LibertàEdizioni Piero Isgrò L’OROLOGIO DI CELLULOIDE I ragazzi dal vestito grigio che amavano il cinema LibertàEdizioni Alla memoria dei miei amatissimi genitori e di mio nipote. Che la terra gli sia leggera. Chi crede che il presente sia l’unica cosa presente, non sa nulla dell’epoca in cui vive. Oscar Wilde, Il critico come artista. Se niente può far sì che si rinnovi all’erba il suo splendore e che riviva il fiore della sorte funesta non ci dorremo ma ancor più saldi in petto godremo di quel che resta. William Wordsworth, dall’ode Intuizioni di immortalità nei ricordi dell’infanzia, 1807 L’OROLOGIO DI CELLULOIDE I ragazzi dal vestito grigio che amavano il cinema La famiglia Isgrò: da sinistra l’autore, la madre con il fratellino, il padre, la sorella Introduzione L’orologio di celluloide scandisce idealmente il tempo dell’Autore che nella sua vita professionale si è occupato di teatro, letteratura, musica e soprattutto cinema. Le lancette cominciano a scorrere dalla mezzanotte. Sul quadrante splendono come lontane stelle Greta Garbo e Marlene Dietrich; un’ora dopo s’accendono Jean Harlow, Claudette Colbert, Vivien Leigh; alle due, Ingrid Bergman, Katharine Hepburn, Joan Crawford, Bette Davis e poi, alle prime luci del mattino, Rita Hayworth, Lauren Bacall, Lana Turner e tante altre fino a raggiungere, a giorno concluso, Grace Kelly, Marilyn Monroe, Liz Taylor. In tutto, quarantadue ritratti femminili che vanno dagli anni ’30 ai ’50 e che hanno reso immortale il cinema americano. Accanto a questi personaggi scorre la vita dell’Autore, dall’infanzia alla maturità, una vita che appartiene un po’ a tutti i bambini, poi ragazzi, poi adulti che sono cresciuti nella società povera degli anni Cinquanta ma con un cuore forte e che mai si sono arresi. Ragazzi dal vestito grigio, senza i colori della rivoluzione, apparentati in qualche misura ai giovani americani descritti da Sloan Wilson, estranei al consumismo. Ragazzi che hanno amato il cinema e i libri, ragazzi che nelle feste di Natale mettevano sotto il piatto di papà la letterina con la quale promettevano di essere più buoni e studiosi, ragazzi che scrivevano dichiarazioni d’amore alle ragazze che amavano e si disperavano per i loro rifiuti, ragazzi che non hanno conosciuto le lusinghe terribili della droga, che hanno spinto con gli occhi la propria età acerba col piccolo sogno di raggiungere presto l’emancipazione indossando i calzoni lunghi, la giacca e la cravatta, presentarsi al botteghino senza arrossire se il film era vietato ai minori e restringersi nel cerchio mistico della loro avventura umana. Quelle dei ragazzi di allora erano vite semplici e percorribili, non artificiali, vuote e 9 ingannevoli. Poi, un giorno, l’incanto s’è spezzato. Crescendo si sono accorti che la loro amata Catania cominciava ad essere percepita come un impasto di sicilianismo e di folklore dozzinale, una città produttrice di semilavorati intellettuali destinati all’emigrazione. Quando all’alba degli anni Novanta l’autore si trasferisce a Roma, al TG1, è anche lui un “prodotto semilavorato”, pur avendo i suoi anni e la sua formazione professionale, ma era a un bivio: crescere o tornare indietro. La città era giunta a un punto morto, anzi, stava precipitando nel suo provincialismo di maniera, nei suoi club culturali inutili e paesani, nelle sue mafie bianche e nelle sue mafie nere, nella sua editoria da strenna, nel saccheggio del denaro pubblico, nei tanti Thénardier impegnati a fare sottocultura strizzando l’occhio a questo e a quel politico di turno… insomma, la città, al pari di tutte le città meridionali, stava svendendo i propri sogni e gli stessi giovani che di quei sogni s’erano alimentati. 10 Città di visioni e di scena C’era una volta a Catania, antica città del Mediterraneo, al numero 72 di via Luigi Capuana, non molto distante dal teatro dei pupi di Nino Insanguine, un cinematografo di 132 posti. In realtà, era un dopolavoro frequentato da operai e impiegati delle Ferrovie dello Stato e dell’Azienda municipale trasporti. In questo locale, una sorta di garage stretto e lungo dove il biglietto costava venticinque lire, m’innamorai perdutamente del cinema americano e delle sue dive. Non avevo nemmeno quattordici anni, l’età dello stupore, l’età che si approssima alla giovinezza, quella condizione “dolorosa, limpida e disinteressata”, come la descrive Sándor Márai nelle Confessioni di un borghese, alla quale non si può resistere. Del resto, come poteva un ragazzino resistere al cinema in cui l’apparenza è più seducente della realtà? Basta indossare una parrucca per smettere d’essere calvo o recitare un copione per diventare ciò che non si è: eroe, scienziato, tombeur de femmes, milionario. Quale regno meraviglioso di travestimenti, dunque, per uno che aveva appena sbirciato nella vita e intendeva piegarla, per ciò che poteva, alla sua dimensione fantastica? Correva la metà degli anni Cinquanta in quella Catania che Brancati negli Anni perduti ribattezzò Natàca come a disegnare un fossato tra realtà e fantasia, quasi a mettersi al riparo dalla reazione degli “inquisiti” o dai processi ingannevoli della memoria; oppure, semplicemente, per confondere le acque. Se non faccio mia l’astuzia è perché il mio tempo malinconico e fanciullo non vedeva separazioni tra lo schermo del cinema e quello della vita. I film erano divisi per lo più in tre tempi perché la pellicola da proiettare arrivava in distribuzione custodita in tre grosse bobine (se le bobine erano quattro il film veniva suddiviso di conseguenza). Gli intervalli tra un tempo e l’altro servivano all’operatore di cabina per sca11 ricare il rullo e mettere in macchina il successivo. Una volta che l’occhio del proiettore tornava a bucare la nuvola di fumo della sala, illuminando lo schermo con la magia delle immagini, l’operatore riavvolgeva la bobina, appena utilizzata, per l’altra proiezione. Molti uomini, poiché il locale non era riscaldato, rimanevano a capo coperto sicché quelli che stavano dietro, dopo oscillazioni varie del busto e contorsioni del collo, si rassegnavano a uscire dalla timidezza e pregavano i maleducati di scoprirsi. Qualcuno, però, più duro del polpo, non capiva o fingeva di non capire e allora la sala tutta si metteva in movimento e imprecava, “u cappeddu!”, “a coppula!”, e addio film. Il proiezionista bloccava la bobina, accendeva le luci in sala e, come d’incanto, cappelli e berretti sparivano. Non era solo questione di freddo alla testa, era anche una forma di cultura imitativa. Molti film mostravano i protagonisti col cappello che non levavano nemmeno in casa d’altri, in ufficio o di fronte alle signore. I maleducati per eccellenza erano i poliziotti in borghese e gli investigatori privati; anzi, il cappello era il loro segno distintivo, la loro cifra intellettiva. Di norma, nei film western i buoni indossavano il cappello bianco, i cattivi quello nero. Ma la varietà delle fogge e dei colori apparteneva un po’ a tutti i personaggi dei film americani. Si entrava anche a spettacolo cominciato. Non c’era la preoccupazione di perdere qualche scena o di non afferrare subito la trama perché il film veniva visto una seconda volta, in tutto o in parte; altrimenti c’erano le domande bisbigliate ai vicini di posto per capire, dopo aver capito, la dimensione della propria inettitudine. Sembrava che la gente non avesse nulla da fare, che trascinasse la vita da uno spettacolo all’altro, quasi a drogarsi dell’invenzione della vita stessa. Pagava il biglietto pure se non c’erano posti a sedere. Si sistemava in piedi, lungo i corridoi, appoggiandosi alla parete e aspettando che qualcuno si alzasse. Non era in fila per il pane o l’acqua, che s’attingeva con bidoni e bottiglie 12 alla fontana, era in fila per l’effimero, per dimenticare ciò che stava all’esterno di quelle quinte di celluloide. Formidabile epoca di speranze, di linee rette verso il futuro indistinto, di passi faticosi verso il benessere a lungo accarezzato, di pericolosi inciampi anche perché si correva con la testa tra le nuvole, senza guardare a terra, perché troppo a lungo s’era guardato nelle fosse dei bombardamenti, nelle rovine dei palazzi, negli anfratti della sofferenza e del bisogno. Fuori c’era una città che s’ingegnava a inventarsi il lavoro, a dare un senso di bellezza alle cose minute, alle cose povere e necessarie, per renderle accettabili. Anche questo era un auto-inganno. Ma la città cercava di guardare con ottimismo al proprio futuro, dimenticare la guerra, la sua tragedia, i suoi lutti e tentare di costruire qualcosa che assomigliasse a un mondo edenico. Il pubblico, sistemato nei sedili di legno che a fine spettacolo rendevano quadrati gli ossuti mappamondi, assisteva alle imprese dei divi con infantile passione. Spesso la visione del film era cadenzata da fragorosi ciàk che a intervalli regolari fumatori e masticatori di tabacco sputavano a terra con indifferenza. Il disgusto di noi giovani era lo stesso del signorino Maletti di gaddiana definizione. Quando il film stava per finire, cominciava il controllo degli orologi. Faticoso controllo, in verità, perché non era tempo d’orologi quello. Costavano troppo e non servivano a calcolare lo sfruttamento. Le ore fluivano lente e potevi misurarle a grandi linee sui quadranti arrugginiti delle chiese e degli edifici pubblici, sul sole che tracciava l’arco del giorno. E allora si domandava ai vicini, ai fortunati, non per scappare via ma per calcolare quanto ancora restasse dell’incanto. Era come trovarsi alle ultime pagine di un romanzo appassionante e cercare di rallentarne la lettura rimandando per quanto possibile il finale che poi ti lasciava per alcuni minuti inchiodato al tuo silenzioso carnefice di legno. Passata l’emozione, le rialzate erano lente e faticose, in uno sbattere di sedute e di luci che trafiggevano gli occhi. 13 I film erano parrocchiali, innocui e raramente sconsigliati o vietati, non certo per disciplina clericale ma per antico pudore e alla fine per ristrettezze (culturali) di mercato. Le scene d’amore si fermavano alle soglie delle camere da letto e i baci erano dati a labbra serrate, non come nei film d’oggi in cui l’uomo sembra strappare le tonsille alla donna. Tutto era suggerito, appena mostrato, intravisto; a non dire degli occhiuti censori che tagliavano con l’accetta le situazioni scabrose al punto da compromettere la comprensibilità della vicenda. Memorabile la scena del parroco in Nuovo cinema Paradiso che a ogni bacio eterodosso scampanella per avvisare il proiezionista di tagliare. Il giorno dedicato al cinema era il sabato pomeriggio e tutta la famiglia vi partecipava con entusiasmo: mio padre, mia madre, mia sorella di un anno più grande, mio fratello di cinque anni più piccolo, naturalmente io, che stavo in mezzo. La nostra abitudine assomigliava a migliaia d’altre abitudini. I cinema erano sempre pieni, sempre colmi di promesse consolatorie. Il dopolavoro si trovava a due passi da casa nostra. Abitavamo in via Giuseppe Verdi, alla confluenza con via Vecchia Ognina, all’ultimo piano di un palazzotto grigio, naturalmente senza ascensore e con tutta la scomodità del tempo: freddo in inverno, caldo in estate. Mio padre dirigeva un’industria farmaceutica che aveva sede in fondo al Corso Italia, poco prima delle sciare Borgetti, in una magnifica villa ottocentesca disegnata dall’architetto Carlo Sada. Mia madre faceva la casalinga. Nel pomeriggio era impegnata in lavori di cucito o di rammendo e a badare a mio fratello. Ogni tanto cantava filastrocche dolci e ripetitive… “c’era una volta un piccolo naviglio, che non voleva non voleva navigar…” come tutte le mamme del tempo, sagge e attente, che cercavano in quelle cantilene un ritaglio di serenità. Cantilene e canzoni napoletane. Struggenti, spesso insensate per le motivazioni personali che le accompagnavano. 14 Sarà stato il Regno delle Due Sicilie ma le società meridionali, di qua e di là del Faro, hanno tessuto un linguaggio comune sin dal Settecento, e forse anche prima. Fino a qualche anno fa le sceneggiate di Mario Merola avevano grande successo a Catania e grande successo hanno tuttora le canzoni partenopee, salmodiate più che cantate. Maestri del ramo sono i muratori, ovviamente senza grembiule, che impastano calce e costruiscono muri di mattoni al canto di Anema e core, oppure, al passaggio di una bella ragazza, ripescano dal canzoniere paterno l’immortale invito di Claudio Villa: “Vieni, c’è una strada nel bosco, il suo nome conosco, vuoi conoscerlo tu?…” Le ragazze non alzano lo sguardo, camminano dritte, solo crespi di sorrisi agli angoli della bocca, mentre la canzone rompe la severità del tempo... “Vieni, è la strada del cuore dove nasce l’amore…” Tutti intonati e scostumati i muratori. Mai sconci o volgari però. Sempre sul limite dell’alcova, sulla linea narrativa delle parole, del dire e non dire. Poi, alla pausa pranzo, con la faccia scura bruciata dal sole e dal vento, aprono il sacco del pane e delle olive, e qualche acciuga e pezzo di formaggio e, smozzicando, continuano a scherzare e sognare. Tornando a casa, i più giovani troveranno mogli bambine alle quali porteranno arance, come il siciliano incontrato sul traghetto da Vittorini, e tenteranno di convincerle che si può star bene senza arricchire. Una canzone napoletana è un’opera lirica in piccolo, uno struggimento, un’impossibilità di amare, una nenia di dolore; spesso è un addio, una lontananza, un modo di coltivare un ricordo che accompagna l’emigrante verso “terre assai luntane”. Le terre erano quelle delle Americhe, che tra il 1880 e il 1920 accolsero oltre quattro milioni di italiani alla ricerca di un lavoro e di un’esistenza migliore. In quegli “anni di pellicola”, quelli della mia infanzia e giovinezza, Napoli e Genova aprivano il loro mare antico alle ultime navi della speranza con una massiccia ondata d’emigranti diretti negli Stati Uniti, in Argentina, in Colombia, in 15 Venezuela. Da lì, dopo qualche anno, sarebbero arrivati soldi, lettere e malinconici canti. “E nce ne costa lacreme st’America a nuje napulitane! Pe’ nuje ca ce chiagnimmo ’o cielo ’e Napule, comm’è amaro stu ppane!” Anche mia sorella faceva lo stesso. Le filastrocche la allontanavano dal rigore dei compiti e della lettura per immergerla nelle regioni del cuore e della fantasia. Seduta accanto a mia madre, che ogni tanto le misurava sul braccio o sulle spalle la maglia di lana che stava lavorando ai ferri, masticava la matita, tornava a usarla sul quaderno, piegando la testa da un lato e, più per liberazione che per infantilismo, completava la filastrocca: “e dopo una due tre quattro settimane, il piccolo naviglio riprese a navigar…” “Che fai, esci?” La domanda di mamma era, al solito, retorica. Lei sapeva benissimo che sarei andato al cinema: in realtà, uno strappo infrasettimanale alla regola del sabato. Ne avevamo parlato a tavola e commentato il film che avrei visto, ma quella mia individuale avventura cinematografica un poco l’infastidiva. Lei, con la sua arte del preoccuparsi, avrebbe voluto vedermi sempre accanto a sé, seduto a studiare o a leggere, a brano a brano, e ripetere le poesie da mandare a memoria. Il cinema andava bene, era l’unico edonismo che potevamo permetterci, ma doveva essere un rito collettivo, di famiglia, non un gusto solitario che le sapeva di “vizio”. Oltretutto, era convinta che non avessi l’età. Ma poi osservava i miei occhi scintillanti e la delusione pronta a esplodere e mi dava il permesso con una domanda altrettanto retorica: “I compiti?” La mia risposta era sempre la stessa, fuori tono: “Mi porto le chiavi?” Lei non rispondeva, si limitava a oltrepassarmi con lo sguardo. E le chiavi restavano sulla piccola consolle dell’ingresso. Ero un bambino buono, penso, felice del margine scarno della vita; un bambino come tanti; un bambino col suo cappottino corto, gli occhi sgranati sul mondo, il vestito rivoltato; un bambino mai con le scarpe slacciate 16 (come Adriano Sofri da piccolo) o i calzini arrotolati alle caviglie, e se ciò accadeva si chinava subito a sistemare le stringhe o gli elastici, per fastidio più che per disciplina; un bambino che aspettava il giorno dei morti con ansia febbrile e se talvolta restava a mani vuote la delusione del mancato regalo non lo spingeva al pianto ma a occupare gli angoli appartati della casa, in solitaria infinita malinconia. Le lacrime avrebbero sancito la rivolta a un’ingiustizia. Ma quale ingiustizia potevo rimproverare ai miei genitori che si facevano in quattro per noi figli non riservando per sé che sacrifici e dolore? Forse quella di avere rimandato a un tempo migliore l’acquisto di un giocattolo costoso? Ero maturo abbastanza da capire il limite tra il superfluo e il necessario. Non avere trovato, un anno dei pochi, la pistola a fulminanti fu una mazzata che smaltii immaginando di salvare, con l’indice e il pollice in evidenza, un gruppo di coloni attaccati dai pellirosse sui versanti nevosi dell’Etna. Un mio compagno di banco alle medie, Peppino Siracusa, possedeva un fortilizio di legno attorno al quale, dopo i compiti, condizionati dai film di John Ford, inventavamo assalti d’indiani e cruente battaglie con i soldati blu. Di fronte alla seduzione del gioco quei combattenti di plastica acquistavano l’anima, la foga, la bizzarria di chi li muoveva, diventavano proiezione del nostro temperamento. E guardate come questo lontano ricordo mi conduca oggi a innestarvi memorie adulte e in qualche misura drammatiche. La redazione del TG1 a Saxa Rubra dava su una collinetta erbosa. All’imbrunire, qualche ora prima della messa in onda del telegiornale, la guardavo perdendomi nei suoi alberi e arbusti e immaginavo che dalla vetta da un momento all’altro si sarebbe affacciato un gruppo di pellirosse a cavallo pronti a scendere e a battagliare. Attraverso quella suggestione infantile si stava determinando in me il distacco e il conseguente ritorno a casa, nella casa di un tempo, nella casa in cui i pellirosse mantenevano ancora i loro accampamenti, le 17 loro frecce e i loro piumaggi, pronti a scontrarsi col Settimo cavalleggeri. Era un ricordo che potrei definire borderline, al limite della saviezza, ricostruito su disarmonie di film e filmetti ma anche su disagi reali, inseriti a loro volta in memorie di carillon, profumi dimenticati, dolcezze familiari che risalivano rapidamente dalla profondità degli anni per rammentarmi che il tempo stava tornando indietro a proteggermi. In realtà, sostituivo il ricordo con la sua illusione per affrontare meglio le paure e i disagi romani. Mi sarei ammalato, anche fisicamente intendo, se avessi continuato a lottare, senza farmene una ragione, contro le vellutate prepotenze in Rai e il variopinto mondo delle raccomandazioni, contro le manovre della gran parte dei colleghi che a ogni cambio di maggioranza fuori e dentro il palazzo dell’informazione pubblica facevano come Angelo Musco... Una volta il grande attore catanese fu ricevuto da Mussolini a Palazzo Venezia. Dopo i convenevoli d’uso, il Duce gli sparò la domanda che faceva un po’ a tutti: “Musco, siete voi fascista?” L’ospite prese tempo, sorrise. La risposta, assolutamente spiazzante, fu questa: “Eccellenza, marinaru sugnu”. Allo sguardo perplesso del duce, precisò: “Vado dove mi porta il vento”. Lo stesso avrebbe detto il capitano Renault all’amico Rick Blaine in Casablanca: “Seguo il vento che tira, e in questo momento tira un forte vento di Vichy”. Un giorno Rodolfo Brancoli, da poco direttore del TG1, si fece due lunghi corridoi per venire nella mia stanza a farmi i complimenti per un servizio (sulla formula segreta, se non ricordo male, della Coca Cola) che avevo realizzato per l’edizione delle 13.30. Disse: “Poiché le mie parole ogni volta cadono nel vuoto, sono venuto personalmente a congratularmi con te”. Aveva capito che il mio caporedattore, col quale talvolta entravo in conflitto, non mi trasmetteva i suoi elogi, semmai comunicava quelli rivolti agli altri, amici e sodali, che potevano aiutarlo politicamente. Che 18 finezza. Una volta, per protesta contro un collega che aveva osato criticarlo, questo britannico caporedattore alla rovescia buttò in aria le cassette-video che portava con sé, si allungò sul pavimento e cominciò a battere ripetutamente i piedi a terra. Come i bambini. La scenetta si divertiva a raccontarla quella malalingua di Enrico Mentana, giornalista brillante e con una marcia in più rispetto alle mezzecalzette che affollavano il servizio pubblico. E l’avrebbe dimostrato non solo fondando il Tg5, che sarebbe diventato un pericoloso concorrente del Tg1, ma risuscitando il TgLa7 che in mano ad Antonello Piroso stava pressoché sparendo. Nel lasciare la direzione del telegiornale Piroso si paragonò a Lay Gaga e attribuì a Mentana il ruolo di Madonna. Come dire, il nuovo (Lay Gaga) veniva sostituito dal vecchio (Madonna). A parte l’incongruenza del ragionamento, il piccolo e patetico Piroso dimenticava che in 30 anni la regina della disco music, così come ha fatto “mitraglia” Mentana con molti e più autorevoli colleghi, ha triturato parecchie Lay Gaga. Brancoli durò pochi mesi. Mi confessò che passava più tempo a correggere i pezzi dei colleghi che a dirigere il giornale: “Non posso accettare che in un testo di dieci righe una parola sia ripetuta sette volte!” Portava con sé il rigore della carta stampata e della buona scrittura, e aveva un vezzo per me incomprensibile: indossava sempre un pullover blu, abbottonato sul davanti, con smagliature ai gomiti. Altri direttori c’erano stati e altri sarebbero venuti. In dieci anni ne ho sperimentati nove. Ma Brancoli fu fatto fuori perché era un osso duro, perché aveva idee precise sulla professione, perché era allergico alle pressioni della politica. Il giornalismo, era solito dire, deve imparare a essere indipendente dal potere politico, deve imparare a controllarlo, a incalzarlo, senza però assumere un altro punto di vista ma restando in una prospettiva distaccata. Figurarsi. Nel teatrino politicizzato della Rai, in cui tutti, a gara e a turno, giudicano re e reucci, pur nudi, 19 riccamente vestiti, era come spostare l’Etna al largo dello Jonio. Un pomeriggio di primavera tornai di corsa da Parigi dove avevo intervistato Johnny Depp. Il pezzo era previsto per l’edizione delle venti, tuttavia, controllando la scaletta definitiva del telegiornale, mi accorsi che era stato depennato a favore di un servizio di Vincenzo Mollica, confezionato in redazione e che riguardava il lancio di un disco di Enrico Ruggeri. Montai in bestia, per la soperchieria e per il fatto di non essere stato informato del cambiamento. Non avevo protezioni, essendo politicamente apolide, ma per difendere la mia dignità ero disposto a tutto, anche a licenziarmi. Entrai come una furia nella stanza di Marcello Sorgi che mi guardò sorpreso. Di solito i giornalisti entravano con il cappello in mano anche se non l’avevano. Era un direttore piccolo di statura, giovane e di poche parole. Figlio di un noto avvocato di Palermo, aveva fatto carriera alla Stampa con la sua aria di bravo ragazzo che tanto piaceva all’avvocato Agnelli. Fronte alta, occhiali a stanghetta, camminava radente i muri non guardando in faccia nessuno e aggiustandosi continuamente la giacca per mantenerne l’appiombo. Conservò il suo punto di vista ma il servizio sul cantante Ruggeri non andò in onda. Sui giornalisti della carta stampata e su quelli televisivi aveva una sua teoria. Ai primi basta la bravura, diceva, ai secondi è necessario che siano anche “personaggi”. In altre parole, i giornalisti televisivi devono saper “recitare” le notizie, essere in grado di colpire la fantasia del pubblico col loro stile attoriale, la loro presenza fisica, i loro tic, insomma l’estetica è più importante del contenuto. Se ripenso ai suoi telegiornali non mi padre che la teoria avesse trovato importanti applicazioni. In verità, egli giocava coi pupi di creta che aveva o che gli spedivano per corriere espresso. Alcuni erano fisicamente e professionalmente impresentabili. Ma chiuse un occhio. Poi chiuse l’altro. Anni dopo lo incontrai a Catania. Presentava un libro nella terrazza del museo diocesano. Fu contento di rivedermi. Ed era 20 sincero. Lontano dalle lusinghe e dai corrompimenti della Rai aveva ritrovato il senso della professione e dei rapporti umani. Alla fine ero stanco, deluso, sfiduciato. Sarei tornato nella mia città, a pezzi. Ma di questo avrò modo di parlare più avanti. Posso qui aggiungere che i direttori che mi mostrarono simpatia e considerazione furono in particolare Nuccio Fava e Bruno Vespa, ambedue democristiani: l’uno moroteo, l’altro espressione del famoso CAF (Craxi, Andreotti, Forlani). Non posso che ringraziarli. Il tanto vituperato Vespa fu un buon direttore, nonostante tutto; difese sempre la redazione, ebbe il coraggio di entrare in conflitto con l’allora presidente della Repubblica, il bizzarro Francesco Cossiga, e alla fine da molti colleghi, me compreso, venne abbandonato e affossato. Di ciò mi porto un rimorso, appena bilanciato da qualche attenuante, che ogni tanto affiora e mi fa male. In realtà, Vespa fu costretto a dimettersi non tanto per il voto contrario della maggioranza della redazione, che storicamente si è sempre riconosciuta nella sinistra, quanto per il mancato sostegno del direttore generale, il democristiano Pasquarelli, che per altro gli aveva “suggerito” l’assunzione come giornalista dell’istruttore di tennis della figlia. Per quel voltafaccia si sentì pugnalato alle spalle, lui che aveva simpatizzato da sempre per la Democrazia Cristiana fino a definirla “editore di riferimento”. Definizione fin troppo sincera, che scatenò il putiferio ma che fotografava una situazione reale: il TG1 saldamente in mano alla DC, il TG2 in mano al PSI e il TG3 (teleKabul) in mano al PCI. Queste erano le zite, le fidanzate. Fu un dramma che visse male e che in seguito condizionò e inasprì il suo carattere e le sue scelte politiche. In tempi più recenti s’è lasciato affascinare dalla sirena berlusconiana senza capire che quel canto gli ha fatto perdere equilibrio, saggezza e l’ha rovinosamente allontanato dal grande sogno che nutriva da ragazzo: assomigliare a Walter Cronkite, scomparso alcuni anni fa, icona mondiale del 21 giornalismo televisivo, l’uomo che la gente ammirava perché era onesto, autorevole, inflessibile. La cronaca del defenestramento apparve nell’edizione serale del telegiornale e fui io a occuparmene. Lo feci, credo, con scrupolo e onestà. Ma l’avere tributato al collega sconfitto l’onore delle armi non mi fu perdonato, e questo l’avrei capito molti anni dopo. Il maggiore difetto di Bruno Vespa? A parte la durezza del carattere e l’ossessiva puntigliosità nel ribattere alle critiche, anche quelle giuste, egli ha una visione conservatrice del mondo ed è un governativo per cultura e formazione provinciale, com’eravamo governativi noi de La Sicilia di Catania che mai ci saremmo sognati di andare contro le istituzioni e le maggioranze espresse dal voto popolare. Vespa viene dall’Abruzzo, terra dura e drammatica, e forse porta con sé l’arco di quelle montagne battute dal gelo e dal vento, com’io mi porto appresso le sciare fredde dell’Etna che rendono insicuri i pensieri e stravolgono lo spirito. Con gli anni Bruno s’è meritato elogi e critiche ma è diventato un personaggio al punto da finire in cronaca per le notizie più banali. E nessuno ricorda più la spettacolare intervista che fece a Bagdad a Saddam Hussein. Unico al mondo. Lo intervistò in perfetto inglese. E nessuno sapeva che quella lingua conoscesse. Lasciandogli il testimone, Nuccio Fava trovò parole di grande nobiltà. Riporto fedelmente il brano del discorso che tenne alla redazione: “Il nuovo direttore, il collega Bruno Vespa, voi lo conoscete benissimo. Posso solo aggiungere che io con Bruno Vespa, quasi vent’anni fa, ho fatto una selezione e poi un concorso per radio telecronisti, assieme a altri colleghi: Frajese, Angela Buttiglione, Bruno Pizzul, tutti nomi a voi noti. Ebbene, Bruno Vespa – questo molti di voi non lo sanno – a quel concorso risultò primo. Il mio augurio è che come nuovo direttore del Tg1 risulti anche il direttore migliore”. Altri tempi, altro stile. Tornando all’infanzia, ricordo con precisione il primo giorno di scuola di mia sorella. Non avevo ancora 22 l’età e tuttavia volevo andare con lei, avere i miei libri, i quaderni delle cartiere Pigna con la copertina illustrata, i pennini Presbitero, l’astuccio di legno col coperchio scorrevole, la gomma per cancellare Staedtler, le matite Fila e i gessetti colorati della Fim Torino; insomma, tutto ciò che stava nella cartella magicamente misteriosa di mia sorella, magicamente profumata di cuoio e cancelleria. E piansi, oh quanto piansi! L’altro giorno mi sono rivisto, in un lampo, nella figura di un bambino di sei-sette anni che all’uscita di un supermercato teneva tra le braccia, quasi più grande di lui, un vaso pieno di fiori. Era fiero e felice. La mamma che l’accompagnava fece il gesto di aiutarlo, ma lui rifiutò. Doveva piacergli un sacco quel vaso. Se la madre glielo avesse tolto gli avrebbe rubato il mondo, il suo mondo vivo di colori. Oh, piccolo bambino che non sarai più, piccolo bambino che crescerai e dimenticherai quel forte sentimento di gioioso possesso che ho colto nei tuoi occhi e che un tempo lontano mi apparteneva! La finzione del cinema la respiravo attraverso la finzione della città, da sempre divisa tra il martirio cristiano di Sant’Agata e quello pagano di Eliodoro, bruciato vivo dal santo vescovo Leone che lo tenne “fermo dentro una fornace, senza riportare lui stesso – miracolosamente – la minima scottatura”, come ricorda in un bellissimo saggio postumo lo storico Antonino Recupero. La finzione e la magia di Eliodoro, intendo, che una volta per scommessa fece spogliare alcune donne creando l’illusione d’una fiumana d’acqua che le investiva. Forse per questo Catania è una città che si auto-rappresenta nelle sue quinte di palazzi barocchi, che recita i ruoli della vergine e della baldracca e poi s’addormenta dentro il suo “teatro”, nella misera realtà di ciò che sta nascosto, invisibile. Città di visioni e di scena, dunque, di attori che imparano dalla vita e si perfezionano nella finzione “tecnica” del teatro e del cinema. Città di supplizi, di simbologie estreme, di fede e laicità, di santificazione e ludibrio. Ed è questa contrapposizione che la rende complessa e inafferrabile. 