20 settembre 2010, cit.
DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | SEQUESTRO E INTERNET: UN DIFFICILE BINOMIO TRA “VECCHIE” NORME E “NUOVE” ESIGENZE
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glie della giurisprudenza della Corte di Strasburgo 41 e, ove ulteriormente sviluppato, potrebbe “costringere” la Cassazione a dover scegliere dinanzi al bivio ormai sempre più ricorrente nelle aule romane di piazza Cavour: sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 r.d.lg. n. 561 del 1946,
nella parte in cui, contrastando con l’art. 10 Cedu (poiché, ammettendo in modo generalizzato il sequestro preventivo nei confronti della stampa telematica, limita la “libertà di espressione” con misure non
necessarie), viola l’art. 117 Cost.; oppure interpretare in modo convenzionalmente orientato la norma
citata, così da non ritenerne più l’ambito operativo esclusivamente riservato alla stampa cartacea.
Quale che sia la soluzione prescelta (la prima, probabilmente, sarebbe quella più aderente all’esigenza – già ravvisata – di non travalicare i confini dell’ermeneutica), la speranza è che non si aspetti
così tanto tempo da dover “subire” l’ennesimo “ordine” impartito da Strasburgo 42.
41
Corte e.d.u., sez. IV, 16 luglio 2013, n. 33846, Wegrzynowski e altro c. Polonia, in Guida dir., 2013, n. 40, p. 103, con nota di
C. Melzi d’Eril: «Il ruolo dei tribunali non è quello di riscrivere la storia ordinando la cancellazione di ogni traccia della pubblicazione di un
articolo giudicato diffamatorio. Inoltre, va tenuto presente che l’interesse all’accesso agli archivi della stampa in rete da parte del pubblico è
coperto dall’art. 10 Cedu. Le violazioni dei diritti protetti dall’art. 8 Cedu (in particolare la reputazione) potrebbero essere risarcite da un
commento all’articolo presente nell’archivio telematico, che informi il pubblico del fatto che il processo per diffamazione relativo al contenuto
dell’articolo in questione intentato dal ricorrente si è concluso favorevolmente per quest’ultimo».
42
L’attesa potrebbe essere molto più breve del previsto, atteso che, durante la pubblicazione del presente contributo, è intervenuta un’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite di una duplice questione avente ad oggetto: a) l’ammissibilità del sequestro preventivo, «mediante "oscuramento", anche parziale, di un sito web»; b) «nell’affermativa, se sia ammissibile il sequestro preventivo,
mediante "oscuramento", della pagina web di una testata giornalistica telematica, registrata». L’ordinanza in questione (Cass., sez. I, 30
ottobre 2014, n. 45053, www.avvocatopenalista.org.) muove da una considerazione apertamente critica dell’argomento fin qui utilizzato dalla Cassazione – e, nello specifico, da Cass., sez. V, 5 novembre 2013, n. 10594, cit. – al fine di escludere l’applicazione,
«in via analogica (e in bonam partem), delle guarentigie sulla stampa e, in particolare, delle disposizioni dell’articolo 1 del r.d.lg. 31 maggio 1946, n. 561, alle testate giornalistiche telematiche, debitamente registrate ai sensi dell’articolo 5 della l. 8 febbraio 1948, n. 47». Invero,
l’argomento «della maggiore offensività (rispetto alla stampa) del mezzo informatico» – osserva correttamente l’ordinanza – «costituisce
(...) uno soltanto dei fattori che concorrono a determinare la lesività della condotta diffamatoria o, in generale delittuosa, essendo, al riguardo,
altrettanto rilevanti la effettiva capacità di diffusione del mezzo e la influenza del medesimo sulla pubblica opinione: non è seriamente contestabile che una stessa notizia diffamatoria arreca nocumento ben maggiore, se pubblicata su un giornale popolare con elevatissima tiratura,
letto da milioni di persone, piuttosto che su una testata telematica con pochi utenti o accessi.». Inoltre, «sul piano logico-giuridico, il rilievo
della (supposta) maggiore offensività della condotta non è confacente alla negazione della eadem ratio per la applicazione della guarentigia
della stampa» al prodotto editoriale telematico. Ma v’è di più. L’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite mette, altresì, in discussione il fatto che la vigente disciplina contenuta negli artt. 321 c.p.p. e 104 norme att. «abiliti la polizia giudiziaria, il Pubblico
Ministero, nei casi di urgenza, e il giudice a imporre all’imputato o a terzi privati» l’oscuramento del sito web, cioè «il compimento delle
attività tecniche e materiali occorrenti per impedire agli utenti della rete l’accesso alla pagina web, oggetto di cautela». Sostanzialmente,
anche nel caso in cui si ritenesse ammissibile il sequestro preventivo del prodotto editoriale telematico, nella citata disciplina
codicistica mancherebbe «alcun aggancio positivo che sorregga la pura imposizione (esclusivamente) di obblighi di facere a carico dei destinatari della misura cautelare, senza apprensione di alcuna res, né in senso materiale, né in senso giuridico attraverso la imposizione di un
vincolo di indisponibilità (o di inopponibilità del trasferimento)».
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Analisi e prospettive
Analysis and Prospects
ANALISI E PROSPETTIVE | LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO: ESEGESI DI UNA NORMA IMPERFETTA
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GIANRICO RANALDI
Ricercatore di diritto processuale penale – Università di Cassino
La rescissione del giudicato:
esegesi di una norma imperfetta
Breach of res iudicata: exegesis of an imperfect rule
La rescissione del giudicato è un istituto di nuovo conio, introdotto dall’art. 11 l. 28 aprile 2014, n. 67, in funzione
oggettivamente complementare rispetto ai nuovi “meccanismi” del procedimento in absentia. L’art. 625-ter
c.p.p., che ne costituisce la matrice ed è disposizione contenutisticamente essenziale, lascia irrisolte alcune questioni problematiche che, seppur implicitamente, pone: modulo procedurale, rimedi esperibili contro il diniego,
conseguenze rispetto all’azione risarcitoria che sia stata eventualmente esperita. Ad ogni modo, la rescissione ex
art. 625-ter c.p.p., introduce un ulteriore tassello verso la compiuta apertura del giudicato.
Breach of res iudicata, a new instrument brought by the law n. 67/2014, has a complementary function related to
new mechanisms of trial in absentia. Despite this, art. 625-ter c.p.p., that is matrix for the this new procedural
tool, leaves many problems unresolved: proceeding, remedies to apply against decision of refusal, consequences
related to the damages action previously taken. However, this new legal arrangement, according to art. 625-ter
c.p.p., is a further step to the so-called opening of judgment.
LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO NEL NUOVO “SCENARIO” DEL PROCESSO PENALE
L’istituto della rescissione del giudicato, previsto dall’art. 625-ter c.p.p., è stato inserito nel codice di rito
dall’art. 11, comma 5, della l. 28 aprile 2014, n. 67, rubricata «Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento
con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili» 1.
Segnatamente, la rescissione del giudicato funge da complemento imprescindibile della rinnovata fisiologia disciplinare del procedimento in absentia – che tende ad assicurare l’effettività delle situazioni
giuridiche processuali attive, invece che il rispetto, per così dire, solo “in apparenza” delle garanzie
partecipative al giudizio 2– introducendo una ulteriore ipotesi di apertura del giudicato 3, la cui “concre-
1
Sulla rescissione del giudicato, v. P. Silvestri, Le nuove disposizioni in tema di processo “in assenza” dell’imputato, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, Relazione
predisposta dall’ufficio del Massimario, 5 maggio 2014, in www.cortedicassazione.it; A. De Caro, Processo in absentia e sospensione. Una primissima lettura della legge n. 67 del 2014, in Arch. pen., 2014, 3, p. 24; S. Quattroccolo, Il contumace cede la scena processuale all’assente, mentre l’irreperibile l’abbandona, in www.penalecontemporaneo.it; R. Bricchetti-L. Pistorelli, Processo sospeso se
l’imputato è irrintracciabile, in Guida dir., 2014, 21, p. 104; P. Tonini-C. Conti, Il tramonto della contumacia, l’alba radiosa della sospensione e le nubi dell’assenza consapevole, in Dir. pen. proc., 2014, p. 516; F. Alonzi, Irreperibilità del condannato e sospensione del processo,
www.treccani.it; B. Nacar, Il processo in absentia, tra fonti internazionali, disciplina codicistica e recenti interventi riformatori, Padova,
2014, p. 108; A. Diddi, Novità in materia di impugnazioni e restitutio in integrum, in D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza
dell’imputato, Torino, 2014, p. 224; S. Chimici, Art. 625-ter: la rescissione del giudicato, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura
di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Padova, 2014, p. 321 nonché, volendo, G. Ranaldi, La rescissione del giudicato alle Sezioni
unite “anche al fine di prevenire possibili contrasti giurisprudenziali”, in www.archiviopenale.it.
2
In proposito, tra gli altri, Marcolini, I presupposti del giudizio in assenza, in Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, cit., 141, il quale rileva che l’intuibile ratio della riforma «è un intreccio tra interessi soggettivi dell’imputato ed ogget-
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tizzazione” pone il condannato, ovvero il sottoposto a misura di sicurezza, con sentenza passata in giudicato, nella condizione di esercitare il diritto di difendersi provando, optando, se del caso, per l’accesso ad un procedimento semplificato 4.
Ad ogni modo, la scarna enunciazione normativa ed il carattere inedito dell’istituto impongono il
tentativo di chiarirne presupposti, formalità, modalità applicative ed effetti decisori, tra l’altro, a “margine” di un “autorevole” pronuncia della Suprema Corte 5, che vale quale efficace strumento per la definizione dei confini operativi dell’istituto.
L’ART. 625-TER C.P.P.: CAPISALDI DI UN ISTITUTO DI NUOVO CONIO
I capisaldi della rescissione del giudicato corrispondono con le questioni che l’art. 625-ter c.p.p. affronta
e risolve: impugnabilità oggettiva e soggettiva 6, termine da osservare e regole modali “minime” per
l’utile esperimento dello specifico rimedio giuridico processuale, oggetto della prova e, quindi, descrizione della “materia del contendere” nel giudizio da celebrarsi dinanzi alla Corte di cassazione.
Sotto il primo profilo, sono legittimati all’introduzione del rimedio il condannato ed il sottoposto a misu-
tivi del sistema». Durante la XVI legislatura, nell’aula della Camera, in sede di discussione sulle linee generali del disegno di
legge n. 5019-bis-A (il cui testo sarebbe poi stato trasfuso, con modificazioni, in altro progetto di legge nel corso della XVIII legislatura, per essere finalmente approvato appunto come legge n. 67 del 2014), l’on. Paolini (…) afferma di condividere la filosofia
sottesa all’istituto della sospensione del processo per gli irreperibili, perché «chiunque ha una minima esperienza penale sa che
è desolante vedere processi a fantasmi che si concludono con sentenze a fantasmi che non verranno mai applicate. Evitando di
celebrare processi ritenuti inutili, si liberano risorse per celebrare la mole di tutti gli altri. In tal modo, inoltre, il diritto degli imputati a partecipare al proprio processo viene indubbiamente tutelato: coloro che, infatti, per qualunque ragione cessavano di
essere “fantasmi” e si trovavano spesso alle prese con un titolo esecutivo formato a loro insaputa, erano costretti ad attivare il
rimedio della restituzione nel termine ex art. 175, comma 2, c.p.p.: rimedio pur sempre costoso per la giustizia, ma sovente non
appagante neppure per i richiedenti, specie per le limitazioni al diritto alla prova opponibili in grado di appello».
3
In proposito, da ultimo, v. Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, in www.archiviopenale.it, che ha sottolineato che
«nell’attuale sistema è prevista una nutrita serie di poteri del giudice dell’esecuzione più o meno incidenti sul giudicato, che la
dottrina ha classificato come selettivi (art. 669 cod. proc. pen.), risolutivi (art. 673 cod. proc. pen.), di conversione (art. 2, comma
terzo, cod. pen.), modificativi (artt. 672, 676 cod. proc. pen.), ricostruttivi (art. 671 cod. proc. pen. e 188 disp. att. cod. proc. pen.),
complementari e supplenti (art. 674 cod. proc. pen.). Dal contenuto di tali disposizioni emerge con tutta evidenza
l’insostenibilità della vecchia concezione circa la natura secondaria e accessoria della fase esecutiva che, grazie alle nuove attribuzioni del giudice e alla giurisdizionalizzazione del procedimento, ha acquistato una dimensione centrale e complementare a
quella fase di cognizione, concorrendo, come è stato notato, al “completamento funzionale del sistema processuale”; inoltre,
all’abbandono della concezione tradizionale del giudicato ed alla doverosa opzione in favore delle esigenze di giustizia rispetto
a quelle formali dell’intangibilità del giudicato e della certezza del giudicato «hanno dato il loro contributo, sia pure con tempi e
intensità diversi, la dottrina giuridica e la giurisprudenza costituzionale e ordinaria, ma soprattutto (…) lo stesso legislatore, che
ha previsto istituti revocatori volti a porre rimedio a patologie intervenute nel processo conclusosi con sentenza irrevocabile
(artt. 629-647 c.p.p.; revisione; art. 625-bis c.p.p.: ricorso straordinario per errore materiale o di fatto; art. 625-ter c.p.p.: rescissione del giudicato) ovvero consentire l’esercizio di poteri da parte del giudice dell’esecuzione anche incidenti sul giudicato (artt.
667-668 c.p.p. relativamente al dubbio sull’identità fisica della persona detenuta o a persona condannata per errore di nome; art.
669 c.p.p. per l’ipotesi di pluralità di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona». Per un commento a prima lettura
della specifica pronuncia, G. Romeo, Le Sezioni unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione della pena incostituzionale, in
www.penalecontemporaneo.it.
4
A. Diddi, Novità in materia di impugnazioni e di restitutio in integrum, cit., p. 224, afferma che «la richiesta di rescissione, oltre a rappresentare il nuovo rimedio interno cui il condannato che ritenga di aver subìto un processo in absentia in violazione
dell’art. 6 della Cedu dovrà servirsi, prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo, a ben vedere, si pone oggi anche quale strumento a disposizione del condannato, in luogo della revisione del processo, al fine di ottenere l’integrale restitutio in pristinum in
conseguenza della violazione del diritto di partecipazione al processo riconosciuta dalla medesima Corte».
5
Sul punto, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, in www.archiviopenale.it, secondo cui, per un verso «La richiesta finalizzata alla rescissione del giudicato, di cui all’art. 625-ter cod. proc. pen., che per la sua natura di mezzo di impugnazione deve
essere depositata nella cancelleria del giudice di merito la cui sentenza è stata posta in esecuzione con allegazione dei documenti a sostegno, e che è esaminata dalla Corte di cassazione secondo la procedura camerale di cui all’art. 611 cod. proc. pen., si applica solo ai procedimenti nei quali è stata dichiarata l’assenza dell’imputato a norma dell’art. 420-bis cod. proc. pen., come modificato dalla legge 28 aprile 2014, n. 67» e, per un altro verso «ai procedimenti contumaciali trattati secondo la normativa antecedente alla entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, continua ad applicarsi la disciplina della restituzione nel termine
per proporre impugnazione dettata dall’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. nel testo previgente».
6
Il riferimento alla categoria dell’impugnabilità è compiuto assecondando un’impostazione convenzionale e, quindi, senza
voler in alcun modo definire le caratteristiche intrinseche del relativo rimedio giuridico processuale.
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ra di sicurezza nei cui confronti si è proceduto in assenza per tutta la durata del processo, qualora la sentenza sia passata in giudicato; per conseguenza, la rescissione può essere chiesta rispetto ad una sentenza pronunciata in giudizio contro la quale non sia ammessa impugnazione diversa dalla revisione (art. 648 c.p.p.).
Sennonché, ad onta dei toni della disposizione – che fa riferimento genericamente al condannato o al
sottoposto a misura di sicurezza con sentenza passata in giudicato che sia rimasto assente per tutta la durata del processo – non è a discutersi che l’utile esperimento dello specifico rimedio revocatorio possa avvenire nell’ipotesi di cui all’art. 420-bis, comma 2, c.p.p. (id est, qualora si sia proceduto in assenza dell’imputato, che ha avuto conoscenza certa del procedimento e conoscenza solo presunta del processo).
Vale a dire.
