La riforma cattolica e la Controriforma In Italia, sia per la presenza del papato a Roma, sia per l'attenta sorveglianza degli Spagnoli, cattolici ferventi, sia per la mancanza di quelle tensioni politiche che si erano avute in altri paesi, non ci furono movimenti originali di Riforma paragonabili a quelli d'Oltralpe e fu scarsa anche la diffusione delle idee luterane o calviniste. Soltanto in alcuni ambienti intellettuali ed ecclesiastici se ne ebbe sentore, ma più come un argomento di disputa che un pretesto di conversione. Tuttavia lo sdegno e la disapprovazione che erano sfociati nel movimento protestante, causati dalla mondanizzazione della Chiesa, erano diffusi anche nel mondo cattolico. Alcuni spiriti più autentici di fede cattolica si erano adoperati per una «riforma» morale e disciplinare della Chiesa. Si formarono e si svilupparono nuovi Ordini religiosi, improntati a regole severissime e austere e vòlti all'assistenza degli infermi e all'istruzione del popolo. Fra il 1520 e il 1660 circa, si contarono una ventina di Ordini religiosi nuovi, fra i quali ricordiamo: Cappuccini, Filippini, Fatebenefratelli, Barnabiti, Gesuiti, Scolopi... Anche la Curia papale fu completamente rinnovata e il Vaticano non fu più una corte come le altre del Rinascimento, ma assunse anche caratteri di austerità e di rigore di vita. I cattolici speravano che un Concilio ribadisse con chiarezza i principi di fede della Chiesa e fosse un momento di confronto e di riconciliazione con il mondo separato della Riforma. Dopo molti rinvii, determinati anche dalla difficoltà di trovare una sede che fosse gradita sia ai Tedeschi sia agli Italiani, il Concilio fu aperto a Trento nel 1542 da papa Paolo III, durante una tregua della guerra tra Francesco I e Carlo V. I lavori, comunque, ebbero inizio soltanto nel 1545 e durarono fino al 1563, con interruzioni, rinvii, mutamenti di sede. Le decisioni di questo Concilio di Trento rimangono basilari nella storia della Chiesa Cattolica che ancora oggi, salvo le innovazioni introdotte dal Concilio Vaticano II, ha come suo documento dottrinale la Professio fidei tridentinae (Professione tridentina di fede), cioè le seguenti direttive di fede: la salvezza si ottiene attraverso la fede e le opere; è importante il magistero della Chiesa nella interpretazione dei testi sacri; sono da considerarsi sette i Sacramenti; tra i Sacramenti è riconosciuto l'ordine, e quindi il sacerdozio è di istituzione divina. Dal punto di vista organizzativo il Concilio stabiliva: l'obbligo del celibato ecclesiastico; l'obbligo dei vescovi di risiedere nella sede loro assegnata; l'istituzione, presso le diocesi, dei Seminari per la formazione del clero; la conferma del latino come lingua universale della Chiesa nelle cerimonie religiose. Questi i princìpi della Controriforma. Si può notare che molti dei punti chiariti dal Concilio sono quelli su cui verteva la dissidenza con i protestanti e sui quali la Chiesa doveva assumere un atteggiamento preciso e definitivo. Contro coloro che si allontanavano da questi principi stabiliti dal Concilio, la repressione fu dura, regolata dalla Congregazione del Sant'Uffizio che inquisiva sugli «eretici» o presunti tali e, se li riconosceva colpevoli, li affidava al «braccio secolare» della giustizia, cioè alle autorità civili, per la condanna. Fu istituita anche la Congregazione dell'Indice per la sorveglianza della stampa e della distribuzione dei libri: quelli che erano giudicati pericolosi, dal punto di vista ideologico o morale per la formazione del cristiano, venivano proibiti. Guerre di religione in Francia Intanto in Francia si era diffuso ampiamente il Calvinismo, soprattutto fra i ceti popolari, ma fu violenta la persecuzione contro i calvinisti, specialmente dopo la morte di Enrico II. Gli Ugonotti, come si chiamarono i calvinisti francesi (forse da Eidgenossen = confederati), assunsero un atteggiamento di aperta ostilità contro la monarchia e nel 1560, all'avvento al trono del minorenne Carlo IX sotto la reggenza della madre Caterina de'Medici, alcuni nobili cattolici, capeggiati da Francesco di Guisa, pretesero un intervento di repressione contro di loro. Altri principi, schierati intorno alla famiglia Borbone, presero le parti degli ugonotti, più per rivalità contro i Guisa che per convinzioni religiose. E così la Francia, come precedentemente la Germania, fu sconvolta dalle guerre di religione e anche qui la religione fu spesso un pretesto per camuffare rivalità e ambizioni politiche. Si scatenarono molte azioni di violenza e nel 1562 si arrivò alla guerra che, in ben otto riprese, durò fino al 1598. L'episodio più clamoroso di queste lotte fu il massacro della notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572) in cui furono uccisi a tradimento molti dei capi ugonotti, convenuti a Parigi per le nozze di Enrico di Borbone con Margherita di Valois, sorella del re; lo stesso Enrico di Borbone si salvò a stento. Naturalmente da questo fatto scaturì una guerra ancora più violenta che conobbe un periodo di tregua soltanto nel 1576 quando, con l'editto di Beaulieu, fu concessa una certa libertà di culto agli ugonotti. Ma nel 1585 la guerra riprese più accanita; dopo la morte di Carlo IX era salito al trono suo fratello Enrico III, continuamente sobillato da Enrico di Guisa a riprendere un attacco decisivo contro Enrico di Borbone. I Guisa, in questo momento, ambivano al trono di Francia. Enrico III credette di risolvere questa «guerra dei tre Enrichi» facendo uccidere Enrico di Guisa, ma fu ucciso a sua volta da un fanatico. Prima di morire, non lasciando eredi diretti, designò suo successore Enrico di Borbone (aveva sposato sua sorella Margherita) ponendo come condizione che si convertisse alla religione cattolica. Soltanto nel 1593 il Borbone, convinto che «Parigi vale bene una Messa», abiurò al Calvinismo nella cattedrale di Saint Denis e poté entrare nella capitale da vero sovrano, con il nome di Enrico IV. Nel 1598, per mettere realmente fine alle guerre di religione, emanò l'editto di Nantes con il quale concedeva agli ugonotti un centinaio di «places de sûreté» (= posti di sicurezza, cioè luoghi dove potevano liberamente esercitare il loro culto) e aboliva la discriminazione religiosa nelle nomine agli uffici pubblici. Enrico IV fu un re energico e accentratore che seppe dare ampio sviluppo economico alla Francia, rafforzando la monarchia in senso assolutistico. Quando fu ucciso da un fanatico, nel 1610, lasciò erede il figlioletto Luigi XIII sotto la reggenza della madre Maria de' Medici, sposata dopo aver ripudiato Margherita di Valois. Nel seguente torbido periodo vi furono lotte, congiure, tentativi per destabilizzare la monarchia che stava assumendo poteri sempre più accentrati. Nel 1621 Luigi XIII assunse il potere e si affiancò il cardinale Armand du Plessis de Richelieu, abile politico. La monarchia poteva considerarsi assoluta: gli Stati Generali non vennero più convocati; si crearono degli intendenti regi che svolgessero funzioni di controllo; furono aboliti anche i privilegi degli ugonotti dopo una nuova guerra, conclusa con la loro sconfitta presso la roccaforte della Rochelle nel 1629. Sistemata saldamente la politica interna, Richelieu poteva pensare, finalmente, al rafforzamento imperialista verso l'esterno con una politica decisamente antispagnola. Spagna e Inghilterra antagoniste Nel 1556 l'imperatore Carlo V aveva deciso di abdicare al trono e, considerando troppo vasti i suoi territori per essere governati da una sola persona, decise di suddividerli tra suo fratello Ferdinando e suo figlio Filippo. Al fratello, che divenne Ferdinando I lasciò il titolo imperiale e i possedimenti d'Austria; al figlio Filippo II, lasciò la Spagna con i territori d'Italia e dei Paesi Bassi e le colonie d'America. La politica del cattolicissimo re Filippo II fu tutta improntata all'impegno di salvaguardare l'unità politica e religiosa del suo popolo per far trionfare il cattolicesimo. A questo scopo adottò la più dura intransigenza: perseguitò le minoranze ebraiche (marranos) e musulmane (moriscos); sposò Maria Tudor, regina d'Inghilterra, sperando di riportare la religione cattolica anche in quel paese; attuò una politica repressiva nei Paesi Bassi dove le religioni protestanti minacciavano il separatismo; si armò contro l'Inghilterra per punire Elisabetta I che aveva fatto uccidere Maria Stuarda. Nei Paesi Bassi, che durante il regno di Carlo V avevano goduto di una discreta autonomia, Filippo II volle attuare una politica autoritaria infierendo con esose tassazioni sui ceti mercantili e bancari e perseguitando i non cattolici. Le regioni del nord (Olanda), che avevano accolto il protestantesimo, si ribellarono nel 1576, e presto si affiancarono ad esse anche le regioni del sud (Belgio) che, pur essendo cattoliche, reclamavano maggiore autonomia. La prima reazione di Filippo fu violenta, ma poi egli dovette arrendersi e, con maggiore diplomazia, riuscì a sottomettere le regioni del sud. Nel nord, invece, una forte coalizione, Unione di Utrecht, continuò a tener testa al re: egli dovette concedere maggiore autonomia, che più tardi (1648) diventerà indipendenza per il libero regno d'Olanda. Ma la grande antagonista di Filippo II fu Elisabetta I d'Inghilterra, succeduta sul trono a Maria Turor. Il re spagnolo chiese di sposare la nuova regina, convinto di poterne domare l'esuberanza politica; ma, avuto un secco rifiuto, si adoperò a preparare una guerra definitiva contro di lei. Naturalmente non erano soltanto le ragioni religiose ad alimentare l’antagonismo tra Spagna e Inghilterra, ma piuttosto quelle commerciali ed economiche. L'Inghilterra stava avviandosi a una notevole ripresa economica sotto gli impulsi di Elisabetta I che aveva promosso una politica di sviluppo agricolo, commerciale e industriale del paese. Veniva incoraggiato lo sfruttamento delle materie prime di cui l'Inghilterra era ricca (come lana e carbon fossile), tanto da poter immettere sul mercato europeo prodotti assai competitivi per qualità e prezzo. Gli Inglesi erano anche responsabili di molti atti di pirateria contro le navi spagnole, atti che la regina fingeva di ignorare, desiderosa di impadronirsi delle grandi ricchezze che quelle navi trasportavano dalle colonie d'America e di togliere alla Spagna il monopolio delle rotte atlantiche. Nel campo religioso, Elisabetta confermò e perfezionò le caratteristiche nazionalistiche della religione anglicana e fece aspre persecuzioni contro le minoranze dissidenti, compresi i cattolici. Questo la portò anche a far uccidere Maria Stuart, la cattolica regina di Scozia che, per la sua parentela con i Tudor, veniva acclamata dai cattolici come vera erede al trono inglese. Elisabetta, accusatala di avere congiurato contro di lei, la fece decapitare (1587) suscitando lo sdegno di tutto il mondo cattolico. Filippo II si considerò direttamente provocato come difensore del cattolicesimo e colse questo grave pretesto per preparare la guerra contro la nazione che, per molteplici ragioni, rappresentava il suo nemico più forte. Preparò, quindi, un'immensa flotta, l'Invencible Armada, col proposito di invadere l'Inghilterra. Ma le cose andarono diversamente: sulla Manica l'Invencible Armada fu sconfitta dalla maggiore esperienza marinara degli Inglesi e dalle loro più agili navi, oltre che dalla furia dei venti (1588). La Spagna, costretta ad abbandonare le sue ambizioni, uscì da questa lotta ridimensionata nel suo prestigio e impoverita economicamente. La politica di Filippo II era stata piuttosto fallimentare; durante il suo regno questo re dispotico aveva riportato una sola vera vittoria, quella sui Turchi a Lepanto (1571) in appoggio alla Lega promossa dal Papa e da Venezia. Il colonialismo Mentre la Spagna, dopo Filippo II, vedeva diminuire gradatamente la sua potenza politica ed economica, altri Paesi europei, come il Portogallo, l'Inghilterra, la Francia e l'Olanda, si rafforzavano, soprattutto in virtù di una notevole spinta coloniale. Il Portogallo, che aveva già basi importanti in Africa e in Asia, puntò anche verso l'America del sud insediandosi in Brasile. La Francia si spinse nell'America dei nord, nel Canada, regione ricca per l'agricoltura e per il traffico di pellicce, e nelle Antille dove stabilì basi di commercio e anche di banditismo e pirateria (filibustieri) ai danni dei ricchi galeoni spagnoli che solcavano l'Oceano. L'Inghilterra fin dalla metà del Cinquecento aveva colonie importanti nell'America settentrionale (la Virginia), ma la più numerosa ondata migratoria partì da quel paese intorno al 1620 quando, in seguito alle persecuzioni degli Stuart, molti cittadini non anglicani cercarono fortuna oltre Oceano. Più tardi anche molti cittadini furono costretti a emigrare in cerca di nuove terre a causa della crisi economico-agricola e le colonie inglesi si moltiplicarono in breve tempo, diventando importanti fonti di materie prime per i mercati europei. L'Olanda entrò nel gioco del colonialismo senza ambizioni di conquista: gli Olandesi preferirono impiantare una fitta rete di basi commerciali in Asia, in Africa, in America per intensificare il loro traffico mercantile che divenne il più ricco d'Europa. L'Inghilterra fra assolutismo e rivoluzioni Con la regina Elisabetta I Tudor, l'Inghilterra aveva conosciuto un notevole rigoglio economico e culturale. Alla sua morte (1603), poiché non lasciava eredi, salì al trono Giacomo I, protestante, figlio di Maria Stuart. Egli intese instaurare una politica assolutistica, persecutoria verso le minoranze religiose (cattolici e puritani), dispotica verso il Parlamento che non fu convocato per ben sette anni (1614-1621). Quando morì (1625) gli successe il figlio Carlo I che intese continuare la politica paterna, alienandosi tanto il favore dei nobili quanto quello dei borghesi, con pericolosi tentativi di rivolta in tutta l'Inghilterra, stroncati sempre con autoritaria violenza. Ma nel 1640 il re non fu più capace di controllare le reazioni del Parlamento e dovette accettarne le condizioni, cioè sottostare in parte ai suoi controlli; non bastò questo a calmare il clima politico: proprio nel Parlamento si formarono due partiti: cavalieri (seguaci del re) e teste rotonde (favorevoli al Parlamento), con il conseguente insorgere della rivoluzione e poi di una guerra dura e cruenta. Dopo alterne vicende, le teste rotonde ebbero la meglio: sotto la guida del parlamentare Oliviero Cromwell, sconfissero le truppe dei re a Naseby (1645) e fecero prigioniero lo stesso sovrano, poi giustiziato (1649). Si instaurò la Repubblica di cui il Cromwell fu di fatto dittatore, dopo aver epurato il Parlamento dagli elementi a lui sfavorevoli. Egli instaurò una politica energica, tesa allo sviluppo commerciale e industriale dell'Inghilterra; per questo attuò la politica del mercantilismo e per consolidare il commercio volle liberarsi degli Olandesi, pericolosi concorrenti, emanando l'Atto di navigazione (1651) che limitava molto i loro traffici. Fu il pretesto per una guerra (1652) molto dura per l'Olanda che, vinta, dovette riconoscere l'Atto (1654). L'opera di Cromwell, seppur discutibile per i suoi metodi, fu di grande aiuto per l'Inghilterra che divenne la nazione più forte d'Europa. Alla sua morte (1659) gli successe il figlio Riccardo da lui stesso designato, ma non avendo le qualità del padre fu facilmente vinto dai realisti che, dopo una breve guerra civile, riportarono sul trono gli Stuarts con Carlo II. I dissidi con il Parlamento furono tutt'altro che sanati: Carlo II riprese una politica di esoso assolutismo che continuò anche con il suo successore, il fratello Giacomo II (1685), cattolico