23 In questo libro parlo della mia vita, delle mie esperienze umane e professionali, delle vittorie e delle sconfitte ma tutto questo non è solo mio, appartiene a tutta una generazione nata durante la guerra ma che la guerra non ha conosciuto, appartiene a tutti quei bambini, poi ragazzi, poi adulti che sono cresciuti nella società povera degli anni Cinquanta ma con un cuore forte e che mai si sono arresi. Ragazzi vestiti di grigio, senza i colori della rivoluzione, apparentati in qualche misura ai giovani americani descritti da Sloan Wilson, estranei al consumismo. Ragazzi che hanno amato il cinema e i libri, che nelle feste di Natale mettevano sotto il piatto di papà la letterina con la quale promettevano di essere più buoni e studiosi, che scrivevano dichiarazioni d’amore alle ragazze e si disperavano per i loro rifiuti, ragazzi che non hanno conosciuto le lusinghe terribili della droga, che hanno spinto con gli occhi la propria età acerba magari col piccolo sogno di raggiungere presto l’emancipazione indossando i calzoni lunghi, la giacca e la cravatta, presentarsi al botteghino senza arrossire se il film era vietato ai minori e restringersi nel cerchio mistico della loro avventura umana. La volontà di crescere era ed è di tutti i ragazzi com’è naturale ma a quei tempi, come scrive Ian McEwan in Chesil Beach, “essere giovani costituiva un ingombro sociale”. Quelle di allora erano vite semplici e percorribili, non vite artificiali, vuote e ingannevoli. I padri, che avevano combattuto due guerre e cercato di costruire un avvenire migliore, non hanno mai ingannato i loro figli. Pur riempiendoli d’amore e di tenerezza, li hanno costantemente messi di fronte alle responsabilità e alle durezze della vita. Così anche le madri. E sono stati ascoltati non perché erano “genitori”, non perché come tali avevano il diritto di sbagliare e di essere assolti sempre e comunque, ma perché avevano le carte in regola, avevano l’autorevolezza dei comportamenti. Dunque, i figli non sarebbero stati capaci, come John March, di vivere al di fuori del proprio destino, 24 aspettando o temendo chissà cosa e nel frattempo allungarsi gli anni senza accorgersi per esempio dell’amore puro e disinteressato di May Bartram. Quei ragazzi avevano troppe cose da fare, troppo cammino da percorrere per fermarsi a contemplare il proprio ombelico. Ragazzi con infanzie di pietra, precocemente adulti, ragazzi che si distinguevano dai grandi solo per l’altezza. Per rendere spiritosamente l’idea, ricordo un fulminante dialogo cinematografico. Sabrina, protagonista dell’omonimo film di Billy Wilder, domanda al padre, autista dei ricchi e potenti Larrabee: “Com’era Linus da bambino?” Risposta: “Più basso”. Per dire che il più grande dei fratelli Larrabee era stato sempre vecchio, sempre serio, senza giochi e senza infanzia. Poi l’incanto s’è spezzato. Crescendo ci siamo accorti che la nostra amata città, per dirla ancora con Nino Recupero, cominciò a essere percepita come “un impasto ripugnante di sicilianismo e di folklore dozzinale”, una città non finita, violentata dalla speculazione edilizia, una città produttrice di semilavorati intellettuali destinati all’emigrazione. Quando all’alba degli anni Novanta mi trasferii a Roma ero anch’io un “prodotto semilavorato”, pur avendo i miei anni e la mia formazione professionale, ma mi trovavo a un bivio: crescere o tornare indietro. E poi mi sentivo “come uno chiuso in un sommergibile affondato”, secondo il giudizio di Andrea Camilleri intervistato da Sebastiano Messina su la Repubblica, uno che deve uscire per forza a respirare all’aperto, pena l’asfissia. Catania era giunta a un punto morto, anzi, stava precipitando nel suo provincialismo di maniera, nei suoi club culturali paesani e inutili, nelle sue mafie bianche e nelle sue mafie nere, nella sua editoria da strenna, nel saccheggio del denaro pubblico, nei tanti Thénardier impegnati a fare sottocultura strizzando l’occhio a questo o a quel politico di turno… insomma, Catania stava svendendo i propri sogni e noi stessi che di quei sogni c’eravamo alimentati. Poi l’incanto è tornato a rompersi per quella legge invisibile che rende i 25 siciliani deplacierten, fuori posto o fuori luogo, nell’isola, nelle penisole, nei continenti, come sostiene il prof. Tino Vittorio scopritore di letture ardue e di scrittori appartati, a volte appannati, come l’ebreo tedesco Kurt Tucholsky che del suo essere deplacierten fece una condizione drammatica di vita. Un po’ tutti, di questo mestiere del vivere e dello scrivere dolente, siamo andati e tornati, siamo ancora risaliti per le colline e le pianure delle palme (non ancora devastate dal punteruolo rosso) e abbiamo rifatto il viaggio all’incontrario, finalmente per dormire, dopo tanta fatica, nelle nostre poltrone di velluto. Abbiamo fatto i pendolari dello spirito, sempre delusi, sempre alla ricerca di noi stessi, sempre sradicati, attraversando e riattraversando lo Stretto come hanno fatto generazioni prima di noi, ben più salde nel talento. Parlo delle migliaia di professionisti che hanno lasciato gli orizzonti illuminati dell’infanzia per radicarsi nei paesi della Luna e ogni tanto dimenticarli volgendo lo sguardo ai paesi del Sole fino a farsi prendere dal rimorso. A quel punto basta una vecchia canzone, un film in bianco e nero, una foto, e magari il sapore dimenticato di un frutto a spingerti a rifare la valigia e a tornare laddove Giovanni Percolla si fece cullare dall’affetto ossessivo delle zie. Mortale decisione, come molti sanno. Perché nulla è cambiato, né può cambiare, nelle paludi siciliane che restano luogo ideale degli uccelli migratori. Come sopravvivere dunque? Abitando non in città ma a casa propria, e portando sugli antichi altari la propria malinconia. È da un pezzo che intendo scavare nel mio giardinetto una profonda buca, come ha scritto Paolo Giordano, non per nascondermi – sono nascosto abbastanza – ma per costruire una cisterna d’acqua. Lo scopo recondito, però, è di scoprire, smassando lo strato lavico che sta sotto la terra che nutre alberi e fiori, una casa di campagna sepolta dalle antiche colate. Ce ne sono tante di queste piccole e grandi masserie sulle falde dell’Etna, e alcune sono state anche trovate: 26 affumicate, diroccate, più o meno intatte persino. Immagino allora di calarmi in questo luogo segreto, come in una tomba di sovrani egizi, e scoprire il passato della gente che vi abitava e che doveva condurre una vita onesta prima d’essere tragica. Aprire cassetti alla ricerca di impossibili foto, diari, quaderni risparmiati dal calore, aprire quel mondo antico e portarlo alla luce, alla verità. Alla fine realizzare lì il mio studio e la mia biblioteca. Per nascondermi meglio e pensare meglio utilizzando quel ritrovato filo di memorie fulminate. È un libro di ricordi, ma che non vuole inserirsi nella “letteratura della memoria”, in quel filone di manierismo narrativo che sotto il fascismo prese vigore sia per la censura che limitava la libertà espressiva sia per l’influenza potente che esercitò La recherche di Proust sugli scrittori del tempo. È invece, come scrisse Giansiro Ferrata nella prefazione al libro fortemente evocativo di Lalla Romano, La penombra che abbiamo attraversato, un rendere onore o comunque testimonianza “a un determinato intreccio fondamentale di passato che merita singolarmente attenzione, interesse e consenso d’onesto tipo storico-poetico, oltre che trascinante e indefinibile solidarietà affettiva”. Senza cadere nella trappola della nostalgia, questo libro vuole ripristinare anche il senso politico di quegli anni lontani, l’orgoglio di una patria oggi nemmeno divisa ma polverizzata, vuole insomma riscoprire il senso comune delle cose, la rigidità persino dei concetti, dei valori, perché nell’oggi vedo solo fumo e smarrimento, vedo uno Stato che si lascia ricattare dalle bande del Nord e del Sud e non sa nemmeno ricordare il suo secolo e mezzo di vita. La piccola patria che era la mia città di gelsomini è ancora salda nel mio cuore, pur con i necessari distinguo, ma non mi ha mai forzato a mitizzarne i luoghi, le persone, i sentimenti. Se forzatura c’è stata questa riguarda il cinema, la sua capacità incantatrice, la sua forza di tracciare un percorso spirituale, il cinema ultraromantico in definitiva, il cinema incline all’enfasi 27 melodrammatica per dirla con Vittorio Spinazzola nel momento in cui descrive l’universo poetico e letterario di Grazia Deledda che in gioventù si nutrì di disordinate letture ora nobili ora mediocri. È il cinema il protagonista del libro. La mia vicenda personale vi si mescola per renderla più affascinante e raccontabile. L’orologio che ha segnato il mio tempo di ragazzo è stato un orologio di celluloide. Al posto dei numeri c’erano le dive del cinema americano. Alle dodici, Greta Garbo e Marlene Dietrich; all’una, Claudette Colbert e Vivien Leigh; alle due, Ingrid Bergman e Jennifer Jones; alle tre, Katharine Hepburn e Rita Hayworth… In definitiva, se la vita non sempre accompagna la grandezza del pensiero, il cinema completa il pensiero con la suggestione, il sentimento, il mito e paradossalmente lo rende meno astratto e più vero. 28 UNO Greta Garbo, Marlene Dietrich Nel cinema di poveri di via Capuana, gestito dal signor Matteo Lombardo, e che ci era possibile frequentare grazie a uno zio materno, funzionario delle ferrovie, si proiettavano film di terza visione ma soprattutto film del passato. L’industria cinematografica stava rialzandosi a fatica dalla tragedia della guerra e dunque si era costretti a ripescare dal magazzino le opere censurate nel Ventennio fascista oppure quelle che mantenevano ancora fascino e interesse. Ricordo La regina Cristina di Rouben Mamoulian, con Greta Garbo e John Gilbert, girato nel 1933 ma che nei primi anni Cinquanta riuscì a parlare al cuore di tutti, a quello dei padri e a quello dei figli, a due generazioni diverse ma che dividevano lo stesso orizzonte di speranza. Struggente la scena finale. La protagonista, sulla prua della nave che la porta in esilio, guarda dolente davanti a sé e ripensa al suo amore impossibile: nel film è l’ambasciatore di Spagna, nella realtà l’affascinante dama di corte Ebba Sparre. La censura, nei Trenta come nei Cinquanta, funzionava a pieno regime (fascista prima democristiano dopo). Più semplice allora sarebbe stato attribuire alla Divina un’indole criminale piuttosto che una vocazione sessualmente imbarazzante. Mio padre era innamorato di Greta Garbo. Il film l’aveva visto a vent’anni e n’era rimasto folgorato (quella folgore si allungò, per naturale “indottrinamento”, fino al mio tempo fanciullo). Mio padre. Si trasferì a Catania dal segmento etneo AdranoBronte-Maletto-Randazzo proprio quando la “città tentacolare” si stava allontanando dal suo grande vecchio che l’aveva intrisa, e nobilitata, con la sua arte verista. (Negli ultimi anni Giovanni Verga se ne stava seduto, solitario e malinconico, davanti al Circolo Unione “col bastone tra le gambe e le mani appoggiate 29 sopra il manico”, come ce lo descrive Ercole Patti, simbolo rispettabile ma superato di una società dalla quale occorreva prendere congedo). Mio padre, dicevo, copia conforme di James Mason in Operazione Cicero, approdò nell’era brancatiana degli anni Trenta, nel risvolto ingannevole del fascismo al quale più o meno tutti s’inchinarono, compreso il giovane Vitaliano Brancati, che tentò di farsi raccomandare da Mussolini per avere la direzione di un giornale, e compreso mio padre che sgomitò tra la folla, nel ’37, per stringere la mano al duce venuto a inaugurare l’apertura del cantiere del nuovo Palazzo di Giustizia. Senza contropartite, però, armato solo della sua giovinezza e del suo entusiasmo. Del resto, lui e la gran parte degli italiani erano in eccellente compagnia: Ezra Pound in primo luogo e poi Rainer Maria Rilke che ammirò Mussolini per avere imposto l’ordine della dittatura al disordine della democrazia. Se ne avesse avuto il modo, mio padre, avrebbe sottoscritto le parole di Brancati: “Sono nato in un’epoca d’asfissia. Ricordo che non c’era nulla da fare; che sedevo, bambino, in un mondo ove tutto pareva finito; e il dubbio di vivere era così grande da togliere anche il pensiero della morte”. Le avrebbe sottoscritte perché a soli otto anni aveva perduto la madre: una “spagnola” fulminante se l’era portata via nel 1918. Oltrepassando tuttavia la sua linea d’ombra, non fu tra quelli come Giovanni Centorbi che a mo’ di manifesto generazionale scrisse: “Noi fummo gli inquieti del Sud, i giovanotti irsuti che avevano fretta di scappare lontano dall’odore delle sardelle fritte”. In realtà, quei giovani con la retina in testa e le giacche rivoltate, nati a ridosso del Novecento, sentivano la “necessità di uscire da un mondo persecutorio di costrizioni morali”. Eppure, il piccolo orfano che fu mio padre avrebbe di certo agognato inebriarsi di sardelle fritte e persino di “costrizioni morali” perché tutto ciò avrebbe significato l’esistenza di una famiglia non di un suo surrogato. Problemi familiari a parte, mio padre apparteneva al 30 periodo drammatico con efficacia descritto da Ferenc Körmendi nel suo libro più conosciuto e amato, La generazione felice, che felice non era affatto: due guerre mondiali, dittature sanguinarie, grande depressione, paura, incerto futuro. Negli anni che separano le due guerre mondiali, mentre l’eco dell’Inutile Strage andava affievolendosi e il fascismo si esercitava con goliardiche parate e fucili di legno, mio padre frequentò i caffè letterari in cui artisti di vario peso e provincialismo si riunivano per parlare di arte e letteratura. Il caffè di punta era Caviezel, che sorge tra piazza Duomo e piazza Università. Freschi di barba e capelli, solitari o in gruppo, arrivavano Francesco Guglielmino, Giuseppe Villaroel, Antonio Aniante, don Antonio Corsaro, Antonio Prestinenza (poi direttore de La Sicilia), Gesualdo Manzella Frontini e Titomanlio Manzella padre del giornalista e inviato de La Stampa Igor Man, scomparso alcuni anni fa, che una collega del TG1 credendo fosse un giornalista americano ribattezzò Aigor Men. Come l’amico di Proust, Bloch, incontrato a Balbec, che diceva laift invece che lift e Venaice invece che Venice. D’estate, quando lo scirocco avviliva il corpo e la mente, allungavano il passo verso i due chioschi di piazza Università, posti come garitte l’uno di fronte all’altro, e si facevano servire acqua e zammù, acqua seltz limone e sale (che chiamavano “completo”) e vari scialacore a base di sciroppo di menta, mandarino, amarena. E lentamente i pensieri tornavano a librarsi, piccoli o grandi che fossero. C’erano poi Ottavio Profeta, Giacomo Etna, Vitaliano Brancati, Ercole Patti, M. M. Lazzaro, Arcangelo Blandini, Sebastiano Addamo, Vito Mar Nicolosi (padre del capo cronista storico de La Sicilia Turi Nicolosi), Giuseppe Patanè, Concetto Marchesi, i giovani Fiore Torrisi e Manlio Sgalambro. “Villaroel, con il suo tocco garbato e faunesco”, raccontava Corsaro “cercava di attirarmi nel suo giro, 31 ma soprattutto voleva che mi accorgessi della presenza di Dio nel suo canto”. Don Antonio Corsaro era amico di mio padre e di Fiore Torrisi, “poeta cittadino” come lo definì il premio Nobel della letteratura Salvatore Quasimodo. Era amico dello stesso Quasimodo col quale s’azzuffava sulla paternità dell’ermetismo. “Sono stato io, non Ungaretti, a fondarlo”, sosteneva con foga il cantore di Acque e terre. “Va a leggerti le riviste e non i manuali di storia letteraria, va a confrontare le date! Non ripetere a orecchio quello che ti dicono i toscani che ci odiano, noi siciliani. Quelli, i Luzi, i Bigongiari, non sono poeti, fanno letteratura!” Antonio Corsaro non lo amava molto, non amava il suo carattere ombroso e saccente che lo aveva reso inviso a buona parte dell’intellighenzia italiana. Non stimava nemmeno i poeti siciliani, provinciali e ignoranti, a parte Fiore Torrisi. Il suo giudizio era tranchant, come lo era quello di Carlo Muscetta che rivoluzionò l’insegnamento della letteratura italiana nella nostra università giudicata provinciale, polverosa, inadeguata. Il sette maggio del 1924, durante la sua prima visita a Catania, Mussolini pose un dubbio amletico: che cos’è meglio, disse in sostanza, il passato intriso di brumose teorie antivitali e antistoriche oppure il presente che si rifà alla gloria dell’impero romano e che “affronta la vita come un combattimento”... punto interrogativo. La folla osannante scelse la lotta, senza capire che si trattava di un paralogismo, senza capire che non sceglieva il presente ma il passato prossimo, quello retorico e confuso di Mario Rapisardi che Victor Hugo si sventurò a definire un “precursore” e non era che un mediocre e pomposo poeta di provincia. A confondere le acque, qualche decennio dopo, ci si mise pure Edmondo De Amicis, cuore sanguinante, che del Vate catanese tracciò questo panegirico: “È una figura elegante e fiera di poeta romantico del secolo scorso… Cessa di sorridere, però, e s’oscura in viso e fa vibrare lo sdegno della parola profetando che la viltà della borghesia liberale, clericaleggiante per timore dello 32 spettro rosso, finirà col dar l’Italia nelle mani del partito cattolico, il quale vi rifarà la rivoluzione a rovescio”. Il clero cittadino si vendicherà facendo marcire il corpo del Rapisardi nei depositi del cimitero per dieci anni. Molti esponenti della sinistra catanese, prima di confluire nel partito del “compagno” Mussolini, s’inchinarono al “profeta” laico; e mio padre, socialista per vocazione, non fu da meno procurandosene l’opera omnia. Insomma, quella generazione preferì Venezia a Belmont, preferì il mondo borghese (d’affari e di commercio) a quell’altro (favoloso, antico, cortese). Poi la guerra fece giustizia di tutto. Il 25 luglio del 1943, dopo il famoso colloquio tra il re e il duce a Villa Savoia, un maggiore dei carabinieri scattò sull’attenti davanti a un Mussolini allucinato e stravolto e disse: “Eccellenza, per ordine di Sua Maestà il Re dovete seguirci”. E la storia cambiò. L’ufficiale era Paolo Vigneri che a guerra finita si sarebbe rimesso a studiare, sarebbe diventato notaio e si sarebbe trasferito a Catania. Oggi il figlio Giorgio ha ereditato lo studio, mentre l’altro figlio, Riccardo, è un ricercatore medico di fama mondiale. La modernità post-verghiana aveva come referenti Pirandello e Martoglio, si colorava dei film americani e dei suoi divi: Greta Garbo, stella del mattino e della sera, Ramon Novarro, Douglas Fairbanks, Mary Pickford, Gloria Swanson, Norma Shearer, Lupe Velez, Conrad Nagel che aveva amato sullo schermo ottanta stelle. Nagel veniva da una cittadina dell’Iowa, suo padre era musicista, sua madre cantante. Era un bell’uomo (alto, biondo, occhi azzurri), un marito esemplare e un pezzo grosso della chiesa americana. Nei primi tempi i giornali tentarono di attribuirgli qualche scappatella immaginandolo una sorta di dottor Jekill nella vita privata e di mister Hyde nella vita professionale. Trovarono solo dive di celluloide: Alice Brady, che allora era una mezza regina del muto, Bessie Lowe, Norma Talmadge, Renée Adorée, e in seguito Joan Crawford, Dolores Costello, Elena Hyams. Si 33 sposò tre volte, ebbe due figli e girò, tra muti e sonori, oltre cento film: il primo fu Piccole donne (1918), l’ultimo Secondo amore (1955). Nei sogni faticosi di quella generazione di reduci e di sperduti della vita c’erano anche le nostre Isa Miranda, Clara Calamai, Assia Noris, Luisa Ferida, Vittorio De Sica, Osvaldo Valenti, Amedeo Nazzari. Su questo domestico fronte cinematografico italiano il fascismo mise un filo spinato così come sull’informazione, i cinegiornali, la radio. L’intento era di separare il Paese vero da quello falso e di rappresentarlo come operoso, onesto, benestante, quasi inventato. Il flusso della letteratura e del cinema, ma anche del pettegolezzo e della goliardia, scorreva sulla strada maestra, la via Etnea, che De Roberto definì il “salotto di Catania”. In questa strada dell’ironia e dello sberleffo, dell’indolenza e del chiacchiericcio, si è svolta buona parte della storia cittadina, tutto ciò che merita di essere ricordato. In questo salotto, che la gente frequenta solo per recarsi da qualche parte mentre prima andava meticolosamente a zonzo, si faceva flanella e si discuteva di calcio, di ragazze, di film che venivano scelti in base ai cartelloni affissi all’ingresso dei cinematografi. Negli anni dei caffè letterari i manifesti erano capolavori d’arte pubblicitaria, un poco veri un poco fasulli ma suggestivi e talvolta commoventi. Come quello del film Una romantica avventura di Mario Camerini, 1940, che ritrae in primo piano una dolente Assia Noris con sullo sfondo un uomo in frac e una carrozza che aspetta. L’idea che il manifesto vuole trasmettere è la rottura della relazione tra la ragazza, di modeste condizioni, e il giovane elegante che si allontana per sempre dalla sua vita. Preciso e inquietante il manifesto del Testimone, primo film di Germi, 1946. Sopra il titolo sono disegnati i protagonisti della storia, Marina Berti e Roldano Lupi, disperatamente abbracciati. Su di loro incombe una sorta di fantasma rosso con le mani sporche di sangue. 34 Anche stavolta l’idea è quella di un amore infelice. Si potrebbero scrivere romanzi sui manifesti del cinema, tanto è ricca la loro iconografia, la potenza del disegno, la sapiente combinazione delle immagini. Accanto alla loro storia, però, che sottende quella del cinema, si potrebbe anche raccontare la vita di una comunità che quelle immagini ha amato ed elaborato come un nastro di fotogrammi muti eppure parlanti, una comunità ossessionata dal confronto tra la grande e ricca America e la piccola e povera Italia, l’America di Cappello a cilindro e l’Italia del Feroce Saladino in cui un’esordiente Alida Valli tenta con molta ingenuità di rubare qualche scintilla di grandezza a Ginger Rogers. Il regime fascista, intanto, andava concentrandosi sulla morale e sui costumi degli italiani. Esaltando la “maschia gioventù”, mise mano al bastone per castigare gli omosessuali che il nazismo aveva equiparato, in quanto “razza”, agli ebrei e ai negri. Secondo i rapporti dei prefetti e dei questori, le città prese di mira furono Venezia, Firenze, Salerno e Catania. La città etnea, forse unico caso nell’Italia dell’epoca, ospitava una comunità gay organizzata e consapevole, con le sue vie, i suoi luoghi d’incontro, i suoi locali, da tutti tollerati tranne dalla polizia, naturalmente, che in una nota riservata al duce ne denunciò il comportamento con queste parole: “Vivono la loro condizione a viso aperto, adescando la gioventù in pieno centro e in pieno giorno”. Delle 90 condanne al confino “politico”, inflitte agli omosessuali tra il 1936 e il 1939, ben 42 furono opera del questore di Catania, Molina. Questo solerte funzionario dello Stato, espressione cieca di quella Catania che Brancati avrebbe descritto come centro del gallismo e della maschia virilità, fu preciso fino alla pignoleria, vessatorio e crudele. Il primo vero film di Greta Garbo, La leggenda di Gösta Berling, diretto nel 1924 da Mauritz Stiller a Stoccolma, curiosamente l’ho visto per ultimo, in casa d’un appassionato cinefilo del cinema muto, Gioacchino 35 Russo, che aveva una collezione pazzesca di quei film che andavano da La nascita di una nazione a Settimo cielo. Anche le dive di quel tempo erano entusiasmanti per bellezza e intensità espressiva, a partire da Mary Pickford e Louise Brooks per finire alle sorelle Talmadge e alle nostre Lyda Borelli e Francesca Bertini, e nulla avevano da invidiare alle attrici che sarebbero venute dopo, col sonoro. Gioacchino, che quelle attrici “possedeva” nei loro silenziosi scrigni, abitava nel centro storico, nelle memorie del passato: libri rilegati in pelle, divani damascati, tappeti persiani, ceramiche di Caltagirone, foto d’antenati, silenzio lucente, profumo di colonie fuori commercio. Al centro di questo Ottocento velato ma palpitante troneggiava un apparecchio radio degli anni Trenta, ancora funzionante pur con gli inevitabili gracchiamenti. Dopo averlo acceso bisognava aspettare che le valvole si riscaldassero prima che Radio Londra, sotto la guerra, facesse da controcanto alle notizie dell’Eiar diramate da Forges Davanzati e poi da Mario Appelius. La Voce del nemico era quella del colonnello Stevens ed era preceduta dalle prime quattro battute della Quinta sinfonia di Beethoven: ta-ta-ta-tan. Nell’idea del ministero della propaganda inglese corrispondevano ai tre punti e una linea dell’alfabeto Morse, cioè a dire alla lettera V come Vittoria. La figlia di Harold Stevens, Betty, fu compagna dell’industriale farmaceutico catanese Ciccio Gorgone, uomo di grande simpatia e intelligenza che per anni frequentò Eleonora Rossi Drago prima che l’attrice sposasse il nobiluomo palermitano Mimì La Cavera. La leggenda narra che la fortuna di Gorgone la fecero due ricchi americani, incontrati per caso sull’aereo, che volevano impiantare in Sicilia un’industria di farmaci. Radiogiornali, radiodrammi, concerti, canzoni, collegamenti, cabaret… questo componeva l’avaro tempo libero degli italiani brava gente che sognavano e cercavano di diventare migliori immaginando dietro la rete dell’altoparlante il mondo del futuro, un poco 36 casalingo e un poco avventuroso. Nel dopoguerra, sul riflesso del vetro, dove erano segnate le stazioni radio, talvolta mi attardavo a rimirarmi e a fantasticare che quel “trono” di legno, vetro e fili, acquistato da mio padre “a violino”, potesse un giorno diventare non solo voce ma anche immagine. Qualche anno prima della Leggenda, siamo intorno al Duemila, avevo visitato a Mårbacka nel Wärmland, quasi al confine con la Norvegia, la casa natale della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, premio Nobel nel 1909 e autrice del romanzo che avrebbe ispirato il film con la Garbo. È una villa immersa nel bosco, vicino al lago Fryken, ampia e luminosa, luogo insostituibile per raccogliere il silenzio e il suo immaginare. Qui la solitudine diventa specchio e nutrimento della fantasia. Orizzonte. In questo spazio verde e azzurro la piccola Selma ascoltò, e se ne nutrì nel profondo, i racconti della nonna paterna sulle saghe del Wärmland e ancora qui si ammalò di una forma di poliomielite, che allora era definita paralisi infantile, finché un giorno si alzò improvvisamente dalla sedia per seguire il volo di un uccello dai colori fantastici, mai visto. Era guarita, come d’incanto, senza cure o stregonerie. Solo la volontà di raggiungere quel piccolo alato sogno. Lasciando la dimora fatata il visitatore viene catturato da un pensiero inevitabile: solo quelle terre di fiumi e di laghi hanno potuto ispirare le saghe, le leggende metastoriche delle popolazioni nordiche, i racconti di Gösta e dei bizzarri Cavalieri di Ekeby. Selma era una viaggiatrice instancabile e attenta. Alla fine dell’Ottocento visitò la Sicilia e ne fu tanto impressionata da ricavarne un libro, I miracoli dell’Anticristo, in cui il popolo siciliano avrebbe potuto superare la propria miserevole condizione a patto di coniugare i valori evangelici (il Cristo) con la speranza di riscatto del socialismo (l’Anticristo). Greta Lovisa Gustafsson era figlia di un netturbino e di una contadina di origine lappone. Alla morte del padre era stata