La rinnovata disciplina dell’assenza dell’imputato è stata articolata essenzialmente intorno a tre ipotesi, a cui corrispondono altrettante situazioni operative 7: infatti, nel caso di conoscenza certa dell’udienza preliminare da parte dell’imputato, il quale ha ricevuto personalmente la notifica dell’avviso di
fissazione dell’udienza ovvero ha espressamente rinunciato a comparirvi, la sua mancata partecipazione personale al processo non costituisce fattore preclusivo alla celebrazione di esso (c.d. conoscenza
qualificata) 8; invece, nel caso di conoscenza presunta dell’udienza ad opera dell’imputato derivante
dalla conoscenza certa del procedimento (art. 420-bis, comma 2, c.p.p.), il processo verrà celebrato in sua
assenza, ma con la previsione di rimedi ripristinatori per l’imputato ed il condannato che provi
l’incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo ovvero di non avervi potuto partecipare per l’assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento (c.d. conoscenza non qualificata); qualora, invece, non solo l’imputato sia assente all’udienza e
non abbia addotto alcun impedimento a comparire, ma anche manchino elementi alla cui stregua possa
ritenersi che egli avesse contezza della pendenza del processo o del procedimento (art. 420-quater
c.p.p.), il giudizio andrà sospeso al fine di scongiurare il compimento di attività inutili poiché “ineffettive” sotto il profilo difensivo 9.
In chiave di sintesi estrema: nel caso di conoscenza plena da parte dell’imputato della celebrazione
del processo, esso prosegue in sua assenza e con la rappresentanza del difensore; nel caso di conoscenza presunta ovvero semiplena del processo dovuta alla conoscenza certa del procedimento per avere
l’imputato eletto domicilio, essere stato arrestato o fermato, o per avere nominato un difensore di fiducia 10, il processo prosegue in assenza dell’imputato, il quale però è ammesso a provare di non avere
avuto conoscenza della celebrazione del processo – pur avendo avuto conoscenza del procedimento–
ovvero di non aver partecipato ad esso poiché assolutamente impossibilitato a comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento; in tale seconda ipotesi, l’imputato potrà avvalersi
dei nuovi rimedi restitutorio (art. 420-bis, comma 4, secondo periodo, e 489, comma 2, c.p.p.) e demolitorio (artt. 604, comma 5-bis, secondo periodo, e 625-ter c.p.p.) contemplati dal codice di rito 11 al fine di
esercitare il proprio diritto di difendersi provando, a seconda dei casi, dinanzi al giudice di primo o di
secondo grado, anche optando per la definizione del processo secondo le modalità semplificate di cui
agli artt. 438 e 444 c.p.p. 12.
7
L’articolazione della nuova disciplina in tre ipotesi è affermata nella relazione compiuta dal deputato Donatella Ferranti –
il cui testo integrale è allegato al resoconto stenografico dell’Assemblea (Camera dei deputati – XVI legislatura), seduta n. 707 di
martedì 23 ottobre 2012, p. 63 ss., in www.camera.it – in sede di discussione sulle linee generali del disegno di legge n. 5019-bis-A
della XVI legislatura, replicata quasi integralmente in sede di discussione sulle linee generali del testo unificato delle proposte
di legge nn. 331-927-A della XVII legislatura. In tema, A. De Caro, Processo in absentia e sospensione. Una primissima lettura della
legge n. 67 del 2014, cit., p. 14 ss.
8
Nelle ipotesi di specie, non è a discutersi che la mancata comparizione dell’imputato, che nemmeno adduca un impedimento, sia frutto di una scelta libera e consapevole, tanto che egli non potrà, poi, lamentare la sua incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo, che rappresenta il presupposto comune ai nuovi rimedi restitutorio (art. 420-bis, comma
4, secondo periodo, e 489, comma 2, c.p.p.) e demolitorio (artt. 604, comma 5-bis, secondo periodo, e 625-ter, c.p.p.). In tal senso,
in maniera condivisibile, S. Marcolini, I presupposti del giudizio in assenza, in D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, cit., p. 145.
9
S. Marcolini, I presupposti del giudizio in assenza, in D. Vigoni (a cura di), Il giudizio in assenza dell’imputato, cit., p. 144.
10
Ai “fatti sintomatici” indicati nel corpo del testo, l’art. 420-bis, comma 2, c.p.p. aggiunge una ipotesi, per così dire, di chiusura corrispondente con il caso in cui «risulti comunque con certezza» che l’imputato «è a conoscenza del procedimento o si è
volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo».
11
A. Diddi, Novità in materia di impugnazioni e di restitutio in integrum, cit., p. 218.
12
Il riferimento è al disposto combinato degli artt. 420-bis, comma 4, 604, comma 5-bis, 625-ter c.p.p.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO: ESEGESI DI UNA NORMA IMPERFETTA
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Sotto il secondo profilo, invece, la richiesta di rescissione va presentata, a pena di inammissibilità,
personalmente dall’interessato – ovvero tramite un difensore munito di procura speciale autenticata
nelle forme dell’art. 583, comma 3, c.p.p. 13 – entro trenta giorni dal momento dell’avvenuta conoscenza
del procedimento 14.
Sotto il terzo profilo, la Corte di cassazione può rescindere il giudicato, revocando la sentenza e disponendo la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, quando il richiedente «provi che l’assenza è
stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo» 15.
LE “QUESTIONI APERTE” (ID EST, CIÒ CHE L’ART. 625-TER C.P.P. NON DICE)
L’art. 625-ter c.p.p. – che è disposizione contenutisticamente essenziale – non individua il modello
procedurale alla cui stregua la Corte di cassazione è chiamata a risolvere la questione di “merito esecutivo” azionabile tramite lo specifico rimedio 16.
Inoltre, la norma de qua non riconosce alla Corte di cassazione – in maniera all’evidenza distonica rispetto ai casi analoghi 17– il potere di sospendere gli effetti del giudicato di condanna, neppure nei casi
di eccezionale gravità e non prevede quali conseguenze produca – rispetto all’eventuale statuizione risarcitoria “contenuta” nel giudicato rescisso– l’accoglimento della richiesta revocatoria; s’aggiunga, poi,
che l’art. 625-ter c.p.p. non individua l’azionabilità di alcun rimedio avverso il possibile diniego della
richiesta di rescissione del giudicato.
Last but not least, la norma di specie non contempla alcuna disciplina transitoria, tanto che un tema
che s’è imposto “a prima lettura” è proprio quello dell’individuazione di quale dovesse essere il “giusto
calibro” per contemperare adeguatamente il principio del tempus regit actum – che vale in materia processuale e trova eco nell’art. 11 disp. prel. c.c.– con le tematiche valoriali ed assiologiche sottese
all’abolizione della contumacia, alla ridefinizione dei contorni del processo in absentia ed all’opzione
compiuta per l’effettività del diritto di difendersi provando, che trova riscontro, in generale, nei contenuti rinnovati – per l’appunto, alla stregua delle disposizioni della legge 28 aprile 2014, n. 67– degli artt.
489, 604, 623 c.p.p. ed, in particolare, nel rimedio passepartout introdotto dall’art. 625-ter c.p.p. 18.
13
L’art. 583 c.p.p. – rubricato «Spedizione dell’atto di impugnazione» – prevede al comma 3 che nel caso in cui l’impugnazione sia presentata direttamente dalla parte privata la sottoscrizione dell’atto debba essere autenticata da un notaio, da altra persona autorizzata o dal difensore; l’autenticazione della richiesta di rescissione potrà essere effettuata, ai sensi dell’art. 39
disp. att. c.p.p. «dal funzionario di cancelleria, dal notaio, dal difensore, dal sindaco, dal segretario comunale, dal giudice di pace, dal presidente del consiglio dell’ordine forense o da un consigliere da lui delegato».
14
In tema, v. S. Quattroccolo, Il contumace cede la scena processuale all’assente, mentre l’irreperibile l’abbandona, cit., la quale sottolinea
che «sarebbe stato più agevole, ai fini del computo del termine di trenta giorni, individuare come fenomeno rilevante per il dies a quo
la conoscenza del provvedimento irrevocabile di condanna o di applicazione della misura di sicurezza, piuttosto che del procedimento, posto che la conoscenza del secondo parrebbe derivare, in queste situazioni, necessariamente dalla conoscenza del primo».
15
Sul punto, tra gli altri, v. B. Nacar, Il processo in absentia, tra fonti internazionali, disciplina codicistica e recenti interventi riformatori, cit., p. 113, la quale rileva che «la prova della incolpevole ignoranza della celebrazione del processo, non facile, deve essere fornita dall’interessato. Siffatta condizione, tuttavia, non sembra soddisfare le direttive di matrice europeista che impongono l’automaticità nell’accesso al meccanismo restitutorio per la sola circostanza che l’imputato al proprio processo; senza
l’onere, pertanto, di dimostrare che ciò non sia addebitabile nemmeno a titolo di colpa. Invero, le uniche cause ostative previste
dalle fonti convenzionali attengono all’evenienza in cui l’imputato, dopo aver preso cognizione della vocatio in iudicium, abbia
volontariamente deciso di non presenziare ovvero si sia deliberatamente sottratto alla conoscenza del processo».
16
In proposito, per le condivisibili considerazioni circa la natura esecutiva dell’incidente camerale ex art. 625-ter c.p.p., B.
Nacar, Il processo in absentia, tra fonti internazionali, disciplina codicistica e recenti interventi riformatori, cit., p. 109, la quale rileva
che «le ragioni per le quali l’istituto in esame avrebbe dovuto essere collocato, più correttamente, nell’ambito delle disposizioni
che disciplinano il procedimento di esecuzione” stanno in ciò che “il potere di revocazione del giudicato, invero, appartiene fisiologicamente a quel giudice, ai sensi dell’art. 670 c.p.p., e proprio nelle ipotesi in cui, per qualche ragione, la esecutività del
titolo deve essere rivalutata. Difatti, il giudice dell’esecuzione non solo interviene in una fase in cui il processo oramai si è concluso con sentenza divenuta irrevocabile, ma è lo stesso legislatore a conferirgli il potere-dovere di sindacare la validità e la esecutività del titolo anche sotto il profilo di merito e non solo di legittimità. Nella formulazione dell’art. 670 c.p.p., che non è stata
modificata dalla riforma del 2014, il giudice dell’esecuzione è funzionalmente competente a valutare la correttezza della procedura che ha portato ad emettere una pronuncia in assenza del condannato (commi 1 e 3 dell’art. 670 c.p.p.)».
17
Il riferimento è, perlomeno, agli artt. 625-bis, comma 2, 635, 670, comma 1, c.p.p.
18
In proposito, volendo, tra gli altri, G. Ranaldi, La rescissione del giudicato alle Sezioni unite “anche al fine di prevenire possibili
contrasti giurisprudenziali”, cit.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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(SEGUE): LE “SOLUZIONI POSSIBILI” INDIVIDUATE DALLA GIURISPRUDENZA, TRA QUALIFICAZIONI DI SISTEMA E MODULO PROCEDURALE
Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno affrontato alcune questioni controverse emergenti dalla stringata “dizione normativa” dell’art. 625-ter c.p.p. 19, pervenendo all’individuazione di soluzioni in
parte condivisibili.
Risulta, a ben vedere, secundum tenorem rationis il principio che la rescissione del giudicato debba trovare applicazione ai procedimenti nei quali sia stata dichiarata l’assenza dell’imputato a norma dell’art.
420-bis c.p.p., come modificato dalla l. 28 aprile 2014, n. 67, mentre, invece, ai procedimenti contumaciali
definiti secondo la normativa antecedente all’entrata in vigore della legge indicata, deve continuare ad
applicarsi la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione dettata dall’art. 175,
comma 2, c.p.p. nel testo previgente: infatti, non è a discutersi che corrisponda «alla comune riflessione
giuridica l’assunto per cui, dovendosi distinguere la sfera di vigenza delle disposizioni dalla sfera di efficacia (vale a dire, di applicabilità) delle norme, il fenomeno abrogativo, in mancanza di espresse previsioni in senso diverso – ascrivibili alla ipotesi della abrogazione c.d. retroattiva– non importa la cessazione
dell’efficacia delle norme abrogate ma soltanto la loro incapacità di regolare situazioni nuove» 20.
Parimenti, è condivisibile la statuizione che la sospensione provvisoria dell’esecuzione possa essere
disposta, al pari di quanto previsto dall’art. 625-bis, comma 2, secondo periodo, c.p.p., per i «casi di eccezionale gravità»: infatti, il mero rilievo che una simile possibilità non sia contemplata dall’art. 625-ter
c.p.p. «non può condurre ad escluderla, a pena di determinare il rischio di evidenti lesioni di aspettative del richiedente, incidenti sulla libertà personale, che appaiono prima facie fondate», tanto che risulta
ineludibile una interpretazione “di sistema” che sia basata sui casi che presentano una «analoga ratio:
oltre all’art. 625-bis, prevedono infatti la possibilità di una sospensione della esecuzione gli artt. 666,
comma 7, e 670, comma 2, cod. proc. pen.» 21.
Desta ragionate perplessità, invece, non solo aver annoverato la rescissione del giudicato tra i mezzi
di impugnazione straordinari – al pari della revisione e del ricorso straordinario per errore di fatto 22
(tanto che la richiesta di rescissione, con allegazione dei documenti a sostegno, deve essere depositata
nella cancelleria del giudice di merito la cui sentenza è stata posta in esecuzione) 23-, ma anche aver sancito che la domanda di rescissione 24 debba essere esaminata dalla Corte di cassazione secondo la pro-
19
Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit. Per un commento “a prima lettura” della decisione, v. R. Bricchetti, Per i giudizi in contumacia anteriori alla riforma vale la disciplina della restituzione nel termine, in Guida dir., 2014, 40, p. 24.
20
Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit. D’altronde, la specifica opzione ermeneutica, per così dire, “sfavorevole” a
rendere retroattive le nuove regole in tema di processo in absentia, è confortata dalla scelta compiuta dal legislatore con la l. 11
agosto 2014, n. 118, rubricata “Norme per l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili”.
21
Così, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit.
22
Sul punto, ancora, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit. secondo cui non sussisterebbero «dubbi circa la natura
del mezzo di impugnazione (straordinario) della richiesta in esame, dato che con essa – non diversamente da altro mezzo di
impugnazione straordinario attivato tramite la formalità di una richiesta, quello della revisione ex art. 630 cod. proc. pen. – è
proseguito l’obiettivo del travolgimento dl giudicato e – in questo caso – l’instaurazione ab initio del processo».
23
In proposito, ancora, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit., secondo cui «in assenza di una specifica indicazione
normativa al riguardo, potrebbe pensarsi che la richiesta debba appunto essere depositata in Corte di cassazione (al pari di
quanto previsto per il ricorso straordinario per errore di fatto ex art. 625-bis, comma 2, cod. proc. pen.). Tuttavia, nonostante si
verta qui in una procedura che trae formalmente impulso da una richiesta diretta alla Corte di cassazione, a ben vedere deve
ritenersi che sia applicabile (come sostenuto dai primi commentatori) l’art. 582 cod. proc. pen., che fa riferimento come luogo di
presentazione alla “cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato”, da intendere in questo caso come “cancelleria del giudice la cui sentenza è stata posta in esecuzione”. Il richiamo alle regole generali concernenti la presentazione delle
impugnazioni appare infatti avvalorato dal riferimento fatto nel comma 2 dell’art. 625-ter all’art. 583, comma 3, cod. proc. pen.,
sia pure ai fini della formalità dell’autenticazione della sottoscrizione dell’atto».
24
Va detto che il legislatore non ha disposto nulla in merito ad eventuali preclusioni in cui dovesse incorrere il condannato
assente qualora le impugnazioni durante il processo di cognizione siano state proposte dal suo difensore; in proposito, stante
l’identità di ratio, deve ritenersi applicabile la soluzione che, nel vigore del precedente sistema dell’impugnazione, era derivata,
con riferimento all’istituto della restituzione nel termine per impugnare, da C. cost., sent. 4 dicembre 2009, n. 317, in Giur. cost.,
2009, p. 4747 – con nota di G. Ubertis, Sistema multilivello dei diritti fondamentali e prospettiva abolizionista del giudizio contumaciale –
che aveva dichiarato illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui non consente la restituzione
dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre im ANALISI E PROSPETTIVE | LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO: ESEGESI DI UNA NORMA IMPERFETTA
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128
cedura camerale non partecipata di cui all’art. 611 c.p.p. 25.