intransigente che si legò sempre più alla Francia e a Luigi XIV. Questo fece scatenare una seconda rivoluzione in Inghilterra: la maggioranza del Parlamento, i capi dell'esercito e della flotta offrirono la corona a Guglielmo III d'Orange, stadtholder d'Olanda, protestante, genero di Giacomo II, avendone sposato la figlia Maria. Guglielmo sbarcò in Inghilterra con quindicimila uomini, mentre Giacomo fuggiva. Fu incoronato re dopo aver giurato il rispetto della Dichiarazione dei Diritti che riconosceva al Parlamento la libertà di fare le leggi. Nasceva cosi la prima monarchia costituzionale (1689). In seno al Parlamento si formarono due partiti al fine di garantire il rispetto delle libertà costituzionali: il partito tory, conservatore (nobiltà feudale) e il partito whig, liberale (borghesia mercantile). Alla morte di Guglielmo III (1702), fu il Parlamento a offrire il trono ad Anna (l'altra figlia di Giacomo II) e, alla sua morte nel 1714, a Giorgio I di Hannover, cugino di Anna, escludendo dalla successione quei figli maschi di casa Stuart che erano cattolici. La guerra dei Trent'anni Abbiamo visto che in Germania le guerre di religione erano terminate con la pace di Augusta, ma continuavano le tensioni fra cattolici e protestanti, i primi schierati nella Lega Cattolica capeggiata da Massimiliano I di Baviera, i secondi nell'Unione Evangelica sotto la guida di Federico V del Palatinato. Questi schieramenti irrigidirono l’autonomia dei vari principati, impedendo ogni forma di unificazione tedesca. Anche Svezia, Danimarca e Boemia, dove ampiamente si era diffuso il Protestantesimo, fecero della religione un mezzo per rendersi più indipendenti dall'imperatore. Tutte le tensioni sfociarono, nel 1618, in una lunga guerra scoppiata in Boemia dove l'imperatore Mattia voleva ripristinare il Cattolicesimo, ma i suoi legati, arrivati a Praga per intimare ai nobili l'obbedienza alle disposizioni imperiali, furono gettati dalla finestra del palazzo reale (Defenestrazione di Praga): questo episodio fu il pretesto per la dichiarazione di guerra. Il conflitto, durato ben trent'anni (1618-1648), si suddivise in quattro periodi, in relazione ai paesi che di volta in volta intervennero contro l'imperatore: fase boemo-palatina (1618-1623); fase danese (1625-1629); fase svedese (1630-1635); fase francese (1635-1648). La fase francese, risolutiva, fu iniziata dal cardinale Richelieu nel 1635. I Francesi, vincitori nel decisivo scontro di Rocroi (1643), indussero l'imperatore Ferdinando III a chiedere la pace che, dopo lunghe trattative, fu firmata in Westfalia nel 1648. Fu la prima pace dei tempi moderni decisa a tavolino fra le varie potenze europee, secondo princìpi di equilibrio, ma con un'evidente affermazione della Francia e con la decadenza degli Asburgo che, pur rimanendo quasi nei loro confini, videro tramontare ogni sogno di egemonia. L’intervento francese nella Guerra dei Trent’anni rientrava nel programma di Richelieu contro gli Spagnoli, la cui casa regnante era imparentata con gli Asburgo d’Austria. Ma Richelieu, era morto nel 1642, non vide l’esito della sua politica, portata avanti da un altro statista, il cardinale Giulio Mazzarino (1621 – 1661), primo ministro di Anna d’Austria, reggente per il figlio minorenne Luigi XIV, il futuro Re Sole. Il declino della Spagna La Spagna aveva cominciato una lenta ma implacabile decadenza fino dagli inizi del XVII secolo, decadenza prima di tutto politica, dopo le sconfitte nei Paesi Bassi e contro l'Inghilterra, ma decadenza anche economica per le logoranti spese di guerra e perché dalle Americhe giungevano ben poche navi cariche di metalli preziosi (le fonti si esaurivano, i corsari catturavano i carichi). La classe borghese fu quella che risentì maggiormente della crisi anche perché lo Stato, per sopperire al crescente deficit finanziario, impose un eccessivo carico fiscale che determinò il rapido impoverimento di alcune regioni, come l'Aragona e la Catalogna, dove numerosi furono i movimenti di rivolta che videro uniti cittadini di ogni ceto sociale. Il re Filippo IV d'Asburgo pensò di risanare questa situazione imponendo tasse più pesanti alle regioni meno povere, come la Castiglia e il Portogallo e anche ai territori italiani di Napoli e di Sicilia dove fu imposta addirittura una gabella sul sale. Questo eccesso fiscale provocò l'insorgere di nuove rivolte in tutte queste regioni, con violenti episodi di sangue che furono soffocati con l'intervento armato. A Napoli le rivolte più aspre scoppiarono nel 1647 quando Tommaso Aniello (Masaniello), un focoso pescivendolo, si fece promotore di un'insurrezione che reclamava l'abolizione di tutte le tasse, e che sfociò in eccessi di cui fu vittima lo stesso promotore. La lotta continuò guidata da Gennaro Annese, un armaiolo che predicava l'indipendenza e l'instaurazione della repubblica; ma nella primavera del 1648 l'intervento di una forte armata spagnola, appoggiata dai baroni napoletani, soffocò la rivolta: la repressione fu terribile e la gravosa politica della Spagna continuò a pesare sul mezzogiorno d'Italia. Soltanto il Portogallo, dove erano latenti sentimenti di nazionalismo, trasformò le sue rivolte in moti indipendentistici e, con l'aiuto della Francia e dell'Inghilterra, vinse l'esercito spagnolo di Carlo II proclamando la sua indipendenza (1640) che fu poi ratificata dal Trattato di Lisbona del 1668. La corona fu offerta a Giovanni IV di Braganza. L'ascesa della Francia Anche la Francia, impoverita dalle guerre (guerre di religione, guerra dei Trent'anni), aveva bisogno di un riassetto economico che il cardinale Mazarino cercò di realizzare con una gravosa imposizione fiscale; sollecitò quindi un editto regio per imporre tasse ai ceti borghesi privilegiati (come gli officiers e la nobiltà di toga dei Parlamenti). Ci fu una immediata ribellione del Parlamento di Parigi che rifiutò di approvare l'editto (1648), mentre si formava una Fronda parlamentare contro l'assolutismo monarchico. Per comporre questa sedizione il ministro fece accordi e concessioni, ma siccome queste misure limitavano alcuni privilegi dei nobili, si formò una Fronda dei principi (1649) che degenerò in una guerra civile. Mazarino e la famiglia reale si allontanarono da Parigi, mentre i príncipi invocavano l'aiuto della Spagna che di fatto trascinava ancora stancamente la guerra dei Trent’anni contro la Francia; questo allearsi con il nemico suscitò lo sdegno del popolo che appoggiò il ritorno del re, schierandosi contro i principi ribelli che furono sconfitti nel 1652. La Francia dovette continuare la guerra contro la Spagna, una guerra estenuante che si concluse nel 1659 con la pace dei Pirenei: i territori francesi risultarono accresciuti di regioni al sud e al nord della nazione e anche il prestigio francese in Europa risultò consolidato. Poco dopo il re Luigi XIV sposava la figlia del re di Spagna Filippo IV, Maria Teresa, che rinunciava al diritto di successione al trono spagnolo, ma gli portava in cambio una dote di 500.000 scudi d'oro; tale somma non fu mai versata e diventerà pretesto della guerra di successione spagnola. Luigi XIV, che ormai ventenne nel 1661 aveva assunto direttamente il potere (era morto anche il Mazarino), divenne assolutista in modo esasperato. Lo Stato si identificò col sovrano che poteva ben dire «lo Stato sono io». Il re infatti dette un indirizzo assai energico alla sua politica, circondandosi di ministri esperti di sua piena fiducia, sicché la Francia fece grandi progressi nel campo economico, applicando le regole del mercantilismo e del colbertismo (dal ministro Colbert che protesse industrie e artigianato con prestiti garantiti dallo Stato); nel campo militare, intensificando l’allestimento di un forte esercito e di una potente flotta; nel campo coloniale, insediandosi nei vasti territori della Luisiana, del Canada e delle Antille in America, e fondando le basi mercantili di Pondichery e di Chandernagore in India. Luigi XIV volle applicare una politica assolutista anche in campo religioso riprendendo le persecuzioni contro tutti i movimenti non cattolici, a cominciare dagli Ugonotti, contro i quali fu emanato l'editto di Fontainebleau (1685). Anche i giansenisti, cattolici seguaci del vescovo olandese Cornelio Jansen (1585-1638), che per certe teorie sulla Grazia erano in sospetto di eresia, furono condannati dal re e il loro monastero di Port Royal fu distrutto nel 1710. Contro la Chiesa, poi, Luigi XIV assunse atteggiamento di insofferenza, ansioso di fondare una religione gallicana, cioè di Stato (parallela a quella anglicana d'Inghilterra); tuttavia si accorse che non gli conveniva inimicarsi il clero e i nobili francesi e nel 1693 confermò la sua fedeltà al papa Innocenzo XII. La mania di grandezza di Luigi XIV non poteva prescindere da ambizioni espansionistiche, principalmente ai danni della Spagna che era in rapida decadenza. Il re francese, infatti, si intromise nella successione al trono di Spagna, dopo la morte di Filippo IV (1667), reclamando l'investitura per la moglie Maria Teresa che non aveva mai ricevuto la dote pattuita. Dichiarò guerra alla Spagna e a questa seguì una serie di guerre che coinvolsero tutta l'Europa centrale e videro la Francia all'apogeo della sua espansione. Ma, a questo punto, tutte le maggiori potenze europee (Inghilterra, Spagna, Olanda ...), allarmate da questi successi, costituirono una vasta coalizione, Lega di Augusta, che dopo una lunga guerra (1688-1697) costrinse il re di Francia alla pace di Rijswijk (1697), che ridimensionava le conquiste francesi dando inizio al lento declino della nazione, la quale tuttavia rimaneva la più prestigiosa d'Europa. L'Europa dei grandi Stati Un altro intrico di guerre e di alleanze caratterizzò gli anni del primo Settecento: ogni nazione mirava ad affermare il proprio prestigio e, soprattutto in occasione della successione al trono in vari paesi europei, si scatenarono rivalità e conflitti armati, finché alla metà del secolo la pace di Aquisgrana (1748), seguita alla guerra di successione austriaca, dette il nuovo assetto all'Europa, ancora una volta deciso a tavolino e ispirato alla politica dell'equilibrio e delle spartizioni di compromesso. Le maggiori potenze europee risultavano: la Francia con il re Luigi XV della dinastia dei Borboni, legato da parentela anche ai Borboni di Spagna, Napoli, Parma e Piacenza; l'Austria con l'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo che controllava anche l'Ungheria, i Paesi Bassi, la Lombardia e la Toscana; l’Inghilterra con Giorgio di Hannover che, potente economicamente e militarmente perseguiva una politica colonialista e un po' appartata dalle vicende europee; la Prussia (un regno di recente formazione - 1701: prima era soltanto il ducato di Brandeburgo) con Federico Il di Hohenzollern che mostrava intenzioni decisamente espansionistiche; la Russia con la zarina Elisabetta, figlia di Pietro il Grande. Come è facile rilevare dal nuovo assetto, pur nel rispetto di una politica internazionale di equilibrio, la vera dominatrice d'Europa risultava la Francia, ma le sue finanze erano in dissesto ed era percorsa, al suo interno, da gravi difficoltà politiche. L'Italia, dopo la pace di Aquisgrana, presentava un assetto politico e territoriale dominato dall'influenza delle potenze straniere (gli Asburgo nel centro-nord e i Borboni nell'Italia meridionale). Ecco come risultava divisa la penisola: Regno di Sardegna: comprendeva il Piemonte, la Savoia, la Sardegna, Nizza, sotto la guida dei re Savoia; Ducato di Milano: poco più piccolo dell'odierna Lombardia, governato direttamente dall'Austria; Repubblica di Venezia: territorio indipendente ma in lento declino; Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, amministrati dal ramo spagnolo dei Borboni di Francia; Modena, invece, rimaneva agli Estensi che ne erano signori dal XIV secolo; Granducato di Toscana: governato dai Lorena, imparentati con gli Asburgo d'Austria, ma assai autonomi e illuminati nello svolgere la loro politica italiana; Stato della Chiesa: un vasto territorio che oltre al Lazio si estendeva verso le Marche, l'Umbria e la Romagna, ma con un'amministrazione debole e incapace; Regno di Napoli e di Sicilia: uno stato indipendente governato da un sovrano Borbone del ramo spagnolo. Questo assetto rimarrà immutato per circa mezzo secolo, favorendo un lungo periodo di pace che sarà turbato, a fine secolo, dalle incursioni di Napoleone. Sorprendente è, in Italia, l'ascesa della dinastia dei Savoia: di antica origine essi avevano visto crescere di molto il loro prestigio fra il XVII e il XVIII secolo. Il loro ducato si era ampliato della Lomellina, del Monferrato e dei territori fino al Ticino durante le guerre franco-spagnole, mediante un'accorta politica di alleanze. Nel 1714 ai Savoia era stato assegnato il regno di Sicilia (poi ceduto all'Austria in cambio del regno di Sardegna, 1740) e il duca Carlo Emanuele III poté fregiarsi del titolo di re. Si sottolinea l'importanza del crescere di prestigio dei Savoia perché più tardi li troveremo investiti del compito di unificare l'Italia. Ad eccezione dell'Inghilterra (monarchia costituzionale), tutti i poteri monarchici erano assoluti, legati alle divisioni classiste, con preponderanza dei ceti nobiliari che detenevano le cariche dello Stato sotto il diretto controllo dei sovrani. Intanto, l'evoluzione industriale e commerciale vedeva ovunque il progresso della borghesia, la classe sociale che sconvolgerà la storia dei decenni successivi. L'Illuminismo Nella prima metà dei Settecento, mentre imperversavano le guerre di successione volute dai sovrani assoluti, in tutta Europa si agitavano idee nuove che, a poco a poco, trasformarono la società e la politica. Le, migliorate condizioni di vita, un costante aumento di produzione sia industriale sia agricola, le conquiste della scienza (si erano scoperti i primi vaccini contro le epidemie) e della tecnica (ad esempio i primi aratri metallici e i primi telai meccanici) aumentavano nell'uomo la fiducia nelle sue capacità e nel progresso. Perciò si diffuse un certo ottimismo e la vita fu intesa come sforzo verso la produzione di beni materiali che contribuissero al benessere universale, mentre ci si convinceva sempre più che la ragione, con i suoi lumi, avviasse i popoli sulla via della felicità. Artefice e protagonista di questo nuovo modo di considerazione la vita fu il ceto borghese e Illuminismo1 si chiamò il movimento filosofico che, basandosi sulla ragione, elaborava idee concrete di giustizia sociale. In campo filosofico, infatti, alla base delle nuove concezioni stava l'uguaglianza degli uomini in nome della ragione che, essendo facoltà propria di ognuno, li rende tutti uguali per natura e destinati a conoscere e a spiegare i princìpi universali e il mistero della vita. Il passato e la tradizione erano considerati inutile bagaglio di errori e di superstizioni e perciò da rinnegare in nome di un ideale di progressiva educazione dello spirito umano, teso alla conquista del futuro attraverso la ragione. Si rifiutò anche ogni idea di Dio, in quanto non dimostrabile «scientificamente», e si sostituì l'idea di una Intelligenza creatrice, quasi un istinto naturale, a cui l'uomo obbedisce attraverso la pratica dell'onestà. In campo politico, il principio di uguaglianza fece sorgere per prima cosa l'idea della fraternità universale, intesa come solidarietà fra cittadini uniti nello Stato da un contratto per la promozione e la difesa degli interessi di tutti; fece sperare anche in una maggiore giustizia sociale attraverso la più equa distribuzione dei beni, secondo le proposte di Rousseau. L'esaltazione della ragione portò al rifiuto del governo assoluto e sembrò un abuso che un solo uomo si imponesse a tutto il popolo: Montequieu prospettò la suddivisione dei poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) in tre organismi diversi con reciproco controllo. Alla base di queste nuove aspirazioni c'era una grande ammirazione per il regime parlamentare inglese che da tempo attua- va la stretta collaborazione politica tra monarchia e borghesia, con un Parlamento che limitava di molto il potere del sovrano. Le monarchie illuminate Le concezioni politiche avanzate dagli illuministi furono condivise da molti sovrani e da molti uomini di stato; si può dire che in tutti i paesi europei ci fu una scossa riformatrice, eccetto in Francia dove i re Luigi XV e Luigi XVI si mostrarono particolarmente indifferenti alle nuove idee. Ogni Stato attuò riforme2 di diversa importanza e con diverso successo: fu 1 Le idee dell'Illuminismo avevano avuto il primo impulso in Inghilterra nella seconda metà del Seicento (con John Locke, Thomas Hobbes, John Toland); ma la culla di queste idee fu la Francia con pensatori come Francois Voltaire (1697-1778), Charles de Montesquieu (1689-1755), Jean Jacques Rousseau (1702-1778) e tutta la schiera degli Enciclopedisti, cioè di quegli intellettuali che si assunsero il compito di raccogliere tutti i risultati della scienza, riveduta criticamente con i lumi della ragione, in una grande ENCICLOPEDIA o DIZIONARIO RAGIONATO DELLE SCIENZE DELLE ARTI E DEI MESTIERI: un'opera colossale di 28 volumi, pubblicata fra il 1751 e il 1772. Le nuove idee si diffusero rapidamente, soprattutto per la diminuzione dell'analfabetismo: verso il 1750, in Inghilterra circa il 50% della popolazione sapeva leggere e scrivere; in Francia circa il 35%. Meno evidente è questa diminuzione in Italia e in Germania, anche a causa di una generale arretratezza sociale dovuta al frazionamento politico di questi paesi. I PRIMI PERIODICI Nel Settecento nascono i primi periodici a larga diffusione. In Inghilterra: 1704: The Review, trisettimanale fondato da Defoe. 