costretta, appena quattordicenne, ad 37 abbandonare la scuola e a lavorare prima in una bottega di barbiere poi come commessa in un grande magazzino. Storia comune a molte attrici del tempo che venivano per lo più da famiglie operaie e che nel cinema trovarono, prima che i soldi, orgoglio e riscatto sociale. In qualche caso trovarono la pazzia. Come quella che colse la brava e sprovveduta Daniela Rocca tirata fuori da un quartiere popolare catanese e catapultata a Roma, la capitale del cinema, dove girò alcuni film storici, che ne esaltarono la bruna avvenenza meridionale, fino al capolavoro Divorzio all’italiana, di Pietro Germi, che la impose all’attenzione del pubblico internazionale. Poi, più nulla. Se introduci una contadinotta in un salone sfavillante di luci e poi la metti a fare la sguattera in cucina crei in lei una dissociazione che può farle smarrire la ragione. Daniela si lasciò ingannare dai finti scenari di Cinecittà fino al degrado, fino a che confuse la realtà con le sue illusioni. S’innamorò perdutamente, e invano, del regista Germi senza capire che dietro il cinema non c’era solo il cinema ma qualcosa di peggio, c’era la vanità, l’ignoranza, il vizio, l’invidia, la violenza, la bugia. Morirà nel 1995, in una clinica psichiatrica di Siracusa, folle d’amore e di solitudine. La romantica Greta fu una grande attrice perché grande era stata la sua umiliazione. E questo il pubblico del dopolavoro ferroviario, ignorante e semplice ma vicino al dolore e alle privazioni della gente umile, lo capiva perfettamente. L’occasione decisiva arrivò la mattina del 15 ottobre 1921. La giovane Greta lavorava da un anno ai grandi magazzini PUB con un salario settimanale di 35 corone e il suo reparto era diventato meta di curiosi e ammiratori. La sua figura alta e slanciata, il portamento, il viso bellissimo dal “pallore raggiante” non potevano passare inosservati. Qualcosa di simile avvenne alla Rinascente di Catania, negli anni Sessanta, dove al reparto profumeria lavorava una commessa alta e bionda, occhi azzurri, figura da mannequin. Non era cosa nostra, naturalmente. Veniva dalla Svizzera e non ci rimase molto in quel reparto che 38 doveva essere frequentato da donne ma i cui clienti abituali erano soprattutto uomini. Dopo qualche anno convolò a giuste nozze con un imprenditore che la fece sparire dai luoghi santi del passio e dall’allupamento degli sguardi. Forse il marito, che doveva avere ascendenze mussulmane, si comportò come il personaggio pirandelliano Ciampa: la chiuse in casa e non se ne parlò più. Quel giorno fu proprio Olaf Bergstroms, amministratore della Paul U. Bergstroms Aktiebolag, a chiamare la giovane Greta, a offrirle la promozione a indossatrice e un aumento di 15 corone. Greta, non ancora Garbo, dapprima cominciò con alcuni reklamfilm per la società stessa poi fu scritturata per una piccola parte nel film comico Peter il vagabondo, in realtà il suo primo vero impegno cinematografico anche se La leggenda di Gösta Berling fu quello che la consacrò come attrice vera. In Anna Karenina di Clarence Brown, 1935, l’attrice diventa mirabilmente il corpo e l’anima dell’eroina tragica di Tolstoj. Molti anni più tardi, dopo aver letto il romanzo del vecchio Lev, e già m’ero in qualche modo svezzato dall’infatuazione, mi feci un’idea diversa della protagonista: non la vidi più con la faccia della Garbo, per la verità eccessivamente svenevole e melodrammatica, ma con quella di altre attrici che s’erano cimentate nello stesso ruolo. In primo luogo Tatjana Samojlova, la dolente protagonista di Quando volano le cicogne di Kalatozov, poi Sophie Marceau, quindi Vivien Leigh, una delle poche a salvarsi dalla mediocre riduzione di Duvivier. Ma a quattordici anni l’amore per la Garbo, gelida bellezza senza tempo, non conobbe rivali. In un libro di Alfredo De Sanctis, Caleidoscopio glorioso, pubblicato nel 1946 dall’editore fiorentino Giannini, la bellezza dell’attrice viene in qualche modo messa in discussione. “Ella possiede in primo luogo”, sostiene l’autore “il misterioso segreto di rendere interessanti i suoi stessi difetti fisici, poiché, esaminata 39 un poco, non si può dire che sia bella”. Giudizio sghembo, ambiguo, che si esplicita in sostanziale avversione quando l’attrice mostra di volere impersonare Eleonora Duse: “Respingete questa tentazione. L’Arte mondiale ve ne sarà riconoscente e risparmierete a voi stessa, signora, una prova certamente negativa e biasimevole”. Forse non sarebbe stato un cattivo affare per la memoria di Eleonora Duse se la Garbo si fosse cimentata nel difficile confronto ma in quel tempo l’attrice italiana, che aveva perduto la testa per Gabriele D’Annunzio fino al degrado, era per il pubblico italiano una sorta di sacra effigie, l’interprete d’eccellenza del teatro europeo, una delle poche in grado di dare sangue e anima ai personaggi di Henrik Ibsen, il grande padre della scena europea. Quando mia cognata dirigeva l’ambasciata italiana a Oslo mi raccontò una curiosa storia sulla Duse che i norvegesi si tramandano da generazioni. In un gelido mattino di maggio del 1906 Henrik Ibsen si stava spegnendo nella sua abitazione di Oslo. I giornali della vecchia Europa e del Nuovo Mondo avevano parlato con commossi accenti e rispetto della sua lenta agonia, del suo umile congedarsi dalla vita che aveva vissuto come per raccontarla, come ha fatto Gabito Márquez con la propria autobiografia. Ma mentre lui se ne andava, a vegliarlo sotto casa c’era proprio lei, Eleonora Duse, che s’era partita dall’Italia per rendergli omaggio. Pur bussando ripetutamente alla sua porta, l’attrice italiana, che se la batteva solo con Sarah Bernhardt, non era stata ricevuta, forse per innata ritrosia del drammaturgo o forse perché questi, già in deliquio, viaggiava verso la luce immortale. E così l’attrice, che il pubblico europeo aveva acclamato come interprete divina ancor prima della Garbo, s’accomodò sul marciapiede di fronte, col freddo che scendeva dal profondo Nord, appena mitigato dalle correnti primaverili di quel giorno infausto, e aspettò che il destino si compisse. La gente che passava non fece caso 40 a quel monumento vivente del teatro mondiale, e forse nella sua testa s’articolò lo stesso pensiero del funzionario della Universal mandato alla stazione di Los Angeles a ricevere Bette Davis e che se ne tornò negli studi di Hollywood confessando ai dirigenti di non aver visto “alcuna donna che assomigliasse a un’attrice”. Particolare era la voce italiana della Garbo, lo sfacciato birignao di Tina Lattanzi colmo d’irritanti anapesti eppure così caldo e riconoscibile come un marchio di fabbrica che garantisce la qualità del prodotto. Del resto, la voce originale della Garbo aveva toni e inflessioni non comuni, come raccontò una volta al Maurizio Costanzo Show la celebre doppiatrice, morta alla fine del secolo scorso a 95 anni. Greta Garbo era solita allungare le vocali e strascicare le parole. Maria Walewska, per esempio, non lo pronunciava come normalmente si pronuncia, diceva: “Mariaa Walewskaa…” Di conseguenza, la vecchia Tina cercava di fare del suo meglio per adattarsi all’originale pur mantenendo la sua affascinante impronta sonora che sapeva di polvere, ninnoli, ventagli ricamati e fruscio di seta. Dopo avere visto la versione italiana di Margherita Gauthier, la Garbo confessò che sarebbe stata migliore interprete se avesse avuto la voce di Tina Lattanzi. La “regina delle voci” ha reso la parola anche a altre grandi attrici come Marlene Dietrich, Joan Crawford, Bette Davis, Greer Garson, Myrna Loy, Rita Hayworth. Dagli anni Trenta ai Sessanta, assieme a Rina Morelli, Andreina Pagnani e Lidia Simoneschi, ha costituito il quadrunvirato femminile del doppiaggio. Dopo il fiasco di Non tradirmi con me di George Cukor, l’attrice abbandona la luce della sua vita d’artista per entrare nella grande ombra della vita privata. “In questo crudo nuovo mondo”, disse “non c’è più posto per me”. Era il 1941. Gli Stati Uniti entrano in guerra, tutto il mondo entra in guerra. “La storia della mia vita”, confessa nella biografia scritta da Barry Paris “è la storia di uscite secondarie e ascensori segreti e altri modi di seminare la gente che mi infastidisce perché mi 41 ha riconosciuta”. E però, lasciando il cinema, si consola con un’altra eccitante avventura: lo spionaggio. A rivelarlo è lo scrittore americano Charles Ingham nel libro Un uomo chiamato Intrepido in cui sostiene che l’attrice, dopo avere lasciato il set, fu reclutata dall’Intelligence Service britannico e mandata prima alle Bahamas, per controllare un milionario svedese in odore di nazismo, e poi a Stoccolma, per collaborare alla creazione di una rete di informatori scandinavi. In Danimarca prese contatto con il famoso fisico Niels Bohr, prima che questi espatriasse in Inghilterra; mentre in Norvegia, nelle cui fredde montagne i tedeschi distillavano l’acqua pesante per la costruzione della bomba atomica, tentò di sabotare il progetto nucleare che avrebbe reso il nazismo padrone del mondo. Che tutto questo fosse vero e certificato è un altro paio di maniche. Ingham è uno scrittore che lavora con molta fantasia e pochi documenti. È suo per altro il libro sui coniugi Windsor e le loro imbarazzanti simpatie per il Terzo Reich. Il ritratto che l’autore fa di Wallis Simpson è agghiacciante. La descrive come un’arrampicatrice sociale dai muscoli d’acciaio e un’abile spia sessuale al soldo dei nazisti. Secondo Ingham avrebbe potuto dare la vittoria a Hitler e un nuovo ordine all’Europa se non fosse incorsa nell’implacabile ostilità degli ambienti di corte, a cominciare dalla Regina Madre che non le perdonò d’essere stata definita con il nomignolo di Cookie. Spionaggio a parte, il dopo è una lunga e noiosa fuga. Ipocondriaca, avara e ricchissima, Greta passò il resto della vita (quasi mezzo secolo) camminando. Come testimoniano le immagini del fotografo asiaticoamericano, Ted Leyson, che negli ultimi anni l’assediò senza alcun rispetto della sua privacy. Viveva in una casa modesta, sulla 52ma Strada, a New York, arredata male e con l’unica compagnia di due gatti che aveva battezzato Litrozzo e Mezzolitro: nomi italiani, anzi siciliani, appresi durante i soggiorni a Taormina. Per altro, “litrozzo” viene da “litruzzu” (di vino) che gli osti 42 le servivano nelle trattorie alla buona, senza sapere che dietro quella donna trasandata si nascondeva il più grande mito della storia del cinema. Un mito reso tale anche dalla sua caparbia volontà di astrarsi dalla vita reale, d’essere di celluloide più che di carne. Una volta Jean Cocteau diede questo consiglio a Yul Brynner: “Ricordati, mon cher, che quando sarai un divo il pubblico non deve pensare che vai al gabinetto”. Marlene Dietrich, di quattro anni più vecchia, fu diva, anzi divissima, anche lei; una giornalista la definì “antifascista per decenza e lesbica per vocazione”. Più che amarli, uomini e donne, li colonizzava. Come fece Isabel Burton con suo marito. Lo amò tanto che lo distrusse. Chiaramente, della sua omosessualità noi ragazzi degli anni Cinquanta poco o nulla sapevamo ma anche se l’avessimo saputo o solo intuito non l’avremmo compresa, e certo ci sarebbe caduto il mondo addosso se avessimo appreso che quell’amore distorto trovava una precisa consonanza proprio nella divina Greta Garbo. Il lesbismo di Marlene emerse sin dalla prima giovinezza. Tra il 1925 e il 1929, a Berlino, prima di essere scoperta dal pubblico come l’Angelo azzurro, aveva messo su un teatro-cabaret molto equivoco, ed era amica di Claire Waldoff, lesbica dichiarata e popolare interprete di operette e riviste, che per altro le insegnò a cantare. Fu il film di Josef von Sternberg del 1930 a lanciarla nel firmamento internazionale, un film pressoché perfetto, apologo della disperazione dell’umanità in generale e, in particolare, della borghesia della Repubblica di Weimar. La storia del professor Unrath che s’innamora perdutamente della cantante Lola-Lola catapultò il pubblico più giovane, a quel tempo acerbo e per nulla smaliziato, in un mondo di contrasti insanabili: da un canto non capì la passione di un vecchio per una donna giovane e fantastica, dall’altro criticò il cinismo della ragazza, la sua strafottenza, il suo dare e non dare, il suo apparire e 43 scomparire di fronte alla disperazione di un uomo che per amore perdeva ogni dignità. Mezzo secolo dopo ho rivisto in teatro, al Metropolitan di Catania, la drammatica vicenda del professore Unrath interpretata da Giorgio Albertazzi e dalla soubrette Valeria Marini. Alla fine del primo tempo ci siamo guardati con mia moglie, ci siamo alzati e ce ne siamo tornati a casa. Una performance, quella dell’attrice bambolona, assolutamente irritante. Il mito deve restare nella sua dolce oscurità, non farsi strapazzare gratuitamente da attrici che non sanno nemmeno dove stanno di casa. Ricordo il momento in cui, nell’Angelo azzurro, Marlene, con voce rauca e atteggiamento volgare, seduta su una botte, canta “Dalla testa ai piedi sono fatta per l’amore”. Il pubblico del dopolavoro restò incollato alla sedia, incapace di esprimere una qualsiasi emozione. Non capiva le parole, ovviamente, ma sentiva potente il flusso erotico che emanavano la figura e la voce della diva. Poi, in una nube di fumo da nevrosi, esplose in un applauso interminabile. Nei successivi film, Marlene Dietrich venne spogliata della sua carnalità berlinese e ridefinita all’uso hollywoodiano. I maghi della Paramount, alla ricerca di un’attrice da contrapporre alla Garbo, allora sotto contratto alla Metro, riuscirono nell’intento. Alla rarefatta femminilità della svedese contrapposero il sublime erotismo della tedesca. “Già con la sola voce potrebbe spezzarti il cuore”, scrisse Ernest Hemingway “ma possiede anche un corpo stupendo e il volto d’una bellezza senza tempo”. L’altro grande della letteratura americana, William Faulkner, si espresse così: “Non ce ne voglia la divina Garbo se per un attimo ci inchiniamo al fascino di un’altra bellezza europea”. Fu questa femminilità equivoca, dura e aggressiva, a farci preferire, a noi ragazzi di frastorno, la Garbo alla Dietrich, la moglie all’amante, per così dire. Era questo il nostro sentire circoscritto, il nostro vedere senza capire, appena agitato dalla giovinezza irrisolta. Ma c’è 44 dell’altro. C’è che i ragazzi, ieri come oggi, preferiscono la forma alla sostanza, lo spirito alla materia, la chiarezza all’ambiguità; perché i ragazzi amano le favole e i personaggi delle favole, amano ciò che è semplice non ciò che è complesso, preferiscono i fumetti ai libri, le figure ben delineate e colorate a quelle imprecise e sfumate, amano Harry Potter non Raskolnikov, il tormentato protagonista di Delitto e castigo, l’uomo che uccide per debolezza e si redime per amore; in definitiva, vivono come immersi in una realtà a due dimensioni; diventeranno adulti nel momento in cui riconosceranno la terza dimensione: la profondità. Negli anni Sessanta Greta e Marlene furono a Taormina. Ce lo ricorda il giornalista Gaetano Saglimbeni che scriveva per La Gazzetta del Sud, il quotidiano di Messina, e che di quel mondo di celluloide sapeva molte cose. Camminava con la pipa tra i denti e un foulard al collo alla maniera degli ultimi dandy di periferia che cercavano, secondo i canoni estetici di Oscar Wilde, di essere all’altezza delle loro porcellane. Forse il collega Saglimbeni immaginava di recitare la parte del latin lover Rossano Brazzi che in Tempo d’estate, di David Lean, corteggia la matura turista americana, Katharine Hepburn, in una Venezia da cartolina illustrata. Stando ai suoi ricordi, Greta Garbo trascorreva le vacanze, sotto falso nome (si faceva chiamare Harriet Brown), nella villa del dietologo Gayelord Hauser che si era fatto i soldi prescrivendo alle dive di Hollywood carote e sedani crudi. Percorreva le straduzze taorminesi indossando ampi cappelli, occhiali scuri, vestiti comuni, guanti per nascondere le brutte mani e scarpe di foggia maschile, comode e “vaste”… i suoi piedi non erano proprio quelli di Cenerentola. Il concetto dei piedi piccoli come espressione di bellezza fu contestato da García Márquez prendendo a difesa proprio i piedoni della Garbo. In Scritti costieri 1948-1952 egli scrive: “Nelle occupazioni della vita moderna, una donna che abbia di 45 che reggersi in piedi è un problema di equilibrio domestico. Una che calzi dal trentanove in su, è una garanzia di laboriosità e azione”. Spiritoso gioco concettuale che tuttavia portò lo scrittore latinoamericano ad ammettere alla fine che la Garbo, per come si vestiva e camminava, era una donna senza garbo. A quei tempi si conoscevano i suoi amori ortodossi. In primo luogo, Mauritz Stiller, che l’aveva tirata fuori dallo sgabuzzino dove lavorava a Stoccolma e l’aveva resa immortale. Lei se ne dimenticò presto e alla morte prematura di lui, per elefantiasi, restò impassibile. Forse le lacrime le avrebbero rovinato il trucco. Poi John Gilbert, che stava per sposare nel municipio di Santa Ana, in Messico. Ma non se ne fece niente perché la diva, pochi minuti prima del fatidico “sì”, chiese di andare alla toilette e non tornò più. La storia, forse una storiella, assomiglia molto a quella che si raccontava a Catania negli anni Cinquanta: un tizio dice alla moglie di allontanarsi un momento per andare a comperare le sigarette e scompare per sempre. Lo stesso Hauser, che le fu amico e l’ospitava nella sua villa sulla rotabile per Castelmola, programmò di sposarla. Per fatto pubblicitario, naturalmente, perché lui era gay e lei incapace di amare qualsiasi uomo. Come ricorda Saglimbeni, Gayelord si mise d’accordo con un’agenzia giornalistica, che preparò in anticipo la notizia e la congelò in attesa dello “sta bene” degli sposi, e partì con la “fidanzata” per Nassau, dove si sarebbero dovute celebrare le nozze. L’agenzia attese invano la telefonata di conferma. La divina Garbo, che nel privato non frequentava certo altari di celluloide, nutrì amori saffici di assoluto rilievo. Tra alti e bassi ebbe una lunga relazione, 45 anni!, con la baronessa miliardaria Olga de Rothschild; poi s’invaghì in maniera furente e spropositata di Marlene Dietrich che la sedusse, appena diciannovenne, nei camerini della compagnia di Max Reinhardt “usando solo la bocca”, come ha scritto Richard Newbury in un articolo apparso sul Corriere della Sera. E poiché 46 Marlene era perfida e sfrontata mise in giro la voce, sempre per giudizio di Newbury, che la Garbo “era grande lì sotto” e che portava biancheria poco pulita. L’anticonformismo della Dietrich si legava con ogni probabilità al conformismo del padre, ufficiale di polizia prussiano, con tanto di monocolo e baffi attorcigliati, che alla piccola Marlene dovette sembrare una sorta di caricatura che metteva conto imitare, certo per gioco, ma che finì con l’irretirla. Diversamente dalle bimbe che calzano le scarpe della mamma per sembrare adulte e si pavoneggiano davanti allo specchio, la futura diva berlinese sostituì i tacchi con gli scarponi del genitore per imitarne la maschia marzialità. E fu lì che alle bambole preferì le sciabole di legno e i soldatini di piombo. I curatori del Fernsehmuseum di Berlino dedicano alla Dietrich un’attenzione speciale. Le sale del museo sono ospitate al terzo piano d’uno dei grattacieli di Potsdamer Platz che sembrano ispirati alle scenografie di Metropolis. Forse era questa l’idea degli architetti chiamati dal governo tedesco a dare una sistemazione moderna e dinamica a quella vasta piazza di confine diventata con la guerra una landa desolata e che fino alla caduta del Muro divideva il comunismo dalla democrazia. Renzo Piano, a capo del progetto, e con lui Christoph Kohlbecker, Richard Rogers, Arata Isozaki, Helmut Jahn in cuor loro hanno detto grazie agli scenografi e disegnatori impressionisti del celebre film di Fritz Lang. C’è un’intera sala dedicata alla diva tedesca che Hitler cercò invano di far rientrare dagli Stati Uniti per spenderla sul tavolo delle pubbliche relazioni. Agli angoli della stanza sono sistemati in bacheca i magnifici costumi che l’attrice indossò in Marocco, Disonorata, Desiderio, Il giardino di Allah ma che appesi alle grucce sembrano pezze; né lo splendore dell’immaginazione riesce a renderli veri e raccontabili. Il resto è meraviglioso e dolente: lei che canta fumando, che trafigge lo spettatore con lo sguardo di ghiaccio, che incede tra la folla mentre se la spolpa 47 con gli occhi… e via di fotogramma in fotogramma a ripristinare un tempo memorabile. Marlene Dietrich, nei suoi rapidi soggiorni taorminesi, era ancora sulla breccia e si guardava bene dal camuffarsi. Era sempre all’altezza della sua fama, affrontava con intelligenza le situazioni più difficili, le domande più imbarazzanti della stampa. Al casinò di Taormina, anno 1963, fasciata di satin nero, cantò da par suo molte delle canzoni che l’avevano resa celebre nel mondo. Cantò e fece piangere, come aveva fatto con i soldati sui fronti alleati di guerra, Lili Marleen, che in Germania era stata portata al successo da Lale Andersen mentre sul fronte opposto sarebbe diventata il simbolo della Resistenza. “Vor der Kaserne/ vor dem grossen Tor/ stand eine Lanterne/ und stehet sie noch davor…” Bastavano le prime note, con queste struggenti parole, trasmesse dalla radio militare tedesca, perché i soldati del Terzo Reich si abbandonassero alla nostalgia della casa lontana e degli affetti. Non solo loro ma anche i combattenti angloamericani nel momento in cui riuscivano a sintonizzarsi sulle frequenze nemiche. La politica aggressiva di Berlino però non poteva tollerare a lungo le lacrime dei suoi guerrieri e così Goebbels in persona, quale ministro della propaganda, ordinò che non venisse più trasmessa. Infiacchiva i combattenti. Marlene Dietrich, invece, al riparo della democrazia, ne fece un cavallo di battaglia. Al seguito delle truppe alleate la cantò in Nordafrica, in Sicilia, in Inghilterra, ovunque suscitando ammirazione e commozione. Marlene dava alla canzone una profondità da café chantant, come se la interpretasse di fronte a un pubblico di civili e di soldati in licenza mentre bevono birra, piangono e si augurano che la guerra finisca al più presto. La Andersen invece era come se la cantasse nel cortile d’una caserma, col risultato però che la marcetta, messa dagli arrangiatori per dare un tono guerresco alla canzone, finiva con l’essere ugualmente fagocitata dal leit-motiv in sé struggente e malinconico. Né migliore 48 fortuna ebbero Willy Fritsch, con la sua voce a mezzo registro tra tenore e soprano; Mimi Thoma, che scimmiottava la Andersen; e persino i granatieri della divisione Panzer e le Camicie Brune che cantavano il motivo marciando e tirando su col naso. In Italia fu portata al successo da Lina Termini, una cantante di Agrigento, che la interpretò tenendo a mente più la versione di Lale Andersen che di Marlene Dietrich. Anche lei fece piangere battaglioni di militi al fronte e negli ospedali. Il compito di imitare la Dietrich se lo assunse Milly, la soubrette dalla voce notturna che fece innamorare, nell’ordine: il principe Umberto, Cesare Pavese e Mario Soldati. In Francia, regina incontrastata fu Juliette Greco, la musa degli esistenzialisti, che di Lili Marleen fece un sussurro nostalgico: assottigliando la voce e rendendola un filo di spada arrivò diritta al cuore degli ascoltatori. A guerra finita, dopo essere stata perseguitata e imprigionata dai tedeschi per disfattismo, Lale Andersen venne accusata dagli alleati, al processo di Norimberga, di propaganda nazista per avere cantato quella canzone. La salvò il maresciallo Montgomery con una sorprendente dichiarazione: “Propaganda nazista quella di Lale Andersen? State scherzando, spero. Nel tempo in cui, io e i miei soldati, nel deserto, davamo la caccia a Rommel, dopo una giornata di fatiche, battaglie, pericoli, la sera trovavamo conforto con quella voce, con quella canzone!” In Italia fu tradotta così: “Tutte le sere, sotto quel fanal/ presso la caserma ti stavo a aspettar./ Anche stasera aspetterò/ e tutto il mondo scorderò./ Con te, Lili Marleen,/ con te, Lili Marleen”. Lili Marleen non fu l’unica canzone a essere amata durante la seconda guerra mondiale. Le fece una forte concorrenza I’ll be seeing you, scritta da Sammy Fain e interpretata dall’allora popolarissima Vera Lynn. Le prime quattro battute sono ispirate all’ultimo movimento della sinfonia n.3 di Mahler. Musica struggente e parole struggenti. “…and when the night is 49 new, I’ll be looking at the moon, but I’ll be seeing you…” E non c’era fidanzato o fidanzata cui non tremassero le gambe. Sul fronte dell’Armata Rossa c’erano le bellissime Kalinka e Katjusha. Marlene aveva avuto una vita straordinariamente interessante, sopra le righe, sopra ogni linea mediana, una donna dal “fascino leggendario”, per usare la definizione di Patrick Dennis. Nel 1923 sposa il regista Rudolf Sieber. Un matrimonio aperto, senza convivenza, dal quale nasce l’unica figlia dell’attrice: Maria, che nel 1993 scriverà una piccante biografia della madre, amori saffici compresi. Secondo Greta Garbo, però, Sieber era un uomo di paglia. Il vero marito era il regista teatrale Otto Katz, una spia addestrata a Mosca e poi spedita a Hollywood a dirigere il fronte stalinista della Lega Anti-Nazi sotto il falso nome di Rudolph Breda. Otto Katz si sarebbe convinto a collaborare quando i sovietici minacciarono di rapirgli la figlia. Il segreto fu utilizzato dalla Garbo per bloccare le maldicenze dell’attrice tedesca sul loro rapporto lesbico. E forse, se l’avesse saputo, avrebbe sfruttato l’altro grande e meglio nascosto segreto della Dietrich: l’esistenza di una sorella maggiore che gestiva col marito, a due passi dal campo di concentramento di Bergen-Belsen, un piccolo ristorante frequentato dalle SS. Marlene e il vero marito servirono più di un padrone: prima i sovietici, poi gli inglesi, infine gli americani. Otto Katz fu arrestato nel 1952 a Praga e impiccato come spia. Fu l’unica volta in cui la corazza di cinismo della Dietrich parve incrinarsi. Dopo l’accondiscendente Rudolf Sieber, è la volta dell’altro regista e pigmalione Josef von Sternberg, in sospetto di omosessualità. In realtà, molti furono rapporti di copertura (lavender marriages) allo scopo di aggirare il codice Hays, del 1929, che metteva al bando l’immoralità dilagante sullo schermo. Numerose attrici, sceneggiatrici e registe lesbiche furono costrette a riunirsi in “circoli di cucito”, come li definì ironicamente la grande attrice del teatro ibseniano Alla 50 Nazimova, omosessuale anche lei e amica intima della Dietrich nonché della scatenata Tallulah Bankhea, figlia di un senatore dell’Alabama, la quale era solita dire: “Papà mi ha detto di stare attenta ai ragazzi e all’alcol, non alle ragazze e alle droghe”. La Nazimova aveva avuto un’infanzia e una giovinezza drammatiche. Nata a Yalta nel 1879, sin da piccola venne picchiata dal padre e poi, trasferitasi in Svizzera, più volte violentata dal figlio della donna che la ospitava. Tornata in Russia, a Odessa, i compagni di collegio si presero gioco di lei chiamandola “barile”, “orso” e soprannomi simili, lei che sarebbe diventata così gracile e minuta! Più tardi a Mosca, per pagarsi la scuola di recitazione, si prostituì per le strade. Nella rete della maliarda berlinese finirono Claudette Colbert; Dolores Del Rio, che amava presentarsi ai party in abito da sposa accanto a Marlene in smoking; Lili Damita, prima moglie di Errol Flynn; Mercedes de Acosta, che per lei tradì la Garbo. È la stessa Mercedes a raccontarlo in un’intervista impossibile a Liberaeva. “Incontrai Marlene a un ricevimento, nella cucina della casa dove m’ero rifugiata piangendo. Greta a quel tempo mi faceva soffrire e lei carinamente mi consolò. Dopo pochi giorni mi riempì di orchidee ed io le scrissi lettere d’amore. Cominciavano con tesoro mio e finivano con il tuo principe bianco”. Mercedes proveniva da una benestante famiglia cubana di origini spagnole. Il padre perse tutto il patrimonio e si suicidò gettandosi da un ponte, anche il fratello Hennie si uccise e la madre, che si vantava di discendere dal Duca d’Alba, morì poco dopo assieme a una figlia. La relazione con Marlene non fu salda e appassionata come quella con la Garbo. “Le scrivevo poemi d’amore”, confessò una volta, ormai in miseria e costretta a vendere le lettere ricevute dall’attrice svedese, “e in cambio ricevevo le richieste più prosaiche: che le comperassi le scarpe, che le ordinassi i vestiti, che le trovassi una domestica…” Il rapporto andò avanti per trent’anni e s’incrinò nel 1960, l’anno in cui Mercedes 51 pubblicò un’autobiografia con le foto a seno nudo di Greta. L’Angelo azzurro invece passava da un sesso all’altro con disinvoltura. Amò Gary Cooper, lo stallone di Hollywood, che le fu partner in Marocco e Desiderio; amò Ernest Hemingway e il miliardario Joe Kennedy, padre del futuro presidente degli Stati Uniti e femminaro incallito come il figlio; amò Erich Maria Remarque col quale ebbe una appassionata corrispondenza epistolare (peccato che le lettere di lei siano state distrutte dall’ultima moglie dello scrittore tedesco, l’attrice Paulette Goddard). Sul letto di morte Marlene gli fece recapitare questo telegramma: “Ti mando tutto il mio cuore”. E il vecchio innamorato chiuse gli occhi felice. Amò Gérard Philippe e soprattutto Jean Gabin. Scrive Saglimbeni: “Jean, tre anni meno di lei, aveva moglie e figli. All’arrivo delle truppe tedesche lasciò precipitosamente la Francia per l’America e fu Marlene a ospitarlo nella sua villa di Hollywood, in attesa di trovargli casa. Lo coccolava come un bambino e ogni sera gli preparava la cena”. Il ménage non durò molto. All’attore francese vennero gli scrupoli. “Non voglio passare per un codardo”, disse. E riattraversò l’Atlantico per combattere il nazifascismo. Partì anche Marlene, in divisa di soldato americano, e sui fronti di guerra cantò la versione inglese di Lili Marleen. Se queste erano le parole che riempivano il cuore dei combattenti lungo le linee contrapposte della guerra, le sfortunate campagne italiane in Africa e in Russia venivano accompagnate da un’altra canzone, scritta nel 1936 da Nino Rastelli e musicata da Dino Olivieri, Tornerai. Il motivo, ispirato al Coro a bocca chiusa dalla Madama Butterfly di Puccini, era interpretato dal Trio Lescano e dal Quartetto Funaro. Il refrain faceva così: “Tornerai da me/ perché l’unico sogno sei/ del mio cuor./ Tornerai/ tu perché/ senza i tuoi baci languidi/ non vivrò./ Ho qui dentro ognor/ la tua voce che dice/ tremando ‘Amor’./ Tornerò/ perché tuo è il mio cuor!” 52 In Francia, a parte Suzy Solidor, Jean Sablon e Tino Rossi, la interpretava magnificamente Rina Ketty, cantante di origine italiana (in realtà si chiamava Cesarina Picchetto, nome impossibile per un’artista). Il titolo era J’attendrai e il testo, di Louis Poterat, riscritto durante la guerra, si adattava meglio alla situazione dei soldati che combattevano al fronte mentre le loro madri, mogli e fidanzate ne attendevano con ansia il ritorno. “J’attendrai/ le jour et la nuit/ j’attendrai toujours/ ton retour...” Moltissimi soldati italiani non sarebbero più tornati, morti assiderati o sopravvissuti sotto le coperte di altri letti; e molti di loro, mandati a combattere sulla neve coi ferrivecchi della Grande Guerra, di certo sognavano le dive del momento, Greta e Marlene, le cui foto tenevano nel tascapane. Dovevano esserci anche in quelli dei 77 italiani “di modeste pretese e d’infinita pazienza precipitati nel peggior mattatoio della seconda guerra mondiale”, per come ce la racconta Alfio Caruso nel bel libro della Longanesi Noi moriamo a Stalingrado. L’incipit è da ricordare: “Il più vecchio andava per i trentacinque anni, il più giovane ne aveva venti. La moneta volò in aria, da una parte c’era scritto morte, dall’altra vita. Uscì morte”. Quell’inferno coltivava assurdamente un sogno, una voce: “Tornerai da me…” e il giovane soldato, ancora imberbe, col cuore che gli diventava di cartone, come le scarpe che non riuscivano a ripararlo dall’abisso del freddo, volgeva lo sguardo al cielo di marmo e ripeteva: “perché l’unico sogno sei del mio cuor”. Poi, a mano a mano che la morte stampata sul verso della moneta si avvicinava, raccoglieva le forze per l’ultimo desiderio: l’immagine della madre, del padre, dei fratelli… l’immagine, folle e consolatoria, della “fidanzata” Greta o Marlene. Il mito è come l’acqua del fiume che scorre, limpida e veloce, ma che prima di arrivare al mare si raccoglie in stagnanti insenature cambiando colore e profumo. Marlene Dietrich, alla fine della sua vita, era talmente squattrinata che si ridusse a cantare al telefono per soldi. 