Sotto il primo aspetto, ad onta della collocazione topografica della disposizione de qua nel Titolo III
(«Ricorso per cassazione») del Libro IX («Impugnazioni») del codice di procedura penale, l’ubi consistam
dello specifico rimedio – che vale quale strumento utilmente azionabile per consentire al condannato di
recuperare la possibilità di difendersi provando nel corso del processo a cui, ingiustamente, non poté
partecipare – non è quello tipico dei mezzi di impugnazione, bensì quello proprio dell’incidente di esecuzione.
Infatti, i mezzi di impugnazione tendono, non solo alla rimozione della decisione ingiusta, ma soprattutto alla sostituzione di essa con quella che sarebbe stata adottata qualora non fosse commesso il
denunciato error in iudicando ovvero in procedendo 26; pertanto, posto che la rescissione del giudicato determina «la revoca della sentenza» e la «trasmissione degli atti al giudice di primo grado» (e non, quindi, la sostituzione della pronunciata revocata) 27 – laddove l’imputato potrà articolare le proprie richieste di prova, contribuire all’andamento del procedimento probatorio e, se del caso, chiedere di accedere
ad uno dei procedimenti semplificati di cui agli artt. 438 ss. c.p.p. ovvero 444 ss. c.p.p.– l’incidente rescissorio si presenta funzionalmente analogo, anche nella diversità delle conseguenze, rispetto all’istanza di restituzione nel termine che poteva essere avanzata, e può essere ancora inoltrata (seppur alla
stregua delle indicazioni “temporali” rese dalla Corte), rispetto alle sentenze contumaciali dal condannato esecutato, per l’appunto, valendosi del rimedio esecutivo di cui all’art. 670 c.p.p. 28.
pugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato».
25
Così, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit.
26
In tal senso, v. Cass., sez. un., 27 marzo 2002, n. 16104, in Cass. pen., 2002, p. 2621, secondo cui «l’art. 625-bis c.p.p. regola
due distinti istituti: l’uno è costituito dal ricorso per la correzione degli errori materiali presenti nel teso dei provvedimenti della
Corte di cassazione; l’altro corrisponde al ricorso per l’eliminazione degli errori di fatto che hanno influito sul processo formativo della volontà ed ha la finalità di rimuovere la decisione e di sostituirla con quella che sarebbe stata deliberata senza quegli
errori. Il ricorso straordinario per errore di fatto ha, dunque, la funzione tipica di una impugnazione in senso tecnico, come è
confermato dalla circostanza che il comma 4 dell’art. 625-bis nel disporre che la Corte, «se accoglie la richiesta, adotta i provvedimenti necessari per correggere l’errore”, prefigura – all’esito della procedura camerale partecipata di cui all’art. 127 c.p.p. –
rimedi flessibili ed adattabili alle diverse situazioni, che permettono l’immediata pronuncia della nuova decisione, in luogo di
quella viziata dall’errore di fatto, ovvero, se necessario, la sola caducazione di questa e la celebrazione del nuovo giudizio nelle
forme dell’udienza pubblica o della camera di consiglio (…). In ogni caso, benché l’art. 625-bis si limita a parlare di “correzione”,
l’accoglimento del ricorso comporta una nuova decisione che sostituisce quella precedente. Dalle precedenti riflessioni si evince
che soltanto il ricorso straordinario per errore di fatto ha natura di vero e proprio mezzo di impugnazione, mentre il ricorso relativo all’errore materiale rappresenta null’altro che uno strumento di correzione, speciale rispetto a quella prevista dall’art. 130
c.p.p., senza alcuna incidenza sul contenuto della decisione e con funzione di mera rettifica della forma espressiva della volontà
del giudice”.
27
Per ciò che concerne i caratteri distintivi delle impugnazioni, nell’ambito dei rimedi giuridici processuali, tra gli altri, v. G.
Tranchina, Impugnazioni (dir. proc. pen.), in Enc. dir., XX, 1970, p. 746, secondo cui «se una proficua differenziazioni si vuol fare
– e l’utilità sta nell’esigenza di natura sistematica, che fenomeni omogenei non vengano accomunati sotto una stessa etichetta –
la si deve basare sulla finalità di diversi istituti e includere quelli ai quali tale finalità fa da comune denominatore entro un’unica
categoria cui si possa, per comodità di individuazione, attribuire una nomenclatura convenzionale, possibilmente quella che,
rimanendo aderente al linguaggio del legislatore, eviti, anche sul piano terminologico, fastidiose complicazioni. Sulla base di
ciò, riteniamo che qualunque istituto che si concretizzi nella denunzia di un ingiusto provvedimento del giudice o, talora, del
pubblico ministero, possa essere inquadrato tra i mezzi di impugnazione, ancorché non venga così definito espressamente dal
codice di procedura penale, la cui sistematica in materia appare, peraltro, ispirata a criteri decisamente criticabili». In tal senso,
C.U. Dal Pozzo, Le impugnazioni penali, Padova, 1951, p. 66 ss.
28
In termini analoghi, A. De Caro, Processo in absentia e sospensione. Una primissima lettura della legge n. 67 del 2014, cit., p. 24;
B. Nacar, Il processo in absentia, tra fonti internazionali, disciplina codicistica e recenti interventi riformatori, cit., 109. In tema, tra gli
altri, v. S. Chimici, Art. 625-ter: la rescissione del giudicato, cit., p. 328, la quale inquadra la rescissione del giudicato nel novero dei
mezzi di impugnazione straordinari, segnalandone, però, le intrinseche specificità e differenze rispetto alla revisione ed al ricorso straordinario per errore di fatto. In particolare, sottolinea che «La rescissione del giudicato (…) si pone quale nuova impugnazione di tipo straordinario, in quanto esperibile nei confronti delle sentenze irrevocabili di condanna, o con le quali si sia
comunque applicata una misura di sicurezza. In questo contesto la rescissione presenta peculiarità che la caratterizzano quale
strumento principe della garanzia ex post del diritto dell’imputato a partecipare all’udienza penale. (…) Proprio per questo motivo, a differenza dei casi tradizionali di revisione e del ricorso straordinario, essa non è ancorata all’esito favorevole per
l’imputato dell’esperimento del mezzo; per quanto si tratti di mezzo riservato al condannato (o al soggetto cui sia stata applicata
una misura di sicurezza), la conclusione del processo potrà essere anche deteriore rispetto alla precedente, purché scaturisca da
un processo in cui sia stata adeguatamente garantita la possibilità di partecipazione dell’imputato. La rescissione del giudicato,
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Sotto il secondo aspetto, aver sancito che la domanda di rescissione sia esaminata nella camera non
partecipata ai sensi dell’art. 611 c.p.p. rende non prescindibile far cenno ad una sintetica riflessione ricostruttiva, che conduce ad esiti divergenti 29.
In proposito, occorre muovere dai seguenti punti fermi: nella disciplina della rescissione del giudicato, a differenza di quanto previsto per il ricorso straordinario per errore di fatto (art. 625-bis c.p.p.), non
v’è alcun riferimento alla procedura da seguire davanti alla Corte di cassazione; la Corte di cassazione,
pertanto, potrebbe decidere de plano (senza acquisire il parere del procuratore Generale) ovvero in camera di consiglio non partecipata (art. 611 c.p.p.) ovvero in camera di consiglio partecipata (art. 127
c.p.p.) ovvero ancora in udienza pubblica (artt. 610, 614 c.p.p.); la Corte di cassazione procede in camera
di consiglio, «oltre che nei casi particolarmente previsti dalla legge», ogni qualvolta «deve decidere su
ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell’art. 442» (art. 611 c.p.p.) 30.
pertanto, non si colloca in una prospettiva di giustizia sostanziale, come la revisione, né di favor rei, come il ricorso straordinario, bensì di equità del processo e ne sancisce la prevalenza rispetto alla mera esigenza certezza. I presupposti che legittimano la
richiesta di rescissione, dunque, non sono individuati sulla base di un elenco tassativo di casi, ma sono ancorati alla violazione
del diritto a partecipare al procedimento. La peculiarità che la distingue dagli altri mezzi di impugnazione consiste nel fatto che
la rescissione, in quanto finalizzata alla tutela di una conoscenza effettiva e non meramente presunta, può essere esperita anche
qualora le norme siano state correttamente applicate, ma resti uno scarto tra la presunzione di conoscenza e la conoscenza effettiva. Tuttavia, poiché trattasi della tutela di un diritto, essa incontra il proprio limite naturale nel corretto esercizio del medesimo, onde evitare una incondizionata ed ingiustificata disponibilità privata dell’amministrazione della giustizia. Pertanto la tutela si arresta di fronte all’esistenza di profili di colpevolezza del titolare del diritto stesso, onerandolo della dimostrazione del
contrario. L’obiettivo di garanzia effettiva del suddetto diritto impone, in caso di accoglimento, la regressione al primo grado,
attribuendo quindi ulteriori caratteristiche assolutamente peculiari al mezzo di impugnazione in questione e giustificando
l’utilizzo del termine rescissione, lasciando intendere la necessità che, una volta accertata la lesione, si svolga un successivo giudizio rescissorio, al fine di consentire la celebrazione di un nuovo processo in cui l’imputato possa esercitare appieno il proprio
diritto di difesa, che era stato limitato in quello celebrato in sua assenza. Siffatta duplicità di fasi non è prevista con riguardo agli
altri mezzi di impugnazione straordinaria. Con riferimento al giudizio di revisione, il codice del 1988 non prevede più la doppia
fase, rescindente e rescissoria, che invece caratterizzava il procedimento nel precedente assetto normativo. Non vi è più una fase
volta alla caducazione del provvedimento impugnato (fase rescindente), seguita da una fase successiva (fase rescissoria), in cui
viene emesso un nuovo provvedimento destinato a sostituirsi al primo. È improprio distinguere una fase rescindente ed una
fase rescissoria, non essendo più previsto uno stadio della procedura che si concluda con la revoca o l’annullamento della precedente sentenza. L’art. 634 c.p.p. prevede una fase preliminare di delibazione, ma essa consiste soltanto in una valutazione attinente al piano della ammissibilità della richiesta. Lo schema di delibazione e giudizio è previsto anche per il ricorso straordinario ai sensi del comma 4 dell’art. 625-bis c.p.p.».
29
In tema, G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali, Milano, 1994, p. 213.
30
Al riguardo, tra le altre, v. Cass., sez. un., 30 ottobre 2008, n. 9857, in Cass. pen., 2009, p. 3326, ove si legge che «nella disciplina codicistica si intersecano, variamente atteggiandosi, il modello camerale tipico delineato dall’art. 127 cod. proc. pen. per le
fasi procedimentali di merito, il modello camerale tipico previsto per le decisioni della Corte di Cassazione su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento» (art. 611 c.p.p.), e taluni schemi procedimentali atipici». Al riguardo le Sezioni
Unite hanno avuto modo di occuparsi ripetutamente della materia, pervenendo all’individuazione di una possibile classificazione definitoria, sotto il profilo strutturale, a seconda del differente grado di garanzia del contraddittorio che è assicurato
nell’ambito dei vari modelli. La sentenza n. 26156 del 28 maggio 2003 (rv 224612) ha sottolineato che «si atteggiano variamente,
oltre il modello camerale tipico delineato dall’art. 127, schemi procedimentali atipici, a seconda del differente grado di garanzia
del contraddittorio che in essi è assicurato, potendo invero identificarsi nel codice di rito, dal punto di vista strutturale: – norme
nelle quali il riferimento al procedimento in camera di consiglio è rafforzato dall’espresso richiamo delle forme dell’art. 127 (altre volte l’espressione usata è a norma dell’art. 127: v. art. 32, comma 1, art. 41, comma 3, art. 48, comma 1, art. 130, comma 2,
art. 263, art. 269, comma 2, art. 309, comma 8, art. 310, comma 2, art. 311, comma 5, art. 324, comma 6, art. 406, comma 5, art. 409,
comma 2, art. 428, comma 3, art. 435, comma 3, art. 599, comma 1, art. 625-bis, comma 4, art. 646, comma 1, art. 734, comma 1,
art. 743, comma 2) ovvero, pur non essendo seguito da analogo rinvio (art. 600, comma 1, art. 704, comma 2, art. 718, comma 1),
neppure è connotato da formule derogatorie del contraddittorio eventuale, che autorizzano il giudice a deliberare senza
l’osservanza di alcuna formalità; – norme che, pur facendo riferimento al procedimento in camera di consiglio, prevedono, viceversa, la specifica deroga all’osservanza delle forme di cui all’art. 127 c.p.p. (art. 624, comma 3); – norme che non prescrivono la
procedura in camera di consiglio, né le forme dell’art. 127 e neppure il generico obbligo di sentire le parti (cfr., in tema di applicazione e di estinzione delle misure cautelari personali, l’art. 292, comma 1, art. 299, comma 3 e art. 306, comma 1: il giudice dispone con ordinanza), sì da ritenersi tacitamente autorizzata la deliberazione de plano, ovvero prevedono espressamente
l’omessa integrazione del contraddittorio e l’adozione del provvedimento de plano mediante le perifrasi senza formalità di procedura, senza ritardo, anche d’ufficio (art. 36, comma 3, art. 41, comma 1, art. 127, comma 9, art. 591, comma 2, art. 625-bis,
comma 4); – norme, infine, che semplificano il contraddittorio camerale secondo forme più deboli, anche se non necessariamente cartolari, rispetto a quelle previste dall’art. 127 (art. 304, comma 3, art. 305, comma 2, art. 406, comma 4 e, precipuamente, art.
611, comma 1 per il procedimento camerale in Corte di Cassazione), ovvero lo rafforzano mediante la prescritta partecipazione
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Ed ecco il punto.
Infatti, non è a discutersi che la domanda presentata ai sensi dell’art. 625-ter c.p.p. tenda alla rescissione del giudicato e che la legittimazione sia stata riconosciuta in favore del condannato o del sottoposto a misura di sicurezza «con sentenza passata in giudicato», qualora dimostri che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo; per conseguenza, la richiesta ex art. 625-ter c.p.p. riguarda una sentenza passata in giudicato pronunciata nel dibattimento,
per l’appunto, all’esito di un processo tenutosi erroneamente in absentia, tanto che la Corte potrebbe decidere in pubblica udienza 31 secondo le cadenze rituali poste dai commi 3 e 5 dell’art. 610 c.p.p. 32.
Sennonché, a fronte del silenzio del legislatore circa il modulo procedimentale di riferimento, è lecito
ritenere – tenuto conto delle caratteristiche e del target funzionale perseguito con l’incidente ex art. 625ter c.p.p. – che le prescrizioni di metodo ermeneutico poste dall’art. 12 disp. prel. c.c. consentano di individuare una soluzione terza, alla stregua – per l’appunto– delle indicazioni che promano dall’esame
di casi simili: il riferimento, all’evidenza, è alle ipotesi in cui la Corte di cassazione, analogamente al caso di specie, debba dar soluzione alla questione deferita raccogliendo ed esaminando atti ed “elementi”
ulteriori 33 rispetto alla copia del provvedimento impugnato, all’atto di impugnazione ed alle memorie,
decidendo all’esito di un’udienza camerale “rinforzata” 34 – se del caso– «dopo aver assunto, se necessario, le opportune informazioni» (art. 48 c.p.p.) ovvero «le informazioni» ed acquisiti «gli atti e i documenti che ritiene necessari» (art. 32 c.p.p.) ovvero ancora «dopo aver assunto le informazioni e disposto
gli accertamenti ritenuti necessari e dopo aver sentito le parti» (art. 706, 704 c.p.p.) 35.