1711: The Tatler (II Chiacchierone). 1712: The Spectator (Lo Spettatore). In Italia: 1760: La Gazzetta veneta 1763: La Frusta letteraria 1764: II Caffè. I PRIMI QUOTIDIANI In Inghilterra: The Daily Courant (1702); The Times, ancora esistente, fu fondato nel 1788 a Londra. In Francia: Journal de Paris (1777). Durante la Rivoluzione, fra il 1789 e il 1792, si pubblicarono 140 giornali! In Italia: Diario Veneto (1765). 2 • Dove si attuarono le maggiori riforme? • In Austria: Maria Teresa attuò l'azione riformatrice più ardita. Cominciò con il riordinamento fiscale: stabilì, infatti, il censimento dei sudditi e delle loro proprietà (catasto) al fine di distribuire in modo più equo che in passato il carico tributario. Istituì, poi, il Direttorio dell'Interno, con sede a Vienna, per amministrare i vari paesi dell'Impero, formato da sudditi di nazionalità diverse (tedeschi, italiani, francesi, slavi, rumeni...). Fu rispettosa verso la Chiesa cattolica, ma abolì il tribunale dell'Inquisizione e attuò un regime di tolleranza verso le altre religioni. Molto meno accorta fu la politica di suo figlio Giuseppe II verso la Chiesa e verso le popolazioni legate all'Austria, tanto che abolì molti dei provvedimenti già in atto. • In Prussia: Federico II, studioso di filosofia e amico di illuministi, fu molto disponibile ad accettare le nuove idee: continuò la politica militarista dei suoi predecessori, ma incrementò anche l'economia con opere di bonifica; istituì la Banca di Berlino per introdotta una maggiore tolleranza religiosa e furono decretate restrizioni all'influenza della Chiesa nella vita dello Stato (limitazione della manomorta ecclesiastica e soppressione di alcuni istituti di istruzione gestiti dai Gesuiti); furono abolite la tortura la tratta degli schiavi e la servitù della gleba; vennero sviluppate tutte le attività intellettuali e studiati provvedimenti per aumentare il benessere economico. Entro questi limiti, e improntate a questi scopi, si possono comprendere le riforme attuate dai più illustri esponenti del dispotismo illuminato: Maria Teresa e Giuseppe II in Austria, Federico Il in Prussia, Caterina Il in Russia. Non sempre i buoni propositi dei sovrani furono accolti con benevolenza, specialmente dalle classi sociali più abbienti che osteggiarono, spesso con violenza, ogni riforma che contrastava con i loro privilegi. Se ne ebbe un esempio in Russia dove la zarina Caterina dovette recedere dai suoi programmi d'innovazione, osteggiati dai nobili proprietari terrieri. Tuttavia le idee illuministe non si arrestarono e provocarono inquietudini e sommosse fra la popolazione, sobillata dagli intellettuali (l'intellighenzia) fautori delle idee progressiste contro la prepotenza feudale. Anche nel Regno di Napoli Carlo III di Borbone non poté attuare alcuna politica nuova; diverse furono le cause: - lo stato di arretratezza del regno a prevalente economia agricolo-pastorale, che avrebbe avuto bisogno di consistenti mutamenti; - l'ostilità dei nobili, arroccati sulle loro posizioni di preminenza sia economica sia culturale; - la mancanza di una classe borghese che recepisse e difendesse le nuove idee. I pochi tentativi di innovazione da parte di Carlo III si vanificarono quando gli successe il figlio Ferdinando IV, debole e accomodante. Nonostante lo sforzo di questi sovrani «illuminati», non mutava ancora lo spirito del potere, sempre incentrato sui diritti assoluti dei sovrani, arbitri incondizionati dei loro popoli. Per affermare decisamente le nuove idee e impostare un reale cambiamento della società, si doveva passare, purtroppo, attraverso tre rivoluzioni che, in modo diverso, contribuirono a dare una svolta importante al corso della storia: la rivoluzione industriale; la rivoluzione americana; la rivoluzione francese. La rivoluzione industriale Ben diversa dalle altre due fu la rivoluzione industriale: anzi, impropriamente la chiamiamo «rivoluzione» in quanto si attuò con gradualità e senza violenze, almeno non con quelle che generalmente distinguono le rivoluzioni vere e proprie. Eppure fu proprio una rivoluzione in quanto letteralmente sovvertì le strutture sociali ribaltando le fonti della ricchezza economica. Essa si attuò dapprima fra il XVIII e il XIX secolo, nei maggiori paesi europei e in America, in seguito all'introduzione delle macchine a sostegno, e spesso in sostituzione, del lavoro dell'uomo 3. proteggere lo sviluppo del commercio e dell'industria; favorì soprattutto un forte impulso culturale. Tuttavia la società prussiana rimase dominata dagli junker, i nobili latifondisti che fornivano ufficiali e funzionari pubblici. • In Russia: la zarina Caterina elaborò un programma di indagine sociale per l'applicazione di una equa legge fiscale, ma fu costretta dai suoi consiglieri a recedere da ogni progetto. • A Milano: dietro la spinta di provvedimenti attuati in Austria, venne realizzato il censimento dei beni fondiari (catasto di Maria Teresa); vennero intraprese bonifiche e intesificate le attività agricole e industriali; venne attuata la «redenzione delle regalie», cioè lo Stato assunse in proprio la gestione delle tasse (pedaggi, dazi, tributi vari...) che erano in mano ai privati: si arricchì l'erario che riversò beni in opere di pubblica utilità. • In Toscana: il granduca Leopoldo, figlio di Maria Teresa d'Austria, dette una svolta riformistica alla sua politica favorendo il frazionamento delle grandi proprietà in piccoli appezzamenti di terreno (poderi); aumentarono così le terre da coltivare e quindi ne trasse vantaggio l'economia a danno degli antichi privilegi gentilizi. Una nuova legislazione (Codice leopoldino) raccolse le disposizioni di riforma. 3 La scienza e la tecnica La scienza e la tecnica sono in parte le grandi artefici del mutamento culturale del Settecento: le scoperte e le invenzioni avviano e agevolano la maturazione delle idee illuministe e, come abbiamo già ricordato, sono alla base del rinnovamento economico della società. Il maggior sviluppo della tecnica si ebbe dapprima nel campo tessile: per la filatura e la tessitura di cotone e lana, essenziali all'economia di molti paesi europei, come ad esempio l'Inghilterra, furono realizzati telai meccanici sempre più perfetti e rapidi che sostituirono in breve tempo la lenta lavorazione a mano. L'Inghilterra, per opera di John Kay, James Hergreaves, Edmund Cartwright, che misero a punto macchine per filare e tessere, fra il 1733 e il 1785 triplicò la sua produzione. Anche nel campo della metallurgia si ebbero rapide innovazioni, grazie all'impiego dell'energia a vapore scoperta da Thomas Newcomen nel 1708, perfezionata da James Watt nel 1781 e resa di basso costo con l'uso del carbon fossile, dopo il successo degli esperimenti di Henry Cort del 1784; la produzione dell'acciaio raddoppiò rapidamente in tutta Europa. Intanto gli scienziati come Lazzaro Spallanzani (biologo), Giambattista Morgagni (medico), Adam Smith (economista) teorizzavano nuovi principi scientifici, ciascuno nel proprio campo, con opere fondamentali per la ricerca moderna. L'elenco di nomi illustri potrebbe continuare a lungo, ma ricordiamo almeno qualcun altro degli scienziati più noti: Andrea Celsius, l'astronomo svedese che inventò il termometro centigrado; Benjamin Franklin, l'estroso e versatile statunitense che inventò il parafulmine; il fisico italiano Alessandro Volta che, partendo dalla scoperta dell'elettricità animale fatta da Luigi Galvani, scoprì la teoria dell'elettricità di contatto e inventò la pila. La corsa irrefrenabile dei progresso moderno era appena cominciata. Ebbe inizio in Inghilterra dove il rapido incremento demografico determinò la necessità di una maggiore produzione sia agricola sia manifatturiera. Il fenomeno si estese in breve a tutto il resto del mondo occidentale dove il progressivo aumento delle industrie in seguito all'invenzione dei telai meccanici, all'introduzione della macchina a vapore, al perfezionamento degli altiforni determinò un totale mutamento della vita sociale. Si spopolarono le campagne, mentre le città rigurgitavano di braccianti in cerca di un lavoro meno faticoso e più gratificante nelle fabbriche. Nacque il «capitalismo» cioè la netta distinzione fra la classe sociale degli imprenditori e quella degli operai, che si trovarono subito in conflitto perché gli interessi dei primi non collimavano con quelli dei secondi: gli imprenditori volevano pagare poco per arricchirsi di più, i lavoratori volevano essere pagati di pili per non morire di fame. Da una parte la ricchezza sfrenata, dall'altra la miseria più nera, senza leggi adeguate per tutelare i diritti e i doveri di ciascuno. Le città erano invase da masse di salariati (proletari) che offrivano la loro forza-lavoro in cambio di retribuzioni miserrime, ma le macchine permettevano di ridurre il bisogno di manodopera e quindi creavano un numero via via crescente di disoccupati che andavano ad infoltire le già grosse file dei mendicanti. Inoltre, azionare una macchina era un lavoro che non richiedeva qualifiche e che favori lo sfruttamento del lavoro femminile e minorile (anche fanciulli di sette-otto anni!) retribuito con salari assai bassi. Le giornate lavorative erano misurate dall'alba al tramonto (da 12 a 16 ore al giorno) e spesso si lavorava in ambienti malsani, senza nessuna assicurazione, e chi non produceva abbastanza o si assentava per malattia veniva licenziato in tronco. Le famiglie erano disgregate dal bisogno di lavorare da parte di padri, madri, figli anche piccolissimi che non avevano più modo di convivere secondo le tradizionali regole patriarcali. Accompagnate a questa disordinata miseria crescevano le malattie individuali ed epi-demiche. Ecco perché è lecito chiamare «rivoluzione» questa trasformazione industriale che investì tutta la vita sociale creando mali e disagi che, in questa prima fase dell'industrializzazione, indussero i lavoratori a difendere almeno il loro diritto di sopravvivenza. Si ebbero, dapprima, reazioni violente e incontrollate: un movimento popolare, il luddismo, credette di arginare la disoccupazione distruggendo le macchine e fomentando, perciò, atti vandalici contro i macchinati industriali. Naturalmente fu domato con repressioni violente. Da un più sano ragionamento nacquero, invece, le Trade Unions, ovvero associazioni di mestiere che, anticipando i moderni sindacati, univano per categorie i lavoratori rendendoli più sicuri e più forti nel reclamare i loro diritti nei confronti dei datori di lavoro. Solo col tempo si videro i vantaggi di questa rivoluzione che mutava sostanzialmente il contesto sociale imponendo un nuovo meccanismo nello stabilire il vertice del potere: non contava più il prestigio della stirpe per raggiungere funzioni di responsabilità nella politica e nelle professioni, ma quello del denaro, che si poteva acquisire attraverso il lavoro e l'ingegno personale; era un modo per incentivare ogni categoria sociale al progresso e all'emancipazione, senza restrizioni classiste; inoltre creava una coscienza operaia sempre più consapevole dei propri limiti e del proprio peso sociale. L'economia divenne una scienza di grande importanza tanto che le teorie dell'economista inglese Adam Smith, basate sulla divisione del lavoro e sul libero scambio delle merci (il cosiddetto liberismo economico), divennero legge per le nazioni più progredite e sono valide ancora oggi. La borghesia intanto si avviava a diventare sempre più protagonista della storia. La rivoluzione americana Agli inizi del Settecento, lungo le coste atlantiche dell'America del Nord, l'Inghilterra possedeva tredici colonie di cittadini (circa tre milioni) che si erano insediati in queste terre per costruirsi una nuova vita, sulla scia dei Pilgrim Fathers che avevano cercato nel Nuovo Mondo la libertà religiosa. Nel Nord c'erano i seguenti Stati: Massachussetts, New Hampshire, Connecticut; nel centro: New York, New Jersey, Pennsylvania, Delaware; nel Sud: Maryland, Virginia, Georgia, Carolina del Nord, Carolina del Sud. Ciascuna di queste regioni si governava autonomamente, guidata da un'aristocrazia fondiaria che aveva sviluppato un'economia assai florida, basata sulle grandi piantagioni di cotone, tabacco, riso, indaco... e sull'impiego su vasta scala del lavoro degli schiavi. Si avvantaggiavano di questa produzione le grandi potenze europee che esercitavano il monopolio dei traffici commerciali nell'Atlantico; in particolare l'Inghilterra aveva cercato di affermare sempre più una sovranità di diritto sulle colonie, tramite il controllo di un governatore. Più esose si erano fatte le ingerenze inglesi quando, in seguito a programmi di ristrutturazione economica dello Stato, l'Inghilterra aveva preteso che le colonie fornissero materie prime a basso costo e assorbissero manufatti inglesi ad alto prezzo. I coloni giudicarono ingiusta la pretesa e avanzarono una serie di rivendicazioni, fra le quali: un’adeguata rappresentanza, nel Parlamento inglese, di delegati [le colonie che difendessero i loro interessi; una maggiore autonomia nei commerci che essi ormai potevano svolgere in proprio, avendo strutture e capacità adeguate. Avuto un netto rifiuto, che si inasprì con l'introduzione di più pesanti restrizioni economiche e pressioni fiscali, i coloni cominciarono una serie di boicottaggi alle navi inglesi e di rappresaglie armate che si trasformarono in una vera guerra dal 1773 al ‘76; nel Congresso di Filadelfia (1776) i delegati delle tredici colonie sottoscrissero la Dichiarazione di indipendenza che si rifaceva alle idee dell'Illuminismo, suscitando l'ammirazione