53 Lo confidò una volta la figlia all’ex direttore di Vanity Fair, Leo Lerman. A pagarla fu un ammiratore che la chiamava dall’America e voleva raggiungerla a Parigi dove la diva si trovava in quel periodo. Al rifiuto di lei, l’uomo entrò in depressione e cominciò a spendere molti soldi in analisi. Marlene seppe dello “spreco” e gli propose di dare a lei, anziché allo psicanalista, il denaro. In compenso, l’avrebbe “curato” per telefono cantando. La voce fu il propellente per mandare in orbita d’amore un mio collega stenografo che pigiava sui tasti d’una vecchia Olivetti M20 a rullo mobile alla velocità di centoquaranta battute al minuto. La stessa velocità di mio padre marconista dell’esercito quando aveva vent’anni… tre punti tre linee tre punti, ti-ti-ti ta-ta-ta titi-ti, S.O.S. Save Our Soul, Salvate le nostre anime! Uno spettacolo vederlo lavorare su quel gioiello meccanico per il quale negli anni Venti era necessaria una settimana per costruirlo. Ovviamente era un modello antiquato rispetto alla Lexikon 80, già da vari anni in uso, ma così scorrevole e robusto che non temeva confronti. Ed era soprattutto uno spettacolo per me che pestavo con due dita sulla mia gloriosa Lettera 22 azzurro polvere che mi è stata compagna fedele per decenni come lo fu per lo scrittore Corman McCarthy che di recente l’ha messa all’asta per ventimila dollari. L’aveva acquistata, come me, nel 1963 ed era azzurra. La mia riposa tra vecchi libri. Ogni tanto la guardo, l’accarezzo, penso alla mia giovinezza e penso che non diventerò mai un Corman McCarthy, l’autore di Non è un paese per vecchi portato sullo schermo dai fratelli Joel ed Ethan Coen. Poiché per il suo lavoro era in contatto con le centraliniste, che gli smistavano le telefonate degli inviati, questo collega, di carnagione olivastra e piuttosto alto, s’innamorò perdutamente della voce d’una di queste ragazze. Parla oggi parla domani nacque una forte simpatia che presto sfociò in un appuntamento. La ragazza era una brava ragazza, stampo anni Cinquanta per capire, ma di una bruttezza 54 assoluta. Una persona “scumutulidda”, avrebbero detto le nostre madri. Al collega stenografo tremarono le gambe, chiuse gli occhi per capire se era la stessa persona ma la voce, melodiosa e vellutata, glielo confermò. Passò giorni e giorni totalmente frastornato finché quella voce, che continuava a solleticargli il cuore, ebbe il sopravvento. Con gli anni il mio collega fece il callo all’attributo fisico e continuò a farsi sedurre dalla parola, dal suono; si fece cullare dall’immateriale e dallo spirito che c’è in ogni persona, anche la più sgradevole. 55 DUE Jean Harlow, Claudette Colbert A Catania “fare cinema” significa camuffarsi, recitare, per gioco o per necessità. Come i bambini, in fondo. Anche loro fanno cinema nel senso che fanno storie: inventano racconti per convincere i genitori a passarla liscia oppure improvvisano pianti e stanchezze per farsi prendere in braccio o per ritardare l’ora di andare a letto o ancora per non mangiare un certo cibo. I grandi, invece, fanno cinema in ufficio per farsi perdonare il ritardo o per coprire la propria incapacità, a casa per contrastare il buon senso del coniuge, nei negozi per ottenere uno sconto o per non farlo, coi figli quando non sanno le risposte. Insomma, fare cinema vuol dire ingannare. Personalmente, facevo cinema nel cinema, nel senso che m’immedesimavo negli attori, nei protagonisti delle tante storie credibili o incredibili che popolavano il grande schermo, li affiancavo e li sostituivo. I film del passato erano il mio presente. Molti erano fondi di magazzino che i noleggiatori affittavano a basso costo all’esercente del dopolavoro ferroviario ma che emotivamente mi coinvolgevano come se fossero stati appena girati. Vivevo in differita, insomma. Il cinematografo del signor Lombardo era come una biblioteca in cui potevano leggersi solo libri antichi. Sembrava uno svantaggio, un vivere avulso, ma per me era pur sempre un dono, un riflettere sulle passioni della vita, una girandola di emozioni seducenti. Il lunedì mattina, durante la ricreazione e anche all’uscita di scuola, noi studenti di provincia, indomiti e confusionari, parlavamo dell’ultimo film visto ma soprattutto litigavamo sul calcio, divisi com’eravamo tra juventini, interisti, milanisti. Le altre squadre raramente ci scaldavano il cuore, tranne quella del Catania che aveva un posto a parte e tuttavia stava un gradino più 56 sotto rispetto ai grandi club del Nord. Il 23 maggio del 1954 i rossazzurri, pareggiando fuori casa col Como, zero a zero, conquistarono per la prima volta la serie A. La partita decisiva fu vinta con questa formazione: Pattini, Baccarini, Bravetti; Bearzot, Santamaria, Seveso; Pirola, Manenti, Quoiani, Bassetti, Micheloni. Il mio idolo era Santamaria, una roccia. Anche Quoiani era bravo ma erano più i gol mangiati che quelli messi a segno. Mio padre, pur essendo uomo di letture e di impegno sociale, amava tutti gli sport,anche la boxe di cui era arbitro federale. Mi ricordo che una volta, durante un incontro amichevole al cine-teatro Sangiorgi feci, per gioco, il “secondo” al pugile Giuseppe D’Augusta. Gli asciugavo il viso, gli davo l’acqua, lo ventilavo, gli sorridevo. Qualche anno più tardi D’Augusta incontrò per il titolo italiano dei pesi gallo il sordomuto Mario D’Agata. Ma il mio amico, che faceva il magazziniere alla Fidap, dove lavorava mio padre, e mi portava un regalo dopo ogni incontro in Continente, perse la sfida perché l’avversario, come dissero i catanesi, non “sentiva” i colpi. La domenica, se il Catania giocava in casa, io e mio padre mangiavamo in fretta e varcavamo i cancelli del Cibali a stadio ormai pieno. Per non pagare nemmeno il biglietto ridotto mi piegavo sulle ginocchia, fino alla misura consentita, e passavo, emozionato e felice, forse nella voluta disattenzione del controllore. Prima che i giocatori scendessero in campo veniva trasmessa dagli altoparlanti la pubblicità. Il caffé Torrisi viaggiava sull’onda di un motivetto banale ma che mi riempiva d’inesprimibili e dolci sentimenti di attesa: “Torrisi supermiscela, un dolce mistero in te si cela…” All’annuncio della formazione delle squadre un silenzio irreale s’impadroniva del pubblico e si rompeva solo sull’ultimo dei nomi dei giocatori rossazzurri. Poi cominciavano a volare sul campo pacchi di sale contro il malocchio mentre le bandiere con al centro ’u liotru ondeggiavano al vento e Natalino Otto, con la canzone Forza Catania!, trasmessa a tutto volume, spronava 57 l’entusiasmo dei tifosi già in delirio. “Dalla mezzala al centro con mezza rovesciata ed una cannonata in porta arriva già. Fugge veloce l’ala, scocca un bel traversone ed ecco che il pallone la rete sfonderà. Goal. Forza Catania, forza Catania!” C’era la tribuna A, dove si pagava di più, e la tribuna B dalla quale lo spettacolo si condivideva con il sole in faccia. Più tardi furono costruiti i gradoni, dietro le porte del campo, a Nord e a Sud, in cui si raccolse la tifoseria dei quartieri popolari la cui massima trasgressione furono fischi e invettive all’“arbitro cornuto”. Tempi di “Clamoroso al Cibali!” coniato dal radiocronista Sandro Ciotti che puntualmente si meravigliava ogniqualvolta il Catania riusciva ad affondare in casa una corazzata del Nord. Quel “clamoroso” sanciva la nostra provincia, il nostro Mezzogiorno profondo e distante, le nostre arretratezze sportive e sociali; eppure, fu inteso come orgoglio, coraggio, abilità. Insomma, ripercorrendo indietro di secoli la storia degli uomini, qualcosa di simile dovette esplodere nella Valle di Elah testimone di un evento altrettanto prodigioso: il colpo di fionda col quale il giovane Davide abbatte il gigante Golia. Gli ultras arrivarono, con la loro violenta follia, nell’epoca in cui la città si allargò oltre le colline, il cemento soffocò il profumo della zagara e i giovani capirono che tutto quello che c’era da imparare veniva dalla televisione. Restammo in serie A solo un anno perché a fine campionato ci riempimmo di vergogna. Il 7 agosto del 1955 il Catania fu processato per corruzione sportiva e condannato, assieme all’Udinese, alla retrocessione in serie B. Uno dei responsabili dell’imbroglio fu Giulio Sterlini, allora corrispondente de La Gazzetta dello Sport. Fece da tramite tra il Club Calcio Catania e l’arbitro romano Scaramella che per addomesticare le partite col Genoa e l’Atalanta chiese la cifra pazzesca di mezzo milione di lire. Giulio era figlio della mia maestra alle elementari di via Giordano Bruno, che frequentai per due anni prima 58 di iscrivermi al collegio Leonardo da Vinci retto dai fratelli delle scuole cristiane. Suo cugino, per parte di madre, era Warner Bentivegna, l’attore che ebbe grande successo in TV e in teatro negli anni Sessanta. La famiglia Sterlini abitava di fronte a mio nonno materno, le porte d’ingresso davano sullo stesso pianerottolo di un palazzo che si affaccia su piazza Angelo Majorana e via Ventimiglia. Giulio me lo ricordo come un giovane fantastico, alto, sportivo, cordiale; lui e i suoi fratelli, nonché il giovane Bentivegna, biondo e secco come un chiodo, morto alla fine del 2008. Possedevano un teatrino di legno e passavano interi pomeriggi a farvi recitare pupazzi di stoffa. Più tardi, anch’io me ne costruii uno e vi persi l’esistenza. Un pomeriggio, con mio padre, feci visita alla signora maestra: stava poco bene ed erano alcuni giorni che non veniva a scuola. Ci ricevette in camera da letto. Non s’era rimessa del tutto. Indossava una liseuse bianca di lana, nella mano stringeva un libro, con l’indice infilato tra le pagine per non perdere il segno, mentre con le dita dell’altra seguiva l’ordito della sovraccoperta di cotone. Sopra la testiera del letto una copia della Madonna col bambino di Raffaello, che avevo ammirato anche in casa di zio Lorenzo, fratello di mia madre, che aveva un laboratorio di sedie in via Marchese di Casalotto. Era come entrare in un sacrario, un luogo spirituale, e forse per questo ne conservo memoria. Era una signora anziana, o almeno così mi parve allora, con un che di aristocratico nei modi e nella voce. Mi accarezzò i capelli, parlammo della scuola, dei miei progressi e disse cose che inorgoglirono mio padre. A quel tempo frequentavo la seconda elementare, scuola pubblica, maschi e femmine. Poi, passai alla scuola cattolica, come ho detto, fino al quinto ginnasio: signorino tra signorini che non vedevano al di sotto di un certo livello sociale, come il principe di Henry James, ragazzi con la puzza sotto il naso, piramidi di libri, cartelle di cuoio, tonache nere e facciole bianche, passi silenziosi, terrore per i corridoi infiniti e 59 misteriosi, incenso, preghiere… Tornando da scuola avevo l’abitudine con altri compagni di scalciare pietre, a mo’ di pallone, e non c’erano scarpe che regnassero. Qualche volta facevo la strada con Giampiero Mughini, una classe avanti, che abitava con la madre e la nonna vicino casa mia. Discutevamo di pallone, di professori carogne e di religiosi maniaci. L’unica comune ammirazione era per Ciccio, il portiere. Intramontabile istituzione del Leonardo, “pietra d’angolo” come l’ha definita in un articolo di ricordi l’ex alunno Francesco Li Destri. Un giorno, come lui stesso racconterà in un articolo su Panorama per ricordare i vent’anni della rivolta studentesca del ’68, Giampiero fu convocato dal vicedirettore che gli comunicò di avere saputo su di lui cose abiette, che aveva poi constatato personalmente, praticate nel cortile della scuola. Giampiero, che in quel cortile giocava a pallone o a tamburelli, come tutti noi, non seppe mai quali fossero le “cose abiette” di cui s’era macchiato. Ricorderà, come ferite brucianti nella carne, i due schiaffoni subiti, a freddo, con la mano destra e la sinistra, la perquisizione della cartella e il sequestro di alcuni francobolli da collezione, “corpi di non so quale reato”. Più oltre, nell’articolo, inquadrando l’episodio nella cultura pedagogica intollerante di allora, scriverà: “Non si capisce nulla dello scatto originario del Sessantotto italiano se non lo si spiega come la reazione e l’esplosione di massa contro tante piccole carognerie premoderne, nelle scuole come negli uffici, nelle fabbriche come nei giornali, nella vita quotidiana innanzitutto. Tanto che la rivoluzione di quegli anni fu la rivoluzione del costume: il non consentire mai più a nessuno di prenderti a schiaffi solo perché ha una qualche autorità su di te”. Anch’io fui preso a schiaffi da un professore. Si chiamava fratel Natalino e insegnava matematica. Era pressoché infallibile nel lanciare sugli alunni disattenti la spugnetta della lavagna e aveva un modo speciale di comminare la punizione: azionava la mano con 60 impressionante velocità, sia di palmo che di dorso, fino a farti piangere per l’umiliazione e il dolore. Khaled Hosseini in Mille splendidi soli ricorda qualcosa del genere. Ricorda di un insegnante, che a Kabul chiamavano “il pittore”, il quale puniva gli alunni “spennellando” sulle loro facce la mano in un verso e nell’altro. Miserabile perversione che segna, per vie lontane e misteriose, insospettabili legami “culturali” tra Occidente e Oriente. La mia “abiezione” era stata quella di avere suggerito. E non era neanche vero. Non dissi niente a casa. Mio padre l’avrebbe rivoltato come un calzino. Giampiero, anche a volerlo fare, non aveva a chi rivolgersi. E anch’io ebbi una sgradevole esperienza col sequestratore di francobolli. Con la scusa di farmi sapere in anticipo i voti degli esami di terza media, un pomeriggio mi convocò nel suo studio e tentò qualche incerta carezza. Avvertii un confuso disagio, una sorta d’inesprimibile angoscia e delusione, come se l’eroe d’una storia edificante si fosse messo a fare cose insensate, lontanissime dalla sua nobile e austera figura. Non sapevo nulla di pedofilia, avvertivo solo un’anomalia, una discrasia tra l’ordine delle cose, nelle quali ero stato educato, e il disordine che stava al di là, nascosto, ancora da capire. Fece subito marcia indietro. Forse avvertì il mio istintivo irrigidimento o il mio probabile esplodere in una fuga che si sarebbe rivelata per lui molto imbarazzante. In quarto ginnasio non lo vidi più. Una triste vicenda che avevo dimenticato ma che è emersa qualche anno fa vedendo il film di Pedro Almodóvar, La mala educación. È la storia di due bambini, Ignacio ed Enrique, che studiano in un istituto religioso e scoprono, accanto all’amicizia, all’amore, al cinema, la turpitudine dei grandi: uno dei due subisce abusi sessuali da padre Manolo, direttore della scuola. Il film, autobiografico, non vuole essere un regolamento di conti con i preti, che hanno male educato Almodóvar, ma, come ha scritto il critico de El Pais, “l’immensa 61 metafora del mistero del male, l’enigma della perversità, l’inferno come dimora naturale di questo mondo”. Personalmente, al di là del barocchismo concettuale, ho visto l’innocenza calpestata proprio da chi quel sentimento doveva tutelare. Solo di recente la Chiesa ha fatto mea culpa per i tanti casi di pedofilia del suo clero. A quei tempi Mughini era uno sportivo. Superbo nel gioco del calcio, del ping-pong e nella ginnastica artistica. Impareggiabile alla sbarra fissa e al corpo libero. Io me la cavavo agli anelli e al cavallo con maniglie. Il più bravo però era Franco Malerba, d’una decina d’anni più grande. Era l’unico a saper fare, dopo una strabiliante rondata, il doppio salto mortale all’indietro, detto flic flac, e il terzo senza l’appoggio delle mani. Morirà ancora giovane, per una banale caduta, durante un’escursione sull’Etna: lui, che vorticava nell’aria come un funambolo, che arrivava in palestra con l’aura del guerriero invincibile e che mai avresti immaginato spegnersi nel più stupido e assurdo dei modi. Giampiero solo dopo la maturità classica si gettò con tutta l’anima sul cinema e sui libri. Per i ragazzi della mia generazione fu come lo Svedese per Nathan Zuckerman, in versione etnea, naturalmente, con quel tanto di impreciso e ribelle che può esserci in un giovane di provincia, per altro difficilmente imitabile da chi se ne stava accucciato in famiglia e il cui peggiore reato era quello di masticare gomma americana. Aveva un modo sonoro e prepotente di stare con gli amici, mettersi al centro del gruppo e incantarlo col suo linguaggio forbito, le sue estreme passioni. Si iscrisse in legge, come me, ma poi l’abbandonò per la facoltà di lettere. Fu lui, con altri giovani ammalati di cinema, a ridare slancio al glorioso Cuc, il centro universitario cinematografico, che frequentai con una certa assiduità. Anche lì risplendeva il passato, in specie attraverso le grandi opere del cinema sovietico. La corazzata Potemkin, che Paolo Villaggio avrebbe definito “una boiata pazzesca”, ancora me la ricordo. Film epico, 62 ideologicamente forte ma noioso, di una noia mortale, che però non si poteva dire per non correre il rischio di passare agli occhi degli impegnati per uno sprovveduto. Ma i tempi per uscire dal coro del conformismo della sinistra ideologizzata, i tempi del re nudo, sarebbero venuti molto più tardi, negli anni in cui sarei riuscito a chiamare le cose con il loro vero nome, quando avrei tranquillamente bocciato, come ha fatto Edmondo Berselli in Venerati maestri, alcuni film “di sinistra” praticamente invedibili, quando avrei messo nello stesso mazzo selvaggio i molti libri abbaglianti e illeggibili della Einaudi, di quella casa editrice torinese il cui proprietario si comportava come un principe rinascimentale mentre i suoi impiegati giravano l’Italia in terza classe, malvestiti e con poche lire in tasca. Gianni Agnelli, l’Avvocato, che lo conosceva piuttosto bene, una volta sottolineò questa contraddizione: “Rimprovera i comunisti di non essere abbastanza di sinistra ma nello stesso tempo indulge a squisite raffinatezze. Mah!” Il Cuc era considerato il fronte anarcoide e avanzato della gioventù studentesca catanese, contraddistinto da un insopportabile narcisismo collettivo grazie al quale i suoi protagonisti si sentivano lucidi, impegnati, intelligenti. Si mangiavano il cervello a ogni ora del giorno. Lavoravano al ciclostile, distribuivano manifesti, organizzavano cortei di protesta e immaginavano d’essere il sale della terra in attesa di prendere il potere che anche dopo il ’68 spostava sempre più in alto l’asticella. E dunque i rivoluzionari mai arrivarono a una conclusione certa… “mentre sarebbe ora di cominciare a concludere”, avrebbe scritto, negli anni Novanta, il prof. Tino Vittorio in una raccolta di saggi dal titolo Formicolii. Concludere nel senso di “andare al potere senza immaginazione, senza passione, ma con un forte senso di responsabilità verso le cose, le leggi di mercato e della natura, verso gli uomini”. L’altro fronte, quietamente sovversivo e manesco, 63 era riassunto dal Cus, il Centro universitario sportivo. Due mondi opposti, ideologicamente diversi: nel primo si discuteva, si leggevano libri e si pensava a come cambiare la società, sia pure in modo fumoso; nel secondo si faceva sport, si sognava il posto fisso e il matrimonio. Ovviamente fu questo mondo a essere corteggiato dalle gerarchie accademiche mentre i dirigenti del Cuc erano visti come pericolosi sovversivi. “Il quotidiano locale”, ricorderà Nino Recupero “ci dedicava… grandi silenzi, e in più occasioni ci attaccò. Un attacco particolarmente virulento ci venne da Antonio Lombardo, allora emergente in Ordine nuovo (non ancora fuorilegge), che fece stampare manifesti murali contro di noi. La battaglia era dura”. Il Cus, collocato ideologicamente a destra, fu a onor del vero palestra di lealtà, vigore, impegno, sacrificio. Gli atleti, sempre a corto di soldi, viaggiavano in “terza di legno” e di notte si sdraiavano a terra o sulle reticelle del bagagliaio. Vincevano, perdevano, mangiavano panini con la mortadella, corteggiavano le ragazze e tornavano sempre con i sorrisi larghi della giovinezza. Ricordandone i sessant’anni della nascita, in un libro curato da Nino Urzì, Candido Cannavò, giovanissimo “pugno d’ossa” che correva per i campi sportivi d’Italia con qualche buon risultato, scriverà: “Ogni tanto spunta fuori da misteriosi nascondigli la foto di una squadra di rugby schierata sul campo di Merano. È il Cus Catania, con i suoi colossi del tempo, ragazzi che avevano avuto la fortuna di mangiare bene dopo la guerra, quando per molte famiglie come la mia i tempi erano molto difficili. Facevamo cure di arance non esportabili e scoprivamo il sapore avvincente delle insalate di limoni. In mezzo a quella squadra c’è un ometto, con un doppiopetto forse rivoltato. Ero io…” Al Centro universitario cinematografico (che ebbe sede prima al cinema Corsaro e poi al cinema Ariston) si proiettavano film d’autore e alla fine della proiezione si discutevano col pubblico. I referenti colti e adulti erano Santino Mirabella, Vito Librando e Santi 64 Bonaccorsi. Vito Librando scriveva di arte su La Sicilia e quando portava il suo articolo si fermava nella mia redazione. Godeva di un certo prestigio in campo accademico ma al giornale pareva un poco sperduto, sebbene mascherasse il disagio con ironia. Si sentiva però un po’ carciofo. Racconta Silvano Nigro, allora giovane assistente di Muscetta, che un giorno entrò per sbaglio nella stanza di Librando e questi con aria tra il sorpreso e lo scandalizzato lo apostrofò: “Come ha fatto ad arrivare fin qui?” Manco fosse stato il Papa, commenta il brillante studioso che fino a qualche anno fa ha insegnato alla Normale. Quando la notizia-bomba del suo trasferimento arrivò a Catania i colleghi, increduli e invidiosi, telefonarono a Pisa e chiesero informazioni al portiere! Quello, che ancora nulla sapeva, cadde dalle nuvole. Al che il povero docente, per la verità un po’ bizzarro e stravagante, passò per mitomane. A notizia confermata però i colleghi si mangiarono le ossa col sale. Racconta ancora Nigro che molti anni fa gli telefonò il boss Nitto Santapaola per raccomandargli una nipote. Finito l’esame, la studentessa, che non aveva saputo rispondere alle domande più elementari, si trovò scritto sul libretto tre e lode. “La lode è per lo zio”, precisò Silvano Nigro. Il giorno dopo il boss gli telefonò e si fece una grossa risata. Ma forse questa è una balla. I collaboratori d’avventura di Vito Librando, accanto a Nino Recupero, erano Vittorio Campione, Piero Leotta, Miriam Campanella, Silvana Cirrone, Gaetano Leo, mio compagno di classe al Leonardo, naturalmente Francesco Mannino, musicista e musicologo, scomparso anche lui prematuramente e che aveva sposato Bice Marotta, una bella ragazza da molti corteggiata e ora docente universitaria. Bice piaceva anche a Mughini che una volta le scrisse una lettera. Giampiero aspettò invano la risposta ma non seppe mai che la lettera, rimasta alcuni giorni nella buca delle lettere mentre imperversava la pioggia, arrivò nelle mani della ragazza pressoché scolorita. Vi si leggevano appena alcune frasi 65 galanti ma non la firma né le parti che avrebbero potuto identificare il mittente. Non potendolo immaginare Mughini ci rimase malissimo. Ancora oggi non sa. Francesco Mannino aveva una sorella, Lucia, seconda moglie di Nino Milazzo, donna gentile e colta. In gioventù era stata una brava pittrice, allieva di Roberto Rimini. Peccato che abbia smesso. Su tutti però la considerazione di Librando era per Giampiero Mughini, mito per molti ragazzi del tempo, soprattutto quando sulle barricate del ’68 a Parigi si ruppe un braccio. Chi non lo conosce può farsi influenzare negativamente dal suo atteggiamento sopra le righe e dal modo di vestire bizzarro, dai suoi anelli, dal colore degli occhiali, dal modo di stare “scivolato” sulla sedia. Ma è un uomo di sentimento e di lotta, vigoroso e colto, mai banale, sempre in prima fila a beccarsi i fischi o gli applausi. Per dare l’idea. Mughini è come quel soldato, tante volte descritto da Emilio Lussu in Un anno sull’Altipiano, che esce dalla trincea mentre fischiano le pallottole e se un compagno cade si ferma a raccoglierlo e a portarlo in salvo. Come fa John Wayne coi suoi commilitoni nel film Iwo Jima, deserto di fuoco. Giampiero l’ho rivisto alcuni anni fa a Cortina, intervistato da Gigi Moncalvo al Pala Lexus dove il collega Enrico Cisnetto e sua moglie Iole organizzavano ogni anno, con efficienza e profitto, incontri culturali con personaggi di spicco della scena nazionale. Cancellato dall’Ordine dei giornalisti, per avere fatto pubblicità dietro compenso a una marca di telefonini, doveva difendersi da questo “reato” deontologico. E lo ha fatto a modo suo. Ancor prima di essere presentato al pubblico è salito sul palco, ha teso le braccia al cielo, fatto gioco di nocche, misurato a larghi passi il “ring” per stemperare la tensione e la rabbia che gli esplodevano dentro. Poi si è tuffato nella lotta. Ha vomitato accuse contro l’Ordine e i suoi sepolcri imbiancati che molto spesso mostrano uno strabismo intollerabile. Nessun dubbio. È stato all’altezza del suo personaggio: ironico, a volte