Stando così le cose, lo scrutinio della questione controversa oggetto del procedimento di rescissione
del giudicato va condotto verificando, anche nel merito, se risulti ortodossa l’ordinanza che ha dichiarato l’assenza dell’interessato istante, cosicché pare corretto declinare, quale opzione doverosa, quella che
contempli la trattazione del relativo incidente in camera partecipata ex art. 127 c.p.p. e ad istruttoria
possibile 36.
necessaria delle parti principali (art. 401, comma 1, artt. 420 e 469, art. 666, comma 4)». In tale contesto, pertanto, «è bene… fissare taluni punti difficilmente contestabili: 1) il disposto dell’art. 611 c.p.p., comma 1, che contempla una disciplina "non partecipata", assicurando comunque il contraddittorio cartolare, deroga a quanto previsto dall’art. 127 che prevede una disciplina "partecipata". In altre parole, il disposto dell’art. 611 cod. proc. pen. ha natura di norma speciale rispetto a quella di norma generale
dettata dall’art. 127 cod. proc. pen.; 2) l’art. 611 cod. proc. pen. costituisce attuazione della previsione contenuta all’art. 2, direttiva 89, della Legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale (L. 16 febbraio 1987, n. 81), nonché della
previsione di cui all’art. 2, direttiva 95 contenente l’indicazione del "diritto delle parti di svolgere le conclusioni davanti alla
Corte di Cassazione"; 3) il rito camerale di cassazione previsto dall’art. 611 cod. proc. pen. costituisce una forma specifica e generale per la sede di legittimità ("contro provvedimenti non emessi nel dibattimento"), derogatoria rispetto alla forma prevista
in via generale per la sede di merito, la cui peculiarità consiste nella modalità attuativa del principio del contraddittorio (cartolare e non partecipato). Da questi enunciati discende che: la disciplina speciale, dettata per il rito camerale in cassazione, costituisce già di per sé deroga alla disciplina generale; il mero richiamo all’art. 127 riferito al procedimento incidentale di merito, se
può valere a definire l’ambito di ricorribilità del provvedimento del giudice di merito, non può essere esteso meccanicamente
alla procedura da seguire nella successiva fase di legittimità, la quale, "se non è diversamente stabilito", è regolata da una specifica forma».
31
Qualora, invece, il prevedibile esito della richiesta sia di inammissibilità o di manifesta infondatezza, la Corte, subordinatamente ad una sommaria valutazione in tal senso in sede di esame preliminare da parte del Primo Presidente ex art. 625-ter,
comma 3, c.p.p., ne dichiara l’inammissibilità con procedura de plano, in analogia con quanto previsto in materia di ricorso
straordinario per errore di fatto. In tal senso, in maniera condivisibile, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit.
32
Analogamente, A. Diddi, Novità in materia di impugnazioni e di restitutio in integrum, cit., p. 226, il quale sottolinea che «tenuto conto che, nella specie, non si tratta di un ricorso e che» l’art. 611 c.p.p. «si applica espressamente quando la Corte deve
decidere su un’impugnazione contro un provvedimento non emesso nel dibattimento, nel silenzio della legge pare doversi concludere che la corte debba decidere in pubblica udienza con le forme e le modalità di cui ai commi 3 e 5 dell’art. 610 c.p.p.».
33
Si ha riguardo agli artt. 32, comma 1, 48, comma 1, 706 – in relazione all’art. 704 – c.p.p.
34
Non solo rispetto al modulo procedimentale camerale delineato, in via generale, dall’art. 127 c.p.p., ma anche rispetto al
procedimento camerale tipo in sede di legittimità disciplinato dall’art. 611 c.p.p.
35
Ad ogni modo, va segnalato che il Primo Presidente, nel momento in cui dispose, con provvedimento del 29 maggio 2014,
l’assegnazione alle Sezioni unite penali del procedimento iscritto a seguito della presentazione della richiesta di rescissione del
giudicato ex art. 625-ter c.p.p., dispose che venisse fissata per la trattazione del procedimento un’udienza in camera di consiglio
ex art. 127 c.p.p.
36
In tema, ancora, v. Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit., ove si legge, tra l’altro, che «in un’altra evenienza in cui
la Corte di cassazione è investita di una richiesta (e non di un ricorso), quello della remissione del processo ex art. 45 cod proc.
pen., una specifica norma (art. 46, comma 1, cod. proc. pen.) prescrive che la richiesta “è depositata, con i documenti che vi si
ANALISI E PROSPETTIVE | LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO: ESEGESI DI UNA NORMA IMPERFETTA
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
131
(SEGUE): LE QUESTIONI ANCORA “IRRISOLTE”
Il segnalato ermetismo dell’art. 625-ter c.p.p. “introduce” le questioni ancora “irrisolte” che si colgono
dall’esame dell’istituto de quo: si ha riguardo, per un verso all’individuazione di un punto di equilibrio
ragionevole tra la pretesa risarcitoria che sia stata riconosciuta da una sentenza passata in giudicato,
poi, rescissa, e la “preclusione” ad agire posta dall’art. 75, comma 3, c.p.p. e, per un altro verso all’identificazione di un rimedio utilmente azionabile avverso il possibile diniego della richiesta di rescissione del giudicato 37.
Sotto il primo profilo, non è a discutersi che la revoca della sentenza ex art. 625-ter, comma 3, c.p.p.
travolga il giudicato anche agli effetti civili e che si risolverebbe in fuor d’opera ritenere che l’azione risarcitoria – che venga eventualmente riproposta dinanzi al giudice civile dal danneggiato già costituitosi parte civile – debba essere sospesa «fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione» (art. 75, comma 3, c.p.p.): infatti, la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, che
costituisce ineludibile statuizione accessoria della pronuncia revocatoria della Corte di cassazione, impone la rinnovazione degli atti preliminari ed introduttivi al dibattimento, di modo ché il danneggiato
potrà medio tempore optare per l’immediata “riassunzione” del giudizio risarcitorio dinanzi al giudice
civile e non patire la sospensione del processo civile sino alla pronuncia della sentenza penale, che può
derivare in esclusiva dalla proposizione dell’azione «in sede civile nei confronti dell’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado» 38.
Sotto il secondo profilo, invece, pare che nulla osti – nel caso si riscontri un errore percettivo nella
lettura degli atti interni del giudizio di rescissione– a prevedere l’azionabilità, quale rimedio extra ordinem, del ricorso straordinario per errore di fatto ex art. 625-bis c.p.p. 39, seppur con «tutte le difficoltà
connesse alla possibilità di ricondurre le doglianze del condannato nell’ambito dell’errore di fatto» 40.
riferiscono, nella cancelleria del giudice” e poi che il giudice “trasmette immediatamente alla Corte di cassazione la richiesta con
i documenti allegati e con eventuali osservazioni”» e che «la rescissione del giudicato (…) presuppone inevitabilmente l’esame
degli atti del procedimento di merito». Inoltre, va «chiarito che, pur essendo stabilito – come subito si preciserà – un onere probatorio in capo al richiedente, che implica l’allegazione di una documentazione a sostegno, deve escludersi che sia inibita alla
Corte di cassazione l’acquisizione, eventualmente anche in sede di esame preliminare, di documentazione integrativa, potendo
essere necessario chiarire aspetti ambigui o colmare possibili lacune o verificare la rispondenza della documentazione esibita
alla realtà processuale».
37
In proposito, v. A. Diddi, Novità in materia di impugnazioni e di restitutio in integrum, cit., p. 228, il quale rileva ulteriormente che «nonostante (…) l’art. 625-ter non contenga alcun richiamo all’art. 175, comma 7, c.p.p., pare evidente che, con
l’accoglimento della richiesta, la Corte debba anche disporre la scarcerazione dell’imputato e debba adottare i provvedimenti
necessari per far cessare gli effetti determinati dall’esecuzione della sentenza»; inoltre, l’autore – dopo aver sottolineato che il
silenzio della legge “impone” di affrontare anche la questione del criterio attraverso il quale dovrà avvenire il computo della
prescrizione del reato, per il caso in cui la Corte di cassazione dichiari la revoca della sentenza – individua la disciplina applicabile nell’art. 12 l. 28 aprile 2014, n. 67, tanto che «ai fini della prescrizione, il tempo compreso tra il momento in cui il giudice
avrebbe dovuto disporre i provvedimenti di cui all’art. 420-quater c.p.p. e quello della revoca della sentenza, si deve considerare
come sospeso, fatto salvo il limite massimo di cui all’art. 159 c.p. (…) in forza del quale nel caso di sospensione del procedimento ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p., la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti
dal secondo comma dell’art. 161 c.p.».
38
In tema, v. A. Ghiara, sub art. 75 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1989, I, p. 368.
39
M.Gialuz, Il ricorso straordinario per Cassazione, Milano, 2005.
40
B. Nacar, Il processo in absentia, tra fonti internazionali, disciplina codicistica e recenti interventi riformatori, cit., p. 111, la quale
sottolinea, in maniera condivisibile, che «l’attribuzione della competenza funzionale al giudice della cassazione si riflette inevitabilmente sui possibili strumenti utilizzabili per ottenere un controllo sul provvedimento di rigetto (…) della istanza di revocazione del giudicato. Invero, l’unica alternativa possibile sarebbe il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, di cui
all’art. 625-bis c.p.p., con tutte le difficoltà connesse alla possibilità di ricondurre le doglianze del condannato nell’ambito
dell’errore di fatto… Se, invece, l’istituto in esame fosse stato collocato nell’ambito del procedimento di esecuzione, la presentazione dell’istanza sarebbe stata configurata quale incidente di esecuzione; e, contro il provvedimento di reiezione, sarebbe stato
possibile proporre ricorso per cassazione». In proposito, volendo, v. G. Ranaldi, La rescissione del giudicato alle Sezioni unite “anche
al fine di prevenire possibili contrasti giurisprudenziali”, cit.
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Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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IL PUNTO DOLENTE ED IL “PASSO DEL GAMBERO”: ONUS PROBANDI INCUMBIT EI DICIT
Ad ogni modo, il “punto dolente” (non solo) dell’art. 625-ter c.p.p. si rinviene in ciò che il legislatore ha
posto a carico del richiedente l’onere di provare «che l’assenza è stata dovuta ad un incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo».
Infatti, aver addossato, a seconda dei casi, all’imputato che voglia ottenere la revoca della dichiarazione di assenza 41 ovvero al condannato o al sottoposto a misura di sicurezza che intendano conseguire
la revoca della sentenza passata in giudicato, un onere probatorio diabolico della propria ignoranza incolpevole ripropone problematiche già stigmatizzate dalla Corte e.d.u. 42, con riguardo alla disciplina
della restituzione nel termine anteriore al 2005 43: il che può apparire paradossale poiché l’esplicitata volontà di non riattualizzare frizioni – già determinatesi rispetto ai profili di contrasto colti in sede sovranazionale tra la disciplina ancien regime del procedimento contumaciale, l’istituto della restituzione del
termine per impugnare e l’art. 6 Cedu – s’è tradotta, invece, in una scelta disciplinare che ha riproposto,
rispetto all’assenza dell’imputato, profili problematici di contenuto analogo a quelli che si riteneva definitivamente superati 44.
A ciò s’aggiunga un ulteriore spunto di riflessione che deriva ponendo a raffronto i toni ed i contenuti degli artt. 420-bis, comma 4, c.p.p., da un lato, e dell’art. 625-ter c.p.p., dall’altro lato: infatti, è difficile “ricondurre a sistema” il dato emergente per cui all’interessato che domanda la rescissione del giudicato è interdetta la possibilità, che è riconosciuta, invece, all’imputato dinanzi al giudice di primo
grado, di far valere che la sua incolpevole mancata comparizione al processo si sia determinata a causa
di caso fortuito, forza maggiore o altra situazione di legittimo impedimento non potuta portare tempestivamente a conoscenza del giudice procedente senza sua colpa 45.
LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO, LA RESTITUZIONE NEL TERMINE PER IMPUGNARE E LE QUESTIONI SUL TITOLO ESECUTIVO: CENNI SU UN “EQUILIBRIO INSTABILE”
L’introduzione dell’art. 625-ter c.p.p. non ha inciso, perlomeno formalmente, sui toni ed i contenuti
dell’art. 670 c.p.p. – rubricato «Questioni sul titolo esecutivo»– mentre ha comportato modifiche degli ambiti di operatività dall’art. 175 c.p.p. – rubricato «Restituzione nel termine».
Pertanto, seppur con consapevole autolimitazione, va compiuto il tentativo, a fronte della potenziale
coesistenza di rimedi, di abbozzare una reductio ad unum 46.
L’art. 670 c.p.p., infatti, continuerà ad essere lo strumento da azionare, oltre che in caso di vizi atti41
Il riferimento è al disposto degli artt. 420-bis, comma 4, 604, comma 5-bis, c.p.p.
42
In proposito, tra le altre, Corte e.d.u., 18 maggio 2004, Somogy c. Italia, in Cass. pen., 2004, p. 3828; Id., 10 novembre 2004,
ivi, 2005, 3, p. 983.
43
Si fa riferimento alle modifiche normative apportate all’istituto della restituzione nel termine per impugnare dal d.l. 21
febbraio 2005, n. 17, convertito nella l. 22 aprile 2005, n. 60. Sui contenuti della riforma, tra gli altri, v. M. Chiavario, Una riforma
inevitabile: ma basterà, in Legislazione pen., 2005, p. 253; G.Garuti, Nuove norme sulla restituzione nel termine per l’impugnazione di sentenze contumaciali e decreti di condanna, in Dir. pen. proc., 2005, p. 684; M. Cassano-E. Calvanese, Giudizio in contumacia e restituzione
nel termine, Milano, 2008, p. 63 ss.
44
Così, P. Tonini-C. Conti, Il tramonto della contumacia, l’alba radiosa della sospensione e le nubi dell’assenza consapevole, cit., p.
518. Analogamente, S. Quattroccolo, Il contumace cede la scena processuale all’assente, mentre l’irreperibile l’abbandona, cit., p. 13; R.
Brichetti-L. Pistorelli, Processo sospeso se l’imputato è irrintracciabile, cit., 98. Silvestri, Le nuove disposizioni in tema di processo “in assenza” dell’imputato, Prime riflessioni sulle nuove disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, cit. Non individua, invece, profili problematici nella specifica opzione, S. Chimici, Art. 625-ter: la rescissione
del giudicato, cit., p. 332, la quale rileva che «l’onere della prova, pertanto, grava sul condannato, a differenza di quanto precedentemente previsto dall’art. 175, comma 2 per la restituzione nel termine in caso di sentenza contumaciale. Del resto, nel corso
del procedimento svoltosi, l’autorità giudiziaria ha già effettuato non soltanto il controllo delle notifiche, ma anche un’indagine
più approfondita sulla conoscenza del procedimento da parte dell’imputato, basata su risultati certi che possano condurre a
presumere ragionevolmente la rinuncia volontaria a comparire. Pertanto è opportuno che sia l’interessato a dover fornire la
prova della sua mancata conoscenza della celebrazione del procedimento e l’onere probatorio non potrà essere soddisfatto con
mere affermazioni». In tal senso, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit.
45
A. Diddi, Novità in materia di impugnazioni e di restitutio in integrum, cit., p. 231.
46
In ordine alle sfere di potenziale interferenza tra rimedi esecutivi e ricorso straordinario per errore di fatto, volendo, v. G.
Ranaldi, Il ricorso per cassazione: ambiti operativi e rapporti con i rimedi esperibili inexecutivis, in Dir. pen. proc., 2004, 9, p. 1159 ss.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO: ESEGESI DI UNA NORMA IMPERFETTA
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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nenti alla notificazione del decreto penale di condanna, anche qualora il condannato intenda far valere
vizi concernenti gli avvisi che sono doverosi nell’ipotesi in cui il giudice non rispetti il termine per il
deposito della sentenza; a ciò s’aggiunga, poi, che l’incidente di esecuzione ai sensi degli artt. 666, 670
c.p.p. potrà essere utilmente impiegato anche per far valere vizi attinenti alla notificazione dell’estratto
contumaciale ex art. 548, comma 3, c.p.p., con riferimento ai dicta pronunciati prima dell’“entrata a regime” delle rinnovate cadenze del procedimento in absentia ovvero nel rispetto della disciplina transitoria dettata dalla la l. 11 agosto 2014, n. 118, rubricata «Norme per l’applicazione della disciplina della sospensione del procedimento penale nei confronti degli irreperibili».
Con riferimento, invece, alla restituzione nel termine per impugnare, stante il doveroso “restringimento” operativo dell’art. 175, comma 2, c.p.p. (determinato, per l’appunto, dall’art. 11, comma 6, della
l. 28 aprile 2014, n. 67), la relativa richiesta potrà essere presentata in esclusiva dall’imputato condannato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del decreto penale di condanna, per il caso in cui intenda
essere restituito nel termine per proporre opposizione, fermo restando che, comunque, «ai procedimenti contumaciali trattati secondo la normativa antecedente alla entrata in vigore della legge 28 aprile
2014, n. 67», continui ad applicarsi «la disciplina della restituzione nel termine per proporre impugnazione dettata dall’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. nel testo previgente» 47.