di molti europei che caldeggiavano i princìpi di libertà e che accorsero in appoggio all'esercito rivoluzionario. Anche alcuni Stati europei, antagonisti dell'Inghilterra (Francia, Spagna,.Olanda), inviarono un esercito in appoggio ai rivoltosi, che nella battaglia di Yorktown (in Virginia) il 19 ottobre 1781 sconfissero gli Inglesi comandati da Lord Cornwallis. Nel 1783, la pace di Versailles sanciva definitivamente l'indipendenza delle colonie americane trasformarono la loro Confederazione in uno Stato Unitario Confederato. Dopo non poche trattative per salvaguardare la sovranità di ciascuna colonia, nel 1788 a Filadelfia (la città simbolo della libertà americana) veniva varata la Costituzione degli Stati Uniti d’America che, rispettando le singole autonomie, sanciva un'organizzazione comune che per la prima volta vedeva divisi i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) secondo le idee del Montesquieu. Il primo presidente americano fu George Washington, soprannominato «padre della patria». La rivoluzione francese La popolazione francese, intorno al 1780, era di circa 26 milioni di abitanti, di cui circa mezzo milione costituita da nobili e dall'alto clero, le due classi privilegiate che esercitavano ancora, specialmente nelle campagne, gli antichi diritti feudali. I nobili, pur non svolgendo più le funzioni medievali di amministrare o difendere i propri territori da nemici esterni, continuavano a godere di un trattamento privilegiato non certo adeguato ai tempi: non solo non pagavano le tasse sulle loro vaste proprietà fondiarie, ma continuavano ad esigere dai loro dipendenti tasse, corvées e pedaggi. I «grandi» dei regno, la cosiddetta «nobiltà di spada» (circa quattromila nobili in tutto), in gran parte facevano vita alla cortei di Versailles, ridotti al ruolo di cortigiani con cariche onorifiche e alti gradi nei ranghi militari. Il resto della popolazione costituiva il Terzo Stato: con questo termine si designarono i rappresentanti della ricca e attiva borghesia degli affari, dei commerci e delle professioni (medici, avvocati, insegnanti ... ), gli artigiani, i contadini e anche i braccianti, i disoccupati, i vagabondi... La borghesia era la classe più attiva nel produrre ricchezza, ma anche la più oppressa dalle tasse e la più desiderosa di cambiare le condizioni della Francia, dietro la spinta delle nuove idee illuministe. Le numerose guerre combattute sotto Luigi XIV, la politica poco accorta di Luigi XV, la guerra contro gli Inglesi a fianco dei coloni d'America e una serie di cattive annate per l'agricoltura determinarono una situazione economica così disastrosa da portare lo Stato sull'orlo del fallimento. Luigi XVI dovette necessariamente pensare a urgenti provvedimenti, ma, non essendo energico e sicuro, per non inimicarsi i nobili e la corte non seppe imporre quelle riforme che avrebbero risanato la situazione e che il popolo reclamava (cioè tasse per tutti). a) Dalla Bastiglia al Terrore Il 5 maggio 1789 il re convocò gli Stati Generali (Parlamento) per risolvere l'emergenza, ma senza successo: all'interno di essi la coalizione fra nobili e alto clero mise in minoranza il Terzo Stato che proponeva le riforme. Allora il Terzo Stato, ormai al- l'esasperazione, si costituì in Assemblea Nazionale e poi in Assemblea Costituente con l'intento di elaborare una nuova Costituzione che tenesse conto dell'importanza del ceto borghese. Il popolo, intanto, con l'assalto alla Bastiglia, prigione di stato e quindi simbolo dell'assolutismo monarchico, dava inizio alla Rivoluzione (14 luglio 1789). L'ondata rivoluzionaria si diffuse rapidamente in tutta la Francia e sorsero ovunque, oltre che a Parigi, delle correnti politiche, i clubs, che si possono considerare precursori dei moderni «partiti»: girondini, giacobini, montagnardi, foglianti, cordiglieri.... tutti rivoluzionari più o meno accesi, che dettero impulsi diversi ai vari momenti della rivoluzione. I primi due anni di rivoluzione francese furono spesi dall'Assemblea Costituente nel preparare il nuovo Statuto che fu ema nato nel settembre 1791. Questa costituzione divideva i cittadini in attivi e passivi e attribuiva il potere legislativo all'Assemblea (eletta ogni due anni), il potere esecutivo al re e ai suoi ministri, il potere giudiziario ai giudici eletti dal popolo. Stabiliva, inoltre, la Costituizione civile del clero (vescovi e preti erano scelti dai fedeli) e incamerava i beni ecclesiastici; proibiva lo sciopero come abuso contro il lavoro. Con questo statuto così innovatore sembrava che la rivoluzione potesse aver fine; in realtà seguirono avvenimenti assai più duri: • nell'aprile del '92 fu dichiarata guerra all'Austria, accusata di tramare contro la Francia rivoluzionaria e di accogliere i fuoriusciti francesi; • il re, accusato di accordi col nemico, fu tenuto prigioniero dall'Assemblea che lo dichiarò decaduto da ogni potere. Si instaurò il governo straordinario della Convenzione che il 28 settembre 1792 proclamò la Repubblica; • il 21 gennaio '93 il re, processato per tradimento, fu condannato alla ghigliottina e giustiziato; • l'uccisione del re e gli eccessi rivoluzionari, i prezzi che salivano, le derrate alimentari che scarseggiavano, la moneta che era svalutata del 50% provocarono moti controrivoluzionari e insurrezioni di popolo, sia nelle campagne (Vandea), sia a Parigi. Intanto le grandi potenze si affiancavano all'Austria in una coalizione antifrancese; • nel giugno del '93, mentre ad un Comitato di Salute Pubblica, in seno alla Convenzione, era affidato il potere esecutivo, sotto la spinta dei Giacobini Danton, Marat, Robespierre fu varata una nuova Costituzione4 a carattere decisamente 4 La costituzione del 1793 o dell'Anno Primo (della Repubblica) • I cittadini sono tutti uguali di fronte alla legge. • I cittadini hanno diritto al lavoro, all'istruzione elementare e all'assistenza. • I cittadini hanno diritto di manifestare il loro pensiero e il proprio culto. • La sovranità è del popolo che elegge i suoi rappresentanti a suffragio universale. • II potere legislativo è affidato ad un governo eletto in seno all'Assemblea. • II potere giudiziario è esercitato dai Giudici eletti dal popolo. democratico; • fu adottato un calendario rivoluzionario (all'era cristiana subentrava l'era repubblicana); • il Dio cristiano fu sostituito dalla Dea Ragione; • si creò un Tribunale Rivoluzionario che procedeva all'esecuzione sommaria di tutti coloro che erano sospettati di essere oppositori della rivoluzione. Si iniziò così un periodo durissimo che è passato alla storia come l'età del TERRORE. b) Dalla reazione di Termidoro al Direttorio Un clima di sospetti e di violenza dominava la Francia e anche all'interno del Comitato di Salute Pubblica si scatenarono contrasti fra coloro che volevano mantenere una linea rivoluzionaria dura (come Robespierre) e coloro che tendevano a instaurare una situazione meno esasperata. Prevalse la linea dura e i capi moderati caddero sotto la ghigliottina; Robespierre rimase unico dittatore e continuò la linea del Terrore che egli considerava l'unica capace di difendere un indirizzo democratico. La Francia era impegnata anche nella guerra che fortunatamente procedeva con discreti successi francesi, tanto che il 26 luglio 1794 la vittoria di Fleurus (in Belgio) sollevò gli animi dei rivoluzionari che dovunque cominciarono a dimostrare desiderio di pace e segni di insofferenza contro gli eccessi di violenza del regime di Robespierre. Il 9 Termidoro (28 luglio 1794) ci fu a Parigi un'insurrezione controrivoluzionaria di cui fu vittima lo stesso dittatore. Si rovesciò la situazione: i persecutori che avevano instaurato il Terrore diventarono i perseguitati, mentre dal desiderio di metter fine alla rivoluzione nascevano soprusi e violenze non meno spietati dei precedenti (Terrore Bianco). La Convenzione, vista la necessità di ristabilire l'ordine e di riportare la Francia sulla via della normalizzazione, si affrettò, prima di tutto, a mettere fine alla guerra trattando una pace abbastanza onorevole con la Prussia e con l'Olanda (rimaneva tenacemente in guerra l'Austria). Poi il 4 brumaio (ottobre) 1795 emanò una nuova Costituzione (Costituzione dell'Anno Terzo)5 su basi meno democratiche; terminato cosi il suo compito, si sciolse cedendo il potere esecutivo in mano ad un Direttorio formato da cinque membri. La nuova Costituzione, a carattere decisamente borghese con la divisione dei cittadini in «attivi» e «passivi», scontentava i repubblicani (che volevano una maggiore apertura sociale e prospettive più democratiche) e i realisti (che avevano sperato nel ritorno della monarchia con un costituzionalismo di tipo inglese). Ci furono, perciò, altre sommosse a Parigi, ma decisamente contenute dall'intervento dell'esercito, comandato dal giovane Napoleone Bonaparte, valido appoggio alla nuova Assemblea. La Rivoluzione Francese poteva dirsi conclusa. Quali le conseguenze in Francia? Abolita la monarchia e ogni potere assoluto, si affermavano i diritti dell'uomo e del cittadino e si dichiaravano annullati i privilegi di classe. Conquiste veramente grandi, queste, e per la Francia e per tutto il mondo, perché fu proprio dall'esperienze sofferta e drammatica di questa rivoluzione che l'uomo cominciò a pensare in termini di uguaglianza (non accetta più che esistano dei privilegi), di libertà (reclama, attraverso le Costituzioni, la tutela dei suoi diritti nel rispetto dei suoi doveri) e di fraternità (ogni altro uomo è «suo fratello», suo pari, al di fuori di ogni forma di soggezione o di schiavitù). Sono principi che da allora in poi non sempre sono stati e sono rispettati, ma che oggi tutti consideriamo pilastri di una società giusta e democratica. L'ascesa di Napoleone Alla fine del Settecento la Francia, mentre restaurava la sua politica interna dopo la Rivoluzione, si apprestava anche ad una politica estera aggressiva ed espansionista ad opera soprattutto di Napoleone Bonaparte5. Questo giovane generale, Questa fu la Costituzione più democratica della Rivoluzione, ma non fu mai messa in atto! 5 5 • Costituzione dell'Anno Terzo 1795 • Sono garantiti i diritti dell'uomo e del cittadino. • È ripristinato il principio del censo per le elezioni. • Si restaura il principio di proprietà e di libera economia. • Si mantengono divisi i poteri: legislativo: affidato all'Assemblea dei Cinquecento e all'Assemblea degli Anziani; esecutivo: al Direttorio formato da cinque membri; giudiziario: alla magistratura formata di giudici eletti dal popolo. La suddivisione dei cittadini secondo il censo (attivi e passivi) ci manifesta una direttiva decisamente borghese. Napoleone, secondo dei numerosi figli di Carlo Maria Bonaparte e di Letizia Ramorino, nacque ad Ajaccio nel 1769, da una famiglia di piccola nobiltà ma di scarsi mezzi. Intrapresa la carriera militare, si era messo in luce come giovane ufficiale durante l'assedio di Telone, nel 1793, nella guerra contro la prima coalizione. Durante la reazione termidoriana seppe approfittare del delicato incarico di reprimere i tentativi insurrezionali per farsi apprezzare dai membri del Direttorio. La sua carriera fu accelerata dalla protezione di Giuseppina Beauharnais, vedova di un generale ghigliottinato durante il Terrore, la quale dominava i salotti parigini. Attraverso questa donna abile e spregiudicata, Napoleone potè ottenere il comando dell'armata d'Italia, da lui assunto nell'aprile 1796, dopo le nozze con la sua protettrice. Durante l'impresa italiana mise in evidenza le sue doti di geniale stratega, la personalità spericolata, la lucida capacità organizzativa, l'ambizione di primeggiare. Naturalmente furono queste le doti che ne facilitarono la vertiginosa, che già si era distinto come difensore del Direttorio, portò avanti la guerra francese contro l'Austria affiancata dal Piemonte e dall'Inghilterra, e consegui notevoli successi. Il Direttorio aveva deciso una grande manovra strategica contro l'Austria: tre eserciti dovevano convergere su Vienna, due attraverso la Germania e uno, guidato da Napoleone, attraverso l'Italia. Assai scarsi furono i successi in Germania, ma in Italia vi furono clamorose vittorie napoleoniche che costrinsero rapidamente il Piemonte a chiedere l'armistizio cedendo alla Francia Nizza e la Savoia (1796); l'Austria, battuta più volte (a Montenotte, Dego, Lodi...), dovette firmare il Trattato di Campoformio (18 ott. 1797) con Napoleone che, attraverso il passo del Tarvisio, stava per calare su Vienna. Con questo trattato l'Austria cedeva ai Francesi la Lombardia e il Belgio e si prendeva Venezia che, dopo quasi mille anni, cessava di essere una libera repubblica e diventava una provincia dell'impero austriaco. Gli Stati italiani avevano sperato, con l'arrivo di Napoleone, di sottrarsi al giogo austriaco per diventare liberi e godere di una costituzione sul modello francese; per questo sorsero dei moti rivoluzionari che, in alcuni casi (Reggio, Modena, Lucca...), servirono a cacciare i sovrani per accogliere le truppe napoleoniche. La realtà fu diversa: Napoleone tendeva essenzialmente alla conquista e organizzò i paesi conquistati più come capo di Stato che come generale. Nel 1797 furono create: la Repubblica Cisalpina (che comprendeva la Lombardia e parte dell'Emilia e del Veneto) con capitale Milano, e la Repubblica Ligure con capitale Genova. Nel 1798 furono occupati i tenitori della Chiesa nelle Marche e nell'Umbria e Napoleone, col pretesto dell'uccisione di un generale francese, arrivò a conquistare Roma costringendo il papa Pio VI a fuggire a Firenze (nella Certosa del Galluzzo) per essere poi deportato in Francia, mentre sorgeva la Repubblica Romana. Anche a Napoli le truppe francesi vinsero l'esercito borbonico di Ferdinando IV e vennero accolte dai democratici napoletani che proclamarono la Repubblica Partenopea (primavera del 1799). Intanto, contro l'Inghilterra Napoleone azzardava una strategia diversiva sbarcando in Egitto dove si concentravano molti degli interessi economici inglesi. Nel giro di due mesi l'Egitto fu conquistato, ma il generale inglese Horatio Nelson distrusse la flotta francese nella rada di Aboukir e Napoleone rimase intrappolato con l'esercito sul suolo egiziano. In Europa, nel frattempo, si era formata una seconda coalizione antifrancese alla quale aderivano, accanto all'Inghilterra, l'Austria, la Russia, il re di Napoli, il re di Sardegna e la Turchia. In breve tempo, sotto la spinta degli eserciti alleati, le truppe francesi furono costrette a ritirarsi da quasi tutte le posizioni conquistate: le repubbliche che si erano formate in Italia crollarono, consentendo il ritorno dei legittimi sovrani. In Francia la ripercussione di questi avvenimenti minacciava la stabilità del governo, costretto a barcamenarsi fra i realisti e i giacobini che speravano di cambiare il regime del paese, i primi restaurando la monarchia borbonica, i secondi dando una svolta democratica alla Costituzione. Finalmente Napoleone, evitando il blocco inglese del Mediterraneo, potè sbarcare in Francia, accolto come liberatore. Egli approfittò della sua popolarità e della crisi in seno al Direttorio per compiere un colpo di stato; aiutato da pochi fedeli e dall'esercito, il 18 brumaio (= 9 novembre) 1799, sciolto il Direttorio, affidava il governo a tre consoli con poteri senza riserve e con l'impegno di elaborare una nuova Costituzione. Egli stesso fu Primo Console, affiancato dai fedeli amici Sieyès e Ducos. Fu la Costituzione dell'Anno VIII6 che entrò in vigore il 15 dicembre 1799 e fu senz'altro meno democratica delle precedenti. Amministrativamente la Francia era divisa in: Dipartimenti (retti dai PREFETTI); Circondari (retti dai SOTTOPREFETTI); Comuni (retti dai SINDACI), tutti nominati dal potere ESECUTIVO Con la nuova posizione politica, Napoleone fu arbitro della Francia e si adoperò a mantenere alto il suo prestigio e ad attirarsi il consenso dei Francesi, delusi dalla nuova Costituzione, con le imprese militari. Nel giro di poco più di due anni, con vittorie clamorose, mise fine alla guerra contro l'Austria (pace di Luneville, febbraio 1801) e contro l'Inghilterra (pace di Amiens, marzo 1802). Dopo dieci anni di guerre ininterrotte, l'Europa era in pace e Napoleone si apprestava a diventarne l'arbitro. In Francia egli governò attraverso uomini a lui fedeli, controllò la stampa con una forte censura, fondò scuole per la formazione di futuri funzionali, emanò un nuovo Codice Civile permettendo un più snello funzionamento della giustizia; inoltre, con un abile avvicinamento alla Chiesa tramite un Concordato (15 luglio 1801) che riconosceva il cattolicesimo come la religione della maggioranza dei Francesi, ottenne anche l'appoggio dei cattolici. Così Napoleone aveva legato a sé la vita dello Stato che il 28 maggio 1804, con un senatoconsulto, lo acclamò Imperatore e un anno dopo gli conferì il titolo di Re d'Italia. Il XIX secolo si apre sull'incalzare delle imprese di Napoleone che giunge a porre sotto il suo controllo l'intera Europa con l'eccezione dell'Inghilterra. Lascia dietro fortunata ascesa. 