eccessivo, quasi spietato 66 ma, in ultima analisi per ciò che ha detto, ampiamente condivisibile. Moncalvo, giornalista d’ordine, lo ha rintuzzato con fermezza pelosa quando qualche giorno prima, intervistando Vittorio Feltri, allora direttore di Libero, gli aveva fatto da tappetino consentendogli battute al vetriolo ai nemici e teneri rimbrotti agli amici. Quello stesso Feltri che da lì a qualche anno avrebbe pubblicato in prima pagina le foto a seno nudo di Veronica Lario quand’era una giovane attrice non ancora moglie di Silvio Berlusconi. Sopra le foto questo titolo: La velina ingrata. A giudizio di Feltri la signora Veronica in quanto ex soubrette non aveva titoli per chiedere il divorzio per il solo fatto che il marito si era reso responsabile di “frequentare minorenni” (si riferiva all’imbarazzante amicizia del premier con la giovanissima Noemi Letizia che lo chiamava “papi”) e di aver messo in lista per le elezioni europee del 2009 un gruppo di belle ragazze del mondo dello spettacolo. La signora Lario non poteva strapparsi di dosso la lettera scarlatta del suo passato, ammesso che questo fosse di vergognoso ricordo, ma doveva restare legata per sempre alla sua “infamia” di soubrette, senza possibilità di riscatto, senza possibilità di protestare e di reclamare dignità. Una mezza persona, insomma. Dimenticando che quella donna “lebbrosa” era stata per trent’anni moglie e madre esemplare. Giampiero Mughini è stato anche il fondatore e animatore di Giovane Critica, la rivista legata al Cuc e oggi considerata, come ha ricordato Nino Recupero in uno dei suoi ultimi articoli, “una delle esperienze letterarie italiane più vive di quegli anni”. A trovarle il nome fu Francesco Mannino e la veste grafica, molto innovativa, Roberto Laganà e poi Giuseppe Pagnano. Oggi Pagnano è architetto e insegna all’Università. Anche con lui eravamo compagni di scuola, anzi di classe, al Leonardo. In quinta elementare, credo, perse la madre e noi andammo al funerale. Più o meno commossi, più o meno felici di avere saltato le lezioni e 67 le interrogazioni. Poi l’insegnante ci condusse all’ospizio di via Asilo S. Agata. Un appuntamento annuale, quello, coi vecchietti dell’istituto, che rendemmo felici coi nostri regali: sigari toscani e dolci. Anni dopo, nel settembre del 1959, fui testimone di un altro lutto. Marcello Zammataro rimase orfano del padre, che era un ottimo professore di matematica e grande amico di mio padre. La grave perdita gli ispirò una bella poesia, pubblicata nell’annuario dell’istituto: “La tragedia è compiuta/ o padre amato./ E su immobili stelle è il tuo sorriso./ E su ceri d’altari il dolce sguardo./ E su te e sul mio viso/ son cadute le lacrime celate,/ mentre un cielo di marmo soffocava/ tra il fragore di nubi…” Santino Bonaccorsi lavorava a La Sicilia, in cronaca. In quel giornale patriarcale e conservatore era soprannominato il “maoista”. Mi ricordo che minacciarono di licenziarlo per avere donato qualche soldo a Il manifesto. Non gli perdonavano il tradimento della sua passata fede fascista. Era un romantico e un illuso. Riusciva a parlare con pochissimi colleghi e con me, da maoista a maoista… sia pure in Porsche. Per il mio matrimonio mi regalò le opere complete di Bertolt Brecht, un cofanetto in due volumi della Einaudi che tengo tra le cose più care. Qualche estate fa io e mia moglie siamo tornati a Berlino. C’eravamo stati prima della caduta del muro e ci ricordavamo, più che una città, un clima tetro e insopportabile. Tutto cambiato. In meglio, naturalmente. Una sera siamo andati a mangiare al numero 125 di Chausseestrasse, dove al primo piano abitava Brecht con la moglie, l’attrice Helen Weigel. Il ristorante si vanta di cucinare gli stessi piatti che Helen preparava per il marito. La casa è attaccata al piccolo cimitero di Oranienburger, alla fine della Friedrichstrasse, dove sono sepolti i filosofi Hegel, Fichte e Marcuse, l’architetto Schinkel e, naturalmente, Brecht con la moglie. Una tomba semplice, la loro, coperta di edera e di fiori come quella di Gérard Philippe e Nicole Navoux a Ramatuelle, sulle colline di 68 Saint Tropez. Nicole ricorderà gli ultimi mesi di vita del celebre marito in un delicato e intenso libro dal titolo Breve come un sospiro… “La dolcezza dell’aria mi fa sognare ciò che è stato e ciò che sarebbe se tu fossi vivo. So che questo sogno prova la mia incapacità di vivere il presente”. La tomba di Herbert Marcuse invece è minuscola, quasi insignificante, la incocci per caso. Ricorda quella di Proust al Père Lachaise. Una piccola lapide per un grande nome. Con Santino si discuteva di politica, di rivoluzione cinese che era diventata il suo nuovo amore dopo la delusione sovietica. Era convinto che mai e poi mai Pechino si sarebbe lasciata corrompere dall’Occidente, dal mercato, dal guadagno. Di certo, non avrebbe mai immaginato che all’inizio del Terzo Millennio la Cina avrebbe tolto Mao dai libri di scuola, sostituendolo col mondo che cammina (meno materialismo dialettico e più Bill Gates), né che un presidente cinese, Hu Jintao, avrebbe denunciato alla pubblica opinione la corruzione e la dissolutezza di molti funzionari di partito accusati di avere preso tangenti dagli imprenditori per mantenersi nel lusso e regalare appartamenti e gioielli alle concubine; né che il governo avrebbe lanciato una campagna di buone maniere contro la maleducazione, dal momento che molti cinesi sputano per terra nei ristoranti e persino negli aerei, ruttano, si puliscono i denti con le dita e al cinema tengono il cellulare acceso e rispondono come se si trovassero a casa loro. Le icone sono difficili da scalzare. L’ologramma cinese a quei tempi era il sorriso dei bambini in divisa, il libretto rosso, le marce ordinate, i fiori, la gentilezza. Santino spostava sempre più in là il confine della scelta. Verso i gruppi extraparlamentari, i movimenti giovanili, la rivoluzione permanente. Un modo, il suo, per sentirsi giovane. Non conosceva le mezze misure. Nelle cose si buttava a peso morto. Così come aveva fatto con la Repubblica sociale e poi con l’Urss e la Cina. Sempre scegliendo, però, il momento sbagliato, il fronte di battaglia più scomodo. Era questo che me lo 69 faceva apprezzare, questa sua incoerente coerenza. Una volta mi fece leggere una sua commedia, La berretta di papà, se ricordo correttamente il titolo. Divertente e ben scritta. La berretta era il mezzo col quale un ragazzo e una ragazza si scambiavano biglietti d’amore all’insaputa dei genitori. Scriveva anche poesie. Molto belle. Amava i giovani. Amava le donne. Come Tony Zermo, l’ultimo dei vecchi leoni de La Sicilia, ostinatamente legato alla sua terra di sole, sempre restio a lasciare il giornale, a navigare in mare aperto, a confrontarsi, e forse a rischiare, come fecero molti colleghi della sua generazione: Santi Petringa, Nenè Columba, Enzo Magrì, Candido Cannavò, Nino Milazzo… Tenendosi stretta la sua terra, Tony è rimasto un vecchio ragazzo. Quando si sposò, quarant’anni fa, con una simpatica ragazza di Scanzano, Carlotta, i colleghi del giornale gli fecero uno scherzo atroce. Antefatto. Per risparmiare i soldi del ricevimento, destinati all’acquisto dei mobili, Tony decise di sposarsi a Pompei. Una decina di invitati in tutto. Ma fu punito perché a Venezia, dov’era andato in viaggio di nozze, si giocò tutto al casinò. La mattina dopo il rientro a Catania trovò, come sempre, una copia del giornale e la notizia del suo matrimonio. Solo che la notizia era stata riscritta e ribattuta in unico esemplare per suo uso e consumo. Scritta a più mani, registrava la tirchieria dello sposo e altre notizie più o meno vere e più o meno inventate. Credendo che l’articolo fosse di pubblico dominio ci rimase malissimo, lui e l’innocente Carlotta. A chiarimento avvenuto, tirò un forte sospiro di sollievo e ce ne disse di tutti i colori. Compiuti gli 80 anni una rotellina del suo fiammeggiante cervello s’è ingrippata. Stava scrivendo l’ennesimo articolo per La Sicilia quando si accorse che il cervello non distribuiva più i comandi giusti alle dita. Allora fece una cosa semplicissima. Si mise in macchina e andò difilato al pronto soccorso dell’ospedale Cannizzaro, un ottimo ospedale, dove gli 70 diagnosticarono un ictus. Una settimana di ricovero e lo rimisero a posto. Appena dimesso ne scrisse sul giornale, come se parlasse di un altro, come se il conto non fosse suo. Un bellissimo articolo. Jean Harlow, all’anagrafe Harlean Carpenter, figlia di un dentista e di un’aspirante attrice, bionda che più bionda non si può, si assunse l’arduo compito di mettersi in competizione con la Garbo e la Dietrich. Non riuscì a spodestarle ma tenne una buona posizione. Non era assolutamente rispettabile, anzi, impersonò la figura della sgualdrina vestita da principessa, un angelo corrotto come lo era Marlene ma più disinibita e con maggiore spirito. Morì a ventisei anni per una grave disfunzione renale ma fece in tempo a sposarsi quattro volte, a diventare uno strepitoso simbolo sexy, a collezionare disgrazie, dissolutezze varie e a entrare nella storia del cinema con buoni film, molti girati in coppia con Clark Gable. Com’era stata la sua infanzia? La risposta possiamo rubarla a Clint Eastwood che al compagno di prigione che glielo domanda, nel film Fuga da Alcatraz di Don Siegel, dice laconico: “Breve”. Come brevi sono le vite dei personaggi di Jim Thompson che a Hollywood lavorò come soggettista e sceneggiatore dopo un’esaltante esperienza con Kubrick (Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria). Nel romanzo giallo di Thompson, Tornerò per farti fuori, il protagonista Tommy Carter sentenzia: “Nel Paese dove si coltiva il cotone si cresce presto o non si cresce affatto”. E Jean Harlow era cresciuta in fretta, troppo in fretta: genitori presto divisi, un patrigno interessato più a lei che alla madre, un matrimonio bruciato a sedici anni e durato un sospiro… Sui mari della Cina di Tay Garnett, del 1935, è il film che ricordo con maggiore precisione. Divertente e avventuroso, si avvale di un cast di primo livello: accanto a Jean Harlow e Clark Gable figurano Wallace Beery, Rosalind Russel, Akim Tamiroff. In lei vedevo 71 una bella principessa di celluloide con occhi di gatto e un fare innocente e comico che me la rendeva simpatica. All’uscita dal cinema mio padre ci raccontò la storia di questa diva sfortunata e della sua improvvisa morte mentre stava girando Saratoga di Jack Conway. Fu grazie a una controfigura che il film fu completato e nessuno si accorse della manipolazione. Morì nel ’37, lo stesso anno della scomparsa di Angelo Musco che i catanesi adorano come un santo, e santo non era davvero. Il grande attore comico si trovava a Milano, in tournèe. Alla fine dello spettacolo salì nella sua camera d’albergo assieme a una prostituta. Più tardi il commissario di polizia interrogò la donnina che rispose piangendo: “Era sopra di me, appassionato e felice, e mi stava dicendo: Ora vengo, ora vengo… e se n’è andato”. Anni dopo, Vitaliano Brancati ne avrebbe utilizzato la vicenda per l’epilogo del suo Bell’Antonio: il padre del protagonista, per difendere il buon nome della famiglia, muore in un casino, proprio “sul cavallo”. Analoga, ma più castigata morte, viene immaginata da Don Ameche in Il Cielo può attendere di cui dirò in un altro capitolo. L’attore, ormai vecchio ma impenitente dongiovanni che mai s’arrende, sogna di varcare l’eterno confine nel momento in cui una bella infermiera gli mette il termometro in bocca. Jean Harlow era rimasta scioccata dalla morte del marito, il produttore Paul Bern, di ventidue anni più grande. Appena due mesi dopo il loro matrimonio s’era sparato un colpo alla testa dopo avere scritto un biglietto di scuse alla giovane moglie. Dagospia sostiene che si fosse suicidato per vergogna. La sera prima aveva cercato di fare l’amore con la moglie usando un fallo di gomma. Verso la metà degli anni Trenta l’attrice attraversò un altro periodo difficile: altri matrimoni falliti e la cocente delusione di essere stata abbandonata da William Powell che lei amava perdutamente. Strepitose erano le sue battute, battute quasi muschiane, certo meno raffinate di quelle della Dietrich ma che 72 suscitavano divertiti commenti. Claudette Colbert s’impose con Accadde una notte, capolavoro di Frank Capra, e il pubblico se ne innamorò seduta stante. Il film lo vidi a scoppio ritardato, come sempre, e con me buona parte della generazione inespressa, definibile col “quasi”: quasi ribelle, quasi edotta, quasi matura. Viso dolce, occhi profondi e seducenti, corporatura minuta, gambe perfette, ricca e capricciosa, Ellie Andrews (il personaggio interpretato da Claudette) aveva tutto per piacere. Il film, premiato con cinque Oscar, racconta la storia di una ragazza che scappa di casa per protestare contro il padre che non gradisce il suo fidanzamento con un cacciatore di dote. Sull’autobus incontra l’uomo del destino, il giornalista Peter Warne, un eccellente Clark Gable. L’uomo la riconosce e tenta di sfruttarne la vicenda per una notizia di prima pagina. Ma col passare dei giorni finisce con l’innamorarsi della giovane Ellie e col rinunciare allo scoop. Amore casto, naturalmente, come voleva la morale del tempo, la morale degli anni Trenta, quando il film uscì la prima volta, e quella degli anni Cinquanta, a guerra finita e a fascismo travolto. Gli aspiranti fidanzati passano due notti insieme senza nemmeno sfiorarsi, anzi, affidano la privacy a una coperta messa a frammezzo tra i lettini… il cosiddetto “muro di Gerico” che cadrà solo a matrimonio avvenuto. Prima di allora ci saranno battibecchi, incerte tenerezze, finte liti. L’ultima notte dei sospiri, lui le parla di un’isola felice e lei lo ascolta rapita e sta per cedere al sentimento che l’attanaglia ma lui ha già preso la strada del sonno. Finale, ante litteram, come nel Laureato: lei davanti all’altare lascia il fidanzato per correre tra le braccia di Peter Warne. Ancora una volta l’eterna favola dell’amore si consacra in un finale edificante, prudentemente trasgressivo, ma materia formidabile per la nostra personale e sconclusionata elaborazione sentimentale, per il sognare a occhi aperti, sia al cinema 73 sia davanti alle pagine di un libro, sia che le fanciulle avessero il sorriso di Claudette o quello immaginato di Matilde de La Mole o della Sanseverina. Nulla è superfluo in Accadde una notte: anche il più piccolo avvenimento, ogni frase o gesto restano inseriti perfettamente nel mosaico narrativo. Ma la scena che caratterizza il film, e ne diventa quasi il simbolo, è quella dell’autostop. Ellie e Peter sono all’asciutto, non hanno soldi per mangiare, non hanno soldi per viaggiare, niente di niente, tranne l’intraprendenza di lui. Con la sua aria di spacca e lassa raggiunge il bordo della strada, alza il pollice e dice alla ragazza che il segreto sta tutto nel movimento del polso. Passa una macchina, passano due macchine, passano tante macchine. Nessuna si ferma. Scoraggiato, rinuncia. Allora la timida Ellie chiede di prendere il suo posto. Si mette in posizione, alza la gonna oltre il ginocchio, distende la gamba e uno stridio di freni quasi immediato fa capire quanto il “pelo di femmina” di martogliana memoria non abbia mai avuto rivali. L’autostop è nella storia dell’America, nei suoi racconti e nei suoi film, ma è anche nella storia europea. Fino agli anni Sessanta i giovani viaggiavano così, a pollice alzato. Come ha scritto Andrea Rocco sul Manifesto, l’autostop nasce come sottoprodotto della motorizzazione di massa negli anni ’30 ed è stato per un’intera generazione uno dei mezzi per conoscere il mondo. Una mattina d’estate, avevo 18 anni, io e un mio amico, di quattro-cinque anni più grande, Lucio Zappoli (suo padre aveva un laboratorio di marmi), ce ne andammo all’avventura, a Taormina, con la sua Seicento multipla, orribile antenata delle vetture monovolume ma assai comoda per il petting. Anche se l’hitch-hiking era praticato sulle nostre strade soprattutto dai turisti stranieri, non incontrammo nessuna albionica o teutonica bellezza. Tutti maschi. Ci guardammo bene dal dargli un passaggio. L’unica bandiera nostrana sventolò dalle parti di Giarre. Era uno 74 strano tipetto coi baffi che tentava inutilmente, a braccio alzato, la faticosa risalita dello Stivale. Nessuna pietà. Nemmeno per lui, nemmeno per la categoria degli sfigati siciliani. Accadde una notte influì anche sul costume nazionale americano. Molti giovani, di fronte a Clark Gable che si toglieva la camicia restando a torso nudo, entrarono in crisi, abituati com’erano a indossare la maglietta della salute, sia d’estate sia d’inverno. Cominciarono a litigare con i genitori e a buscarsi inevitabili raffreddori. In Italia andò peggio perché il freddo non lo si combatteva con un’alimentazione adeguata ma con pullover di lana a quattro capi e, di notte, con montagne di coperte e cappotti. Ma furono in molti, ragazzi di pomata e bellimbusti di periferia, a gettare alle ortiche la canottiera, ritenuta ormai volgare, e a indossare camicie attillate che mettevano in mostra i muscoli. Come Clark Gable. Tutto questo però arriverà col piccolo benessere degli anni Cinquanta, con la Seicento, il Galletto, la Lambretta, la mitica Vespa disegnata nel ’46 dall’ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio e forse ispirata a quello stranissimo scooter che si vede in una rapida scena del film di Stevens, Un evaso ha bussato alla mia porta, anno 1942, con Cary Grant, Jean Arthur e Ronald Colman. La rivoluzione comincerà quando i giovani indosseranno il trench di Humphrey Bogart e masticheranno chewing-gum, quando sogneranno la nuova frontiera dei cavalieri solitari e ne adotteranno gli atteggiamenti e il linguaggio, quel linguaggio che diventerà farfuglio “mericano” con Alberto Sordi. Davvero indimenticabile la scena di Un giorno in pretura quando il protagonista si lancia nel fiume per uccidere un tronco d’albero, che funge da coccodrillo, sotto gli occhi divertiti di un gruppo di ragazzini. “Americà, facce Tarzan!” L’amore del personaggio Nando Mericoni per gli Stati Uniti diventa idolatria in Un americano a Roma: Sordi, jeans e maglietta bianca, disdegna gli spaghetti per una più adeguata dieta alla 75 Kansas City, salvo poi pentirsene e abboffarsi del volgare ma più soddisfacente cibo italico. “Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo, maccarone! Io me te magno!” C’è un motivo personale che mi rende caro quel film come, del resto, molti film di Frank Capra. Estate 1977. Il mio giornale mi manda a Bisacquino, un paesino sperduto tra le montagne del Palermitano, per raccontare i festeggiamenti a Frank Capra che tornava al paese natale dopo 74 anni. Il regista della grande promessa, il regista che veniva da una famiglia poverissima emigrata per disperazione in California all’alba del secolo scorso, il regista che non sapeva né leggere né scrivere e che diventerà ingegnere chimico e poi uno dei più grandi artisti del cinema mondiale, il regista che con i suoi film ha combattuto la corruzione e l’affarismo politico ed economico, lo raggiunsi mentre percorreva le stradine del centro di Bisacquino cercando di ricostruire la propria infanzia. Piccolo di statura, una grande testa, occhi vivi e malinconici, guardava di qua e di là, stretto nella morsa d’affetto dei suoi ex compaesani che gli parlavano in dialetto, per marcare una comune appartenenza, e lui non capiva e sorrideva. Al termine della sua grande avventura umana e cinematografica era tornato in Sicilia per “prendere una bella boccata di coraggio contadino”. Poi l’hanno condotto alla casa natale, rimasta miracolosamente intatta nella sua mirabile povertà, non ancora fagocitata dal calcestruzzo e dalle orrende strutture di alluminio anodizzato. E qui ha mostrato di ricordare qualcosa, soprattutto la chiesa, che sorge accanto, e i gradini dove da piccolo si sedeva, così disse, sognando la vita meravigliosa che forse l’attendeva di là dell’oceano, sognando di disfarsi dell’unica proprietà che la famiglia possedeva: i pidocchi. Ignazio Silone in Fontamara racconta: “Allora il papa si sentì afflitto nel più profondo del cuore, prese dalla bisaccia una nuvola di pidocchi di una nuova specie e li lanciò sulle case dei poveri dicendo: Prendete, o figli amatissimi, prendete e 76 grattatevi. Così nei momenti di ozio, qualche cosa vi distrarrà dai pensieri del peccato”. Bisacquino come Fontamara, o forse peggio. Paese di montagna l’uno, paese di montagna l’altro. Cafoni senza scuola da una parte, cafoni illetterati dall’altra. Tutti senza nemmeno gli occhi per piangere, avviliti dalla miseria e asserviti alla prepotenza dei ricchi. Luoghi dell’infanzia infelice. Come quelli dell’Irlanda umida e povera descritti da Frank McCourt in Le ceneri di Angela, sconvolgenti non meno di Limerick dove il piccolo Frank, con la faccia e i capelli di presbiteriano del Nord, racconta le sue paure all’angelo del settimo scalino e prega perché il padre, disoccupato incallito, non si beva il sussidio nei pub della città. In ogni film del maestro, in ogni fotogramma e battuta c’è sempre un pezzo di quel grande piccolo cuore che batteva su quei gradini di pietra levigati dalla miseria e dal dolore, sferzati dal vento e dalla solitudine, eppure saldi e immortali per avere cullato la speranza di un ragazzino apparentemente senza speranza. E se ne sarebbe ricordato, il vecchio Frank, di quell’angolo siciliano di preghiera e di umiltà, e lo avrebbe messo a sigillo della sua opera. Molti personaggi dei suoi film nei momenti di difficoltà volgono lo sguardo al cielo per trovare la forza di continuare a lottare. Lo fa James Stewart in La vita è meravigliosa, lo fa Gary Cooper in È arrivata la felicità, lo fa May Robson in Signora per un giorno, lo fa Ronald Colman in Orizzonte perduto. Dopo la fede la grande risorsa è il Popolo che il regista guarda con simpatia e rispetto e lo descrive sempre vittorioso sui politici corrotti. In I Dominatori della Metropoli indimenticabile è la battuta finale di James Gleason, nei panni di un direttore di giornale, rivolta a Edward Arnold, che interpreta il politicante Norton: “Lo vede, Norton, il popolo? Non lo sconfiggerà mai!” E sembrava uno di quegli onesti agitatori politici adusi a salire sulle soap-box e arringare la folla. Come mio padre, stranamente, ma forse non tanto, Frank Capra era solito dire che “nessun uomo è un 77 fallito se ha amici, e se ne ha tanti è un uomo ricco”. Ma la molla del grande ottimismo di Frank Capra sta in un’altra memorabile frase: “Amico, tu sei un impasto divino di fango e polvere di stelle. Allora datti da fare: se le porte si sono aperte per me, si possono aprire anche per te”. Che poi è la grande lezione americana, il mito della nuova frontiera senza il quale non sarebbe esistito il cinema western e contro il quale è andata a sbattere purtroppo l’illusione dei tantissimi emigranti a sud del Rio Bravo spazzati via dalla Border Patrol a colpi di proiettili di gomma irritanti. 78 TRE Vivien Leigh, Hedy Lamarr, Ingrid Bergman I cimiteri sono luoghi che mettono paura ai ragazzi. Entrai in quello di Catania, i “Tre cancelli”, molti anni dopo la morte di mio nonno materno, l’unico dei nonni che ho conosciuto. Si chiamava Carmelo.Piccolo di statura, assomigliava, per come lo ricordo io, a James Cagney in Ragtime. Poco prima di morire mi regalò un’Aurora 88 col pennino e il cappuccio dorati. Augurio, forse, d’una carriera di lettere. Analogo regalo avrebbe fatto il libraio Sempere, in L’ombra del vento di Zafón, al figlio Daniel: una Montblanc Meinsterstück che il venditore diceva fosse appartenuta a Victor Hugo. La tenni tra le cose più care, come una reliquia, poi, non ricordo come, la persi. Di recente, ne ho acquistata una, uguale, all’asta eBay, e il passato è tornato forte e splendente. La stessa emozione ho provato con l’album delle figurine degli animali. Anche questo prezioso cimelio della mia fanciullezza era andato smarrito. Ne ho miracolosamente ripescati due uguali, sempre attraverso il grande mercato online. Uno era incompleto, ma in discrete condizioni. Stava tra le vecchie cose di un signore di Sesto San Giovanni. L’altro aveva tutte e 600 le figurine ma alcune pagine erano rovinate. Proveniva da Arpaia, un piccolo centro vicino a Benevento. Li ho portati dal mio legatore di fiducia, Rosario Napoli, e gli ho detto di fare una paziente operazione di rimescolamento e ricucitura. Li ho presi tutti e due per meno di 50 euro. Ma li avrei pagati molto di più. La prima edizione di questo mitico album, sulla cui copertina sono disegnati due koala, madre e figlio, uscì nel 1950 per conto della casa editrice milanese Astra, diventata poi Lampo. Le seicento figurine che compongono la raccolta sono grandi come francobolli (tre centimetri e mezzo per lato) e dei francobolli hanno 79 le dentature, ma così nitide e colorate da affascinare e immettere in un mondo misterioso e magico un ragazzino di quel tempo lontano, di un tempo acerbo, legato alla retorica dell’anteguerra, al libro Cuore e ai suoi racconti eroici e improbabili. Come quello della piccola vedetta lombarda che muore per un dovere che spetta ai grandi, ai soldati. Sono loro, anzi, a spedirlo in cima a un “frassino altissimo e sottile” (astuzia becera di Edmondo De Amicis) da dove il ragazzo cadrà colpito da una pallottola austriaca. Per completare l’album mi ci volle un anno. Ricordo l’ultima figurina mancante, la numero 382, che raffigurava l’eloderma, un rettile velenoso che vive nell’Arizona e nel Messico. La mia passione, ancora tenace, per il mondo degli animali nacque da lì, da quelle figurine che erano un po’ come fotogrammi di un film. Sfogliando l’album, dopo oltre mezzo secolo, ho ripescato lo stesso stupore e incanto di allora ma anche le stesse perplessità per alcune figurine che mi parevano, e mi paiono, disomogenee rispetto alle altre. Strano davvero come certi giudizi si mantengano vivi dopo decenni di letture, esperienze, maturazioni, confronti, educazione del gusto. La figuromania era esplosa sotto il regime fascista ed ebbe grande fortuna anche nel dopoguerra perché le figurine costituivano il film privato dei ragazzi d’allora, il loro rifugio fantastico, l’unico svago accessibile nella graduatoria dei bisogni d’una famiglia in cui il gioco occupava l’ultimo rigo nel quaderno delle spese. La fortuna cessò con l’introduzione del superfluo, della televisione di massa, dei videogames e dei giochi di plastica che i bambini scartano con curiosità e subito abbandonano senza neppure tentarne una timida animazione. Di recente, uno studioso americano, Richard Louv, ha definito questo comportamento “disturbo da deficit di natura”. I ragazzi, cioè, stanno troppe ore incollati alla Tv, si ubriacano di pc e playstation, si nevrotizzano con giochi elettronici che insegnano loro competizione e violenza quando invece 80 dovrebbero dedicare più tempo alla scoperta della natura. Anzi, prima dei 12 anni dovrebbero imparare, per esempio, ad arrampicarsi sugli alberi, a camminare in equilibrio su un tronco caduto, a mangiare una mela appena colta, a fare volare un aquilone, a rotolarsi sull’erba, insomma a fare tutte quelle cose “pazze” che si facevano una volta all’aria aperta. Il termine “figuromania” è di Enrico Morbelli, che ho perduto di vista dopo avere fatto con lui all’inizio degli anni Settanta, assieme a altri colleghi, un viaggio in macchina da Roma a Sanremo, per il festival della canzone. Enrico è figlio di Riccardo Morbelli, giornalista, scrittore radiofonico e televisivo nonché autore di popolari motivi come Ba’ ba’ baciami piccina, Sulla carrozzella, La canzone del boscaiolo. Enrico lo citava per nome e cognome, come fanno i figli coi genitori che hanno guadagnato tanto successo da trascendere la parentela. Ne era orgoglioso ma con misura e ironia. “La Liebig”, secondo il suo spiritoso giudizio “era più famosa per i suoi artistici cartoncini che per i dadi da cucina”. Personalmente ne ricordo di bellissimi, nel dopoguerra, a tema etnico, storico, religioso, sui quali imbastivo mirabolanti sogni di cartone. Nel 1932 anche la Perugina si lanciò a testa bassa nel promettente mercato cominciando ad abbinare ai prodotti le figurine di Italo Balbo per la “crociera del decennale”. Poi, sull’innocua mania, come ricorda ancora Morbelli, “s’innestò la speculazione e qualcuno fece anche i quattrini”. All’uscita di scuola i giovani balilla davano vita a un commercio inesausto. Si dannavano l’anima per l’introvabile Feroce Saladino (che in Sardegna, a quanto padre, era trovabilissimo), che segnò un’epoca al punto da renderla riconoscibile attraverso la sua immagine fantasticamente feroce e che ancora oggi si trascina nei modi di dire e nelle ironiche storpiature: il “Feroce Salatino” è quello che stava per strozzare il presidente George W. Bush mentre guardava la televisione mangiando junk