RIFLESSIONI DI SINTESI
La rescissione del giudicato rappresenta, seppur con i segnalati profili chiaroscurali, un istituto che
consolida la tendenza, oramai risalente, a ritenere non immodificabile la cosa giudicata, ogniqualvolta
“frustri” ineludibili esigenze di giustizia 48: infatti, la certezza delle situazioni giuridiche è oramai recessiva dinanzi alla riscontrata ineffettività dei diritti individuali, tanto che l’incidente ex art. 625-ter c.p.p.
costituisce un frammento significativo che dà ulteriore “sostanza” al fenomeno in fieri dell’apertura del
giudicato.
Ciò che non convince, invece, è la circostanza che la specifica attribuzione decisoria sia avvenuta in
favore della Corte di cassazione, che se è giudice del fatto rispetto alle questioni processuali, non è certamente giudice cui sono deferite, di regola, le questioni sul titolo esecutivo alla stregua dell’art. 665
c.p.p.; a tacer d’altro, infatti, tra le principali funzioni che la Corte di cassazione esercita, a mente delle
indicazioni promananti dalla legge fondamentale sull’ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n.
12 (art. 65), vi è quella di assicurare, per l’appunto, «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione
della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni» (e
non anche, quindi, quella di verificare se il giudicato “meriti” d’essere rescisso, per l’ingiusta mancata
partecipazione al processo dell’imputato).
Quanto detto, d’altronde – in ordine alla circostanza che la valutazione della domanda di rescissione
implichi l’esame di profili di merito che non spettano ordinariamente alla giurisdizione della Corte di
cassazione– sembra trovare chiara eco nello «Schema di disegno di legge recante modifiche alla normativa penale, sostanziale e processuale, e ordinamentale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena» – presentato dal
Guardasigilli al Consiglio dei ministri del 29 agosto 2014 – che prevede, all’art. 18, la soppressione
dell’art. 625-ter c.p.p. ed il trasferimento dell’incidente, che si introduce con la domanda di rescissione
del giudicato, alla Corte di appello territorialmente competente, tra l’altro, con la previsione di diritto
transitorio che la disciplina rinnovata s’applicherebbe illico et immediate rispetto alla sentenza divenuta
irrevocabile al momento dell’entrata in vigore della legge.
47
Così, Cass., sez. un., 3 settembre 2014, n. 36848, cit.
48
Al riguardo, tra le altre, v. Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858, cit. Inoltre, sul fenomeno convenzionalmente definito
“apertura del giudicato”, si veda, volendo, A. Gaito-G. Ranaldi, Esecuzione penale, Milano, 2005, p. 43 ss. Da ultimo, inoltre, F.
Gaito, L’immutabilità della res iudicata: un attributo (non più) imprescindibile?, in www.archiviopenale.it.
ANALISI E PROSPETTIVE | LA RESCISSIONE DEL GIUDICATO: ESEGESI DI UNA NORMA IMPERFETTA
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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IGNACIO FLORES PRADA
Profesor Titular de Derecho Procesal – Università Pablo de Olavide, Siviglia
Il giudizio “rapido” spagnolo
The spanish speedy trial
Attualmente, l’idea del giusto processo penale si concreta in un adeguato equilibrio tra efficienza e garanzie. In
tema di efficienza, diventano particolarmente apprezzati i modelli processuali che si impegnano a favore dell’agilità, della semplificazione e di una giustizia penale sviluppata in tempi ragionevoli. In questo contesto si colloca
il processo rapido per reati minori introdotto dal legislatore spagnolo nel 2003. Un procedimento speciale accelerato basato fondamentalmente sull’importanza delle indagini preliminari della polizia giudiziaria, sulla concentrazione
massima della fase istruttoria, e sulla “conformidad” come soluzione alternativa al dibattimento.
Nowadays, the idea of due process of law is embodied in an appropriate balance between efficiency and guarantees. In the area of efficiency, can value highly procedural models that are committed to agility, simplification and
a criminal justice developed in a reasonable time. In this context it must be located the speedy trial for minor offenses introduced by the Spanish Parliament in 2003. It is an especial expedited trial based on the preliminary police investigation, on the maximum concentration in the investigative judge, and on a plea bargain as an alternative
to a trial.
INTRODUZIONE
Nella sua struttura originaria, il codice di procedura penale spagnolo del 1882 (Ley de Enjuiciamiento
Criminal, d’ora innanzi L.E.Crim.) divise i procedimenti in ordinari e speciali, distinguendo così il modo
di celebrare i giudizi penali per delitti e contravvenzioni comuni, dalle regole particolari che talune
cause esigevano in ragione della materia, della persona o di altre circostanze speciali. Insieme ai procedimenti ordinari per delitti e contravvenzioni, si regolarono quindi sei giudizi speciali, tra i quali figurava una procedura semplificata per i reati meno gravi per cui era necessaria un’attività investigativa
semplice: il cosiddetto “giudizio per reati nei casi di flagranza” (procedimiento en los casos de flagrante delito) 1.
Questo schema procedimentale è rimasto praticamente immutato fino alla riforma introdotta dalla
1
Questo procedimento è stato modificato, dapprima, con la Ley 3/1967 de 8 de abril [in Boletín Oficial del Estado (d’ora innanzi
B.O.E.), 11 aprile 1967], risultando da allora applicabile ai reati flagranti puniti con pena privativa della libertà non superiore a
12 anni, ed ai reati non flagranti sanzionati con pena restrittiva non eccedente i 6 anni di reclusione. La caratteristica principale –
e chiaramente negativa – della riforma consiste nel fatto che è stata attribuita allo stesso organo giudiziario – il giudice istruttore
(juez de instrucción) – la competenza ad istruire e a pronunciare la sentenza nello stesso procedimento. Questo schema procedimentale è rimasto invariato anche nella successiva riforma dei procedimenti speciali per reati meno gravi realizzata dalla Ley
Orgánica 10/1980, de 11 de noviembre, di enjuiciamiento oral de delitos dolosos, menos graves y flagrantes, applicabile ai reati non flagranti puniti con pene contenute entro i sei mesi di arresto, nonché ai reati flagranti puniti con meno di sei anni di reclusione.
L’errore di entrambe le previsioni, attributive delle competenze istruttorie e decisorie allo stesso giudice, è stato evidenziato dalla sentenza della Corte Costituzionale 12 luglio 1988, n. 145, venendo quindi poi corretto con la riforma parziale del codice di
rito penale spagnolo realizzata dalla Ley Orgánica 7/1988, de 28 de deciembre, che ha creato il rito abbreviato e il nuovo tribunale
monocratico penale (Juez de lo Penal). Dopo questa riforma, che ha delineato il modello attuale, il giudice istruttore è incaricato
dell’indagine giudiziaria e il giudice penale ha il compito di pronunciare la sentenza quando la pena sia inferiore ai 5 anni di
reclusione, o se si tratta di sanzione diversa inferiore ai 10 anni ovvero ancora di multa di qualsiasi entità.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL GIUDIZIO “RAPIDO” SPAGNOLO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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Ley Orgánica 7/1988, de 28 de diciembre, che ha abrogato il procedimento speciale per i reati flagranti e ha
introdotto un nuovo giudizio ordinario – il c.d. “giudizio abbreviato” (procedimiento abreviado) – per
giudicare in via semplificata le fattispecie meno rilevanti. A seguito della riforma del 1988, il sistema di
giustizia penale spagnolo prevede, dunque, tre procedimenti ordinari: un giudizio per reati gravi (procedimiento por delitos graves), che si applica alle ipotesi delittuose punite con pena detentiva superiore a
nove anni ovvero a dieci anni in caso di sanzioni di diversa natura (privazione o restrizione di altri diritti); un procedimento semplificato per fattispecie di minor rilievo (procedimiento abreviado) che si applica ai reati sanzionati con pene inferiori ai nove anni di carcere, ovvero inferiori ai dieci anni in caso di
sanzioni di altra natura, ed un rito per le contravvenzioni (il c.d. juicio de faltas) previsto per giudicare le
infrazioni penali minori, punite con pene non detentive.
Tuttavia, ben presto il giudizio abbreviato si è rivelato inefficace per giudicare rapidamente i reati
meno gravi richiedenti un’attività investigativa semplice. Il significativo aumento della microcriminalità a partire dagli anni ottanta e novanta del secolo scorso, unito ad una certa rigidità formale del rito, ha
indotto il legislatore ad apportare nel 1992 una modifica nello schema generale del procedimento, 2
creando all’interno del giudizio abbreviato una sorta di via semplificata, percorribile nei casi in cui
l’estrema semplicità delle indagini permettesse la concentrazione dell’istruzione e la velocità della procedura.
Dieci anni dopo, il legislatore ha apportato un’ulteriore modifica al rito de quo, tutt’oggi in vigore.
Con la Ley 38/2002, de 24 de octubre 3, è stata soppressa la speciale “modalità accelerata” del giudizio abbreviato introdotta nel 1992, ed è stata creata una procedura speciale autonoma – un vero e proprio
nuovo giudizio – denominato “giudizio rapido” (procedimiento especial para el enjuiciamiento rápido de determinados delitos), concepito come un rito speciale attivabile unicamente per giudicare rapidamente determinati reati di scarsa afflittività. Come affermato nella Relazione esplicativa che precede la Ley
38/2002, la significativa crescita sperimentata negli ultimi anni della c.d. “criminalità di bassa intensità”,
insieme all’inefficacia dei meccanismi processuali fino ad allora esistenti per perseguirla e punirla, giustificavano «una riforma per regolare più dettagliatamente i meccanismi di accelerazione dei procedimenti per i reati e, allo stesso tempo, creare nuovi strumenti di accelerazione procedurale della giustizia
penale».
Più in generale, va sottolineato che la modifica introdotta dalla Ley 38/2002 costituisce l’ennesimo
esempio della politica di riforme parziali che il legislatore ha perseguito nel settore della giustizia penale a partire dall’entrata in vigore della Costituzione del 1978. La difficile compatibilità tra il modello legale di processo penale delineato dal codice di rito del 1882, ed il moderno paradigma costituzionale di
giusto processo consacrato dalla Costituzione del 1978, è stata finora composta attraverso l’attività interpretativo-estensiva della giurisprudenza, nonché mediante una lunga serie di riforme parziali, spesso frettolose e prive di un comune modello di riferimento. Tutto questo mette in evidenza la profonda
crisi che attualmente sta attraversando il sistema di giustizia penale spagnolo, che, nonostante i due recenti progetti di riforma (l’uno del 2011 e l’altro del 2013), non sembra avviato in tempi brevi verso
l’auspicata novella in senso accusatorio.
2
V. Ley 30/1992, de 30 de abril, di “Medidas urgentes de reforma procesal ” (in B.O.E., 5 maggio 1992).
3
Completata, con la Ley Orgánica 8/2002, de 24 de octubre (in B.O.E., 28 ottobre 2002) di modifica della Ley Orgánica del Poder
Judidical (d’ora innanzi L.O.P.J.), con la quale è stata attribuita al giudice istruttore la competenza a pronunciare sentenza di c.d.
“conformidad” – una sorta di patteggiamento – nel nuovo procedimento denominato “giudizio rapido”, e con la Ley Orgánica
9/2002 de 10 de diciembre, la cui terza disposizione addizionale modifica l’art. 788, comma 2 della Ley de Enjuiciamiento Criminal
(d’ora innanzi L.E.Crim.), conferendo natura di prova documentale ai rapporti emessi dai laboratori tecnici sopra la natura, la
quantità e la purezza delle sostanze stupefacenti, sempre che risulti che l’analisi sia stata realizzata conformemente ai protocolli
scientifici ufficiali. In secondo luogo, i principi fondamentali della riforma del 2002 appaiono sviluppati dall’Acuerdo Reglamentario n. 1/2005, del Pleno del Consejo General del Poder Judicial (Consiglio Superiore della Magistratura, d’ora innanzi C.G.P.J.), de
15 de septiembre de 2005, sugli aspetti accessori dei procedimenti giudiziari (in B.O.E., 27 settembre 2005). V. pure l’Instrucción
1/2003 della Fiscalia General del Estado (Procura Generale dello Stato), sugli aspetti organizzativi delle Procure, emessa in occasione della riforma parziale del codice di procedura penale del 2002; v. anche la Circular 1/2003, della stessa Fiscalia General del
Estado, relativa al giudizio rapido.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL GIUDIZIO “RAPIDO” SPAGNOLO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
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COMPETENZA ED AMBITO DI APPLICAZIONE
La competenza funzionale per il “giudizio rapido” spetta, per quanto riguarda l’attività investigativa, al
c.d. “giudice istruttore in funzione di guardia” (Juzgado de instrucción en servicio de guardia) 4 del luogo in
cui il reato è stato commesso 5. La competenza per materia per la sentenza di primo grado è attribuita al
giudice penale (Juzgados de lo penal) 6. L’investigazione preliminare è assegnata alla polizia giudiziaria
(Policía Judicial) nella sua funzione autonoma di organo deputato a verificare la commissione dei reati,
individuare ed assicurare alla giustizia i colpevoli e conservare le fonti di prova 7.
L’ambito di applicazione del processo rapido è subordinato al ricorrere di tre condizioni e tre presupposti alternativi.
Le tre condizioni sono: che il reato sia punito con una pena inferiore a cinque anni di reclusione, o a
dieci anni se si tratta di sanzione di altra natura (multa, privazione o restrizione di taluni diritti); che la
notitia criminis sia pervenuta al giudice istruttore attraverso un rapporto di polizia (c.d. “atestado policial”); che l’imputato sia stato arrestato o sia stata comunque assicurata la sua “disponibilità giudiziaria”.
I tre presupposti alternativi, di cui almeno uno deve concorrere con i tre precedenti, sono: che si tratti di reati flagranti, di reati a c.d. “istruzione semplice”, ovvero di reati rientranti tra quelli espressamente previsti dall’art. 795, comma 1. n. 2ª L.E.Crim.
In conformità con quanto disposto dall’art. 795, comma 1 L.E.Crim., il giudizio rapido «si applica alle
indagini ed al giudizio di reati punibili con una pena restrittiva della libertà personale non superiore a
cinque anni, o con qualunque altra sanzione, unica, accessoria o alternativa, la cui durata non ecceda i
dieci anni, ovvero con multa di qualsiasi importo». Come evidenziato, si tratta di un limite massimo, un
limite cioè sotto il quale potrà concedersi l’attivazione del giudizio rapido sempre che siano integrati,
nel modo descritto qui di seguito, i presupposti che circoscrivono specificamente il suo ambito di applicazione. Di conseguenza, nessun reato la cui pena ecceda il limite citato potrà giudicarsi attraverso le
forme del rito in questione, così come, analogamente, non tutte le condotte che rientrino nel tetto sanzionatorio seguiranno tale opzione semplificata di definizione, riservata invece soltanto a quelle relativamente alle quali concorrano le circostanze specificamente previste dai punti n. 1ª e n. 2ª dell’art. 795,
comma 1 L.E.Crim.
4
Per provvedere al compimento dei primi atti urgenti del processo penale – misure cautelari, raccolta delle prove, primi atti
d’indagine, decisioni sulla situazione personale dell’arrestato, misure di protezione della vittima, etc. – ogni circoscrizione giudiziaria stabilisce un c.d. “calendario di guardia” per i giudici d’istruzione. La durata del servizio di guardia, periodo che si
prende come riferimento per stabilire il termine di durata massima della fase d’istruzione del giudizio rapido, dipende
dall’importanza della circoscrizione. Così, nei comuni con più di 10 giudici d’istruzione, la durata di ogni guardia è di 24 ore.
Nei comuni con meno di 10 giudici d’istruzione, il servizio di guardia avrà una durata di una settimana. Quando la circoscrizione ha un solo giudice d’istruzione, esso sarà in guardia permanente (articoli 38 ss. del Reglamento 1/2005, del C.G.P.J.).