6 Risulta evidente dallo schema l'accentramento dei poteri, anche se nominalmente essi sono divisi. Potere legislativoTribuninominatiCorpo LegislativodaiSenatoConsoliPotere esecutivo In mano a tre Consoli • 1° console: potere effettivo• 2° console potere• 3° console consultivoPotere giudiziario Magistrati nominati dal potere ESECUTIVO le spalle la rivoluzione e il convulso passaggio dalla fase rivoluzionaria al consolato. Sono anni nei quali si assiste ad una di quelle accelerazioni della storia che interrompono il flusso «normale» degli avvenimenti e dell'evoluzione della civiltà e provocano repentini mutamenti di situazioni stabili o in lentissima trasformazione da secoli. In particolare gli eventi della rivoluzione francese, le idee che l'avevano nutrita e gli sviluppi culminati nel Terrore, sono fatti sui quali la cultura del primo Ottocento non può non interrogarsi e dividersi. Si pone sotto esame, e a volte sotto accusa, il pensiero illuminista, ci si interroga sulle aspettative di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà degenerate nella violenza. Intanto la crisi delle idee illuministe si incontra con i primi fermenti della nuova cultura romantica. Mentre la mappa politica dell'Europa cambia più volte sotto l'azione dell'esercito napoleonico, dallo sconvolgimento politico e dalle nuove strutture degli Stati satelliti della Francia, nascono realtà in movimento: nuovi ceti dirigenti, forme di collaborazione tra intellettuali e potere, nuovi ideali. In Italia nel triennio delle «repubbliche giacobine» si parla il linguaggio della libertà e negli Stati germanici sconfitti dalle truppe napoleoniche si configura l'idea di nazione. Dopo un periodo tanto convulso, la restaurazione sembrò riportare indietro l'Europa, e in questo clima di ritorno al passato la cultura romantica, soprattutto nei Paesi privi di autonomia politica o ancora sotto il peso di monarchie assolute, si fece portavoce di ideali di libertà e d'indipendenza, e romantico» significò «patriota», fu un momento in cui soprattutto le giovani generazioni di intellettuali fecero delle idee romantiche una bandiera nella lotta contro il «vecchio», che permaneva pur oltre i grandi rivolgimenti della rivoluzione francese e del periodo napoleonico. Le concezioni di popolo, di nazione, di patria che presero corpo nell'Ottocento, col significato che ancora oggi conservano, furono prodotti della cultura romantica. Alla guida di queste spinte innovatrici fu la borghesia; se la cultura dell'illuminismo era stata, almeno in parte, un'esperienza che aveva visto in prima fila i «borghesi», fu nel periodo successivo alla rivoluzione francese che la borghesia divenne protagonista della società europea. Nell'Ottocento essa acquisì una coscienza di classe e affermò la propria egemonia anche culturale,riuscì cioè a imporre la propria concezione di vita e la propria scala di valori. Con la svolta impressa dagli eventi del biennio 1848-49 si spense il momento «eroico» della lotta per la formazione degli Stati nazionali nella quale si saldarono cultura romantica ed esigenze ideologiche della borghesia. Le ipotesi democratiche e repubblicane, le spinte provenienti dalle classi popolari erano avvertite come un pericolo dalla borghesia, impegnata nell'affermazione della sua egemonia politica ed economica. Contemporaneamente si era affievolita la capacità della cultura romantica di proporsi come visione e progetto globale dell'uomo e della società. Questo accadde intorno agli anni '30-40 in quei Paesi in cui l'esperienza romantica era iniziata prima e con maggior vigore, come in Germania e in Inghilterra, e poco più tardi nella nostra cultura. Rimasero invece attive le tendenze artistiche elaborate all'interno del romanticismo e una sensibilità «romantica» che trovò larga diffusione anche per merito di forme di comunicazione letteraria e artistica che raggiungevano nuovi strati di pubblico. Basti pensare alla diffusione del romanzo e allo straordinario successo del melodramma, al fascino della figura, appassionata, generosa e solitamente infelice, in contrasto con i tempi, che si imponeva sulle scene dell'opera lirica, nel canto e nella poesia patriottica e che diventava vera e reale nelle traversie dei patrioti. D'altra parte il romanticismo italiano anche negli anni di maggiore vitalità, quando possedeva tutta la sua carica di innovazione polemica, non conobbe i grandi dibattiti delle idee, non ebbe grandi filosofi e nemmeno il supporto di una realtà sociale ed economica in forte trasformazione, come accadeva in altre nazioni. Da noi il problema politico assorbì forze ed energie intellettuali allontanandole dalle tematiche del dibattito europeo, dal quale recepì in maniera prioritaria le implicazioni di carattere nazionalistico. Apoteosi e crollo di Napoleone Un successo ottenuto così rapidamente doveva essere mantenuto nei fatti e Napoleone tracciò subito l'ambizioso disegno di dare alla Francia la supremazia sull'Europa. La potenza da vincere era ancora l'Inghilterra che l'imperatore cercò di provocare danneggiandola commercialmente attraverso il Blocco Continentale, ovvero il blocco dei commerci inglesi con tutti i paesi che erano sotto l'influenza francese. Nella primavera del 1804 l'Inghilterra dichiarò di nuovo guerra alla Francia. Immediatamente le grandi potenze si schierarono al suo fianco, formando coalizioni militari che Napoleone riuscì a vincere in brillanti battaglie dal 1805 al 1809 (Ulma, Austerlitz, Wagram, Jena, Auerstädt, Eylau): le armate inglesi, austriache e prussiane furono ripetutamente sconfitte mentre Napoleone, all'apogeo della sua potenza, affidava i tenitori conquistati ai membri della sua famiglia7 per essere sicuro della loro fedeltà e subordinazione. Nel 1810 ripudiò la moglie Giuseppina Beauharnais de la Pagérie per sposare Maria Luisa, figlia dell'imperatore d'Austria Francesco I: un matrimonio che lo legava alla più antica e prestigiosa casata d'Europa. Purtroppo, non tutte le mosse di Napoleone furono dei successi. Il blocco continentale contro l'Inghilterra divenne un danno per la stessa Francia che economicamente perse lo sbocco per alcuni suoi prodotti importanti (ad esempio il vino), politicamente ebbe come acerrimi nemici i paesi dove il blocco risultava più dannoso, ad esempio la Russia e la Spagna. Con quest'ultima ci fu una snervante serie di guerriglie fra il 1808 e il 1812 che culminarono nella Costituzione di Codice (1812) proclamata da un gruppo di intellettuali e modellata su quella francese del 1791: non ebbe conseguenze, sul momento, e Giuseppe Bonaparte continuò a regnare in Spagna, ma fu la prima forte incrinatura nell'impero napoleonico. 7 • Troni d'Europa assegnati ai parenti di Napoleone • Regno d'Italia: al figliastro (figlio dell'imperatrice Giuseppina) Eugenio Beauharnais, in qualità di viceré. • Regno di Spagna: al fratello Giuseppe Bonaparte. • Regno di Westfalia: al fratello Girolamo Bonaparte. • Regno d'Olanda: al fratello Luigi Bonaparte. • Regno di Napoli: al cognato Gioacchino Murat (marito di Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone). • Ducato di Lucca e Piombino: alla sorella Elisa Bonaparte, moglie del nobile Felice Baciocchi. • Ducato di Guastalla: alla sorella Paolina Bonaparte, moglie del principe Camillo Borghese. Più drammatica fu la guerra con la Russia, dalla quale Napoleone si aspettava le pili grandi soddisfazioni militari. Il suo ambizioso progetto di un'impresa fulminea che lo avrebbe spinto fino all'Asia si risolse in un fallimento. La grandiosa armata napoleonica arrivò fino a Mosca, abbastanza facilmente, mentre l'esercito russo si ritirava distruggendo città e campagne perché il nemico non trovasse le vettovaglie necessarie ai soldati. Questa tattica, il crudo inverno russo, l'accorto concentramento delle truppe in alcuni punti nevralgici (come sulle rive del fiume Beresina) dettero un grande vantaggio ai Russi, che riuscirono a respingere i Francesi: di un contingente di circa seicentomila uomini al comando di Napoleone, ne tornarono in patria poco più di ventimila (inverno 1812). Questa clamorosa sconfitta indusse le grandi potenze a cercare di annientare definitivamente Napoleone. Si formò subito la VI coalizione fra Inghilterra, Austria, Prussia, Russia e Svezia che a Lipsia, nella cosiddetta Battaglia delle Nazioni (16-18 ottobre 1813) sconfisse l'esercito di Napoleone8. Poco dopo Russi e Prussiani invadevano Parigi e l'imperatore si ritirava in esilio nell'isola d'Elba. Sul trono di Francia saliva Luigi XVIII, fratello del ghigliottinato Luigi XVI. I Cento giorni e il Congresso di Vienna Napoleone, non rassegnato all'esilio, seguiva le vicende europee ansioso di tentare la riscossa. Era incoraggiato dai suoi sostenitori che si adoperavano a mantenere vivo il suo rimpianto tra i Francesi, delusi dalle rapide trasformazioni politiche interne e sconcertati dalle trame delle grandi potenze che, fino dal novembre 1814, si erano riunite a Vienna per dare un nuovo assetto all'Europa. Il 1° marzo 1815 Napoleone, con poco più di mille uomini, fuggì dall'Elba e, appoggiato dall'esercito che gli dimostrò la sua fedeltà, entrò trionfante a Parigi. Sembrò che la sua fortuna ricominciasse, ma fu il sogno di soli Cento giorni: tutte le potenze europee, nuovamente unite contro di lui nella VII coalizione, lo sconfissero a Waterloo (Belgio) il 18 giugno. Prigioniero degli inglesi, Napoleone fu relegato nell'isola di Sant'Elena, in pieno Oceano Atlantico, dove mori nel 1821. Il Congresso di Vienna, che riprese alacremente i suoi lavori dopo la parentesi dei «Cento giorni», vide riuniti i rappresentanti di tutti gli Stati d'Europa, ma le decisioni furono prese dalle grandi potenze, che impostarono il nuovo assetto europeo su tre principi fondamentali: • restaurazione: per riportare ogni Stato al regime precedente la Rivoluzione Francese; • legittimità: per far tornare su ogni trono il legittimo sovrano (o i suoi legittimi eredi); • equilibrio: per mantenere una parità di territori e di potere tra le cinque massime potenze (Inghilterra, Austria, Prussia, Russia, Francia), stabilendo anche degli Stati-cuscinetto lungo le frontiere della Francia per neutralizzarne ogni ipotetico, futuro tentativo rivoluzionario. Queste trattative a tavolino, che spostarono le linee di confine secondo convenzioni politiche senza tenere conto delle realtà etniche, culturali, sociali, ambientali... dei vari paesi, determinarono forti scontenti immediati e prepararono future lotte. L'EUROPA DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA9 FRANCIA: regno retto da Luigi XVIII, ritornò ai confini del 1792, recuperando Avignone e il contado Venosino già del papa. GERMANIA: fu divisa in 39 Stati, legati in Confederazione (Deutscher Bund) della quale facevano parte l'imperatore d'Austria e il re di Prussia. Organo centrale era la Dieta federale che si riuniva a Francoforte sul Meno ed era presieduta dall'imperatore d'Austria, ma ciascuno Stato manteneva pieni diritti di sovranità. Della Dieta facevano parte anche: il re d'Inghilterra, per diritto ereditario dell'Hannover; il re di Danimarca, come duca dell'Holstein e del Lauenburg; il re dei Paesi Bassi, come granduca del Lussemburgo. PRUSSIA: regno di Federico Guglielmo III di Hohenzollern, ebbe notevoli ampliamenti territoriali in Sassonia e nella Pomerania svedese; ebbe inoltre i ducati di Magonza, Colonia e Treviri, in compenso della Polonia passata alla Russia. AUSTRIA: impero sotto Francesco I d'Asburgo, riprese i territori della Galizia e della Bucovina, la Lombardia e il territorio della Repubblica di Venezia (Veneto, Istria, Dalmazia, Trieste, Illiria). Rinunciò al Belgio. RUSSIA: lo zar Alessandro I Romanov conservò la Finlandia, prese la Bessarabia, divenne re di Polonia, costituita in regno 8 In Francia dopo Lipsia L'esilio di Napoleone all'isola d'Elba aveva generato una serie di delusioni. Erano delusi: • i bonapartisti, che avevano visto decadere il loro idolo e con lui la grandezza della Francia; • i borghesi, che temevano di perdere i loro privilegi ora che tornava un potere che aveva sempre favorito l'aristocrazia; • i reduci, che tornavano in patria desiderosi di qualche ricompensa che non trovavano, anzi talvolta si vedevano declassati da coloro che erano stati fedeli ai Borboni; • tutti i Francesi, i quali, con la line delle guerre, avevano sperato di vedere qualche vantaggio economico (riduzione di tasse) che non venne. C'era quindi in Francia un grande malcontento che faceva rimpiangere i tempi di Napoleone. 