food. C’erano poi gli accaparratori che 81 cercavano di farsi la Topolino attraverso il completamento di 250 album. Il fotografo Gastone Bosio ne completò 750, una follia, ma alla fine ci guadagnò l’automobile e mille lire. Le mille lire della canzone cantata nel ’39 da Gilberto Mazzi con l’orchestra di Pippo Barzizza. Una cifra per quel tempo: chi guadagnava tremila lire l’anno era considerato un buon partito. “Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovar tutta la felicità”. Fu talmente popolare che il regista Max Neufeld ne trasse un musicarello con Alida Valli, Osvaldo Valenti e Umberto Melnati. La figuromania scatenò una corsa al collezionismo più sfrenato al punto che il governo fu costretto a vietarlo e a nulla valsero le proteste di Giovanni Buitoni, responsabile della campagna pubblicitaria e magna pars della Perugina. Poco fa ho ricordato il cimitero. L’ho fatto perché parlando di principesse di celluloide mi sono ricordato d’una ideale epigrafe dedicata a Vivian Mary Hartley: “1913-1967. Impossibilmente bella e superbamente seducente, fu Rossella in Via col vento e la moglie di Laurence Olivier nella vita. Finché la follia e la depressione non la rapirono al mondo dei vivi”. Vivien Leigh era così bella e misteriosa, ovale delicato, occhi verdi, sorriso disarmante, che nel 1938 il regista Alexander Korda fece una follia firmandole un contratto di 50mila sterline. L’anno successivo ottenne la parte di Rossella O’Hara, l’eroina del romanzo di Margaret Mitchell, Via col vento, più letto, a quanto si disse, della Bibbia. E il film sarebbe stato il più visto e fortunato nella storia del cinema. Verso la fine degli anni Cinquanta alla Plaia, forse al lido dei ferrovieri o al lido Trinacria, non ricordo bene, venne come ospite d’onore Mike Bongiorno, reduce dai successi di Lascia o raddoppia? e autentica star nazionale. Poiché era un presentatore di quiz, e solo questo sapeva fare, organizzò su due piedi un gioco di domande e risposte. Roba da asilo infantile. Poi 82 s’inerpicò in una domanda più difficile: “Chi scrisse il romanzo che ispirò il film Via col vento?” Mio padre sapeva la risposta ma non voleva esibirsi in quello stupido gioco. Lo mettemmo in croce finché fu costretto ad alzarsi e a dire: “Margaret Mitchell!” Gli regalarono una spilla, che mia madre conservò gelosamente. Mike era un mito. Viaggiava come un missile nel gradimento del pubblico e vi viaggiava grazie alla sua mediocrità. Luciano Bianciardi scrisse una volta: “I nostri presentatori della televisione avevano successo, e lo hanno, in quanto riassumono ed esprimono certi difetti, certe tare nazionali. Mike Bongiorno ne riassumeva più di tutti, ed ecco perché lo possiamo stimare il più mediocre, quindi il più bravo”. Lo stesso concetto, qualche anno dopo, avrebbe espresso Umberto Eco: “Idolatrato da milioni di persone, quest’uomo deve il suo successo al fatto che in ogni atto e in ogni parola del personaggio cui dà vita davanti alle telecamere, traspare una mediocrità assoluta”. Il film lo vidi con la mia famiglia al cinema Lo Po, in via Etnea, che sorge quasi di fronte alla Rinascente, dove una volta c’era il cinema Sala Roma. Altri locali sarebbero stati chiusi col tempo, come il Diana, in via Umberto, che ospitava anche spettacoli di varietà, o il Reale, in via Francesco Crispi. Al loro posto ci sono negozi di abbigliamento (uno dei pochi veri affari della città, spesso luoghi di copertura della mafia assieme a caffè e rosticcerie), rutilanti botteghe nelle quali gli abiti, spacciati per alta sartoria, vengono acquistati all’ingrosso a Misterbianco, rilanciati sul mercato vip a prezzi triplicati e con le etichette cambiate; cose così, cose volte a gabbare i borghesi arricchiti (gli arripudduti) che bevono dalle tazzine col mignolo alzato e magari credono che il Darfur sia una marca di caramelle o un sistema di mangiare veloce, che Caino sia il figlio di Isacco, che parlano di cose che non sanno, come molti parlamentari d’oggi, che sconoscono le concordanze e credono che il vocabolario italiano registri parole come scatolo e unghio. Non si sa come 83 difendersi da questi esseri bizzarri di marca kitsch che parlano come le massaie di via Gambino e dicono, senza tema di essere arrestati, cotone idrofobo e lupare a mare, e credono altresì che il congiuntivo sia una malattia degli occhi. Non si comportavano diversamente molti celebri produttori di Hollywood che dicevano ginecologico invece di genealogico e aromatico invece di reumatico. Via col vento era suddiviso in quattro tempi, ma avrei voluto rivederlo ancora una volta, stare lì fino a notte fonda. La strada del ritorno fu un ciarlare ossessivo di questo e di quel personaggio. Innanzitutto Vivien Leigh, premiata con l’Oscar, e Clark Gable, ma anche Olivia de Havilland e la “saponetta” Leslie Howard, Thomas Mitchell e la bravissima Attie McDaniel, che è la brontolona balia Mamy e che per quella parte si meritò l’Oscar come migliore attrice non protagonista, il primo assegnato a una persona di colore. E fu un atto coraggioso quello dal momento che i negri, come racconta Sinclair Lewis in Sangue reale, venivano con disprezzo definiti darkies, boogies, dinges, smokes, zigs. Tutti scomparsi i protagonisti, grandi e piccoli. A lasciare per ultima il grande sogno è stata Evelyn Keyes che nel film è la sorella minore di Rossella O’Hara, Suellen. È morta, a novantun anni, nel luglio del 2008. Nella sua carriera non si ricordano interpretazioni memorabili, nella sua vita si ricordano i matrimoni con John Huston e Artie Shaw. Ritirandosi dalle scene diede alle stampe la propria autobiografia dal titolo (immancabile) La Sorella Minore di Rossella O’Hara. Il finale del film è una scudisciata. Rossella, che solo alla fine capisce di amare Rhett, dopo averlo mortificato e ingelosito per tutta la durata del film, cerca di fermarlo: “So solo che ti amo”. E lui, implacabile: “Questa è la tua disgrazia”. Rossella lo incalza: “Aspetta… Rhett. Rhett, se te ne vai che ne sarà di me, che farò?” “Francamente, me ne infischio”. La folla resta muta, sconvolta… La notte mi ripassai il volto e la 84 figura di Vivien che misi subito in testa alla classifica delle mie “fidanzate”. E in quel posto ci rimase a lungo, prima di essere scalzata da altre dive che dirò dopo. Il matrimonio con Sir Laurence durò vent’anni, ma non conobbe la passione che c’era stata nei quattro anni precedenti quando lei era sposata con Leigh Holman e lui con Jill Esmond, “timidamente lesbica” come si disse. L’attrice, affetta da sindrome maniaco-depressiva, avrebbe distrutto lentamente il rapporto col marito e avrebbe distrutto anche se stessa. All’epoca dei suoi impegni teatrali londinesi, famosi erano i vagabondaggi notturni per i boschi, anche con la pioggia, finché se ne tornava a casa, sporca e irriconoscibile, dopo avere avuto rapporti sessuali con sconosciuti. Che cos’era quel bisogno di sesso degradato? Solitudine, disperazione, follia? Verso la fine degli anni Cinquanta, durante una cena a Notley Abbey, alla quale partecipavano Burt Lancaster, Kirk Douglas e George Sanders, a un tratto disse al marito: “Larry, perché non mi scopi più?” L’imbarazzo di tutti fu alleggerito dalla pronta battuta di Sanders: “Oh, Vivien, basta! Fra un attimo anche mia moglie comincerà a farmi la stessa domanda”. Dopo il divorzio da sua maestà Laurence, Vivien si legò “per comparsa” all’attore John Merivale ma continuò ad amare, “follemente”, il marito e non lo dimenticò fino alla morte, scivolando sempre più nell’alcol e nella depressione. Quattro anni prima di morire ricevette nella sua casa del Sussex una visita puramente amichevole di Laurence che forse non aveva del tutto superato il rimorso di averla abbandonata. Il giorno dopo confessò a John Gielgud: “Forse non ci crederai, ma sono ancora disperatamente innamorata di lui”. Il ponte di Waterloo, girato nel 1940 da Mervyn LeRoy, avrebbero dovuto chiamarlo “Il ponte sul fiume delle lacrime”. Impossibile vederlo a ciglio asciutto. Per tre quarti di film Vivien Leigh piange e si dispera e con lei piange e si dispera il pubblico. All’uscita dal dopolavoro ferroviario di via Luigi Capuana non 85 avevamo fazzoletti asciutti, tranne mio fratello, il più piccolo e scapestrato del gruppo. Restai depresso per l’intera serata, fino a che mia madre venne nella mia stanza, mi rimboccò le coperte e mi disse: “Non fare il bambino”. Ma io ero un bambino!... più o meno. Avendolo visto negli anni Cinquanta, conoscevo a memoria le parole del Valzer delle candele, la bellissima melodia d’origine scozzese Auld lang syne, Il (bel) tempo passato, scritta da Robert Burns, che fa da colonna sonora al film e che in Italia fu lanciata da Carla Dupont. Non sapevo allora che portasse sfortuna. La mente mi si aprì alla “scuola” del giornale La Sicilia, dove imparai a dire qualche timida malaparola. Bastava che si accennasse al titolo perché Livio Messina, un collega anziano molto bravo e lavoratore instancabile, prendesse le contromisure scaminando nella tasca dei pantaloni. La leggenda vuole che fosse il valzer che l’orchestrina suonava sul ponte del Titanic, anche se alcuni superstiti del disastro raccontarono che il motivo eseguito dagli orchestrali, mentre l’inaffondabile transatlantico affondava nell’Oceano Atlantico, era lo struggente Nearer, my God, to thee, Vicino a te, mio Dio. Per fortuna, la struggente melodia ha resistito alla superstizione. Da tempo viene eseguita nelle feste di fine anno, non appena scatta la mezzanotte e tutti brindano e si abbracciano commossi. Molti non conoscono le parole, ma in questo caso è la musica a guidarli nel sentimento che li agita, a metà tra il rimpianto del passato e la promessa del futuro. “Domani tu mi lascerai/ e più non tornerai/ domani tutti i sogni miei/ li porterai con te./ La fiamma dell’amor/ che un dì provai/ invan per te/ è un lume di candela che/ già si spegne piano pian”. Alla boa del millennio ero a Londra con mio fratello e le rispettive mogli. Confesso che mi sono venute le lacrime… anche pensando, per una strana ma forse non tanto strana associazione di idee, alla tragica vicenda della ballerina Myra che s’innamora del tenente Roy e si uccide sul ponte di Waterloo per vergogna. “Should 86 auld acquaintance be forgot/ and never brought to mind?… / And days of auld lang syne , my dear/ And days of auld lang syne…” Robert Taylor e Vivien Leigh ballano il valzer triste e a ogni giro di danza uno degli orchestrali spegne la candela che illumina il suo spartito, fino alla fine della partitura, fino a che tutti i ballerini restano in penombra, nell’angoscia della guerra che incombe. Nel cinema ci sono voluti cinquant’anni perché in Harry ti presento Sally, il magnifico film di Rob Reiner, quel valzer suffragasse un amore finalmente felice: quello tra Meg Ryan e Billy Crystal. Nella mia vita c’è voluto un tempo uguale per passare dalla tetra malinconia di ragazzo a quella serena e distaccata di uomo maturo. Sull’Auld lang syne misuravo, nella forzata allegria dei Capodanni, una speranza tenace di superiori traguardi e un’uguale frustrazione dovuta al mio intramontabile pessimismo. Non ricordo, nella giovinezza ma anche oltre, un Capodanno senza malinconia, quello stato d’animo particolare al confine tra la felicità e il dolore, “una vaga tristezza”, come ha scritto Daniela D’Angelo nella rivista Silmarillon, “da cui non si guarisce, da cui a volte non si tenta nemmeno di guarire per via di un dolce compiacimento che l’accompagna”. Precipitare in uno stato malinconico significa perdersi senza però affondare nella disperazione, insomma un lutto senza la morte. Come vedere un film romantico, in definitiva, come farsi cullare dal suo sogno sapendo di non poterlo rivivere sull’oggi ma illudendosi di afferrarlo in un domani migliore, sempre possibile. Oppure cadenzare la dolce morte sulle note del Secondo valzer di Dmitri Shostakovich o del Danubio blu di Johann Strauss e immaginare la principessa Sissi, col volto di Romy Schneider, ballare col suo Franz nel salone sfavillante di luci del castello di Schönbrunn. In realtà, noi della generazione postbellica la principessa delle favole l’abbiamo coltivata con l’inganno del cuore più che con la saggezza della mente. 87 In lei abbiamo visto un’icona non una persona, una bellezza convenzionale, una di quelle visioni splendenti e verginali, come scrive Michael Cunningham, che attraversano in lungo e in largo la giovinezza dei timidi, delle persone un passo indietro. Viso d’angelo, occhi azzuri, capelli biondi e lucenti: era questo il nostro ideale, il mito da conservare nella tempesta della vita, un rifugio, una piccola chiesa in cui pregare e addormentarsi. Le bellezze fiere e spavalde, dal naso aquilino e dagli occhi selvaggi e penetranti, ci intimorivano, non erano per noi perché non avevamo la maturità necessaria per capirle e affrontarle. Per i malinconici di quel tempo acerbo le feste di fine anno non si collocavano nel presente, oscillavano tra il passato e il futuro, tra quanto s’era fatto e quanto s’intendeva fare. Il presente era un noioso rumore di risate in cui tutto era ravissant, fantastico, meraviglioso, un esplodere di tappi di spumante, uno stridore di trombette che s’allungavano come nasi-pinocchio, un circuito di musica frastornante, di amanti del ballo a ogni costo che s’intruppano in trenini ridicoli coinvolgendo anche chi vorrebbe starsene per i fatti suoi a farsi cullare da un pensiero d’oasi, un pensiero cinematografico di sorrisi timidi alla Claudette Colbert o sfrontati alla Vivien Leigh, un pensiero di ragazze azzurre che corrono incontro al loro magnifico destino su litorali di sabbia dorata sempre situati dalla parte opposta alla nostra. Come la brigata di ragazze belle e sfrontate che Marcel incontrò un giorno d’estate sul litorale di Balbec. Procedevano come “luminosa cometa” costringendo le persone a scostarsi per non farsi investire e si guardavano ridendo “se qualche vecchio signore, di cui esse non ammettevano l’esistenza e di cui respingevano il contatto, era fuggito con moti timorosi o furenti, ma precipitosi e ridicoli”. Nella piccola sala del dopolavoro ferroviario eravamo tutti rigorosamente maschi. Anche se i grandi 88 mi consideravano, giustamente, “mucco”, neonato, avannotto, che deve ancora crescere insomma. Le donne erano rimaste a casa. Troppo scandaloso il film. Alla scena culminante, quella che vede Hedy Lamarr aggirarsi nuda nel bosco, volavano battaglioni di mosche maleducate. Una sequenza breve, in verità, sicuramente tagliata dall’esercente per non incorrere nella censura, a quel tempo ancora severa. Ma tanto bastò a mettere il pepe in testa a quel pubblico inibito e provinciale. Tanto bastò a frastornarmi e a farmi desiderare per sempre quella bellissima dea. Se fossi stato un calzino mi sarei trovato con le cuciture a rovescio, istupidito dalla forza del peccato che quel corpo riassumeva. Forse i piaceri solitari cominciarono quel giorno, forse quello fu il momento del passaggio dall’aspirazione al rimorso, che noi ragazzi tacitavamo andando dal confessore più vecchio e sordo del collegio. E ancora non sapevamo che la masturbazione, secondo l’idea del regista Paolo Franchi, fosse un “gesto anarchico”. A noi pareva un ripiego necessario per mancanza di materia prima. L’idea comunque ha il suo fascino perché è la rivincita degli ultimi sui primi, degli sfigati sui fortunati, dei visionari che si portano a letto una come Jessica Biel mentre i terra-terra, adoratori del Reale, prosaicamente ma utilmente si spupazzano le più belle e conturbanti tra le indigene che non mangiano chiacchiere se uno si presenta con un romantico mazzolino di fiori ma senza macchina e biglietti da mille al seguito. Anni dopo Woody Allen ci avrebbe ampiamente riscattati. Nel film Anything else dice di appartenere alla categoria dei visionari, degli incalliti masturbatori: “Ieri sera mi sono messo su una cosetta a tre: io, Marilyn Monroe e Sophia Loren. Credo, tra l’altro, che fosse la prima volta che le due grandi attrici apparivano insieme”. Hedy Lamarr, nata a Vienna nel 1916, aveva gli occhi verdi di Vivien Leigh, lo stesso ovale e gli stessi capelli. Come la diva inglese era bellissima, sensuale ma con uno sguardo stupito e venato di malinconia. 89 L’esordio cinematografico avvenne con Estasi, girato nel 1933 sotto la direzione di Gustav Macathy. A quel tempo si chiamava Hedwig Eva Maria Kiesler. Il film le diede grande notorietà ma anche grande amarezza, essendo stato proibito in molti Paesi, tra cui naturalmente l’Italia fascista, e mutilato delle scene osé in altri. Il suo primo marito, il miliardario Fritz Mandl, fabbricante d’armi e amico dei nazisti, cercò invano di acquistarne le copie per toglierle dalla circolazione. Presentato alla mostra di Venezia, nel 1934, che inutilmente lo premiò, il film si attirò i fulmini della Chiesa e la curiosità di Mussolini, che se lo fece proiettare in privato. Il duce si disse estasiato ma anche deluso del piccolo seno dell’attrice. A lui piacevano le donne magre con le tette grosse, come quelle di Claretta Petacci. La scena del nudo, Hedy Lamarr la girò sotto ricatto. “Se non fai questa scena”, la minacciò Gustav Machaty “il film sarà rovinato e noi ci rifaremo delle perdite su di te”. La girò con una certa riluttanza, soprattutto la sequenza della fellatio che il regista rese maggiormente espressiva pungendo con uno spillo le natiche dell’attrice. Esagerarono, perché il produttore fu costretto a tagliare 76mila metri di pellicola, destinando al rogo le scene d’amore più realistiche. Un vero delitto. Lo scandalo spinse l’attrice ad abbandonare il cinema e l’Europa, ma sulla nave che la portava in America, incontrò Louis B. Mayer che le fece un contratto di sette anni senza chiederle la misura del reggipetto. Le cambiò anche il nome in omaggio al sexsymbol del cinema muto Barbara La Marr definita “troppo bella per rimanere sola in una grande città”. La giovane Hedy si gettò a capofitto nel lavoro interpretando con successo personaggi di donne sentimentali, e a volte un po’ perverse, accanto ai grandi divi dell’epoca: Robert Taylor, Clark Gable, Spencer Tracy, Walter Pidgeon. Ma il film che le portò maggiore fortuna fu il kolossal Sansone e Dalila di Cecil De Mille, girato nel 1949 accanto al muscoloso e ormai bollito Victor Mature, l’immortale Doc Holliday di 90 Sfida infernale di John Ford. Il grande Groucho Marx si rifiutò di assistere alla proiezione perché “non sarebbe mai andato a vedere un film in cui il petto del protagonista risultava più grande di quello della protagonista”. La celebre battuta condì per anni le minestre riscaldate di molti critici americani ed europei al punto che il povero Victor prese a scivolare verso l’indifferenza del pubblico, lui e i suoi imbarazzanti pettorali. Il film vinse due Oscar minori: il colore e i costumi, davvero magnifici. Ma non poteva avere altre chances, se non quelle che gli assicuravano i ragazzi come me, avidi di avventure e di coraggio ma anche vibranti di confuse pulsioni erotiche. Quell’anno, il 1950, erano in lizza giganti come Eva contro Eva, Viale del tramonto, Nata ieri, Le miniere di re Salomone. “Non è difficile diventare una grande diva”, era solita dire, “basta restare immobile e recitare la parte dell’oca.” Ma se sullo schermo, a volte, giocava il ruolo della sprovveduta, nella vita era molto intelligente, tanto intelligente da inventare nel 1942, assieme al compositore George Antheil, un sistema di comunicazione in codice basato sui nastri perforati della pianola. L’idea l’era venuta ascoltando in patria le conversazioni del marito Fritz coi generali tedeschi sul controllo delle armi a distanza. L’esercito americano le rispose che sarebbe stata più utile a Hollywood. Sebbene delusa, provò ugualmente a dare una mano alla patria offrendo un bacio a chi avesse sottoscritto almeno 25 mila dollari di obbligazioni per la lotta al nazismo. Le cronache mondane dell’epoca scrissero che la conturbante Hedy riuscì a raccogliere in una sola serata sette milioni di dollari. Vent’anni dopo il Pentagono dovette scusarsi perché il brevetto della diva più bella del mondo trovò applicazione sulle navi impegnate nel blocco di Cuba. E finalmente, nel 1997, tre anni prima di morire, Hedy Lamarr, l’attrice sposata sei volte, e quasi sempre con miliardari, e che qualche anno prima la polizia aveva pizzicato per un furto in un grande magazzino di Los Angeles, La Electronic Frontier 91 Foundation le attribuì il prestigioso premio Pioneer. Il brevetto non le fruttò nemmeno un dollaro. Era un’invenzione sorprendente per una diva che spesso recitava la parte della stupida, sorprendente soprattutto per noi ragazzi di provincia meridionali educati a coniugare l’intelligenza femminile soltanto con gambe a piede di tavolino e seni a fico secco. Come ci saremmo sentiti, noi maschietti di antica formazione musulmana, se una “femmina” si fosse rivelata più arguta? Meglio, dunque, nascondersi dietro quel comodo pregiudizio. In quarto ginnasio, durante l’ora di geografia, tenuta da un professore fessacchiotto e senza polso, facevamo girare sottobanco cartoline di donnine nude risalenti all’inizio del secolo e che circolavano nei club privati e nei bordelli di lusso. La più ammirata, e consumata, era la foto di una ragazza sdraiata a pancia in giù con le tette“a coppa di champagne” e un sedere a mandolino riflesso per meglio ammirarlo su una serie di specchi ad angolature diverse. Se l’euforia superava la barriera del suono della cattedra il professore domandava allarmato: “Che c’è?” Risate soffocate. “Allora?” Allora niente. Succedeva che l’indiziato speciale Pippo Ciavola, che sapeva suonare il pianoforte e che adesso fa l’avvocato a Torino, autore di straordinari concerti ottenuti infilzando pezzi di lametta nel banco e pizzicandoli in sequenze armoniche, veniva sistematicamente invitato a lasciare la classe. Alcune volte lo seguiva Marcello Zammataro, ex primario di medicina interna all’ospedale Garibaldi. Aveva un’abilità straordinaria nel fare la caricatura di questo insegnante che aveva la faccia lunga e spigolosa, come Totò, e che da giovane aveva fatto il marinaio in un sommergibile. Fu la sua disgrazia perché prendemmo a sfotterlo senza pietà. Marcello lo ritraeva spesso in divisa di marinaretto mentre scrutava al periscopio la classe. Straordinario davvero. I foglietti giravano e nella foga qualcuno finiva nelle mani del sempre più frastornato docente. Un 92 giorno, esasperato, lasciò la cattedra e corse a protestare dal direttore, Orazio Testa, che diceva sempre, all’indirizzo degli alunni indisciplinati: “Scusi, ma lei paga le tasse per essere scemo?” Veniva una volta al mese a leggere le pagelle. Si piazzava al centro della classe, dava un colpo secco con le mani, invitandoci a lasciare i banchi e a metterci su due file, e liberava il suo sadismo e la nostra apprensione. Arrivato a Giuseppe Maiorana, della stirpe culturalmente nobile dei Maiorana, faceva sempre lo stesso commento: “Il ceppo si va tarlando!” Anni dopo ripescai dalla spirale di nebbia di Prisco lo stesso concetto riformulato in interrogativo: “È sempre l’ultimo della classe?”. Nonno Sangermano, il Maiorana del racconto letterario, non sapeva darsi pace che il nipote Fabrizio restasse ai margini della famiglia che era ricca, potente, rispettata. Alla battuta del direttore Testa, che era piccolo e rotondo ma che allora ci pareva immenso, Nuccio Sorbello, futuro procuratore della Repubblica ad Asti, scoppiava in una incontenibile risata. “Sorbello, si accomodi fuori, per favore”. Le risate continuavano nel corridoio. Nuccio, che per molti anni ha ostentato una bella barba bionda alla Abramo Lincoln, quand’era giudice istruttore a Torino provocò notti insonni al PCI e alla Fiat per un presunto affare di appalti e tangenti. In altre parole, dichiarò guerra, senza battere ciglio, al più grande partito comunista d’Occidente e alla più grande fabbrica automobilistica del Paese. Non poteva assolutamente vincere. Tornando a Marcello Zammataro tanta sapienza e abilità di caricaturista, unita a una passione direi fanciullesca per la cucina, non potevano non approdare alla scrittura, a un libro inusuale, ricco e sapiente, un libro meticcio nel quale confluiscono tante cose: dai ricordi dell’infanzia, alle amicizie, ai cibi, alle riflessioni sull’esistenza. Un libro che è un percorso “nel sapore della Sicilia”, un libro di pensieri gastronomici direi, ma anche un viaggio nel tempo, nella storia e nei suoi personaggi, fino alle rovine della 93 città perduta di Casmene, la colonia greca che sorgeva nelle campagne di Buscemi. Perché non potendo immaginare il futuro ogni cosa torna al passato, al mito, alla madre Terra che diventa Cibele, Demetra, ma anche la Madonna e persino Sant’Agata grande ispiratrice di devozione e di dolci. Forse non a caso l’abitazione di Marcello, situata nel magnifico centro storico cittadino, riflette la personalità dell’autore e in qualche modo di questo libro. Una casa antica e moderna, una casa di oggetti e di memorie, di scale e incastri, di finestre e terrazzini affacciati sui tetti e sulle cupole d’una città quasi perduta e di cui puoi immaginarne la bellezza solamente da lontano. E poiché libri, racconti, e immagini finiscono sempre nella gloria d’una tavola imbandita ecco che la dimora di Marcello, in bilico tra la potenza e l’atto, si apre come le pagine di questo bel volume edito da Bonanno. Formaggi e miele, lardo di Colonnata, salame di Brolo, olive conzate, pasta con le sarde, falsomagro (come lo preparava mia madre), insalate, vini bianchi e rossi. Insomma, una pagina del “Ritorno a Casmene” illustrata ai commensali. L’amaro del Capo o la grappa prime uve puoi gustarli tornando a ammirare la casa, i quadri, gli scaffali, la libreria. Ed è qui che accade un miracolo di suggestione. Ecco che la libreria si trasforma in quella dei golosi di Grimond de la Reynière: accanto ai libri trovi prosciutti, liquori, formaggi, frutta sotto spirito, salumi, paté. E se per sbaglio afferri un libro di filosofia non trovi più il mito della caverna ma il mito di un Platone ghiotto di fichi secchi e olive, di un Aristotele feticista di pentole e di un Pitagora rigorosamente vegetariano che odiava la triglia e il cuore degli animali. Il nostro margine di dissenso, di noi studenti acerbi, praticamente non esisteva. I professori comminavano punizioni anche a cuor leggero senza che nessuno di noi osasse protestare o portare la protesta oltre le mura della scuola. E se anche lo avessimo fatto i nostri genitori avrebbero parteggiato, per principio, chi più chi meno, 94 con gli insegnanti. Erano tosti gli insegnanti di allora, tosti e maneschi, tosti e talvolta stupidi. Resta saldo nella memoria di Saretto Spampinato, amico caro dell’ultimo tempo, un episodio legato alla sua infanzia. Il primo giorno d’asilo, la maestra volle sapere i nomi dei suoi genitori. Il bambino rispose prontamente e timidamente: “Spampinato.” “E la mamma?” “Spampinato” precisò. “Non può essere!” Il bambino, allora, umiliato perché non era stato creduto, si mise a piangere. “Spampinato” ripeté inghiottendo le lacrime. Il giorno dopo i genitori, che portavano lo stesso cognome, vennero a scuola e chiarirono quello che era già chiaro, ma non nella piccola testa dell’insegnante. Abisso culturale e pedagogico con l’oggi, comunque. È finita sulle prime pagine dei giornali la vicenda della maestra che ha imposto a un alunno di scrivere sul quaderno cento volte la frase “Sono un deficiente” perché il bulletto aveva deriso un compagno definendolo gay. Apriti cielo. I genitori del ragazzo hanno denunciato l’insegnante che ha rischiato un processo per abuso di potere. Questo accade nelle scuole italiane odierne dove i ragazzi usano spesso il telefonino durante le lezioni e se i professori si permettono di riprenderli o di sequestrare i cellulari si vedono immediatamente denunciati dai genitori. Mi sono sentito meno solo quando uno scrittore tollerante e impegnato come Claudio Magris ha auspicato la punizione degli studenti maleducati e riottosi come imprescindibile metodo educativo. “L’autentica educazione”, ha detto, “quella che influisce su di noi, ha qualcosa in comune con la poesia, perché ci fa sentire il bene e il male e, rispettivamente, la dignità o la penosa balordaggine del nostro comportamento”. “You must remember this/ a kiss is just a kiss/ a sigh is just a sigh/ the fundamental things apply/ as time goes by”. Anno 1941. A Casablanca, mentre il tempo passa, mentre l’Europa è sconvolta e distrutta dalla guerra, Rick Blaine, un americano dal passato misterioso, 95 gestisce un locale che è il punto d’incontro di agenti francesi e tedeschi, di avventurieri, affaristi, fuggiaschi, molti dei quali sperano di entrare in possesso delle carte di transito per raggiungere l’America via Lisbona. Una sera, nel locale, entra un dirigente