5
In Spagna, il giudice istruttore costituisce il tribunale monocratico d’istruzione (Juzgado de Instrucción). È questo un tribunale che ha luogo nei capoluoghi di provincia e nei capoluoghi di distretto giudiziario [capoluogo di più comuni territorialmente
contigui ricompresi nell’ambito della stessa provincia, territorialmente definiti dalla Ley de Planta y Demarcación Judicial (Ley
38/1988 de 28 de diciembre, in B.O.E., 30 dicembre 1988)]. Come principale competenza, a tale organo spetta l’indirizzo dell’istruzione dei procedimenti penali, assumendo il controllo delle indagini, l’adozione in tale fase di misure restrittive di diritti
fondamentali, l’emissione di misure cautelari, e la tutela dei diritti fondamentali, in particolare di quelli spettanti all’accusato
(art. 87 L.O.P.J.). Lo stesso compito, nello specifico ambito della violenza contro le donne (art. 173, comma 2 codice penale, d’ora
innanzi c.p.), è attribuito ai c.d. “giudici dalla violenza di genere”, che sono giudici d’istruzione specializzati in questa materia
(art. 87 ter L.O.P.J.).
6
I cosiddetti “Tribunali del penale” (Juzgados de lo Penal) sono tribunali monocratici composti da un giudice penale. Si tratta
di tribunali di merito che decidono in prima istanza nei procedimenti penali per reati puniti con pena inferiore a 5 anni di reclusione, o con sanzioni di altra natura di durata inferiore a 10 anni (art. 89 bis L.O.P.J.). Tali organi hanno luogo nei capoluoghi di
provincia. Completano lo schema delle competenze giudiziarie i c.d. Tribunali Centrali d’Istruzione (Juzgados Centrales de Instrucci n) ed il Tribunale Centrale Penale (Juzgado Central de lo Penal), ambedue organi monocratici composti da un giudice
d’istruzione o da un giudice di merito, che intervengono ad integrare il Tribunale Penale Nazionale (Audiencia Nacional) nei procedimenti per reati che mettono in pericolo lo Stato, l’economia nazionale, la sicurezza pubblica o il sistema politico (terrorismo,
reati contro il sistema politico, traffico di droga, etc.: art. 88 L.O.P.J.).
7
In Spagna, la regolamentazione organica e funzionale della polizia giudiziaria è frammentaria e incompleta. è prevista
dall’art. 126 della Costituzione (Constitutución Española) ed è sviluppata nella Ley Orgánica 2/1986, de 13 de marzo, sui Corpi e le
Forze di sicurezza (in B.O.E., 14 marzo 1986), e nel Real Decreto 769/1989 de 19 de junio, sulla Polizia Giudiziaria (in B.O.E., 24
giugno 1989).
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Agli effetti in questione va considerata la pena in astratto, ossia, il massimo fissato dalle disposizioni
penali incriminatrici, e non la pena in concreto, quale risultante dall’applicazione dei criteri che regolano la punibilità (grado di perfezionamento della condotta, partecipazione del reo, applicazione e bilanciamento delle circostanze) 8.
Infine, sembra opportuno sottolineare che nell’ambito di applicazione del giudizio rapido restano attratti anche i delitti e le contravvenzioni legati da vincolo di connessione con il reato principale, sempre
che, per ciò che concerne i primi, non siano superati i limiti stabiliti per il procedimento speciale e siano
– le fattispecie connesse – reati flagranti o a c.d. “indagine semplice”.
Una volta fissato il limite sanzionatorio massimo, il primo dei requisiti da cui il legislatore fa dipendere l’applicazione del giudizio rapido è che la notitia criminis sia trasmessa al giudice istruttore attraverso la polizia giudiziaria – e solo attraverso questa – dopo un lavoro preliminare d’indagine che culmina in quello che nel diritto spagnolo è denominato atestado policial. 9 L’esigenza di un’indagine preliminare della polizia trova giustificazione logica laddove si rifletta sul fatto che il successo del giudizio
rapido dipende essenzialmente dalla possibilità di un’istruzione giudiziaria veloce e concentrata, per la
qual cosa appare indispensabile che l’investigazione previa della polizia sia la più completa ed esaustiva possibile.
L’esclusività dell’atestado policial come via per consentire l’instaurazione del giudizio rapido impone
una prima precisazione. Essa, invero, esclude l’eventualità che il rito in questione possa essere attivato
a seguito di un’indagine preliminare svolta dal pubblico ministero (Ministerio Fiscal). Non vi è alcuna
ragione sostanziale per giustificare tale esclusione, al di là della mancanza di una regolamentazione
completa e sistematica delle indagini preliminari del pubblico ministero, e del ruolo abitualmente svolto dalla polizia giudiziaria nella pratica investigativa. La polizia giudiziaria infatti è, nel processo penale spagnolo, il corpo che regolarmente riceve la notitia criminis, e per ciò, è dotata di unità specializzate
in grado di imprimere velocità e agilità ad un’indagine penale preliminare.
La seconda osservazione riguarda la necessità che l’atestado policial sia sempre presentato per iscritto.
Questo requisito impedisce agli agenti di polizia di comparire davanti al giudice istruttore “in servizio
di guardia” per riferire verbalmente il contenuto del rapporto, posto che ciò diverrebbe nella pratica un
ostacolo alla perseguita celerità del procedimento 10.
Infine, va notato che la necessità del rapporto di polizia implica come corollario che l’indagine svolta
da tale organo sia completa o, quantomeno, che presenti solo lacune marginali, agevolmente colmabili
da parte dell’organo giudicante con un’istruzione sommaria e rapida. È ovvio, peraltro, che la mera circostanza dell’esistenza di un’indagine preliminare avviata dalla polizia non implica di per sé l’inizio
del giudizio rapido, se non nella misura in cui tale indagine consenta di ridurre al minimo le attività
d’istruzione giudiziaria.
Il secondo dei requisiti necessari, concorrente con il presupposto dell’atestado policial, è l’arresto
dell’imputato ad opera della polizia giudiziaria, ovvero la sua citazione – con certezza che sia assicurata
la sua comparizione – davanti al giudice istruttore “in servizio di guardia”. Si esige, in sostanza, che a
seguito delle attività di investigazione preliminare, sia stato identificato il presunto responsabile e sia
stata assicurata la sua presenza davanti al giudice istruttore, o mediante l’arresto o a seguito di citazione di polizia 11.
8
V. le sentenze della Corte di Cassazione (Tribunal Supremo – SSTS) del 1° dicembre 1997, del 23 ottobre 1997, del 29 ottobre
del 1998; v. la sentenza della Corte di Appello di Santander del 1° febbraio 2005. In generale, v. l’Acuerdo no jurisdiccional delle
Sezione Unite della Corte di Cassazione del 2 ottobre 1992 sul criterio della pena in astratto o in concreto al fine di determinare
la procedura applicabile e l’organo competente.
9
Il c.d. “atestado policial” è regolato negli artt. 292 ss. L.E.Crim. Può essere definito come l’insieme della documentazione relativa agli atti, agli interventi e alle investigazioni compiute dalla polizia giudiziaria per verificare la commissione del reato e scoprirne l’autore. Ai sensi dell’art. 297 L.E.Crim. tale atestado ha il valore di mera denuncia.
10
Nei casi in cui la polizia percepisce direttamente la commissione di un reato e arresta l’autore sul luogo del fatto, identificando lì stesso i testimoni, non c’è nessun motivo per cui essa non possa rivolgersi direttamente al giudice istruttore in servizio
di guardia, senza ulteriori procedure, comparendo davanti a questo, riferendo oralmente la notitia criminis, mettendo a disposizione l’arrestato e comunicando l’identità dei testimoni. Questa comparizione immediata, nei casi in cui fosse possibile, oltre a
risparmiare un appesantimento burocratico, eviterebbe all’arrestato un inutile passaggio dai commissariati di polizia per compiere taluni atti investigativi che agevolmente possono realizzarsi direttamente innanzi al tribunale d’istruzione.
11
Nel sistema spagnolo di giustizia penale, l’arresto (detención) è una misura cautelare eccezionale e provvisoria, adottata
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Siamo, senza dubbio alcuno, davanti ad uno dei requisiti più autenticamente consustanziali ai procedimenti penali accelerati, in cui la velocità procedurale dipende dalla circostanza che fin dal primo
momento la persona sospettata sia identificata ed arrestata o sia comunque garantita la sua “disponibilità giudiziaria”. È questo, dunque, un requisito che, di solito, viene legato alla flagranza o ad altre forme di identificazione immediata degli imputati da parte degli organi di polizia (riconoscimento dei fatti
davanti alla stessa, confessione spontanea, denuncia presentata alla polizia con identificazione del sospetto), di modo che uno dei principali obiettivi delle investigazioni – l’individuazione del presunto autore – si ottiene fin dalle prime battute delle indagini preliminari, permettendo la conseguente accelerazione dell’istruzione e della successiva assunzione probatoria dibattimentale.
In ogni caso, va notato che l’arresto (detención) mantiene, nell’ambito del giudizio rapido, la sua natura di misura cautelare personale, come tale dunque eccezionale, potendosi solo applicare per garantire, ove necessario, la disponibilità degli accusati dinanzi al giudice, adottandosi sempre in via sussidiaria rispetto al suo “omologo” più lieve – la c.d. “citazione coercitiva” (citación coercitiva) – ove questa
non garantisca abbastanza la futura presenza dell’imputato e la sua disponibilità giudiziaria nel procedimento.
Per l’instaurazione del giudizio rapido è necessario ma non sufficiente che la sanzione per il delitto
in questione sia inferiore ai limiti legali previsti, che sia stata effettuata un’investigazione preliminare
della polizia, e che l’imputato sia stato arrestato o messo a disposizione del giudice. Oltre a ciò è indispensabile che i fatti oggetto di accertamento non presentino una particolare complessità, consentendo
invece un’istruzione concentrata e un dibattimento veloce.
I reati idonei ad essere giudicati attraverso i procedimenti semplificati sono quelli flagranti, o più
genericamente, quelli che implicano un’istruzione giudiziaria semplice. Ambedue le categorie sono
previste come presupposti alternativi del giudizio in esame. Peraltro, insieme alle fattispecie flagranti o
“a istruzione semplice”, il legislatore ha aggiunto un elenco di reati specifici – identificati nominalmente –, che sembra costituire un terzo presupposto alternativo. Si tratta, però, a ben vedere, di un elenco
meramente esemplificativo di ipotesi delittuose che incidono in modo particolare sulla sicurezza pubblica e che, concorrendo i più volte citati requisiti generali – limite sanzionatorio, rapporto della polizia
giudiziaria, imputato detenuto o disponibile a comparire, reato flagrante o a c.d. “indagine semplice” –
sono idonei, secondo il legislatore, ad essere giudicati attraverso il procedimento rapido.
I REQUISITI ALTERNATIVI
Il primo dei requisiti alternativi per l’attivazione del giudizio rapido è il ricorrere della flagranza nella
commissione del reato. Il reato è flagrante se l’autore è colto nell’atto di commetterlo ovvero non appena lo abbia commesso 12. A tali effetti, deve ritenersi “colto nell’atto” non solo il delinquente che sia arrestato nel momento in cui sta commettendo il delitto, ma anche il soggetto che sia arrestato o inseguito
immediatamente dopo averlo commesso, sempre che l’inseguimento si sia protratto o non sia stato sospeso né l’autore si sia posto fuori della portata di coloro che lo inseguono. Analogamente, è considerato “colto in flagranza” anche colui il quale subito dopo aver commesso un reato è sorpreso con effetti,
tracce, strumenti, che permettano di sospettare ragionevolmente il suo coinvolgimento nel crimine 13.
Esistono molti reati che, pur non essendo flagranti, consentono l’attivazione del giudizio rapido, non
soltanto quando è indispensabile privare il soggetto della sua libertà di movimento onde realizzare determinati atti investigativi
ovvero per garantire la sua comparizione davanti al tribunale (artt. 489 ss. L.E.Crim.). L’alternativa meno onerosa all’arresto è la
citazione a comparire (citación) dinanzi alla polizia o al tribunale, che dovrebbe seguirsi come regola generale.
12
La flagranza è, come si può vedere, uno dei fattori chiave per integrare il presupposto fondamentale dei giudizi rapidi, ossia la facilità e la semplicità delle indagini e dell’attività preparatoria del dibattimento. La flagranza esige l’immediatezza nella
percezione dei fatti e nella scoperta del colpevole, oltre che la conoscenza diretta e reale – non presuntiva – dell’attività criminale.
13
Ai sensi dell’art. 795, comma 1, n. 1ª, LE.Crim. «è considerato reato flagrante quello che si stia commettendo o si è appena
commesso, quando l’autore del reato sia colto direttamente sul fatto. Si intenderà colto sul fatto, non solo il delinquente che sia
arrestato nell’atto di commettere il reato, ma anche quello che è arrestato o inseguito immediatamente dopo la commissione, se
l’inseguimento si protragga o non si sospenda fintantoché l’autore del reato non si ponga fuori dell’immediata portata di quelli
che lo inseguono. Si considererà anche colto in flagranza il delinquente che, subito dopo aver commesso il fatto, sia sorpreso con
effetti, strumenti o evidenze che consentano di presumere la sua partecipazione in esso».
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richiedendo un’attività investigativa complessa e approfondita. Non si tratta tanto di specifiche tipologie delittuose, quanto piuttosto di particolari modalità di commissione delle stesse, di peculiari circostanze che connotano l’atto criminale o la scoperta dello stesso, del comportamento del colpevole, della
vittima, di testimoni o l’intervento di terzi, della scoperta nei primi momenti di fonti di prova decisive,
o della particolare efficacia dell’indagine preliminare della polizia. Questa facilità o semplicità delle indagini, che in effetti può essere presunta in presenza di determinate circostanze, è stata recepita dal legislatore in termini sufficientemente chiari negli scopi, per quanto in un certo modo evanescenti nella
definizione tecnica del contenuto e della estensione del presupposto – l’istruzione semplice – ciò che,
quindi, comporta significativi margini di discrezionalità giudiziaria e di polizia.
A parte ciò, non si incontrano gravi difficoltà nell’avviare un giudizio rapido una volta presunta
un’istruzione semplice 14, sebbene successivamente i fatti magari dimostrino che la previsione iniziale si
è rivelata sbagliata. Se quello che inizialmente sembrava semplice dopo diventa complesso, il giudice in
servizio di guardia, non potendo concludere l’istruzione concentrata in tempo, trasformerà il rito speciale rapido in un procedimento abbreviato ordinario (art. 798, comma 2, n. 2 º L.E.Crim.).
Infine, l’art. 795, comma 1, n. 2ª, L.E.Crim., prevede che il processo rapido può anche essere instaurato se, concorrendo i citati requisiti generali, risulta che è stato commesso uno dei seguenti reati: rapina
(artt. 237-242 c.p.), furto (artt. 234-236 c.p.), rapina e furto del veicolo per un uso temporaneo (art. 244
c.p.), reati contro la sicurezza del traffico (artt. 379-385 c.p.), violenza familiare (art. 173, comma 2, c.p.)
danneggiamento (art. 263 c.p.), reati contro la salute pubblica (art. 368, comma 2, c.p.), e reati flagranti
contro la proprietà intellettuale (artt. 270, 273, 274 e 275 c.p.).
Siamo, secondo la dottrina, davanti ad un elenco che, di per sé, non è utile come requisito per favorire l’applicazione del giudizio in esame 15, essendo a tale scopo sufficienti i presupposti precedentemente
esaminati. La velocità del rito non dipende dal tipo di reato, ma dalle circostanze che, ricorrendo nel caso concreto, consentono e favoriscono l’applicazione di una procedura accelerata. Succede così che,
concorrendo uno degli altri due presupposti previsti dall’art. 795, comma 1, L.E.Crim. ogni reato che
rientri nel previsto limite sanzionatorio, può essere giudicato secondo le forme del procedimento rapido senza alcuna necessità di specificazione tipologica. E, viceversa, se non ricorre nessuno degli altri
due requisiti (flagranza di reato o istruzione semplice) difficilmente per tali ipotesi criminose potrà procedersi con le cadenze del giudizio de quo.
LE ESCLUSIONI
L’art. 795, commi 2 e 3, L.E.Crim., stabilisce due divieti che impediscono l’attivazione del giudizio rapido. Il primo riguarda i casi di reati connessi che non rientrano nell’ambito di applicazione del processo
in questione; il secondo, quando il giudice di guardia impone il segreto sull’attività d’indagine.