9 Rappresentanti delle maggiori potenze a Vienna Inghilterra: Lord Castlereagh Austria: imperatore Francesco I e il cancelliere Metternich Prussia: re Federico Guglielmo III e il principe Hardenburg Russia: zar Alessandro I e il conte Nesselrode Francia: principe di Talleyrand. con capitale Varsavia (Cracovia fu dichiarata città libera). SVEZIA: regno sotto Carlo XIII di Holstein-Gottorpo, perse la Finlandia e la Pomerania ed ebbe in compenso la Norvegia. DANIMARCA: regno guidato da Federico VI di Oldenburg, perse la Norvegia, ma acquistò i ducati di Holstein, Lauenburg e Schleswig. SPAGNA e PORTOGALLO: tornarono nei loro antichi confini, rispettivamente sotto Ferdinando VII di Borbone e Maria I di Braganza. Quest'ultima si era rifugiata in Brasile e li rimase mentre governava una Giunta. INGHILTERRA: (Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda), sotto il re Giorgio III di Hannover e poi sotto il di lui figlio Giorgio IV, guadagnò le isole Helgoland (nel Mare del Nord), Malta, e il protettorato sulle isole Ionie. Conservò, inoltre, molte isole acquistate in epoca napoleonica, come Trinidad, Ceylon, Colonia del Capo, Tobago, Mauritius e parte della Gujana. SVIZZERA: costituita in Confederazione di 22 Stati, ebbe riconosciuta la sua indipendenza e la neutralità perpetua. PAESI BASSI: regno di nuova formazione, fu uno Stato «cuscinetto», costituito dall'unione dell'Olanda e del Belgio. Ne fu re Guglielmo I d'Orange-Nassau. L'ITALIA DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA REGNO DI SARDEGNA: retto da Vittorio Emanuele I di Savoia. Fu costituito da: Sardegna. Nizza. Savoia, Liguria. Il suo ampliamento fu dovuto al patrocinio dello zar, desideroso di bilanciare la preponderanza austriaca. Lo zar previde anche la successione al trono, per la estinzione dei Savoia, del ramo cadetto dei Carignano per impedire al Metternich di mettere sul trono di Torino l'arciduca austriaco Francesco IV d'Asburgo-Este, genero di Vittorio Emanuele I. REGNO LOMBARDO-VENETO: di nuova formazione, risultante dall'unione della Lombardia austriaca con il Veneto e la Valtellina, fu sotto il potere dell'imperatore d'Austria; altre regioni etnicamente italiane erano annesse all'Austria: Trentino, Trieste, Istria. DUCATO DI PARMA, PIACENZA E GUASTALLA: assegnato vita natural durante a Maria Luisa d'Austria, moglie di Napoleone; alla sua morte sarebbe tornato ai Borboni, che nel frattempo governavano Lucca. GRANDUCATO DI TOSCANA: ingrandito con l'isola d'Elba e lo stato dei Presidi e col principato di Piombino, tornava a Ferdinando III di Asburgo-Lorena. DUCATO DI LUCCA: temporaneamente assegnato a Maria Luisa di Borbone, reggente per il figlio Carlo Ludovico, destinato poi al ducato di Parma. Lucca sarebbe passata alla Toscana. DUCATO DI MODENA REGGIO E MIRANDOLA: assegnato a Francesco IV di Asburgo-Este, nipote dell'ultimo duca estense di Modena. PRINCIPATO DI MASSA E CARRARA: assegnato a Maria Beatrice d'Este, alla cui morte sarebbe stato annesso al Ducato di Modena. STATO PONTIFICIO: fu reintegrato negli antichi confini sotto il pontefice Pio VII. Perse Avignone e il contado Venosino e riconobbe all'Austria il diritto di presidiare militarmente le cittadelle di Cornacchie e Ferrara. REGNO DELLE DUE SICILIE: nuova denominazione del regno di Napoli e di Sicilia, riconosciuto a Ferdinando IV di Borbone, che mutò il suo titolo in Ferdinando I delle due Sicilie. Come si vede, l'assetto politico e territoriale dell'Italia uscì profondamente mutato dai deliberati del Congresso; essa fu divisa in nove Stati di cui due (Lucca e Massa-Carrara) destinati ad essere assorbiti da altri più vasti. Il principio di legittimità non impedì che fossero sacrificate le antiche Repubbliche di Venezia, Genova e Lucca e che l'Austria acquistasse una netta preponderanza, diretta o indiretta. LA RESTAURAZIONE II Congresso di Vienna e la Santa Alleanza Le potenze che avevano sconfitto Napoleone si riuniscono sul finire del 1814 a Vienna, in un congresso che si concluderà nel giugno del 1815, pochi giorni prima, dunque, della decisiva giornata di Waterloo. Viene ridisegnata la carta politica dell'Europa, sulla base del principio di legittimità, in forza del quale viene restaurata l'autorità dei vecchi sovrani che regnavano nel 1792. Si crea un Regno nei Paesi Bassi affidato agli Orange e costituito dalle Province Unite olandesi e dal Belgio; si rafforza il Regno di Savoia, con l'annessione della Liguria; si riconosce ufficialmente la neutralità della Confederazione svizzera; infine viene assegnata alla Russia la Renania e una parte del dissolto Regno di Westfalia creato da Napoleone. In Italia, suddivisa in otto stati, si afferma la generale supremazia dell'Austria, che, in cambio della perdita del Belgio, può aggiungere al Veneto la Lombardia. L'Austria, inoltre, presiede la Confederazione germanica, comprendente 39 stati, che viene istituita in luogo dell'impero tedesco. Il criterio dell'equilibrio tra le potenze e dei compensi territoriali non tiene nella minima considerazione le nuove aspirazioni nazionali e liberali che si erano diffuse tra i popoli e a cui gli stessi alleati si erano appellati, in occasione della loro lotta antifrancese. Il ritorno puro e semplice all’" antico regime" (ancien regime:, espressione che indicava il sistema dei diritti feudali abolito in Francia con i decreti rivoluzionari dell'agosto 1789; e che si estese poi a designare l'intero sistema politico e sociale antecedente al 1789) si rivelerà impossibile ed è questo il limite più forte delle decisioni prese a Vienna, ispirate dal primo ministro austriaco Metternich Allo zar Alessandro I spetta invece il progetto di una "Santa Alleanza" tra i sovrani di Russia, Austria e Prussia, che riconoscono la propria autorità come voluta da Dio e che s'impegnano a trattarsi reciprocamente come fratelli e a governare i sudditi come figli. Tale pretesa paternalistica retrocede il cittadino a suddito e torna a riconoscere i tradizionali privilegi ad aristocrazia e clero; si parla in questo senso di una nuova alleanza fra trono e altare, anche se la chiesa di Pio VII si mostra in realtà indifferente al patto conservatore fra i sovrani. Di certo, però, ne esce ridimensionato il potere della borghesia, la classe che aveva fatto la rivoluzione e sulla quale si era poggiato il potere di Napoleone. La diffusione delle società segreta Accanto all'Europa dei sovrani nasce un'Europa nascosta, quella delle sette segrete, costrette alla clandestinità dalla soppressione della libertà di stampa e associazione. La Società dei giovani in Germania, l'Eteria in Grecia, l'Unione del pubblico bene in Russia, la Società patriottica nazionale in Polonia, la Carboneria, la Società dei sublimi maestri perfetti e l'Adelfia in Italia si ispirano tutte ai principi del liberalismo; il loro obiettivo comune è la trasformazione dello stato in senso costituzionale e parlamentare. Molte di queste società (in Italia, Grecia, Polonia, Germania) perseguono poi fini patriottici La loro struttura interna rigidamente gerarchica e chiusa, resa necessaria dai controlli di polizia impedisce però un'ampia conoscenza degli obiettivi generali e una larga partecipazione alle iniziative di volta in volta intraprese, e per tale motivo i moti liberali saranno sconfitti in quasi tutta Europa dai vertici delle organizzazioni degli esponenti della media e alta borghesia. In Italia la società segreta più importante è la Carboneria10, diffusa soprattutto nelle regioni meridionali. Rispetto alla Massoneria essa costituisce tanto una derivazione quanto scisma, per il suo carattere più politicizzato e cristianizzante. I carbonari hanno programmi diversi da zona a zona: in Lombardia tendono all'indipendenza, nello Stato Pontificio alla partecipazione dei laici, in Sicilia all'indipendenza dai Borbone di Napoli I moti rivoluzionari del 1820-21 L'insofferenza alla Restaurazione produce una prima ondata di ribellioni in Germania, in Spagna, nel Regno di Napoli (divenuto regno delle Due Sicilie, avendo Ferdinando I unito le due corti di Napoli e della Sicilia). In questi ultimi due casi i sovrani sono costretti a riconoscere una costituzione, provocando la preoccupata reazione di Metternich e altri fautori della Santa Alleanza. A Napoli, re Ferdinando I scioglie il Parlamento e abroga la Costituzione, mentre le truppe austriache sconfiggono la tenue resistenza dei carbonari. In Spagna l'esperienza costituzionale avviata dopo il "pronunciamento" dell'esercito a Cadice (1820) viene soffocata tre anni più tardi dall'intervento delle truppe francesi. Le colonie spagnole in America, nel frattempo, si ribellano alla madrepatria e raggiungono l'indipendenza, senza però stringersi nella confederazione sognata da Sìmón Bolivar. Nei Balcani, nel quadro dell'intricata "questione d'Oriente", sollevazioni antiturche vengono represse ovunque tranne che in Grecia, dove accorrono patrioti di tutta Europa (tra questi, il poeta inglese Byron); la proclamazione dell'indipendenza greca (1829), con il successivo appoggio russo, assesta un primo colpo al sistema di Metternich. In Russia viene soffocato nel sangue il moto degli ufficiali "decabristi" (cosi chiamati perché si sollevarono nel dicembre del 1825), contrari al nuovo zar Nicola I per le sue propensioni assolutistiche. Tensioni percorrono anche il Piemonte, dove il regno di Vittorio Emanuele I si è ingrandito con l'annessione della Liguria ma risulta politicamente assai inquieto. Pure nel Lombardo-Veneto, soggetto all'Austria, si diffondono le idee liberali e Carbonare, mentre gli intellettuali cercano un primo avvicinamento al popolo; ne è testimonianza il giornale "II Conciliatore", soppresso nel 1819 dalla polizia austriaca dopo un solo anno di vita. Il ritmo della storia conosce nella seconda metà del secolo una forte accelerazione, tanto che nel giro di alcuni decenni intervengono decisivi mutamenti che cambiano strutture sociali, economiche, modi di vita. La borghesia, che era stata motore e protagonista dei rivolgimenti politici fino alle rivoluzioni del 1848, si sente minacciata dalle richieste avanzate dalle prime organizzazioni operaie; ciò che non può accettare sono le rivendicazioni sociali e le idee che mettono in pericolo i capisaldi stessi del capitalismo, quali l'attacco alla proprietà privata come diritto e alla libertà d'iniziativa finalizzata al profitto individuale. Si profilano quindi nuove gerarchie politiche e sociali che vedono da una parte la borghesia impegnata nella conservazione o nel raggiungimento del potere attraverso mediazioni e compromessi con i vecchi gruppi dirigenti, e dall'altra parte il proletariato pronto a organizzarsi in partiti e in sindacati. Questo processo è inscindibile dall'avanzare dell'industrializzazione che cambia la fisionomia della società: all'inizio dell'Ottocento il 12% della popolazione viveva in città di almeno 5000 abitanti, mentre nei primi anni del Novecento la percentuale era del 41%; si era modificato radicalmente il rapporto demografico città-campagna con il crescente trasferimento di manodopera dall'agricoltura ai settori industriali e manifatturieri. Tutto questo porta cambiamenti nel modo di vivere e di pensare, modifica il panorama delle città, ma soprattutto mette in campo nuovi protagonisti della vita politica e sociale: le masse, riunite in organizzazioni che intesero dar voce alle 1 0 La più famosa tra le società segrete italiane fu la Carboneria, cosi detta -secondo alcuni - perché gli associati avevano preso un pezzo di carbone come simbolo della loro ardente fede nella liberazione della patria; secondo altri, perché nelle loro relazioni usavano un linguaggio simbolico che si riallacciava al gergo dei carbonai. Essi infatti chiamavano «vendite» o «baracche» le loro associazioni, «carbone» le armi, «lupi» i tiranni, «foresta» l'Italia: «scacciare i lupi dalla foresta» significava quindi liberare la patria dai tiranni [...]. La Carboneria non aveva, tuttavia, un chiaro programma comune: i carbonari lombardi e veneti aspiravano a formare un regno dell'Italia settentrionale con l'aiuto del Piemonte; quelli dello Stato pontificio chiedevano un governo laico; i carbonari siciliani esigevano che l'isola diventasse uno Stato separato da quello di Napoli, contrariamente ai carbonari napoletani che volevano tenerla unita al regno. Tutto ciò era dovuto soprattutto alla mancanza di un'organizzazione centrale, capace di collegare fra loro le diverse iniziative regionali secondo criteri unitari ed organici. Un altro grave difetto stava nel carattere misterioso dell'associazione: difetto, per la verità, comune a tutte le sette, i cui membri, ordinati gerarchicamente, ignoravano talora per-sino i programmi e l'identità dei loro capi. Inoltre l'origine degli associati, quasi tutti intellettuali, professionisti, commercianti, funzionari della pubblica amministrazione o exufficiali napoleonici, faceva della Carboneria un'associazione elitaria, troppo chiusa e ristretta per poter formulare programmi a carattere nazionale. L'assenza delle classi popolari fu infatti una delle principali cause degli insuccessi ai quali fra il 1821 e il 1831 andarono incontro i moti carbonari in Italia, (da: ANTONIO BRANCATI, Popoli e civiltà, 3, pag. 45,47, La Nuova Italia edizione) classi lavoratrici nella lotta per la conquista dei pieni diritti civili e politici e per il miglioramento delle condizioni di vita, determinano una permanente situazione di conflittualità sociale. Con una considerazione di carattere generale possiamo dire che la società si complica, che l'innegabile sviluppo portato dalia rivoluzione industriale, da un esaltante progresso scientifico e tecnico porta a nuovi squilibri, e che si complica nello stesso tempo il sistema politico che vede al suo interno un maggior numero di soggetti: lo Stato, il governo, i partiti, i sindacati, i gruppi di pressione rappresentati dalle lobbies, dalle categorie professionali, dalle corporazioni. Dal punto di vista culturale, in connessione con la crisi della cultura romantica e con i nuovi problemi posti dall'industrializzazione, si sviluppò una propensione alla concretezza, un rinnovato interesse all'analisi di dati sicuri per giungere a soluzioni effettivamente praticabili. Questo comportava un radicale mutamento culturale e conferiva alla scienza, che non aveva interrotto il suo sviluppo, un ruolo primario. Essa era in grado di dare un modello culturale che poteva servire da base per la ricostruzione di una scala di valori utili a indirizzare il comportamento politico, gli atteggiamenti ideologici, le scelte culturali. Da questo nuovo rapporto con la scienza si originò quella cultura che si definisce positivismo e che intendeva estendere il metodo delle scienze naturali allo studio dell'uomo, sia come individuo sia come essere sociale. C'era in questa impostazione un ottimismo di fondo: si affermava la possibilità di applicazione del metodo scientifico alle varie branche del sapere e di allargamento all'ambito sociale dei benefici derivati dalle conoscenze sicure e sperimentalmente verificabili. Negli stessi anni si sviluppò una corrente di pensiero che andava nella direzione opposta, cioè verso l'irrazionalismo e la svalutazione del pensiero scientifico. Mentre il trionfo del positivismo si colloca tra il 1860 e il 1885, le posizioni irrazionalistiche rimasero in quegli anni espressione minoritaria di gruppi intellettuali isolati, per affermarsi quando gli eventi della fine del secolo misero in crisi la visione positivista del mondo, e divenire poi preminenti negli anni precedenti la prima guerra mondiale. L'Europa dopo la Restaurazione Ci si accorse ben presto che gli accordi di Vienna non avevano tenuto in nessun conto la legittima aspirazione dei popoli a: • non essere dominati dagli stranieri; • non vedere smembrata la loro unità etnica, linguistica, sociale; • non perdere la loro entità nazionale. Non si era tenuto conto neanche del fatto che la rivoluzione francese, pur con i suoi molti eccessi e pur fra molte delusioni, aveva portato del «nuovo»: • l'aspirazione all'uguaglianza e alla parità di diritti fra i cittadini; • l'insofferenza dei vecchi privilegi di certe classi sociali; • la rivendicazione del diritto alla Costituzione e al suffragio universale; • l'affermazione del diritto alla libertà di stampa e di associazione e al legittimo pluralismo di idee; • il riconoscimento dell'importanza sociale della borghesia, operosa in ogni campo economico, e della necessità di un'equa imposizione fiscale nei suoi confronti; • la presa di coscienza del valore della protesta e dell'insurrezione organizzata come arma di lotta politica. Neppure Napoleone aveva osato rinnegare alcuni fondamentali principi sanciti dalla rivoluzione, anche se poi li aveva neutralizzati con mezzi dispotici o attraverso uomini a lui totalmente devoti. Ora che egli era fuori dalla scena europea, le idee nate dalla rivoluzione ripresero forza e, dietro alla loro spinta, soprattutto gli intellettuali non poterono frenare un impeto di ribellione contro le decisioni del Congresso di Vienna. Gli intellettuali da ora in poi avranno, infatti, una funzione di grande rilievo nel farsi portavoce delle aspirazioni liberali e libertarie. Essi divennero sinonimo di sobillatori o di generosi sostenitori di ogni idea intesa a contrastare il clima soffocante dei «restaurati» assolutismi. Ben presto si