del fronte clandestino antinazista, Laszlo, con la moglie Ilsa: anche loro vogliono lasciare l’Europa per continuare la lotta dagli Stati Uniti e sperano di trovare i documenti necessari. Ilsa è una vecchia fiamma di Rick: i due si erano conosciuti a Parigi e poi persi di vista per l’incalzare degli avvenimenti bellici. Si riaccende l’amore e dopo alterne vicende Rick capisce che il posto di Ilsa è accanto al marito. “Suona la nostra canzone, Sam”, dice Ilsa al pianista che è stato testimone del suo grande amore per Rick. Sam, che ha l’ordine di non suonarla, resiste, dice di non ricordarla. E lei gliene accenna il motivo… “laranlaran-laran…” Il primo piano di Ingrid Bergman, che ascolta Mentre il tempo passa, il suo sorriso, la sua malinconica dolcezza sono rimasti nel cuore di milioni di spettatori che della diva, per vero, hanno molto altro da ricordare, come la battuta al bacio Perugina in Io ti salverò: “Non potrei amarlo tanto, se fosse malvagio”. L’intuito femminile qui diventa più forte della scienza psichiatrica ma lei, con quel viso e quel fascino, rende credibile l’incredibile e letteratura il fotoromanzo. Alcuni anni fa realizzai per Telecolor-Video3 uno speciale su via Etnea, il centro mondano e culturale di Catania, sul quale s’affacciano i palazzetti del potere, l’università, magnifiche chiese, negozi, caffè, il cinema Lo Po trasformato in multisala e un tempo, assieme all’Odeon, uno dei locali d’eccellenza cittadini. Di questa “strada diritta”, come la chiamano i catanesi, ne raccontai la storia, tra passato e presente, parlando dei personaggi, degli uomini illustri, delle macchiette che la popolavano, parlando di Pippo Pernacchia, per esempio, che, alla maniera di Eduardo De Filippo ne L’oro di Napoli, ridimensionava, a pagamento, l’alterigia dei malcapitati col suo inimitabile sberleffo sonoro. E 96 parlando del cinema di un tempo non potevo dimenticare Casablanca di cui utilizzai la scena del caffè appena descritta, con una piccola manipolazione. Mentre Sam suona il famoso motivo, Rick piomba sul pianista per rimproverarlo per il patto non rispettato ma Sam gli indica con un leggero movimento della testa la donna che gli sta dietro. Sul volto di Rick passano lo smarrimento, la commozione, la felicità, il tempo perduto e in un lampo ritrovato. A quel punto bloccai la sequenza e in sottofondo feci scorrere le note della canzone Tu che mi fai piangere, interpretata da Vittorio De Sica… “Tu che mi fai piangere/ tu che mi fai fremere/ tu col tuo perfido amor/ hai lacerato il mio cuor/ eppur sei tu, soltanto tu/ ch’io bramo”. Il fermo immagine, accoppiato alla bellissima canzone scritta nel ’37 da Mascheroni e Marf, esaltò la tempesta di sentimenti che in quel momento agitavano il cuore di Rick. Come e più del viso della Garbo, quello di Ingrid era una sintesi perfetta della bellezza. Il mistero della donna qui non acquista suggestioni ambigue, come in altre sequenze di altre pur famose e bellissime dive, ma diventa puro spirito, “primo piano” per eccellenza, secondo il leggendario dettame di Griffith. Mai avrei potuto immaginarla come le donnine ritratte nelle foto osé che ci passavamo sottobanco e che avevano deliziato i soldati al fronte. Gioco, questo, o mania di tutti i ragazzi della mia generazione che hanno avuto l’età non appena hanno abolito le case chiuse, che poi erano aperte. Ci furono battaglie e ipocrisie sulla legge Merlin, approvata nel febbraio del 1958, che nella sua intima sostanza era volta non tanto a punire il Vizio, come auspicavano i settori conservatori della società, quanto a liberare le prostitute dal loro stato di schiavitù. Alla Mostra di Venezia, l’anno in cui fu presentato il film di Antonio Pietrangeli, Adua e le compagne, storia di ex prostitute che cercano di riabilitarsi aprendo un ristorante, la senatrice Lina Merlin dichiarò che il suo 97 scopo non era stato la moralizzazione dell’antico mestiere ma di far cessare l’assurdità di uno Stato che esercitava ufficialmente lo sfruttamento della prostituzione. Quelli erano gli anni in cui Indro Montanelli, in un pamphlet intitolato Addio Wanda!, scriveva che in Italia un colpo di piccone alle case chiuse avrebbe fatto crollare l’intero edificio basato su tre fondamentali puntelli: la Fede cattolica, la Patria, la Famiglia… “perché è nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovano la più sicura garanzia”. Nel romanzo Il Gattopardo il principe Salina frequenta i casini palermitani per sfogare la propria esuberanza maschile (perché certe cose con le mogli non si fanno!), per mettersi al riparo d’ogni tentazione divorzista e continuare a obbedire con serena coscienza alle ferree leggi di Santa Romana Chiesa e dello Stato monarchico. Il mondo dei casini era un mondo misterioso per noi ragazzi senza età specifica, circoscritto in un quartiere malfamato, fatto di viuzze umide e buie, “una vera selva di costruzioni bizzarre e piena di nascondigli dove il male poteva nascondersi facilmente e vegetare tranquillo in barba a tutte le leggi e i poliziotti”, secondo il giudizio della piccola e acuta Goliarda Sapienza. Insomma, era un mondo frequentato soprattutto da uomini e marinai senza volto: non ne avevano perché evitavamo di guardarli per l’irrazionale paura di essere trascinati nei loro peccati. Un mondo violento, sporco, marcio; questo era ciò che credevamo e incomprensibile era il solo pensare che una persona normale potesse entrare in quelle spelonche dell’abiezione abitate da “fimmini tinti”, cattive, come le definivano le donne oneste, le donne di calza e chiesa. Negli anni adulti, negli anni del disincanto, e nel risvolto della conoscenza specifica del fenomeno, giudicai quel mondo né bello né brutto, solo necessario. E posi maggiore attenzione alle storie che circolavano sulle “lucciole vagabonde” e che m’erano sembrate inventate, come quella sul timido signore, sfortunato con le donne, che un giorno s’innamorò perdutamente d’una bellissima prostituta, se 98 la sposò, le diede un nome rispettabile e se la portò in giro per via Etnea a fare la “dannazza” a tutte quelle che lo avevano disprezzato. E quelle a girarsi e a commentare, a dire che lui non era poi tanto male, che forse possedeva doti nascoste e soldi da palate, che magari era intelligente, anche se a loro non era parso, e che insomma erano state un poco avventate ad archiviarlo a quella maniera. In definitiva, fu il trionfo del sembrare, del rimorso pirandelliano, della certezza incerta. La più famosa delle prostitute, allora, era Anna Accupo. Il cognome era un soprannome: Accupo da accupare, in italiano, soffocare. Si chiamava così perché le sue doti amatorie erano talmente seducenti da “soffocare” il cliente. Ed è probabile che questi, nell’atto supremo dell’amplesso, esclamasse: “Anna, accupo!” Di piacere, ovviamente. Poi c’era Maria la Pazza, pazza sul serio si diceva. Era solita vestirsi da marinaretto per stimolare la libido dei clienti che s’illudevano di fare all’amore con una ragazzina. E dunque tanto pazza non doveva essere. Per non dire di un travestito che faceva girare la testa a viziosi e no, come nel film La moglie del soldato di Neil Jordan. Per la somiglianza con Rita Hayworth era soprannominato Gilda. Talvolta, verso le due o le tre del mattino, s’affacciava al bar dei fratelli D’Agata, a Ognina, frequentato dal popolo della notte e da giornalisti che vi andavano a prendere l’aperitivo dopo la chiusura del giornale. Della comitiva dei redattori senza pinzeri di casa facevano parte Renzo Di Stefano, Nino Milazzo, Tony Zermo, Ciccio Siclari, Giancarlo Bonaccorsi ed io, non ancora sposato. All’alzata dei bicchieri si brindava puntualmente “alla morte di Gigi”, che era il collega Luigi Prestinenza. Il primo ad alzare il calice e dare l’avvio alla sbentata, più affettuosa che cattiva, era Di Stefano, da poco nominato caporedattore al termine di una battaglia con due accaniti concorrenti: Turi Nicolosi, capocronista, e Gigi Prestinenza, caposervizio della redazione sportiva. Ma se Nicolosi vantava buoni 99 titoli professionali lo stesso non poteva dirsi di Prestinenza, ottimo professionista senza però grandi capacità organizzative e di lavoro. Il suo merito maggiore era quello d’essere nipote dell’ex direttore de La Sicilia Antonio Prestinenza. Da qui l’irritazione. Ma a ogni brindisi, al quale si associava uno dei titolari, il giovane Roberto D’Agata, erano anni che gli crescevano. Il povero Renzo morirà ancora giovane, appena qualche anno prima della figlia Marina, cara, intelligente, sfortunata ragazza. Dicevo di Gilda. Pareva una donna tale e quale: alta, slanciata, viso di porcellana. Un miracolo vivente. La trasgressione (di puro intelletto) era d’obbligo. Candidato a otto premi Oscar, Casablanca ne vinse tre: film, regia, sceneggiatura. Humphrey Bogart dovette soccombere a Paul Lukas (Quando il giorno verrà) e Ingrid Bergman, che concorreva non per Casablanca ma per il film Per chi suona la campana, dovette cedere il passo a Jennifer Jones, magnifica interprete in verità del personaggio Bernadette dell’omonimo film di Henry King. Verso la fine degli anni Novanta ricevetti dall’agente di Isabella Rossellini una telefonata di ringraziamento per un servizio andato in onda nell’edizione delle venti del TG1. La figlia della Bergman aveva partecipato due giorni prima a una manifestazione a Napoli, accanto a Lucio Dalla e alla sua band, e si era messa pure a ballare durante l’esecuzione di Attenti al lupo. Era vestita di nero e portava i capelli molto corti, come la madre nel film Per chi suona la campana in cui interpretava il ruolo della partigiana spagnola Maria che s’innamora di Gary Cooper. Impressionato dalla somiglianza tra madre e figlia mi procurai le sequenze dei primi piani della Bergman nel film di Sam Wood e le misi a confronto con quelle della Rossellini. Davvero un miracolo. Sembrava che la madre si fosse incarnata nella figlia e viceversa. La telefonata mi fece piacere perché ero riuscito a trasmettere ciò che volevo dire, ciò che il mio cuore voleva esprimere. Era un dono alla 100 Rossellini ma era soprattutto un dono alla Bergman. “And when two lovers woo/ they still say, ‘I love you’./ On that you can rely/ no matter what the future brings/ as time goes by”. Sam l’ha suonata e cantata per Ilsa ma adesso non vuole farlo per Rick che se ne sta appoggiato coi gomiti sul tavolo, mezzo ubriaco, nell’appartamento sopra al Rich’s café américain. “Suonala ancora Sam!” Dieci anni prima l’aveva interpretata Rudy Vallée, sassofonista, attore, primo crooner nella storia della canzone americana, zuccheroso e intollerabile per Bob Dylan. “A questa storia”, dice Rick “manca ancora il finale”. Ma quali sarebbero state le possibili conclusioni della storia? Michael Curtiz e il suo sceneggiatore Julius Epstein ebbero a disposizione quattro possibili finali. Primo finale. Ilsa torna da Rick, suo grande amore, e lascia il marito Victor. Ma fu abbandonato perché la censura non avrebbe permesso che una donna sposata lasciasse il marito, per giunta eroe della Resistenza, per correre tra le braccia dell’amante. Secondo finale. Rick viene ucciso all’aeroporto dal comandante tedesco nel tentativo di aiutare Ilsa e Victor a fuggire. Anche questo fu bocciato. Non piaceva a Bogart. Terzo finale. È Victor a morire dando così modo a Ilsa e a Rick di tornare insieme. Venne tenuto in caldo sino alla fine. La scelta però cadde sulla quarta opzione, la più difficile da digerire ma la più saggia e la più romantica. Rick aiuta Ilsa e Victor a prendere l'aereo per Lisbona e resta con il capitano Renault. Oltretutto la conclusione permise a Epstein e al produttore Hal Wallis di piazzare le due battute più belle del film: “Fermate i soliti sospetti” e “Louis, forse noi oggi inauguriamo una bella amicizia”. Film magnifico, anche se non privo d’incongruenze. Nel flashback ambientato alla stazione di Parigi Rick viene sorpreso dal maltempo mentre legge il biglietto di Ilsa, che scolorisce sotto la pioggia. Ma appena sale sul treno, l’impermeabile che indossa s’è miracolosamente asciugato. Differenze anche tra l’originale e la versione italiana. All’arrivo del maggiore Strasser all’aeroporto 101 di Casablanca un certo capitano Tonelli si presenta all’ufficiale tedesco e gli dice: “L’esercito italiano è ai suoi ordini!” Quello neppure gli bada. La scena, ovviamente, manca nella versione italiana. Per esigenze di budget l’aereo che appare nell’ultima sequenza è una sagoma in formato ridotto. Per farlo apparire più grande gli addetti al rifornimento furono interpretati da nani. Girato nel caos più totale, come ha scritto un critico, il successo di Casablanca è dovuto all’equilibrio dei suoi elementi, un po’ presi a casaccio tra gli stereotipi tipici del genere, ma che danno al film un fascino misterioso e intramontabile. Ha scritto Umberto Eco: “Quando tutti gli archetipi irrompono senza decenza si raggiungono profondità omeriche. Due cliché fanno ridere. Cento commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra di loro e celebrano una festa di ritrovamento”. L’anno in cui Ingrid Bergman s’innamorò di Roberto Rossellini e si stabilì in Italia il pubblico americano non le perdonò la scelta che assomigliava a una fuga e nemmeno il pubblico italiano la perdonò. In realtà, doveva essere orgoglioso che la diva più amata del momento si fosse sposata con un italiano, e invece no. Il nostro pubblico fu contrario per senso estetico. Lei era un mito, bellissima e inarrivabile, lui aveva la pancetta ed era piuttosto insignificante come uomo: la figlia Isabella quand’era piccola credeva che fosse incinto. “Non avevo mai visto una donna così bella”, confessò Federico Fellini. “Per noi italiani era come se la Vergine Maria fosse discesa dal cielo, direttamente da Disneyland.” Per lei, Rossellini, si beccò la sfuriata di Anna Magnani. La sanguigna attrice italiana, avendo capito di essere stata scaricata per quella dea di celluloide, che per la verità aveva un cervello e un alto sentire, scaricò a sua volta sulla testa del regista un fumante piatto di spaghetti. Siracusa, 1967. Il regista di Roma città aperta era venuto per la premiazione dei vincitori del festival del film industriale al quale partecipavo come giurato. Si 102 trattava di una rassegna di documentari piuttosto noiosi che l’inviato de Il Resto del Carlino Sandro Delli Ponti definì, tra un bicchiere e l’altro, “cazzate furibonde”. Tra gli autori in competizione c’era Dore Modesti, marito di Gabriella Farinon e padre di Barbara con la quale avrei lavorato al TG1. Rossellini era un uomo gentile e delicato, parlava poco e sapeva ascoltare… persino me che ero poco più di un ragazzo e che in quella occasione s’era lanciato in un’appassionata esibizione di “muscoli” cinematografici. Parlare dei miei sogni a un geniale costruttore di sogni fu il massimo dei privilegi. Per fare bella figura mostrai di conoscere tutti i suoi film, compresi quelli che non aveva girato. Danny Selznick, figlio del grande produttore, descrisse Rossellini come una persona fortemente carismatica. “Possedeva un’energia primordiale”, precisò. “Quando entrava in una stanza c’era come un’esplosione di testosterone. Mio padre era una persona del genere ed era famoso per questo. Ma nulla di confrontabile con Roberto Rossellini.” Eppure, quella volta mi sembrò perdersi nella sua stessa grandezza, nei suoi anni ormai crepuscolari. Aveva 61 anni, neppure vecchio in realtà, ma una vita intensa alle spalle, il matrimonio con Ingrid finito, i suoi grandi film nelle cineteche, lui stesso in cineteca. Gli sarebbe rimasto il fiato per grandiose – noiose? – produzioni televisive. In Italia Ingrid Bergman girò alcune pellicole sbagliate e alla fine, dopo anni di matrimonio più o meno felice, più o meno rassegnato, se ne tornò negli Stati Uniti. Ma ormai la giovinezza era passata e il marito s’era risposato con una ragazza indiana, Sonali Das Gupta. Al confronto, una racchia di proporzioni cosmiche. E fummo in molti, allora, a odiare l’intrusa e, soprattutto, a odiare lui che aveva gettato una perla per raccogliere una ghianda. Eppure, gli incalliti sostenitori del regista si esercitarono a trovare il pelo nell’uovo, cominciando col dire, per esempio, che i piedi della Bergman non erano proprio di misura gentile. Il già 103 citato Márquez ci sovviene a darci il suo spirito per potere controbattere: “È vero che lei, come la sua compatriota e collega Greta Garbo, non potrà infilare il delicato piede in una scarpetta di numero inferiore al quarantuno – debitamente misurato – ma tale circostanza, in fin dei conti, porta solo a concludere che le attrici svedesi sono in grado di conoscere, meglio di chiunque altro, le condizioni del terreno su cui camminano”. Salvatore Ferragamo, che a Hollywood fece fortuna fabbricando per attori e comparse stivali da cowboy e sandali romani, ha consegnato alla storia della sua azienda una versione leggermente diversa. La misura esatta della Garbo era il 39 e mezzo, pianta stretta. Fu nel 1927 che la diva mise per la prima volta i suoi piedi nelle mani del giovane avellinese che diventerà il suo scarparo di fiducia, così come di molti altri attori e attrici del cinema. 104 QUATTRO Jennifer Jones, Maria Montez La terra di Ingrid, la terra di Greta. Era nei sogni della mia generazione perché era la terra del sesso facile, delle ragazze bionde belle e disinibite con le quali, se avevi fortuna e faccia tosta, potevi costruire una breve storia d’amore per poi tornartene nelle tue lande desolate a ricordarla tante di quelle volte fino a farla diventare magnifica e improbabile. Peccato, allora, non avere i soldi per soddisfare quelle radiose aspirazioni che in Sicilia potevi coltivare nel chiuso della tua immaginazione perché se volevi fare sesso con una ragazza dovevi sposarla. Quanti matrimoni falliti, pur restando ancorati alla forma, in quel tempo casto e ipocrita! Alla fine di febbraio del 1995 Stoccolma mi si presentò ormai fredda e lontana – la giovinezza è un raggio verde che brilla e rapido scompare – ma moralmente e culturalmente vicina. Il governo svedese aveva accettato, unico Paese europeo, di ospitare, e proteggere, la scrittrice e poetessa Taslima Nasreen che i fondamentalisti islamici del suo Paese, il Bangladesh, avevano condannato a morte in quanto nemica dell’Islam. Che cosa aveva fatto Taslima di tanto grave da meritare un castigo così spaventoso? Semplicemente aveva scritto un libro, Lajja, in Italia pubblicato dalla Mondadori col titolo Vergogna, col quale denunciava ogni integralismo, fanatismo e settarismo religioso. Andai a intervistarla per il TG1, assieme a alcuni colleghi di giornali e settimanali. Il porto di Stoccolma era in parte gelato e un vento polare consentiva appena rapidi spostamenti a piedi. Accompagnata dal padre e da agenti in borghese, lei arrivò in tutta segretezza nell’albergo dov’eravamo alloggiati. Era una giovane donna bruna, come tante nostre siciliane, d’una bellezza discreta. Indossava il tradizionale costume del suo Paese 105 e rispose alle nostre domande con pacata fermezza e semplicità. Nell’introduzione al libro aveva scritto: “Lajja è stato pubblicato in Banglaesh nel febbraio del 1993; ha venduto 60.000 copie e, dopo cinque mesi, è stato vietato dal governo perché accusato di fomentare la sommossa. Nel settembre dello stesso anno un’organizzazione fondamentalista ha pronunciato contro di me una fatwa e ha messo una taglia sulla mia testa. Nelle strade di Dacca si sono svolte marce in cui veniva invocata la mia morte. Ma niente può scuotere la mia determinazione a continuare la lotta contro la persecuzione religiosa, il genocidio, il settarismo comunitario”. Alla mia domanda se, nonostante tutto, amasse ancora il suo Paese rispose: “Il Banglaesh è la mia patria. Tutti noi abbiamo pagato la conquista dell’indipendenza dal Pakistan con tre milioni di morti. Tradiremmo il loro sacrificio se accettassimo di farci dominare dall’estremismo religioso”. Poi ci fu il rituale delle foto e delle dediche sui libri. Sulla mia copia scrisse: “With respect and best wishes”. Da parte di una che rischiava la vita, quel “respect”, espresso a uno che al massimo aveva patito qualche raffreddore e scritto nulla di importante, mi fece capire la sua profonda semplicità e grandezza d’animo. Da alcuni anni vive in India. Qualche anno fa un gruppo musulmano indiano ha posto una taglia di mezzo milione di rupie per la sua decapitazione. Da piccoli, io e mia sorella, facevamo un gioco: percorrere al buio il corridoio di casa, entrare nella stanza in fondo, che era il salotto-studio, e, sempre al buio, restarci fino a che il coraggio veniva spazzato via dall’angoscia. Vinceva chi resisteva di più. Era un modo per sconfiggere la nictofobia che c’è in ogni bambino. Raccontando la sua vita, nel bel romanzo La terrazza proibita, la studiosa e scrittrice marocchina Fatema Mernissi confessa che da bambina era solita nascondersi nella giara delle olive per allenarsi, in quella oscurità, a 106 vincere le grandi paure del futuro. Forse anche il nostro gioco era un allenamento, inconsapevole certo, per diventare adulti e non una bravata fine a se stessa. In verità, come sostengono psicologi e pedagoghi, la ricerca della paura è un modo per superarla. Cappuccetto Rosso che vaga nel bosco era per noi bambini una fonte inesauribile di scanto (spavento) che tuttavia morbosamente ci attirava e, grazie al lieto fine, ci fortificava. In realtà, quel restare al buio era lo stesso che starsene chiusi nella giara, immaginare mostri che ti afferrano per i piedi e poi liberarsi della paura guardando la goccia di cielo che ti sta sopra la testa. L’abitudine, Fatema, l’aveva presa ascoltando la storia di una vecchia domestica che da piccola era stata rapita da un mercante di schiavi che l’aveva calata in un pozzo buio e profondo e lei era riuscita a sopravvivere pensando a come uscirne. Solo allora “il fondo, il buco nero”, diceva “diventa un trampolino da cui si può saltare così in alto da battere la testa contro una nuvola”. La mia tecnica era diversa ma il principio era lo stesso. Attraversavo di corsa il corridoio, entravo nel salottostudio, chiudevo gli occhi, immaginavo che la stanza fosse illuminata a giorno, contavo fino a che il cuore mi reggeva e scappavo via. Negli anni Cinquanta si risparmiava su tutto: sulla luce, che occorreva spegnere quando si passava da una stanza all’altra; sull’acqua, che si faceva scorrere dal rubinetto a filo; sulla carta da regalo, che veniva stirata e utilizzata per usi collaterali; sulle calze di seta, che erano mandate alle sarcitrici per il rammendo; sulle pentole, che se erano bucate si portavano dallo stagnino o si tappavano provvisoriamente col sapone; sul dentifricio, che non bisognava spalmare per intero sullo spazzolino; e su tante cose che componevano la vita misurata, difficile, della gente. Non era come ora che i ragazzi lasciano tutto acceso e i rubinetti aperti come se lo spreco servisse all’igiene. Così il buio, segno del bisogno, diventava un compagno silenzioso e inquietante e l’acqua un prezioso liquido al pari del 107 petrolio che si utilizzava per tante cose: per i lumi, per pulire i pavimenti, persino per rinforzare e rendere lucidi i capelli. L’acqua è come l’argento, dicevano gli anziani, e il sapone come l’oro. Oggi la parsimonia si pratica per avarizia, per malattia; come fa la regina Elisabetta, che ricicla la carta dei pacchi-regalo, o come Sean Connery e Bruce Willis che non danno mai la mancia ai camerieri. Il gioco lo sospendemmo di buon grado dopo aver visto, sempre nell’affumicato cinema dei ferrovieri, Il ritratto di Jennie di William Dieterle, con Jennifer Jones e Joseph Cotten. Un film girato nel 1948 e che ho rivisto solo di recente, in dvd, e quindi con la possibilità di bloccare i fotogrammi, trascrivere le frasi e, soprattutto, i versi di Keats, posti in sovrimpressione dopo i titoli di testa: “La bellezza è verità, la verità bellezza, questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere”. Grande invenzione l’elettronica! Permette di fermare il tempo e ingrandire l’intelligenza, espanderla fino a individuare il frammento, il cuneo delle immagini e delle parole che ti servono. All’inizio del film il regista si affida a una frase per rendere credibile una storia che non sta in piedi ma che ti vortica nel cervello come una sega circolare, come mi vorticò allora, mezzo secolo fa, nel momento in cui vidi la protagonista trasformarsi da ragazza in signorina in poco tempo per poi tornarsene improvvisamente nel regno dell’indistinto: “La scienza insegna che nulla muore ma solo si trasforma, che il tempo stesso non trascorre ma s’incurva attorno a noi e passato e futuro ci sono accanto, assieme, per sempre, oltre i limiti estremi di ogni conoscenza…” Insomma, c’era di che confondere la mente di un ragazzo che a fatica cerca di raggiungere le proprie sicurezze cartesiane. Il film racconta la storia di un pittore squattrinato, Eben Aams, ossessionato dalla figura di una ragazza, Jennie, incontrata in una brumosa serata d’inverno al 108 Central Park, a New York. L’uomo non riesce a dimenticarla. Quella sera stessa ne ha fatto uno schizzo che poi è costretto a vendere per 12 dollari a una galleria d’arte. Finalmente, dopo qualche tempo, la rivede e le esprime tutto il suo turbamento. Anche Jennie non si mostra insensibile. Cominciano a frequentarsi, sia pure a scappa e fuggi, e lui le fa un ritratto-capolavoro. Ma a quel punto, misteriosamente, Jennie non si fa più viva. Eben prova a cercarla. Ripercorre più volte, invano, i passi del delirio amoroso, i luoghi, le memorie… finché una vecchia suora (interpretata dalla grande diva del cinema muto Lillian Gish), che ancora dirige il collegio frequentato molti anni prima da Jennie, le rivela che la ragazza è morta durante una gita in barca al faro di Punta Scura. Brivido lungo la schiena del protagonista e degli spettatori. Chi era allora la ragazza del ritratto, la dolce fanciulla di cui il pittore si è innamorato? Confuso e smarrito, il pittore corre al faro maledetto, convinto di trovarla e di salvarla. E, infatti, mentre infuria la tempesta, egli la rivede. Si abbracciano. Lui non vuole più lasciarla, ma lei non può, non può tornare a vivere in una dimensione che non è più la sua, e così scompare tra le onde, come quella volta. Anche Eben, nel tentativo estremo di salvarla, di fermare il tempo e ricondurlo alla propria dimensione, rischia di annegare. Lo salvano alcuni pescatori, mentre Jennie si avvia rapidamente verso la profondità dei cieli, laddove ben presto arriverà anche il cuore di lui, in unione perfetta tra ciò che vive e ciò che muore. In un’altra epigrafe del film il regista ricorda l’interrogativo di Euripide: “Chi sa se morire non sia vivere, e se ciò che i mortali chiamano vita non sia morte?” Scrive Morando Morandini nel suo dizionario dei film: “Uno dei più squisiti film fantastici nella storia di Hollywood. Un po’ velleitario come riflessione (vita, morte, amore, arte), ma figurativamente suggestivo”. Fu molto amato da Luis Buñuel per la sua magica combinazione di favola e di amour fou e soprattutto per i suoi incantesimi 109 figurativi affidati all’estro di Joseph August che fu a un passo dal vincere l’Oscar. Tornando a casa, quella sera, cercai con la banalità del dettaglio (delle scene, degli attori, delle battute) di superare la paura che mi serrava il cuore. Una morta vivente! Non ci dormii la notte. Me la vedevo camminare per la stanza, toccare i libri, sfogliarne alcuni, sorridermi, e infine sedersi sul bordo del letto. E più mettevo la testa sotto le coperte più lei s’incaponiva a parlarmi, a dirmi che l’amore è senza tempo e che richiede sacrifici, a dirmi che veniva da un posto sconosciuto e che andava dove tutte le cose vanno. Uno spavento serio, come quello che capitò, su altri registri e incubi, a Jean-Paul Sartre. Lo scrittore e filosofo esistenzialista stava preparando un saggio sulla immaginazione, ed era arrivato a un punto morto, quando un amico medico, che doveva avere Stevenson fritto nel cervello, gli consigliò di farsi iniettare della mescalina allo scopo di osservare su se stesso il fenomeno allucinatorio e poterne scrivere a ragion veduta. Per lungo tempo Sartre venne inseguito dalle aragoste. Nel film c’è una storia d’amore parallela, nascosta, certo non precisamente afferrabile da un ragazzo che corre per approssimazioni, incanti e fumetti. Ed è la storia che coinvolge, a margine di quella principale e su tonalità, come dire?, in mi bemolle, il pittore e la sua anziana gallerista (la sempre straordinaria Ethel Barrymore) che ha gli occhi melanconici della protagonista e l’età che Jenny avrebbe avuto se non fosse morta. Dunque, accanto all’impossibile amore tra il pittore e la donna fantasma corre un altro amore, di puro intelletto, tra lo stesso pittore e la gallerista, anche questo impossibile seppure