In virtù della prima regola, ove uno dei reati per cui è applicabile il processo rapido sia connesso con
altro che è escluso dall’ambito di applicazione di tale rito, la connessione viene mantenuta, ricadendo
però la vis attrattiva sulla corrispondente procedura ordinaria. In base alla seconda regola, i procedimenti in cui è necessario imporre il segreto investigativo, risultano incompatibili con la celebrazione del
rito in esame, posto che l’istruzione concentrata e la correlativa e altresì veloce preparazione del giudizio esigono la presenza di tutte le parti davanti al giudice, nonché l’accesso immediato delle stesse al
contenuto degli atti investigativi compiuti.
LA DECISIONE DI ATTIVARE IL PROCESSO RAPIDO
Il legislatore ha configurato il giudizio rapido come un procedimento penale ad attivazione obbligatoria –
non facoltativa – ove ricorrano i presupposti previsti nel codice di rito. In tale eventualità, l’instaurazione
di questa via semplificata è ineludibile, tanto immediatamente per la polizia giudiziaria nella fase delle
indagini preliminari, quanto in un secondo momento per il giudice istruttore, che deve dare avvio ai c.d.
14
Circa il significato che deve essere attribuito all’espressione "istruzione semplice" v. la citata Circular 1/2003, della Fiscalia
General del Estado.
15
La critica a questo elenco nominativo è stata praticamente unanime nella dottrina processuale spagnola.
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“atti urgenti di istruzione” (diligencias urgentes nella terminologia del codice di rito spagnolo).
Come si afferma chiaramente nella circular 1/2003 della Fiscalia General del Estado (Procura Generale
dello Stato) 16 «se il giudice istruttore di guardia reputa che concorrono i presupposti stabiliti nell’art.
795, sarà obbligato a seguire le regole di questo giudizio speciale. È una questione di ordine pubblico
processuale. Non spetta al giudice e alle parti la libertà di scegliere un rito diverso dal giudizio rapido
se concorrono i presupposti dello stesso».
L’INDAGINE PRELIMINARE DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA: COMPETENZE GENERALI E SPECIFICHE
Uno degli aspetti fondamentali del giudizio rapido è costituito dall’indagine preliminare condotta dalla
polizia giudiziaria, in particolare dall’applicazione in questa fase dei protocolli, delle competenze e delle misure specificamente attribuiti a tale organo per facilitare uno svolgimento rapido delle investigazioni e una altrettanto veloce istruzione giudiziaria durante il servizio di guardia.
Le norme che disciplinano specificamente il giudizio rapido confermano ed estendono le competenze generiche che l’attuale modello di processo penale spagnolo – in particolare il procedimento abbreviato – riconosce alla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini preliminari 17. Si tratta, principalmente, delle attività di scoperta e assicurazione delle fonti di prova (intervento, ricerca e conservazione
del corpo del reato e dello stato dei luoghi); delle attività volte alla identificazione delle persone coinvolte nel reato (presunto responsabile, offeso, testimoni); delle attività finalizzate ad aiutare la vittima,
nonché, delle attività di comunicazione dei diritti e delle garanzie spettanti al danneggiato dal reato, alla persona offesa ed al presunto autore.
All’attività di indagine della polizia giudiziaria nel giudizio rapido si applicano, inoltre, le disposizioni generali in tema di realizzazione dell’atestado policial contenute negli artt. 292 ss. L.E.Crim., con le
specificità già accennate in punto di obbligo di rimettere tale atto in forma scritta al pubblico ministero
ed al giudice istruttore in servizio di guardia.
Oltre alle cosiddette “competenze generiche”, le norme del giudizio rapido attribuiscono alla polizia
giudiziaria alcune competenze specifiche, che non sono propriamente di “ricerca”, ma costituiscono
piuttosto atti preparatori che anticipano cadenze processuali e garantiscono la presenza di persone,
nonché la disponibilità della documentazione necessaria per completare l’istruzione e preparare il dibattimento durante il c.d. servizio giudiziario di guardia.
Il primo di questi specifici poteri conferiti alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari
nel processo rapido è il dovere di emettere le citazioni per garantire la presenza davanti al giudice
istruttore dell’imputato che non sia stato arrestato, dei testimoni, della persona offesa o del danneggiato
dal reato ed, eventualmente, dei responsabili civili. A tal fine, i punti dal n. 3ª al n. 5ª dell’art. 796,
comma 1 L.E.Crim. impongono alla polizia giudiziaria il dovere di citare a comparire davanti al giudice
istruttore le menzionate persone indicando il giorno e l’ora della comparizione. 18
Il secondo gruppo di competenze attribuite alla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini preliminari del giudizio rapido ha la finalità di garantire l’espletamento immediato delle perizie necessarie
per la qualificazione giuridica dei fatti, assumendo la stessa polizia la loro realizzazione, ovvero affi-
16
Circular 1/2003, della Fiscalia General del Estado, cit., p. 29.
17
Dipendendo ab initio dall’attività della polizia giudiziaria la possibilità di avviare le c.d. diligencias urgentes, attivando il
giudizio rapido, la disciplina in esame ha qualitativamente ampliato il ruolo e la responsabilità di tale organo. In primo luogo, si
esige dalla polizia giudiziaria una conoscenza sufficientemente ampia del meccanismo procedurale del giudizio rapido e una
decisione immediata sulla qualificazione indiziaria dei fatti, in modo tale che se il supposto reato rientra nell’ambito di applicazione del rito si dispongano misure e protocolli speciali di accelerazione durante lo svolgimento delle indagini. In secondo luogo, va rilevato che la concentrazione procedimentale inizia – o dovrebbe iniziare – nella stessa fase delle indagini preliminari,
ciò che richiederebbe da parte della polizia giudiziaria una selezione di priorità, accordandosi preferenza all’effettuazione di
investigazioni su fatti che, quantunque in via provvisoria, potrebbero essere soggetti all’applicazione del giudizio rapido.
18
Queste citazioni saranno effettuate dalla polizia giudiziaria utilizzando una agenda electrónica programada de citaciones che è
collegata con i tribunali penali d’istruzione attraverso una rete informatica. Ai sensi dell’art. 49 del Reglamento del C.G.P.J. sugli
aspectos accesorios de las actuaciones judiciales, «ai fini di quanto previsto negli articoli 796 e 962 L.E.Crim., l’assegnazione di spazi
temporali per quelle citazioni fatte dalla polizia giudiziaria innanzi al giudice istruttore, si realizzerà attraverso una Agenda Programada de Citaciones (A.P.C.), che elencherà le frange orarie disponibili in ciascun tribunale d’istruzione in servizio di guardia
per tale finalità».
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dandosi all’apposita valutazione di esperti da rimettere al giudice istruttore durante il servizio di guardia. A tali perizie si riferiscono i punti n. 1ª, 6ª, 7ª e 8ª dell’art. 796, comma 1 L.E.Crim. sulle relazioni
mediche, le relazioni sulla natura e la composizione delle sostanze, le analisi del sangue, i test alcolemici, e la valutazione delle cose collegate con il reato.
L’ISTRUZIONE GIUDIZIARIA
In linea di principio, l’istruzione giudiziaria del giudizio rapido non può durare più del tempo previsto
per il servizio di guardia del giudice istruttore competente per questo procedimento speciale 19.
Una volta completato l’atestado policial e consegnatolo al giudice – eventualmente conducendo innanzi a questo anche l’arrestato, ove vi fosse – l’organo giudicante deve decidere se iniziare il giudizio
rapido o se, mancando alcuni dei suoi requisiti, deve essere seguita la via del procedimento abbreviato.
Se ritiene che il giudizio rapido è la procedura adeguata, ordinerà il compimento di c.d. “diligencias
urgentes”, nome che riceve la fase d’istruzione giudiziaria nel rito de quo. Si tratta di una fase procedimentale ispirata ai principi di oralità, concentrazione e contraddittorio, dovendo essere presenti al
compimento degli atti l’organo dell’accusa e l’imputato assistito dal suo difensore.
La fase d’istruzione nel giudizio rapido ha, sostanzialmente, un triplice contenuto. Il primo compito
del giudice istruttore in c.d. servizio di guardia è quello di verificare se le indagini preliminari compiute dalla polizia giudiziaria si sono concluse e risultano integralmente nella documentazione ricevuta dal
tribunale. In caso contrario, ossia quando uno o più atti non sono stati ricevuti o devono essere completati, il giudice ordinerà che si compiano o si completino nel più breve tempo possibile, dovendosi tenere in conto che si tratta di indagini essenziali e che non possono essere ricevute oltre il termine di durata massima del servizio di guardia, altrimenti il giudizio rapido si trasformerà in un procedimento abbreviato ordinario, perdendo gran parte della sua velocità.
La seconda delle attività tipiche dell’istruzione giudiziaria del giudizio in esame riguarda le dichiarazioni personali. Vi rientrano la contestazione dell’imputazione e la dichiarazione dell’imputato, la sua
identificazione attraverso atti di ricognizione, le dichiarazioni dei testimoni e la comunicazione dei diritti spettanti alla vittima del reato.
Infine, completano gli atti d’istruzione l’informazione su eventuali precedenti penali dell’imputato
tratta dal c.d. “registro centrale di storie criminali”, ed il compimento di tutti quegli altri atti che fossero
necessari, sempre che possano essere effettuati entro il termine di durata massima del servizio giudiziario di guardia.
LA FASE INTERMEDIA E L’EVENTUALE PROSECUZIONE DEL PROCEDIMENTO CON IL GIUDIZIO RAPIDO:
L’ALTERNATIVA TRA L’ARCHIVIAZIONE E IL DIBATTIMENTO
Lo sviluppo del giudizio rapido sotto il controllo del giudice istruttore si divide in due fasi concatenate
che si succedono senza interruzioni. La prima di queste, come si è appena visto, comprende la fase
istruttoria propriamente detta, in cui il giudice valuta l’atestado policial, ammette l’instaurazione del
giudizio rapido attraverso i c.d. “atti urgenti d’istruzione” (diligencias urgentes), completa ove necessario
l’indagine preliminare della polizia e compie gli atti d’istruzione di esclusiva competenza giudiziaria 20.
Sentite le parti, decide sulla chiusura dell’istruzione, sull’esistenza d’indizi sufficienti per procedere e
sulla procedura adeguata.
Conclusa l’istruzione ed avviata la procedura attraverso le formalità del giudizio rapido, si apre senza alcuna interruzione la seconda fase del procedimento speciale, il cui contenuto è quello tipico della
19
I termini sono, come regola generale, di 24 ore per i tribunali d’istruzione in servizio di guardia nei comuni con più di dieci giudici d’istruzione e di una settimana per i tribunali d’istruzione nei comuni con meno di dieci giudici d’istruzione, che saranno in servizio di guardia per una settimana. Tuttavia, per questi ultimi casi, l’art. 799, comma 2, L.E.Crim., prevede
un’eccezione: in quei distretti giudiziari in cui il servizio di guardia non sia permanente ed abbia una durata superiore a 24 ore,
il termine per concludere l’istruzione del giudizio rapido può essere prorogato di 72 ore nei casi in cui l’atestado policial sia stato
ricevuto dal tribunale entro le 48 ore precedenti alla conclusione del servizio di guardia.
20
Richiesta d’informazioni sui precedenti penali del soggetto, notifica dell’imputazione e interrogatorio dell’imputato, comunicazione dei diritti spettanti alla vittima, testimonianze, atti d’identificazione e incidente probatorio.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL GIUDIZIO “RAPIDO” SPAGNOLO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
142
fase intermedia o giudizio di controllo dell’accusa. La principale peculiarità che in questo momento il
giudizio rapido presenta consiste nel fatto che le decisioni circa la conclusione delle indagini, la continuazione del procedimento attraverso le forme del giudizio rapido, l’apertura del dibattimento,
l’archiviazione o il patteggiamento, si adottano tutte nello stesso momento, ossia, in un’udienza cui devono essere presenti tutte le parti: l’imputato e il suo difensore, il pubblico ministero e il giudice istruttore (art. 800, commi 1 e 2, L.E.Crim.).
Una volta acquisita al procedimento l’indagine della polizia e compiuti gli atti essenziali dell’istruzione, il giudice sentirà le parti – pubblico ministero, accusato, accusa privata e accusa popolare, ove
presenti – sulla sufficienza delle indagini e sull’opportunità di ammettere l’apertura del dibattimento o
archiviare il procedimento. Dopo che le parti si sono pronunciate, il giudice emette un decreto avente
uno dei seguenti contenuti:
– archiviazione del procedimento se i fatti non costituiscono reato, se non è sufficientemente provata
la loro commissione, o se non esistono sufficienti indizi di colpevolezza contro la persona accusata;
– trasformazione del procedimento ed eventuale rinvio al giudice competente se i fatti costituiscono
contravvenzioni, delitti che non rientrano nell’ambito di applicazione del giudizio rapido, reati commessi da minori ovvero fattispecie di competenza della giurisdizione militare;
– trasformazione del giudizio rapido nel procedimento abbreviato ove si reputi che l’istruzione effettuata non sia sufficiente per decidere immediatamente sull’apertura del dibattimento, occorrendo nuovi atti d’indagine;
– prosecuzione del procedimento attraverso le formalità del giudizio rapido se, integrandosi tutti i
requisiti per la sua applicazione, risulta che l’indagine sia completa e non ricorre nessuna circostanza
che impedisca l’apertura del dibattimento.
Se il giudice istruttore decide la prosecuzione attraverso la disciplina del giudizio rapido (artt. 798,
comma 2, n. 1º e 800 L.E.Crim.), nella stessa udienza in cui è già stato deciso di procedere con le forme
del procedimento speciale, verranno sentiti nell’ordine il pubblico ministero e le parti perché si pronuncino circa l’eventuale apertura del processo o l’archiviazione, ovvero perché ratifichino o richiedano
provvedimenti di natura cautelare.
Se tutte le parti richiedono l’archiviazione del procedimento, il giudice, in base al principio accusatorio, deve obbligatoriamente accordarla. Se una delle parti richiede l’apertura del dibattimento, l’organo
giudicante provvederà in tal senso a meno che non ritenga che il fatto non costituisca reato o che non vi
siano indizi sufficienti di colpevolezza contro l’imputato, nel qual caso procederà all’archiviazione del
procedimento.
LA PREPARAZIONE DEL DIBATTIMENTO
Una volta accordata l’apertura del dibattimento, il giudizio rapido può svilupparsi in un duplice modo,
a seconda che si sia o meno costituito in giudizio l’accusatore privato (acusador particular) in rappresentanza e difesa della vittima.
Se l’unica parte accusatrice è il pubblico ministero, il giudice, senza rinviare né interrompere
l’udienza, gli chiederà di formulare immediatamente l’imputazione (escrito de acusaciόn), eventualmente
anche in forma orale 21. Di fronte all’accusa del pubblico ministero, l’imputato avrà tre opzioni: a) “conformarsi”, ossia, accettare l’addebito e la sanzione richiesta dal pubblico ministero; b) opporsi all’accusa
oralmente nell’udienza stessa sviluppando gli argomenti difensivi, ovvero, c) chiedere un termine per
presentare il c.d. “scritto di difesa” (escrito de defensa), per il quale il giudice concederà un termine massimo di cinque giorni. In quest’ultimo caso, lo scritto di difesa deve essere presentato direttamente nella
segreteria del tribunale competente per il dibattimento (Juzgado de lo Penal).
21
Se nel termine concesso il pubblico ministero non presenta la sua ipotesi d’accusa, il giudice ordina l’archiviazione definitiva del processo. Questa previsione ha suscitato forti critiche tanto da parte della dottrina quanto della stessa Fiscalia General del
Estado (v. ampiamente la citata Circular 1/2003): «La soluzione che la legge stabilisce potrebbe portare alla impunità di molti reati. Una volta constatata la commissione di un presunto crimine, identificando i presunti responsabili, questa archiviazione per il
ritardo nella formulazione dell’imputazione da parte del pubblico ministero non è nient’altro che una sorta di sanzione dissimulata. In caso di negligenza, il p.m. dovrebbe invero essere sanzionato attraverso un procedimento disciplinare che non abbia alcuna ripercussione sulla sicurezza pubblica o sull’interesse della vittima e della giustizia».
ANALISI E PROSPETTIVE | IL GIUDIZIO “RAPIDO” SPAGNOLO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
143
Se, insieme al pubblico ministero, fosse presente nel procedimento l’accusatore privato, dopo la decisione di apertura del dibattimento, il giudice istruttore concederà alle parti accusatrici un termine
massimo di due giorni per formulare i loro scritti d’accusa (escritos de calificaciόn), che di seguito saranno comunicati all’imputato per la presentazione nei cinque giorni successivi del corrispondente scritto
di difesa (escrito de defensa) davanti al giudice del dibattimento.