formarono gruppi di ribelli che tramavano, clandestinamente, movimenti di insurrezione e di rivolta e nacquero, in tutti i paesi europei, le «sètte segrete» (di cui la più famosa fu la Carboneria), naturalmente con programmi diversi a seconda delle condizioni politiche da rimuovere. Cause delle rivolte contro la Restaurazione (in alcuni Paesi europei) La Spagna reclamava la Costituzione che aveva ottenuto da Napoleone (1812) e che era stata soppressa al ritorno della monarchia borbonica. La Francia voleva abbattere il dispotismo che i Borboni, tornati sul trono, esercitavano di nuovo. Il Belgio rivendicava l’autonomia dall'Olanda. La Polonia, che era stata incorporata nei territori della Russia, voleva riconosciuta la sua entità di nazione. La Grecia, assorbita dall'Impero turco, lottò per la riconquista della sua indipendenza. In Italia, la prima aspirazione dei singoli staterelli in cui la penisola risultò divisa, fu di ottenere la Costituzione; poi le idee mazziniane mossero il popolo a combattere per conquistare l'Indipendenza dagli stranieri, e infine si arrivò a reclamare l'Unità nazionale. Intanto l'accordo fra le grandi potenze si consolidava tramite il patto della Santa Alleanza (a cui non aderirono l'Inghilterra e il Papa) che soprattutto impegnava i contraenti, con le clausole del principio di intervento, a portare aiuto con i loro eserciti dovunque si dovessero soffocare tentativi di rivolta. Il principio di intervento fu subito messo alla prova dalle insurrezioni del 1820-21 in Spagna, a Napoli e in Piemonte, dove si reclamava la Costituzione che limitasse il soffocante assolutismo regio. Ferdinando VII in Spagna, Ferdinando I a Napoli e i Savoia in Piemonte concessero la Costituzione, ma poi, spalleggiati dalla Santa Alleanza e dai suoi eserciti, la revocarono con repressioni severe contro i rivoltosi. Lo stesso avvenne in Russia nel 1825 con il movimento decabrista (o «decembrista» perché scoppiato in dicembre), soffocato in breve tempo nel sangue. Più fortunata fu la sorte della Grecia, che reclamava l'indipendenza dalla Turchia: insorta nel 1822, dopo vicende alterne e con l'aiuto dei patrioti accorsi da tutta Europa, oltre che con quello armato delle grandi potenze, indignate per la tracotanza turca, vide sancita la sua indipendenza con la pace di Adrianopoli del 1829. Tuttavia, la grande ondata rivoluzionaria parti nuovamente dalla Francia nel 1830 e coinvolse direttamente i paesi pili importanti d'Europa, sostenuti da uno sviluppo industriale ormai consolidato e da una struttura sociale moderna. Gli effetti della spinta rivoluzionaria raggiunsero il Belgio e la Svizzera (con esiti vittoriosi), la Polonia e l'Italia (dove il movimento fu sconfitto) e la stessa Inghilterra dove la vittoria dei Whigs11 nelle elezioni del 1830 e la successiva riforma elettorale del 1832 rappresentarono il corrispondente inglese dei mutamenti politici avvenuti sul continente. In Francia le latenti opposizioni al regime assolutistico si scatenarono il 27 luglio 1830 in conseguenza delle Ordinanze di Carlo X (succeduto al trono nel 1824, alla morte del fratello Luigi XVIII); con esse si aboliva la libertà di stampa, si scioglieva il Parlamento, si indicevano nuove elezioni, si riduceva il numero degli aventi diritto al voto. Parigi insorse e il re fuggì all'estero. La rivoluzione ebbe un corso rapido e il 29 luglio terminò con il trionfo del sistema liberalcostituzionale. Non ci furono, infatti, innovazioni in senso democratico, ma il potere fu rafforzato in mano alla grande borghesia; comunque il censo elettorale fu abbassato e l'età per esercitare il diritto di voto fu abbassata da trenta a venticinque anni. Si ripristinava anche la libertà di stampa. La corona fu offerta a Luigi Filippo d'Orléans, di idee liberali, cugino di Carlo X; egli assunse il titolo di re dei Francesi per volontà della nazione e non più «re di Francia per diritto divino» come era stato per i monarchi assoluti. Il Parlamento fu rinnovato, ma ne fecero parte soltanto i ricchi borghesi, fra i quali furono scelti anche i ministri del re. Con la monarchia di luglio la borghesia si affermava sempre più come classe dirigente con ampi privilegi politici. L'insurrezione di Parigi ebbe ripercussioni immediate in molti paesi europei. Il Belgio insorse il 26 agosto 1830 rivendicando l'indipendenza dall'Olanda di cui sentiva le diversità etniche, economiche, religiose. La rivolta ebbe successo per la posizione della Francia orleanista che, seguita dall'Inghilterra, proclamò il «principio di non intervento», neutralizzando la decisione di interferenza delle grandi potenze che avrebbe soffocato militarmente la lotta. Il Belgio, che già aveva proclamato la sua indipendenza, venne riconosciuto Stato sovrano nel novembre 1830 e nel giugno 1831 si insediava sul trono Leopoldo di Sassonia-Coburgo. In Polonia le cose andarono diversamente. La Polonia dopo il congresso di Vienna, anche se era un regno, di fatto non esisteva, perché inglobata nell'Impero di Russia che a poco a poco ne aveva soffocato tutte le libertà. L'insurrezione scoppiò nel novembre 1830 allorché i polacchi credettero che il «principio di non intervento» dei Francesi contro le rivoluzioni fosse implicitamente una promessa di aiuto a farle trionfare; ma la Francia non si mosse. Nel settembre 1831 le truppe russe entrarono a Varsavia e riportarono l'ordine. Migliala furono le condanne, le deportazioni in Siberia, le fughe in esilio. Fra gli esuli famosi ricordiamo il musicista Federico Chopin. Anche la Germania risentì dell'ondata rivoluzionaria: in molti Stati i principi furono costretti a concedere la Costituzione, mentre prendeva campo lo Zollverein, cioè un'Unione doganale che esisteva dal 1820, ma che nel 1832 e 1834 si rafforzò ulteriormente con un atteggiamento nazionalistico, incoraggiato dalla Prussia che vi vedeva il primo passo verso l'unificazione politica degli Stati germanici. In Italia un nuovo fervore di rivoluzione si mosse dal ducato di Modena e dalle terre pontificie delle Romagne. Gli insorti, affiliati alla «Carboneria», come Ciro Menotti ed Enrico Misley, avevano progettato un'insurrezione simultanea in varie città, fidando nell'appoggio del liberale duca Francesco IV. Ma il duca con improvviso voltafaccia, fece arrestare i congiurati. L'insurrezione scoppiò ugualmente a Bologna, a Parma e a Ferrara e da essa scaturì un governo provvisorio delle Province unite italiane, ma fu un successo di breve durata: poco dopo le truppe austriache riportavano l'ordine con dure repressioni. Ancora una volta i moti carbonari erano falliti: se ne rendevano conto i liberali insurrezionali, come Giuseppe Mazzini12, che miravano a coinvolgere il popolo nelle manifestazioni rivoluzionarie che non potevano 1 1 1 2 I WHIGS, o «Partito Whig», erano lo schieramento politico sorto alla metà del secolo XVII in opposizione ai TORIES che, nel Parlamento inglese, difendevano gli interessi della grande proprietà fondiaria. I Whigs, sostenitori della monarchia parlamentare e quindi dei diritti del Parlamento contro l'assolutismo monarchico, dopo la riforma elettorale del 1830-32 si trasformarono nel Partito liberale, contrapposto al Partito conservatore, erede diretto dei Tories. Giuseppe Mazzini Nato a Genova nel 1805, Mazzini aderì nel 1827 alla Carboneria e contemporaneamente iniziò la sua attività di scrittore, pubblicando saggi nei quali, in linea con il movimento culturale del Romanticismo, affermava che la letteratura doveva avere una funzione civile e che gli intellettuali e gli scrittori dovevano impegnarsi nel dibattito sociale e politico e stimolare nel popolo la formazione di una coscienza nazionale. Per queste sue idee, nel 1830, Mazzini fu arrestato dal governo piemontese come carbonaro, ma fu presto scarcerato per manzanca di prove e costretto all'esilio. Proprio durante l'esilio, a contatto con l'opposizione democratica e repubblicana europea in Svizzera e in Francia, Mazzini mise a fuoco i limiti della Carboneria italiana e approfondì la sua nuova concezione politica. «uomini del passato» che dirigevano i moti insurrezionali, errori insanabili: l'insufficienza del programma, limitato a una visione provinciale del problema italiano; la segretezza nell'azione che impediva di coinvolgere il popolo e, infine, la illusoria fiducia nell'aiuto di potenze straniere, che celava la sfiducia nei propri mezzi e nelle possibilità nazionali. Così, in opposizione alle sètte Carbonare, Mazzini fondò nel 1831 la Giovane Italia, cui ben presto aderirono, in numero sempre maggiore, le nuove generazioni di studenti e di intellettuali romantici. Gli obiettivi fondamentali di questa nuova associazione erano l'unità dell'Italia e la sua organizzazione in uno Stato libero e repubblicano. Siffatti obiettivi, secondo Mazzini, dovevano essere perseguiti attraverso una vasta opera di propaganda che educasse il popolo su scala nazionale e lo coinvolgesse attivamente nella lotta per il Risorgimento italiano. L'impegno di Mazzini nei confronti del popolo e la sua volontà di dar vita a una lotta a livello nazionale avevano una forte impronta etica e religiosa: unificare e liberare l'Italia significava, per Mazzini, adempiere a una missione che il popolo aveva ricevuto da Dio e che avrebbe contribuito al progresso sociale e civile dell'umanità intera. rimanere opera di pochi; se ne rendevano conto anche i liberali moderati, che non volevano le rivoluzioni: miravano a scalzare l'assolutismo attraverso le riforme, ma avevano comunque bisogno di educare il popolo ad una coscienza nazionale. La Carboneria non dava più affidamento perché troppo segreta, troppo misteriosa nei suoi fini per la gran massa popolare, la sola forza capace, se resa partecipe, di sovvertire l'assolutismo. Un'ampia revisione di tutti i programmi carbonari fu fatta da Giuseppe Mazzini che nel 1831 fondò la Giovane Italia, un'associazione con un programma assai più ambizioso e più chiaro di quello della carboneria: auspicava, infatti, non più la libertà costituzionale dei piccoli staterelli, ma libertà per tutta l'Italia unita, indipendente, repubblicana. Un programma non più segreto, ma diffuso con una capillare propaganda clandestina. Le idee mazziniane si diffusero rapidamente, ma i primi moti ad esse ispirati (1833 e 1834 in Piemonte, 1843 in Romagna, 1844 in Calabria) fallirono causando numerose vittime fra i patrioti. Tuttavia, la delusione diffusa fra i cospiratori italiani dopo il fallimento dei moti rivoluzionali indusse molti a fare programmi diversi per attuare i progetti di unità e di indipendenza che ormai si stavano diffondendo ovunque. Si cominciò a pensare a tentativi graduali di avvicinamento fra i vari Stati (ad esempio con patti doganali); si pensò anche a programmare le riforme con accordi pacifici tra il popolo e i sovrani, per raggiungere più facilmente l'unità federativa dell'Italia, magari sotto la presidenza del Papa, come proponeva Vincenzo Gioberti13 («neoguelfismo»), o sotto quella del re di Sardegna, come proponeva Cesare Balbo. Si sperava di ottenere anche la liberazione del Lombardo-Veneto tramite accordi pacifici con l'Austria. Negli anni fra il '45 e il '48 questa linea di moderazione parve la più costruttiva. Ne dette conferma nel 1846 il nuovo pontefice Pio IX (Giovanni Mastai Ferretti) che, nello Stato della Chiesa, fece alcune concessioni: libertà di stampa, amnistia per i reati politici, istituzione della guardia civica, ammissione dei laici nelle cariche pubbliche dello Stato Pontificio. Il suo esempio fu seguito da Leopoldo II di Toscana e da Carlo Alberto, re del Piemonte. L'unico Stato che rimase assolutamente fuori da ogni riforma fu il Regno delle due Sicilie dove Ferdinando II di Borbone si era mostrato insensibile a ogni richiesta. Ma nel gennaio 1848 una violenta insurrezione, che da Palermo si propagò rapidamente fino a Napoli, costrinse il re a concedere la Costituzione e a riconoscere la legittimità del Parlamento e quindi della rappresentanza sovrana dei cittadini. Con un sol gesto Ferdinando IV aveva oltrepassato le concessioni fatte dagli altri sovrani i quali, per non avere altri disordini, si affrettarono a concedere anch'essi la costituzione. Fu importante la Costituzione concessa dal re Carlo Alberto in Piemonte (STATUTO ALBERTINO). Essa rimase in vigore per il Regno d'Italia fino al 1948, sostituita dalla Costituzione repubblicana che abbiamo oggi. Le rivoluzioni nel 1848 in Europa Nel 1848 una nuova ondata rivoluzionaria investì tutta l'Europa. I primi moti erano scoppiati nel gennaio a Palermo per rivendicare la Costituzione, ma la vera rivoluzione ebbe ancora il suo centro a Parigi per poi diramarsi in quasi tutte le maggiori capitali europee. All'origine di un così vasto processo rivoluzionario si possono individuare tre matrici fondamentali: democratico-sociale, liberale, nazionale. Di carattere democratico-sociale fu la rivolta di Parigi. In Francia il processo di industrializzazione, sempre più vantaggioso per i grandi imprenditori, aveva aggravato gli squilibri economici fomentando tensioni fra il popolo che chiedeva la riforma elettorale e voleva la repubblica considerando la monarchia responsabile dei gravi disagi sociali. Di carattere liberale (per ottenere maggiori diritti) furono invece le rivendicazioni degli Stati tedeschi, che tendevano a strappare ai sovrani garanzie costituzionali che assicurassero la partecipazione della borghesia all'esercizio del potere, ancora in mano ai nobili. Di carattere nazionale, infine, furono le lotte di tutti quei popoli che aspiravano a liberarsi dal giogo degli Stati che li tenevano assoggettati. I moti italiani, per le diverse tensioni che li provocarono, ebbero carattere sociale, liberale e nazionale. A Parigi la monarchia di Luigi Filippo non si era dimostrata liberale, come i Francesi speravano, ma aveva favorito la grande borghesia, escludendo dal «paese legale» la massa dei ceti medi e popolari. Le forze di opposizione, soprattutto i repubblicani e i socialisti1, organizzavano continuamente dei banchetti (riunioni) per sensibilizzare il popolo a chiedere la 1 3 Vincenzo Gioberti (1801-1852), filosofo e politico, identificò nel papato il simbolo dell'unità spirituale e della supremazia italiana in campo civile e morale. Infatti, nella sua opera Del primato morale e civile degli Italiani (1843) sosteneva che la rinascita dell'Italia poteva avvenire solo sotto la guida del Papa e della Chiesa, ai quali spettava il compito di assicurare la libertà e l'indipendenza della nazione. In pratica, il pontefice, grazie al suo prestigio morale, avrebbe dovuto promuovere una federazione degli Stati italiani e assumerne la presidenza. Questa corrente risorgimentale, che sembrò avere successo quando Pio IX concesse la prima costituzione, fu chiamata neoguelfismo. 1 Già nei primi decenni dei 1800 avevano cominciato a diffondersi teorie economiche e sociali e movimenti politici che intendevano far prevalere gli interessi collettivi contro quelli individuali; nel 1848 queste teorie utopistiche cominciarono a trovare concretezza. In Germania si era formata da tempo un'organizzazione internazionale, chiamata Lega comunista, che mirava a legare fra loro gli operai di tutta Europa per rivendicare i loro diritti comuni. Il termine comunismo, come quello più diffuso socialismo, sta ad indicare il desiderio di una società più giusta, in cui tutti i cittadini possano godere «in comune», «in società», dei frutti dei loro lavoro e in cui sia abolita la proprietà privata che serve ad arricchire soltanto pochi. Questo traguardo fu indicato con chiarezza da Kart Marx (1818-1889) nel Manifesto dei Partito Comunista, pubblicato a Londra nel febbraio 1848, in cui egli, insieme con il suo amico e collaboratore Friedrich Engels (1820-1895), esponeva in termini semplici, adatti alla divulgazione, (e idee che poi perfezionò nell'opera maggiore, Il Capitale. Il programma espresso da Marx per i comunisti, che egli considerava l'avanguardia organizzata dei proletariato, si può sintetizzare in questi tre punti: riforma elettorale; il 22 febbraio 1848 uno di questi «banchetti» fu proibito dalla polizia, provocando lo scoppio della rivoluzione. Nei quartieri popolari si innalzarono barricate e due giorni dopo il re fu costretto a fuggire, mentre veniva proclamata la seconda repubblica, retta da un governo provvisorio che garantì il diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 25 anni e la libertà di stampa, di pensiero e di associazione. Si proclamò inoltre il diritto al lavoro e, per eliminare la disoccupazione, si crearono gli ateliers nationaux (fabbriche di Stato). Sembrò il trionfo dei socialisti, ma ben presto le cose cambiarono. Gli ateliers si dimostrarono un mezzo capace soltanto di aggravare i problemi francesi: per dar lavoro alla gran massa di disoccupati si finì col farne degli sfaccendati che riscuotevano uno stipendio facendo lavori improduttivi e inutili. Infatti non c'era lavoro per tutti e, per giustificare l'impiego di tanta manodopera, si diminuì sempre più l'orario di lavoro, affidando ai lavoratori mansioni di nessun conto e con salari piuttosto alti. Anche questo contribuì ad aggravare le difficoltà finanziarie dello Stato, tanto che il governo repubblicano aumentò le tasse generando nuovi scontenti, soprattutto fra i ceti medi i quali, nelle elezioni del 23 aprile, mandarono al Parlamento una maggioranza moderata che abolì le leggi sul lavoro, chiuse gli ateliers, si accinse a dar vita a un governo forte, capace di garantire l'ordine. Il 23 giugno insorsero ancora gli operai di Parigi, ma lo scontro terminò in un massacro per l'intervento dell'esercito. La borghesia riprese il controllo della situazione e il 10 dicembre elesse, come presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte, nipote di Napoleone I, acclamato dai moderati, ma anche da ampie frange popolari, desiderose di ordine. Il 13 marzo insorse Vienna per reclamare dalla monarchia assoluta la Costituzione. Contemporaneamente si risvegliarono i sentimenti nazionali dei molti popoli che formavano l'impero asburgico (Magiari, Boemi, Sloveni, Croati, Polacchi, Rumeni, Italiani) e violente insurrezioni scoppiarono a Venezia, a Milano, a Budapest e a Praga. In un primo momento sembrò che i movimenti rivoluzionari avessero successo, ma, dopo che la rivoluzione a Parigi ebbe preso un corso moderato, il governo austriaco si sentì più sicuro per sferrare un attacco violento dell'esercito contro, le città insorte, soffocando ogni velleità di lotta. Infatti, il nuovo imperatore Francesco Giuseppe, salito al trono il 2 dicembre, riprese rapidamente in mano la situazione, restaurando ordine e autorità. Rimase da domare l'Ungheria dove la resistenza, guidata da Lajos Kossuth, si protrasse eroicamente fino all'agosto 1849 (per oltre un anno!), ma poi le truppe austriache, appoggiate da quelle russe, ebbero la meglio sugli insorti e fecero una dura repressione. Anche a Berlino, capitale del regno di Prussia, il 17 marzo 1848 era scoppiata una violenta insurrezione; Federico Guglielmo IV fu costretto a fuggire, mentre entrava in carica un'assemblea costituente. Si ebbero focolai di insurrezioni in altre città germaniche, ma l'avvenimento più importante fu la convocazione a Francoforte di un'assemblea formata da deputati rappresentanti di tutti gli Stati tedeschi che aspiravano a costituire un regno unitario di Germania, con l'esclusione dell'Austria, e ne offrirono la corona a Federico Guglielmo IV, re di Prussia. Questi rifiutò perché, pur vagheggiando tale idea, voleva che la corona gli venisse offerta dai vari principi, non da un’assemblea popolare della cui stabilità politica non si fidava. Anzi, con l'appoggio dell'esercito e dei ricchi proprietari terrieri che temevano il nuovo corso rivoluzionario, nel giugno 1849 rientrò a Berlino, soffocando la rivoluzione nel sangue e riprendendo il suo prestigio di sovrano assoluto di Prussia. Il 1848 in Italia I patrioti italiani, appena saputo dell’insurrezione a Vienna, credettero che si potesse approfittare del momento di crisi austriaca per insorgere e conquistare l’indipendenza. Il 17 marzo insorse Venezia e, senza spargimento di sangue, fu proclamata la Repubblica di S.Marco, presieduta da Daniele Manin. Il 18 insorse Milano che, dopo cinque giorni di eroiche barricate, costrinse gli Austriaci, guidati dal generale Radetzky ad abbandonare la città e a rifugiarsi nel quadrilatero (le fortezze di Verona, Peschiera, Mantova e Legnago), mentre in città si formava un governo provvisorio. Governi provvisori si formarono anche a Modena e a Parma da dove i sovrani dovettero fuggire. Un'ondata di grande entusiasmo si diffuse in tutta l'Italia. Carlo Alberto, re di Piemonte e Sardegna, vide nella rivolta di Milano l'occasione favorevole per un attacco armato contro l'Austria; era spinto dall'ambizioso progetto di liberare l'Italia dalla dominazione straniera, ma anche di unificarla secondo le speranze dei mazziniani e dei moderati. Aveva dalla sua parte l'opinione pubblica di tutte le regioni, da dove accorrevano volontari per mettersi sotto il suo comando. Intanto il granduca di Toscana, il re di Napoli e il Papa erano costretti, a furor di popolo, ad inviare contingenti di truppe. E dal Sudamerica, ansioso di combattere per l'indipendenza italiana alla testa di un esercito di volontari, venne Giuseppe formazione dei proletariato in classe sociale; abbattimento del dominio della borghesia; conquista del potere politico da parte dei proletariato per mezzo della rivoluzione. Questa conquista, dice Marx, non può avvenire senza la rivoluzione perché nessuna classe rinuncia al potere spontaneamente. Da queste idee marxiste prese avvio in tutta Europa il cosiddetto socialismo scientifico, cioè un movimento non più utopistico ma consapevole di reali traguardi da conquistare. I movimenti e i partiti socialisti e comunisti manifestavano la loro compattezza e la loro coscienza unitaria nelle Internazionali, ovvero nelle organizzazioni di intellettuali e di operai, e più tardi anche di contadini, sorte con lo scopo di coordinare e di svolgere sul piano internazionale la lotta contro il capitalismo e di favorire il progresso delle classi operaie. La prima Internazionale dei Lavoratori si costituì a Londra nel 1864 con programmi e statuti formulati dallo stesso Marx. Garibaldi2, un giovane mazziniano che era fuggito esule dopo il fallimento dei moti del 1833. Il 23 marzo 1848 il Piemonte dichiarò guerra all'Austria ed ebbe inizio la Prima Guerra d'indipendenza che vide subito molte vittorie italiane (Pastrengo, Goito, Peschiera ...), ma il 25 luglio la disfatta di Custoza segnò una svolta tanto negativa da indurre il generale Salasco a chiedere una tregua. Erano venuti meno all'esercito piemontese gli aiuti dei vari sovrani d'Italia: essi approfittarono della mossa del Papa (aveva ritirato le truppe perché l'universalità della Chiesa non gli permetteva di abbracciare schieramenti nazionalistici) per trarsi indietro dalla partecipazione a una guerra che avevano accettato a malincuore. L'armistizio di Salasco e la conseguente capitolazione di Milano misero in crisi i moderati, che avevano sperato nel pontefice o nel Piemonte. Si ebbe invece un'impennata dei repubblicani mazziniani che credettero esser giunto il momento di attuare le loro aspirazioni: scoppiarono moti mazziniani in tutta la penisola, ma in particolare a Roma dove fu ucciso il presidente del Consiglio Pellegrino Rossi e il Papa fu costretto a fuggire. Si instaurò così la Repubblica Romana, retta da un triumvirato formato da Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi, con Garibaldi difensore militare. Anche a Firenze si instaurò la repubblica, mentre il granduca Leopoldo II si rifugiava con il Papa a Gaeta. Passarono pochi mesi e di nuovo Carlo Alberto, ansioso di riscattarsi dalla sconfitta, il 12 marzo 1849 infranse la tregua e riprese la guerra le cui sorti, purtroppo, si decisero nel giro di soli dieci giorni, con la definitiva sconfitta piemontese a Novara (23 marzo). Il seguente armistizio di Vignale, convertito nella pace di Milano (6 agosto 1849), segnò il crollo di tutte le speranze italiane di libertà: Brescia, insorta contro gli Austriaci il 23 marzo, fu costretta a cedere alle durissime repressioni il 1° aprile, dopo dieci giorni di lotta; in Toscana tornò il granduca, scortato dalle truppe austriache e meno liberale di prima; a Roma, Pio IX ebbe l'aiuto delle truppe francesi per schiacciare la repubblica: Luigi Napoleone voleva il favore dei cattolici di Francia contro l'ondata democratica e quindi si dimostrò paladino della Chiesa. La Repubblica romana cadde il 5 luglio; l'ultima eroica resistenza si ebbe a Venezia, dove patrioti di ogni parte d'Italia erano convenuti a difendere la repubblica. Bloccata per mesi dalla flotta e dall'esercito austriaci, estenuata dalla fame, dai bombardamenti e dal colera, il 23 agosto la città dovette issare la bandiera di resa e rientrare sotto il dominio straniero. Un decennio di mutamenti All'indomani delle rivoluzioni del '48 e della guerra austro-piemontese si assiste, sul piano politico, all'affermarsi della borghesia alla guida della quasi totalità delle nazioni europee. In Francia Luigi Napoleone Bonaparte, appoggiato dall'esercito e dal favore delle più ricche fasce borghesi (ma anche dai ceti rurali, ancora dominati dal fascino della monarchia), il 2 dicembre 1852 fu acclamato imperatore dei Francesi con il preciso intento, da parte sua, di continuare la dinastia Bonaparte con il nome di Napoleone III (Napoleone II, figlio di Napoleone I e di Maria Luisa d'Austria, era morto fanciullo). La sua politica interna si indirizzò a favorire l'ampio sviluppo dell'economia commerciale e industriale, mentre la politica estera mirava ad accrescere il prestigio della Francia, contrastando la politica espansionistica delle grandi potenze (quella della Russia in Crimea ai danni della Turchia e quella degli Asburgo in Italia) e avviando un'ambiziosa politica coloniale. In Italia predomina la politica del Piemonte, dove Vittorio Emanuele II, succeduto a Carlo Alberto, mantenne le libertà dello Statuto Albertino. Al Piemonte tutti i patrioti italiani guardavano come allo stato-guida verso l'indipendenza e l'unità, specialmente dopo l'impulso che seppe dargli Camillo Benso di Cavour, un liberal-moderato che, alleandosi con il leader del centro-sinistra Urbano Rattazzi, divenne presidente del Consiglio. Il Cavour fu molto abile nel saper legare il Piemonte alle grandi potenze. Svolse, infatti, un'accorta azione diplomatica che iniziò con l'intervento nella guerra di Crimea (1 853) a fianco della Francia e dell'Inghilterra contro la Russia (che voleva espandere il suo dominio su quella penisola, combattendo contro la Turchia). Il successo delle truppe piemontesi sul fiume Cernaia, che contribuì alla vittoria anglo-francese, permise al Cavour di sedersi con prestigio alle trattative di pace del Congresso di Parigi (1856) e di esporre la questione italiana sottoponendola all'attenzione internazionale. Questa mossa, valutata con simpatia da tutti gli Italiani, anche dai più accesi mazziniani e dai militanti di sinistra, permise al Cavour un secondo passo di abile politica: un accordo segreto con Napoleone III per cacciare gli Austriaci dall'Italia (Plombières, 2 Due uomini, due sistemi: Garibaldi e Cavour. La questione non è, fra i due, di principio, non s'aggira sulla forma politica: è questione di mezzi, questione sul come possa raggiungersi un fine che i due affermavano aver comune: l'Unità Nazionale. Garibaldi segue la via diritta: Cavour l'obliqua. Il primo è istintivamente ispirato dalla logica della rivoluzione: il secondo adotta deliberatamente la tattica opportuna a conquistare riforme. Cavour sommò infatti il proprio programma davanti all'Europa, quando, con piglio visibilmente ostile alla rivoluzione disse: o riforma o rivoluzione: Garibaldi ha per formula: non riforme, ma rivoluzione: una Italia libera, invece di più Italie serve e divise. Uscito dall'aristocrazia del paese e aristocratico per indole, scettico, senza fede, senza teoria, senza scienza fuorché quella, desunta da Machiavelli, degli interessi, Cavour non crede nel popolo, non ama il popolo. Nato di popolo, democratico per abitudini, educato dalla Giovine Italia al culto delle idee, dei principi, Garibaldi ama il popolo e crede in esso. Cavour, quindi, aborrendo l'intervento popolare, è costretto a cercare altrove un sostegno all'opera propria; e lo cerca in una potenza straniera, scegliendo fra tutte quella alla quale gli interessi proprii possono suggerire ostilità contro l'Austria. Garibaldi grida all'Italia d'insorgere: Cavour manda circolari alle sue milizie e a' suoi Intendenti, perché impediscano colla forza ogni aiuto che i fratelli tentassero prestare ai fratelli oppressi per emanciparsi. Fra i due non è dunque accordo possibile. E’ tempo che l'Italia lo intenda e scelga fra i due. (da GIUSEPPE MAZZINI, Scritti editi e inediti, LXI, lmola, Cooperativa Tipografica Galeati, 1932) 1858). Poi, con abili manovre (rafforzamento dell'esercito, arruolamento di volontari agli ordini di Garibaldi, azioni di disturbo lungo le linee di confine austriaco ...), provocò le reazioni dell'Austria, costringendola a dichiarare guerra. La Seconda Guerra d'indipendenza ebbe inizio nel maggio 1859, favorita dall'aiuto delle truppe francesi che Napoleone III guidava dal Moncenisio, dopo avere a sua volta dichiarato guerra all'Austria. Purtroppo anche questa guerra, malgrado un fausto inizio con clamorose vittorie, terminò miseramente quando Napoleone III, timoroso di complicazioni internazionali, firmò l'armistizio separato con l'Austria (Villafranca, luglio 1859). Il Cavour si sentì offeso e tradito e si dimise dal governo, mentre tutta l'Italia insorgeva con violente sommosse per reclamare l'annessione al Piemonte e l'unità sotto i Savoia. Anche il Mazzini, deposte le pregiudiziali repubblicane, si adoprava a questo scopo, fomentando le insurrezioni, e Garibaldi, con i suoi Cacciatori delle Alpi (truppe di volontari), accorreva ovunque a portare aiuto ai rivoltosi. Cavour, per impedire più gravi disordini, tornò al governo (gennaio 1860) e chiese a Napoleone III, in cambio della cessione di Nizza e Savoia, di non opporsi allo svolgimento di plebisciti (votazioni popolari) per l'annessione al Piemonte di quegli Stati che lo reclamavano. La Toscana e l’Emilia passarono ai Savoia col plebiscito del 12 marzo 1860. Nell'Italia meridionale, dove l'immobilismo dei Borboni non permetteva trasgressioni, fu decisivo l'intervento di Garibaldi e, con mille «camicie rosse», (impresa dei Mille, 1860) partì da Quarto (Genova) e sbarcò a Marsala (Sicilia); le file dei suoi garibaldini si accrebbero continuamente di patrioti locali e l'avanzata continuò vittoriosa fino a Napoli, mentre il re fuggiva a Gaeta. Rimaneva da conquistare Roma, ma il Cavour non permise che si violassero i territori del papa, temendo un urto con la Francia. Anche Venezia rimaneva sotto il dominio dell'Austria. I plebisciti nel Regno delle due Sicilie, in Umbria e nelle Marche sancirono l'annessione anche di queste regioni al Piemonte. Nel gennaio 1861 ci furono le elezioni per il primo Parlamento Italiano che, riunito il 7 marzo 1861, ratificò l'unificazione e proclamò il Regno d'Italia.