Formalizzate le posizioni di accusa e difesa, nei quindici giorni seguenti il cancelliere convocherà le
parti davanti al tribunale competente per il giudizio. Il giudice istruttore darà quindi corso alle citazioni
delle persone che, secondo quanto richiesto dalle parti negli scritti d’accusa e difesa, dovranno comparire davanti al tribunale come testimoni o periti.
Una volta che l’organo del giudizio abbia ricevuto gli atti del procedimento, deciderà con decreto
sulle richieste di prova avanzate, considererà come oppostosi alle accuse l’indagato che non abbia tempestivamente presentato il suo scritto di difesa, e darà corso alle comunicazioni che non sono state effettuate dal cancelliere dell’organo istruttore.
LA C.D. “CONFORMITÀ”
Nel processo penale spagnolo, la c.d. “conformità” (conformidad) 22 consente all’imputato di evitare il dibattimento accettando una sentenza di condanna che recepisce l’imputazione e la pena più grave tra
quelle formulate dalle parti accusatrici. Si tratta di una forma di risoluzione anticipata del processo, attraverso la “disponibilità” della pretesa punitiva penale, ampiamente utilizzata nella pratica, tanto che,
negli ultimi anni, più della metà dei procedimenti penali per reati meno gravi sono stati definiti con tale
procedura, assimilabile al patteggiamento italiano.
La disciplina del giudizio rapido contiene una chiara scommessa a favore della “conformità”, tanto
nella forma di giustizia penale negoziata, quanto nella nuova versione di conformità “premiata” concessa d’ufficio ed automaticamente.
Infatti, in materia di “conformità”, il giudizio rapido apre due alternative per l’imputato. In primo
luogo, questi può fornire – in modo immediato – davanti al giudice istruttore la sua adesione all’imputazione formulata dal pubblico ministero.
In questo caso, se l’imputato non ha precedenti penali e la pena richiesta dal pubblico ministero non
supera i tre anni di reclusione, o è una multa, o una sanzione di altra natura di durata inferiore a dieci
anni, la pena inflitta si ridurrà automaticamente – per effetto di questa “conformità immediata”– di un
terzo, il che comporta anche la possibilità di beneficiare della sospensione condizionale prevista – in caso di mancanza di precedenti penali del condannato – per le sentenze di condanna a pene privative della libertà personale inferiori a due anni. Questa modalità di conformità ha la particolarità che l’organo
competente a pronunciare la sentenza è lo stesso giudice istruttore in servizio di guardia, la cui imparzialità non si vedrà contaminata da una minima attività d’istruzione puramente formale, che si limita
solo a controllare la ricorrenza dei requisiti legali richiesti per avallare la conformità intercorsa tra le
parti.
In secondo luogo, l’imputato può formalizzare la “conformità” nel suo scritto di difesa, ovvero in
forma orale durante la prima udienza del dibattimento. Questa opzione può essere utilizzata dall’imputato quando è presente nel procedimento l’accusa privata o quando, dopo la fase intermedia, abbia
bisogno di negoziare con il pubblico ministero una riduzione della pena. Se la conformità è prestata
nello scritto di difesa e soddisfa tutti i requisiti legali (piena, consapevole, espressa, etc.), il dibattimento
non avrà luogo e il giudice emetterà una sentenza conforme con l’accordo intercorso. Se la conformità si
esprime all’inizio del dibattimento, prima dell’istruzione probatoria, il dibattimento è sospeso e, ricorrendo i presupposti, il tribunale pronuncerà la sentenza di stretta conformità.
22
Si tratta di un istituto simile al patteggiamento italiano. Il nome – “conformità” – riflette la sua origine storica, che non
prevedeva nessuna negoziazione tra l’imputato e l’accusa: l’imputato accettava la più grave delle accuse formulate, risparmiandosi così il dibattimento. Adesso, dopo alcune riforme non sempre chiare, la vecchia “conformità” si avvicina alla moderna giustizia penale negoziata.
ANALISI E PROSPETTIVE | IL GIUDIZIO “RAPIDO” SPAGNOLO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
144
IL DIBATTIMENTO E L’IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA
Il dibattimento nel giudizio rapido non presenta peculiarità rispetto a quello proprio dei procedimenti
ordinari. Dopo aver letto gli scritti di accusa e difesa, e aver eventualmente risolto le questioni preliminari, si procederà all’assunzione in contraddittorio delle prove richieste ed ammesse dal tribunale, terminando il dibattimento con le conclusioni finali delle parti ed i loro rispettivi “rapporti orali di ricapitolazione” (informes orales de recapitulaciόn).
Contro la sentenza del tribunale penale nel giudizio rapido può essere presentato appello davanti al
tribunale provinciale (Audencia Provincial), la cui decisione non potrà essere impugnata in cassazione
davanti alla Corte Suprema (Tribunal Supremo). Come unica singolarità nella disciplina dell’impugnazione del giudizio rapido, si deve rilevare che il termine per la presentazione dell’impugnazione è
più contenuto rispetto all’appello del procedimento abbreviato – cinque giorni invece di dieci – ed è ridotto anche il termine entro cui il tribunale provinciale deve decidere (tre giorni se si è svolta udienza
d’appello, cinque giorni se non è stata celebrata udienza).
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ANALISI E PROSPETTIVE | IL GIUDIZIO “RAPIDO” SPAGNOLO
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
145 Indici | Index
AUTORI / AUTHORS
Teresa Alesci
L’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso presso i locali del contribuente:
natura e regime giuridico/The Public Prosecutor’s authorization to access into the premises of taxpayer: legal nature
87
Marilena Colamussi
De jure condendo
12
Paola Corvi
Decisioni in contrasto
32
Donatella Curtotti
Corte costituzionale
22
Roberto De Rossi
Procedimento di restituzione delle cose sequestrate: potenziali equivoci e problemi applicativi/Process of confiscated goods: potential misunderstandings and application problems
73
Ignacio Flores Prada
Il giudizio “rapido” spagnolo/The spanish speedy trial
134
Irene Guerini
L’iniziativa probatoria del giudice nel processo penale accusatorio: la Cassazione definisce i
limiti all’esercizio del “potere di completamento istruttorio” di cui all’art. 507 c.p.p./The Judge’s power to complete the investigations in the adversary criminal trial
42
Lucia Iandolo
Gli strumenti per rilevare il pre-giudizio di chi ha emesso la sentenza di patteggiamento verso
il coimputato nel medesimo reato/Defining the tools to note when a judge has already voiced his
own conviction
62
Antonio Pagliano
Sezioni Unite
26
Lorenzo Pulito
Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale/Probation for adults:
analysis of a new proceedings model
97
Antonino Pulvirenti
Sequestro e internet: un difficile binomio tra “vecchie” norme e “nuove” esigenze/Seizure and
internet: a “difficult” combination between old standards and new requirements
111
Gianrico Ranaldi
La rescissione del giudicato: esegesi di una norma imperfetta/Breach of res iudicata: exegesis of an inperfect rule
123
Francesco Trapella
Corti europee/European Courts
INDICI
17
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
146
Gianluca Varraso
Verso una riforma della giustizia penale? Dubbi e speranze/Towards a reform of criminal matter? Doubts and perspectives
1
Elena Zanetti
Novità sovranazionali/Supranational news
7
PROVVEDIMENTI / MEASURES
Corte costituzionale
C. cost., ord. 22 ottobre 2014, n. 245
C. cost., sent. 22 ottobre 2014, n. 239
22
23
Corte di cassazione – Sezioni Unite penali
sentenza 26 giugno 2014, n. 36847
sentenza 29 settembre 2014, n. 40187
sentenza 9 ottobre 2014, n. 42030
sentenza 14 ottobre 2014, n. 42858
sentenza 14 ottobre 2014, n. 42979
sentenza 28 ottobre 2014, n. 44895
sentenza 17 novembre 2014, n. 47239
sentenza 20 novembre 2014, n. 47999
55
26
26
27
28
29
30
30
Sezioni semplici
Sezione III, sentenza 1° aprile 2014, n. 2487
Sezione I, sentenza 4 giugno 2014, n. 23333
Sezione I, sentenza 26 giugno 2014, n. 27879
84
69
35
Atti sovranazionali
Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione di competizioni sportive (CETS
n. 215)
De jure condendo
Disegno di legge costituzionale C. 2657 «Modifiche agli articoli 102 e 103 della Costituzione in
materia di soppressione dei tribunali militari e istituzione di una sezione specializzata per i reati militari presso i tribunali ordinari»
Disegno di legge C. 2055 «Modifiche al codice di procedura penale e altre disposizioni concernenti
l’istituzione di squadre investigative comuni sovranazionali, in attuazione della decisione quadro
2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002»
7
12
13
Decisioni in contrasto
Sezione I, 3 ottobre 2014, n. 43394
32
Corte europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
16 settembre 2014, Stella e altri c. Italia
16 settembre 2014, Rexhepi e altri c. Italia
23 settembre 2014, Cevat Soysal c. Turchia
21 ottobre 2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia
21 ottobre 2014, Lungu e altri c. Romania
4 novembre 2014, Tarakhel c. Svizzera
20 novembre 2014, Jaloud c. Olanda
27 novembre 2014, Lucky Dev. c. Svezia
17
17
17
18
19
20
20
20
INDICI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
147
Competenza
 Inoppugnabile l’ordinanza del gip con cui egli dispone la propria incompetenza in virtù
del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione (Cass., sez. un., 9 ottobre 2014, n.
42030)
26
Competizioni sportive
 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla manipolazione di competizioni sportive (CETS
n. 215)
7
MATERIE / TOPICS
Difesa e difensori
 Dalla natura giuridica dell’astensione del difensore consegue l’illegittimità del rigetto della
richiesta di rinvio per esigenze di giustizia non contemplate dal codice di autoregolamentazione (Cass., sez. un., 29 settembre 2014, n. 40187)
 Pluralismo procedurale e diritto di difesa. Omesso avviso di conclusione delle indagini nel
procedimento innanzi al giudice di pace (C. cost., 22 ottobre 2014, n. 245)
22
Diritti fondamentali (tutela dei)
 Centri di accoglienza per rifugiati (Corte e.d.u., 4 novembre 2014, Tarakhel c. Svizzera)
 Respingimenti collettivi (Corte e.d.u., 21 ottobre 2014, Sharifi e altri c. Italia e Grecia)
20
18
Esperienze straniere
 Il giudizio “rapido” spagnolo/The spanish speedy trial, di Ignacio Flores Prada
Flagranza
 La condizione di quasi flagranza nell’ipotesi di inseguimento della persona indiziata da
parte della polizia giudiziaria (Cass., sez. I, 3 ottobre 2014, n. 43394)
30
134
32
Giudicato
 Giudicato (Corte e.d.u., 21 ottobre 2014, Lungu e altri c. Romania)
 Il valore del giudicato ed i poteri del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena nel
caso di dichiarazione di incostituzionalità di una norma diversa da quella incriminatrice
(Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42858)
 Ne bis in idem (Corte e.d.u., 27 novembre 2014, Lucky Dev c. Svezia)
27
20
Giudice
 L’incompatibilità del giudice che ha applicato la pena su richiesta nei confronti del concorrente necessario (Cass., sez. un., 26 giugno 2014, n. 36847), con nota di Lucia Iandolo
55
– giudice di pace
 Omesso avviso di conclusione delle indagini nel procedimento innanzi al giudice di pace
(C. cost., ord. 22 ottobre 2014, n. 245)
 Potere istruttorio d’ufficio del giudice e prove inutilizzabili (Cass., sez. I, 26 giugno 2014, n.
27879), con nota di Irene Guerini
19
22
35
Giudizio immediato
 La natura dei termini per la richiesta di giudizio immediato ordinario e custodiale e le conseguenze in caso di mancato rispetto (Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42979)
28
Impugnazioni cautelari
 Esclusione della legittimità della parte civile a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento emesso in sede di riesame sul sequestro conservativo (Cass., sez. un., 20 novembre
2014, n. 47999)
30
INDICI
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
148
Impugnazioni straordinarie
 La rescissione del giudicato: esegesi di una norma imperfetta/Breach of res iudicata: exegesis
of an imperfect rule , di Gianrico Ranaldi
123
Indagini preliminari
 Effettività delle indagini (Corte e.d.u., 20 novembre 2014, Jaloud c. Olanda)
 Squadre investigative comuni per contrastare la fenomenologia criminale transnazionale
(D.d.l. C. 2055 «Modifiche al codice di procedura penale e altre disposizioni concernenti
l’istituzione di squadre investigative comuni sovranazionali, in attuazione della decisione
quadro 2002/465/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002»)
20
13
Messa alla prova
 Messa alla prova per adulti: anatomia di un nuovo modello processuale/Probation for
adults: analysis of a new proceedings model di Lorenzo Pulito
97
Misure cautelari personali
 Esclusione degli effetti retroattivi della decorrenza dei termini interfasici della misura cautelare “ora per allora” in caso di successiva declaratoria di incostituzionalità degli artt. 4-bis
e 4-vicies ter del d.l. 272 del 2005 (Cass., sez. un., 28 ottobre 2014, n. 44895)
29
Inutilizzabilità
 Potere istruttorio d’ufficio del giudice e prove inutilizzabili (Cass., sez. I, 26 giugno 2014, n.
27879), con nota di Irene Guerini
35
Misure di prevenzione
 Esclusione del termine a difesa in caso di ricorso contro la misura di prevenzione patrimoniale proposto dal difensore del terzo interessato non munito di procura speciale (Cass., sez.
un, 17 novembre 2014, n. 47239)
30
Ordinamento penitenziario
 Carceri italiane (Corte e.d.u., 16 settembre 2014, Stella e altri c. Italia; Corte e.d.u., 16 settembre
2014, Rexhepi e altri c. Italia)
 La detenzione domiciliare speciale: le istanze di difesa sociale “recessive” rispetto
all’interesse “prioritario” della prole (C. cost., sent., 22 ottobre 2014, n. 239)
 Verso una riforma della giustizia penale? Dubbi e speranze/Towards a reform of criminal
matter? Doubts and perspectives, di Gianluca Varraso
Parte civile
 Esclusione della legittimità della parte civile a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento emesso in sede di riesame sul sequestro conservativo (Cass., sez. un., 20 novembre
2014, n. 47999)
17
23
1
30
Processo penale
– equo processo
 Acquisizione della prova testimoniale ed equità del processo (Corte e.d.u., 23 settembre 2014,
Cevat Soysal c. Turchia)
 Verso una riforma della giustizia penale? Dubbi e speranze/Towards a reform of criminal
matter? Doubts and perspectives, di Gianluca Varraso
Prova
 Acquisizione della prova testimoniale ed equità del processo (Corte e.d.u., 23 settembre 2014,
Cevat Soysal c. Turchia)
INDICI
17
1
17
Processo penale e giustizia n. 1 | 2015
 L’invalidità dell’accertamento fiscale e i suoi effetti sul processo penale (Cass., sez. III, 1°
aprile 2014, n. 2487), con nota di Teresa Alesci
 Potere istruttorio d’ufficio del giudice e prove inutilizzabili (Cass., sez. I, 26 giugno 2014, n.
27879), con nota di Irene Guerini
Tribunali militari
 Dai tribunali militari a sezioni ad hoc dei tribunali ordinari (D.d.l. C. 2657 «Modifiche agli articoli 102 e 103 della Costituzione in materia di soppressione dei tribunali militari e istituzione di
una sezione specializzata per i reati militari»)
149
84
35
12
Sequestro
– conservativo
 Esclusione della legittimità della parte civile a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento emesso in sede di riesame di annullamento o revoca della misura del sequestro
conservativo (Cass., sez. un., 20 novembre 2014, n. 47999)
30
– restituzione delle cose sequestrate
 Restituzione delle cose sequestrate: incertezze interpretative (Cass., sez. I, 4 giugno 2014, n.
23333)
 Sequestro e internet: un difficile binomio tra “vecchie” norme e “nuove” esigenze/Seizure
and internet: a “difficult” combination between old standards and new requirements , di Antonino
Pulvirenti
111
Termini
 La natura dei termini per la richiesta di giudizio immediato ordinario e custodiale e le conseguenze in caso di mancato rispetto (Cass., sez. un., 14 ottobre 2014, n. 42979)
28
INDICI
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