reale, realissimo. Ed è qui che il vero e l’apparente si fondono nel molteplice. Nel 1969 scrissi per la terza pagina del mio giornale alcuni elzeviri. Oggi non si usano più. Erano articoli di argomento letterario stampati con un carattere particolarmente elegante, l’elzeviro appunto, attraverso i 110 quali generazioni di romanzieri hanno imparato a scrivere. Provando e riprovando alla fine uno ci azzecca. Più o meno. In uno degli elzeviri m’inventai una favola, a pensarci bene molto affine a un racconto di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che però a quel tempo non conoscevo e, soprattutto, a Il ritratto di Jennie. Era la storia di un amore tra un ragazzo e una sirena, sbocciato in riva al mare della Plaia, finché lei scompare per sempre. Anche gli altri racconti correvano su questa linea ambigua, tra la vita e lo schermo. Molti dei film interpretati da Jennifer Jones sono capolavori, a cominciare da Duello al sole di King Vidor, stesso anno de Il ritratto di Jennie (qui l’attrice, nel ruolo di Perla, focosa e appassionata meticcia, è superba per bellezza e bravura), e continuare con Gli occhi che non sorrisero di William Wyler, girato nel 1952. Tratto dal romanzo di Theodore Dreiser, Sister Carrie, il film si avvale non solo di una straordinaria Jennifer ma di un Laurence Olivier al massimo delle possibilità espressive. Memorabile la scena del protagonista, ridotto in miseria per amore, che, disperato, mentre è in strada, tra la gente, esclama: “Ho fame!” e uno gli risponde: “Lo dice a me o al cielo?” La sua ex amante, ignara di tutto, è a teatro a raccogliere l’applauso. Solo un grande scrittore come il norvegese Knut Hamsun ha saputo cogliere tanta disperazione. Ma il film capolavoro di Jennifer, per il quale vinse l’Oscar, è Bernadette in cui l’attrice, pur avendo i suoi anni, 24, interpreta con maestria il personaggio di Berndaette Soubirous, la ragazzina che parlava con la Madonna nella grotta di Lourdes. Uno che non crede a niente, meno che meno ai Santi e alla Vergine Maria, dopo aver visto il film non può fare a meno di interrogarsi sul mistero del Creato, sulla fede nell’invisibile, sul mistero stesso della propria commozione. Frutto di sapienza narrativa, certo. Ma non è solo questo. C’è qualcosa di più. È come se il film fosse riuscito a sollevare un velo, un velo che avvolge il divino e lo svela. Perché non è possibile commuoversi, 111 e persino da adulti piangere, con la stessa intensità dopo averlo visto una decina di volte. L’amore è una cosa meravigliosa di Henry King, del 1955, è un quasi polpettone strappalacrime ma a me piacque moltissimo. Per molto tempo, nei momenti malinconici, ne ho canticchiato il motivo: “Sì questo amore è splendido/ come il sole più del sole tutti ci illumina/ è qualcosa di reale che incatena i nostri cuor/ amore meraviglioso amor…” L’autore della strepitosa canzone, Sammy Fain (le parole erano di Paul Francis Webster), vinse l’Oscar. Quante lacrime sul ciglio di quegli anni d’argilla! Mezzo secolo più tardi, a dire che l’età torna sempre su se stessa, le lacrime si sono riaffacciate prepotenti sulle note del concerto in re maggiore n.35 per violino e orchestra di Čajkovskij nel superbo film di Rau Mihaileanu Il concerto, lo stesso regista franco-romeno che mi aveva sorpreso e incantato con Train de vie. Quando la commozione fa bene al cuore e si prende la rivincita sulla durezza della maturità! magari riacciuffando sensazioni e immagini scollegate e in apparenza perdute. Dopo essersi sposata con l’attore Robert Walker, dal quale ha due figli, Jennifer s’innamora perdutamente del produttore David O. Selznick che la lancia nel firmamento internazionale con alcuni dei film ricordati. Un matrimonio felice, tanto felice che alla morte di David, nel 1960, l’attrice tenta il suicidio. Lentamente si riprende e comincia a occuparsi di questioni di salute mentale. Incontra il collezionista d’arte Norton Simon, che sposa nel 1971. Torna a lavorare. Una piccola parte in L’Inferno di cristallo. Ma la tragedia è ancora in agguato. La figlia Mary Jennifer, avuta da Selznick, si ammazza gettandosi da un grattacielo di Los Angeles. Anche il figlio di Simon si uccide. All’attrice non resta che abbandonare tutto. Mette su una fondazione per la cura delle malattie mentali, e sul logo utilizza i nomi della figlia Jennifer, di suo marito Simon e suo. È morta il 17 dicembre del 2009 nella sua casa di Malibu in California. Aveva novant’anni. È stata l’ultima grande 112 attrice del cinema immortale di Hollywood. La follia ha avuto colori meno forti, grigi più che neri, fondali da operetta più che da opera lirica nella Catania della mia infanzia. Mi ricordo di un signore che passeggiava per le vie del centro col fez in testa e diceva a tutti che si era fatto “turco” per non pagare le tasse; oppure di Gioacchino Di Stefano, sovrintendente del Teatro Massimo Bellini, che il direttore di La Sicilia Antonio Prestinenza definì pazzo per avere messo in cartellone La vedova allegra di Franz Lehàr. Parve scandaloso a Prestinenza che l’inventore della “piccola lirica”, che aveva cominciato a dirigere una banda militare nel regno di Francesco Giuseppe, potesse figurare accanto agli artisti della grande lirica, accanto a Vincenzo Bellini e a Giuseppe Verdi. E pazzi furono giudicati tutti coloro che scambiarono per dischi volanti i palloni del servizio meteorologico dell’Aeronautica. Pazzo infine, pazzo vero, Salvatore Scalia (omonimo del mio amico scrittore Turi Scalia) che perse la ragione per amore. Era un bravo studente, ma dopo essere stato rifiutato dalla baronessina Elena Paternò Castello, della quale s’era innamorato, abbandonò lo studio, rifiutò il cibo e diede segni di squilibrio. “Io sono il capitano Morgan!” diceva ai genitori e li accusava di volerlo derubare del suo tesoro. Per vent’anni fu tenuto segregato in una stanzetta. Enzo Asciolla, il giornalista del caso Gallo, lo scoprì che era ridotto pelle e ossa, un morto vivente, pazzo tra genitori più pazzi di lui per averlo trattato come una bestia. L’anno dell’Amore splendido è anche l’anno del mio primo piccolo amore, naturalmente infelice. Lei era incuriosita delle mie parole e di qualche libro che leggevo. A quell’età il sentimento dei ragazzi si nutre di spirito più che di ragione, bada alla voce del cuore non alle strutture della mente, bada alla gentilezza, al saper dire e magari non saper fare; a quell’età… quando si comincia a essere feriti dalla realtà, come canta Dalida in Mamy blue. Al pari della moglie di Benjamin Button, era bella come il peccato. La pensavo anche la notte ma 113 non avevo il coraggio di dichiararmi. La stessa viltà di James Stewart, in La vita è meravigliosa di Frank Capra, che all’amata Donna Reed, anche lei innamorata cotta, parla di lune, tramonti, fiori senza trovare l’audacia minima di fare un passo avanti al punto che un signore, che ha assistito dal terrazzo di casa alla scenetta zucchero e miele, non gli grida indispettito (cito a memoria): “Invece di parlare, baciala, stupido!” La dichiarazione la fece al mio posto un amico, per farmi un favore… “visto che non ti decidi”. Lei ascoltò ed io negai con molto imbarazzo e rossore. Il mio sentimento era talmente grande che mi faceva paura. E lei disse: “Non ti preoccupadre, lo so”. E invece non sapeva niente; anzi, sapeva il contrario, solo che l’apparente diniego in realtà le serviva per agevolare la sua stessa fuga. Eppure, se avessi colto nei suoi occhi la scintilla d’amore che divorava il cuore di Donna Reed forse avrei trovato il coraggio di strapazzarla, un poco, e di stamparle un bacio comme il faut, un bacio alla Cary Grant, il bacio immortale che l’attore dà a Ingrid Bergman in Notorious. Coraggio cinematografico, perché fino a quel tempo le uniche ragazze che avevo baciato erano le dive di Hollywood. Era d’estate. Lido Trinacria. Tempo di amori acerbi à la boum, di ragazzette alla Sophie Marceau avanti lettera, di albe caste e spossanti sugli arenili, di sguardi languidi che ti riempivano la vita, di notti umide e laceranti nelle quali sognavi impossibili amori, come quello tra Eben e Jenny, che diventavano reali nel buio solitario della notte e si spegnevano al canto mattutino delle onde che andavano a frangersi dolcemente sull’arenile. Tempo di musica americana. Modugno si accingeva a raggiungere il suo Nel blu dipinto di blu e le canzoni di Claudio Villa e Achille Togliani ci parevano troppo volgari per metterle a commento dei nostri furori. Ci saremmo vergognati come ladri persino a ascoltare Buongiorno tristezza e La luna si veste d’argento. Tempo di Frank Sinatra e Pat Boone, Paul Anka e 114 Perry Como ma soprattutto degli scatenati Little Richard, Bill Haley, Elvis Presley un passo avanti rispetto ai grandi crooners Rudy Vallée, Tony Bennett, Bing Crosby che avevano furoreggiato tra la fine dei Trenta e l’inizio dei Quaranta, anni in cui s’impose tra le donne la grandissima Billie Holiday (The man I love, Strange fruit, God bless the child), che fu tra le prime cantanti nere a esibirsiassieme a musicisti bianchi. Un paio di gradini più sotto stava Alice Faye (You’ll never know), per altro buona interprete di fortunati musical e che lasciò la carriera cinematografica al culmine del successo. Tempo dei Platters e delle loro bellissime canzoni: You’ll never know, diversamente arrangiata, The great pretender, Unchained melody, Twilight time e la celeberrima e dolcissima Only you… “Only you can make this world seem right…” “Solo tu puoi rendere questo mondo giusto, solo tu puoi rendere l’oscurità brillante, solo tu e solo tu, puoi entusiasmarmi come sai fare, e riempire il mio cuore di amore…” Parole non banali. Ma chi sapeva tradurle, chi capirle? Ci si lasciava sedurre dal loro suono e dal profumo di lavanda della ragazza che ci stava accanto e che portava ancora scarpe basse, calze corte e gonna a campana. Quelle seduzioni sembravano possedere la forza dell’amore di Natalie Wood per Warren Beatty in Splendore nell’erba senza però finali distruttivi perché tutto si ricomponeva in una dimensione casalinga da caffè e latte e bacetti della mamma… “Se niente può far sì, che si rinnovi all’erba il suo splendore, e che riviva il fiore, della sorte funesta non ci dorremo, ma ancor più saldi in petto, godremo di quel che resta…” Sono i versi del poeta inglese William Wordsworth che ispirarono a Elia Kazan il titolo del suo bellissimo film e che vengono recitati da una voce fuori campo mentre Natalie, ancora ardente di feu sacré, si allontana per sempre dal suo adorato Warren. Passione monumentale, che rasenta la follia, in un’opera profetica: l’attrice, vent’anni dopo, morirà al largo dell’isola di Santa 115 Catalina mentre faceva il bagno. Suicidio o malore? La versione più accreditata fu che l’attrice si lasciò andare, come in una drammatica sequenza del film appena ricordato. A poche bracciate da lei c’erano il marito Robert Wagner e Christopher Walken, rimasti a godersi il sole sul panfilo. Non si accorsero di nulla (!). Splendore nell’erba entrò nel circuito delle mie pulsioni profonde e lì rimase per affiorare quarant’anni dopo, senza che me ne rendessi conto, nella trama del mio romanzo Il vulcano spento di cui dirò in seguito. La memoria seppellisce ma non distrugge. La memoria delle piccole e delle grandi cose. Il risveglio si compie per percorsi misteriosi e si definisce all’improvviso, per lo più dopo acuti dolori e bisogno di raggiungere la serenità. E c’era Bruno Martino, il cantante confidenziale che riuscì a crearsi una nicchia italiana in quella lunga estate degli anni Cinquanta. La sua voce calda e nel contempo nervosa fu lo sfondo del nostro sentimento di ragazzi cresciuti senza nutella e nel ricordo del dopoguerra difficile, dei rifugi antiaerei appena diroccati, dei tram che scintillavano lungo le rotaie, della spiaggia sterminata della Plaia, dei lidi balneari, del gioco dei tamburelli nelle faticose arene di sabbia o del Monòpoli le cui finte compravendite di terreni e case ci rendevano aspiranti teppisti da capitalismo garibaldino, per non dire dei baci immaginati o al più soffiati sul palmo della mano. Eravamo felici? Sì, lo eravamo. Felici del nostro orizzonte culturale appena sopra la sufficienza, delle nostre visioni ristrette della vita e del mondo che vedevamo con gli occhi di Douglas Sirk e dei suoi filmconfetto, attraverso la memoria dei nostri padri che magnificavano il tempo andato, il tempo dei film in bianco e nero, di Fred Astaire e Ginger Rogers. Bruno Martino era la promessa e la conferma che la vita sarebbe stata ardua ma senza sorprese, dentro la cerchia degli ideali messi in campo dalla generazione precedente e questa da quella ancora prima, così replicando un tempo e una speranza. Eravamo felici e 116 blindati, sicuri che la nostra esistenza sarebbe stata migliore. Felici e fanciulli anche a vent’anni, anche se il tempo stringeva per altre responsabilità. Bruno Martino era anche il nostro Ottocento, perché la nostra cultura veniva da lì, veniva da Edmondo De Amicis, da Giovanni Pascoli, da Giosuè Carducci. Le nostre letture erano sempre e comunque “ottocentesche”, i sentimenti eroici e sognati erano nelle battaglie per l’indipendenza più che nelle due guerre mondiali che neppure studiavamo e di cui poco sapevamo. Il tempo di Bruno Martino era il tempo delle nostre gelosie, dei nostri rancori, dei piccoli sogni che a noi parevano titanici. Cos’hai trovato in lui “di tanto bello non so...” La cantavamo fino alla smemoratezza. E la chiamano estate “questa estate senza te...” Follie, giovani follie, che il tempo ha conservato delicatamente fino al 1968, l’anno che divise il Novecento dall’Ottocento, che spezzò la carriera di Bruno Martino relegandola nelle balere di periferia, lontano dalle nascenti discoteche, dai rumori sapienti della discomusic. Egli era cantante di night club, di piccole pedane e pochi orchestrali, di atmosfere ovattate, di champagne a basso costo più che di bloody mary e di gin and tonic. Non poteva sopravvivere. Di lui è però rimasta la luminescenza di un ricordo di quegli anni lontani, quasi mezzo secolo fa, gli anni delle promesse e dell’avvenire stampato sulle bandiere, delle lunghe estati trascorse sulla sabbia ad aspettare il sole che nasceva sulla linea dell’orizzonte. Ed era magnifico vederlo questo sole di carta sollevarsi lento e maestoso, vederlo salire con i nostri furori e le nostre speranze, vederlo brillare sulle note di un cantante che amavamo senza saperlo, senza capire cioè che era lui il nostro simbolo, la nostra certezza del passato. L’incognita del futuro e la sua difficoltà l’avremmo riconosciute molto tempo dopo. Quella ragazza azzurra sposò un giocatore di calcio, alto bello e famoso. Non l’ho più veduta da quella stagione incantata. Solo di recente l’ho immaginata illuminarsi nella notte, congelata nei suoi anni giovanili, 117 bella da togliere il fiato a uno come me che ha troppe cose ormai da raccontare. Come nel finale del film di Sergio Leone, C’era una volta in America, mi sono immaginato nei panni di Robert De Niro che incontra dopo molti anni l’ex ragazza, Elizabeth McGovern. Lui è invecchiato, l’aria dissipata di chi ha dormito troppo a lungo sui tavolacci, radi capelli grigi, un cappotto acquistato ai magazzini generali e una tristezza infinita che smargina dagli occhi stanchi. Lei invece è la stessa, fresca e splendente, cinica e dura, come se avesse fatto un patto d’eterna giovinezza con Mefistofele. Naturalmente non era lei, non era la ragazza che mi aveva tolto il sonno e il respiro come può farlo solo il primo amore. Magicamente e misteriosamente ne era una reincarnazione. “La zia abita in un’altra città” disse. Altri amori sarebbero arrivati, teneri e appassionati, avventurosi e fasulli, tutti comunque “cinematografici” per come li alimentavo dentro di me, per come li soffrivo e li facevo crescere, per come m’illudevo che fossero definitivi e non lo erano. Le vecchie fiamme, sentenzia un personaggio di The Family Man, sono come le vecchie dichiarazioni dei redditi: le metti in fila nell’armadio per tre anni e poi te ne liberi; oppure sono come la posta che si accumula sulla scrivania e ti macera il plesso solare soltanto se ti lasci ingannare dalla sua elementare urgenza. Molte, in effetti, le ho dimenticate, altre sono rimaste sullo sfondo, inoffensive, come lettere sigillate, appunto: le apri nelle appassite stagioni e ti accorgi della loro sostanziale inutilità. La memoria mi suggerisce il volto d’una ragazzina, copia spiccicata di Dayle Haddon, che aveva fili bianchi tra i capelli neri e ricci ed era volubile come il vento. Distesi sulla sabbia, separati dagli altri, tra di noi c’erano più sguardi che parole, e qualche nascosta carezza che il più intransigente dei confessori ci avrebbe volentieri perdonato. A fine estate s’allontanò dalla mia piccola vita. Era troppo matura per inamidarsi in quella balbuzie d’amore e troppo giovane per allontanarsene. 118 Eppure bruciò i tempi e divenne adulta anzitempo. Come scrive Stephen Carter nel prologo di Bianco americano vantava “sedici anni anagrafici e cinquanta effettivi”. Ma la sua vita non sarebbe stata per molto tempo felice. Avrebbe lottato con due malattie terribili, una dopo l’altra, senza tuttavia farsene abbattere, cercando con tutte le forze di arginare ciò che di crudele e irrazionale c’è in ogni male che deturpa la Bellezza. Il ricordo coglie il sentimento per una fanciulla con la treccia bionda e gli occhi chiari che amava La canzone di Marinella ed era timida e sognante. Mi salutò un giorno di primavera. Attraversai il marciapiedi di fronte, a passo svelto. Lei stava correndo verso casa. Si fermò un momento, parlammo. Il sole precipitò all’improvviso, oscurato dall’ombra di un altro ragazzo. “Se le cose stanno così…” dissi, e mi avviai a chiudere il sipario, come nella canzone di Sergio Endrigo… “fra noi più niente da dire”. Tutto si rappresentò e si risolse come tra Marcel e Gilberte. Anni dopo il sentimento tornò ad attivarsi per una ragazza fragile e paurosa che avrebbe trovato, anche lei, la sicurezza in un solido matrimonio finito tragicamente per la morte improvvisa di lui. Aveva lo sguardo smarrito di Betty Field ne Il grande Gatsby di Elliott Nugent. Ci lasciammo, con una pena infinita nel cuore, davanti all’università. C’erano troppi pregiudizi da scalare, troppi valori e disvalori da mettere insieme. Le scrissi una lettera appassionata e malinconica, che non ebbi l’audacia di spedirle, nella quale spiegavo la forza del mio risentito amore. Per anni confusi le responsabilità, le diedi tutti gli alibi di questo mondo, gli appigli più inverosimili, ma la verità era d’una semplicità imbarazzante. Il mio sentimento era astratto, confuso e ingenuo per poter competere con la paura. Lei voleva volare sul trapezio ma aveva bisogno della rete di sicurezza per evitare rischi inutili. Altri minori pensieri riguardano altri minori affetti: quello per una ragazza dieci e lode che inseguii per un anno e alla fine conquistai e poi lasciai per una delle “fiamme” appena ricordate; quello per una piccola 119 vamp che si allenava a diventare zoccola, e che forse cercava in me la “redenzione”; quello per una tormentata divoratrice d’uomini segnata da un destino infame: era bella, vanitosa, bugiarda, strafottente. Adesso che non ci penso più ringrazio l’angelo custode per avermi messo in quegli anni acerbi la mano sulla testa e posto al riparo da quelle distruttive esperienze garantendomi alla fine una solida realtà sentimentale. Il sentimento definitivo ha il viso di Leslie Caron, la luce d’argento di Vivien Leigh, l’educazione di Gene Tierney, il carattere di Joan Fontaine, la simpatia di Doris Day, la dolcezza di Jeanne Crain… Talvolta mi ritrovo a pensare all’io narrante in Il Giardino dei Finzi-Contini innamorato perso di Micòl e alle parole del padre di lui: “Ti passerà, e molto più presto di quanto tu non creda… Nella vita, se uno vuol capire, capire sul serio come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare…” Tutti i giovani del mondo muoiono tante volte ma tante volte rinascono. Le antiche fiamme restano comunque sullo sfondo. Restano nella nebbia della memoria, inattive, inespresse. Poi ascolti una canzone legata a quel tempo, senti un profumo dimenticato, guardi una foto ingiallita, nemmeno accuratamente conservata, solo un frammento tra i tanti che compongono il mosaico della tua vita, e i ricordi affiorano dal pozzo del tempo. Ma raramente arrivano con la forza e la bellezza del passato. Qualche tempo fa, ascoltando musica, tracce melodiche degli anni Trenta e Quaranta, come We’ll meet again di Vera Lynn o Summertime di Billie Holiday, nel fiume prodigioso di Internet ho trovato la foto, e mi sono ricordato d’una diva dimenticata, bella più che brava, sensuale, esotica: la straordinaria María Montez che Hollywood soprannominò il “ciclone dei Caraibi”, essendo nata nella repubblica dominicana, 120 secondogenita di dieci figli del viceconsole onorario di Spagna. La foto la ritrae, distesa su cuscini orientali accanto all’atletico Jon Hall, in una scena dell’avventuroso film di Arthur Lubin Alì Babà e i quaranta ladroni. Un film, girato nel 1944, che mi rimase impresso per molti anni e che guidò i fantastici giochi dei ragazzi di strada che utilizzavano il linguaggio, le frasi magiche, l’Apriti Sesamo della vicenda, e imitavano il galoppo dei cavalli dei quaranta ladroni col rumore della bocca e su manici di scopa. Aveva un nome lunghissimo e affascinante: Maria Antonia Africa Gracia Vidal di Sacro Silas. Ma una volta approdata alla Mecca del cinema cambiò in María Montez in onore di Lola Montez, la ballerina che fu l’amante di Ludwig I, capricciosa e insolente, e che una sera, a Monaco, gettò dal balcone della sua villa cioccolata calda e vino ghiacciato sulla folla urlante che ne contestava la deleteria influenza sul sovrano. Maria diede vita a un sogno colorato in un mondo che cadeva a pezzi e moriva di fame: un sogno esotico e conturbante, una vera e propria abbuffata kitsch di harem e veli, di fughe avventurose sui tetti di Baghdad, la metropoli del divertimento non ancora revisionata a capitale d’estremismi religiosi e guerreschi, che Dolores Gray, la star di Broadway, tutta vestita d’oro, con la sua bella voce di contralto inneggiava: “Baghdad, Baghdad, that irresistible town!” La fonte ispiratrice era la favola di Shaharazad, la bella e intelligente protagonista de Le mille e una notte, ovviamente rivisitata e banalizzata dal mercato americano secondo l’epopea western. In realtà, i guerrieri dell’Islam erano cowboy a cavallo e le loro donne pioniere velate che nulla chiedevano se non di fare felici i loro uomini. Vista così l’avventura orientale non poteva non far breccia nelle platee dello stesso Oriente che, seppur non amasse il cinema per la sua connaturata iconoclastia, vide in quel rapporto uomodonna un coranico sigillo. Ma si faceva torto alla grande lezione della favola orientale, la lezione di Shaharazad, 121 la donna che combatte la verità sacra (la sharia) con l’immaginazione. Partendo da questa lezione Fatema Mernissi ha posto un interrogativo inquietante: “Si può ipotizzare che l’attuale violenza contro le donne, nel mondo musulmano, sia dovuta al fatto che si attribuisce loro un cervello funzionante e che in Occidente le cose siano più tranquille perché le donne sono ritenute incapaci di pensare se i loro imam hanno bisogno di ritualizzare questa illusione?” Detta così sembra che le donne occidentali, nella migliore delle ipotesi, siano ipocrite e quelle orientali, nella peggiore delle ipotesi, siano pavide. Il problema non è mettere Shaharazad in testa alla classifica delle eroine occidentali ma di farne un simbolo concreto di riscatto per le donne orientali che ancora portano il burka e si fanno trattare da schiave. María Montez era una diva a tutto tondo, non distingueva la realtà dalla finzione, sul set come nella vita privata dava numeri entusiasmanti. Girava con un codazzo di giornalisti che ne registravano capricci e umori. Con lei ci scappava sempre una notizia o una foto da prima pagina. Se i direttori dei giornali erano a corto di fatti e di idee mandavano i loro cronisti da lei, la famosa piantagrane. “Andate a Beverly Hills”, dicevano “e vedete che cosa sta facendo la Montez”. Non li deluse nemmeno per la notizia estrema. Il 7 settembre 1951, a Parigi, le sorelle Ada e Teresita la trovarono affogata nella vasca da bagno, presumibilmente colpita da un attacco cardiaco. Aveva 39 anni. Anche Lola Montez morì giovane, a 40 anni, dopo una vita giocata sul filo del rasoio, amata e odiata da principi e artisti di mezza Europa. Un nome, un destino. Nella Repubblica dominicana fu indetto il lutto nazionale e cambiato il nome del corso principale con quello di María Montez. Per un decennio rivaleggiò con le colleghe a stelle e strisce, girò film bellissimi e improbabili, si sposò con l’attore francese Jean-Pierre Aumont, ne ebbe una figlia, Tina Aumont, che conobbe un discreto successo in Italia come attrice, e uscì di 122 scena in modo cinematografico perfetto, seppur lontano dal sogno rassicurante che aveva regalato ai suoi ammiratori. 123 CINQUE Katharine Hepburn, Joan Crawford, Bette Davis La mattina di domenica 2 giugno 1946 mio padre e mia madre andarono a sostenere la Repubblica. Mio padre sembrava un lord: pantaloni grigi, giacca beige con righe a grandi intervalli leggermente più scure, scarpe all’inglese con la suola spessa, camicia bianca, cravatta marrone scuro. Il suo sarto si chiamava Billotta e abitava in via De Felice. Mia madre indossava un vestito di georgette blu con fiori di magnolia chiari e scarpe bianche tipo Chanel, aperte in punta. Una perfetta coppia cinematografica che andava a fare il suo dovere dopo secoli di teste coronate e teste d’altro tipo. Mio padre avrebbe dato punti a Vittorio De Sica (stessa “magrezza stellare”, direbbe Daria Bignardi, seppure col volto di James Mason) e mia madre non avrebbe sfigurato di fronte a Lya Franca, la timida protagonista, accanto a Vittorio De Sica, dell’incantevole film di Mario Camerini Gli uomini, che mascalzoni… Dopo il voto erano tornati subito a casa. Non erano perfettamente tranquilli perché mio fratello aveva sei mesi ed io e mia sorella mettevamo insieme appena dieci anni. Per maggiore sicurezza mia madre, prima di uscire, aveva legato con lo spago le maniglie della porta-finestra che dava sul terrazzo. Ma noi eravamo stati buoni e attenti. Mi ricordo ancora la carezza di papà. Mia madre ci aveva aiutato a metterci i vestiti della festa, pettinarci e con mio fratello nella carrozzina eravamo andati tutti e cinque a passeggiare al giardino Bellini dove c’eravamo fatti immortalare con sullo sfondo la vasca, i cigni (che a Catania chiamano papere), l’orologio e la data. Quel ricordo oggi sta appeso nel mio studio e mi parla con tenerezza mentre tento di ordinare la mente imprecisa. La storica giornata si concluse con un film: Scandalo a Filadelfia di George Cukor con Katharine Hepburn, Cary Grant e 124 James Stewart, capolavoro della commedia sofisticata che più tardi avrebbe avuto un remake con Alta società. Noi bambini quel giorno fummo depositati dagli zii. Katharine Hepburn, l’attrice più anticonformista di Hollywood, ha attraversato l’intero Novecento con tutto il fiato, la classe, l’intelligenza delle persone speciali: a volte opponendosi alle dure contraddizioni e violenze dell’epoca a volte incarnandone i vertiginosi progressi. Lei cresceva e l’Europa veniva squassata dalla prima guerra mondiale, lei recitava al college e il fascismo prima e il nazismo dopo violentavano il vecchio continente, lei conquistava i primi Oscar e la seconda guerra mondiale annichiliva il mondo intero, lei diventava un’icona del femminismo americano e il suo Paese si lasciava risucchiare in cento guerre imperiali inutili e dannose, lei raggiungeva lo splendore del mito e il comunismo crollava col muro a Berlino. Nello stesso tempo, mentre lei diventava l’antidiva per eccellenza e la leggenda del cinema internazionale, le società evolute producevano di più, debellavano le malattie e rendevano la vita meno faticosa. Era nata poco più di un secolo fa, nel 1907, a Hartford, nel Connecticut. Il padre era uno dei più famosi urologi d’America e discendeva da una famiglia scozzese che vantava tra gli antenati un James Hepburn conte di Bothwal, amante della regina Maria Stuarda. La madre, cugina di un ambasciatore, era stata in gioventù un’accesa suffragetta e amica intima di Margaret Sanger, uno dei personaggi più controversi della storia del femminismo americano per le sue teorie sul controllo delle nascite che rasentavano l’eugenetica (e tuttavia la rivista Time una volta la mise nel mazzo dei migliori cento leader e rivoluzionari del Novecento). Ironia della sorte, nel 1936 Katharine, in un film di John Ford, avrebbe interpretato il ruolo della regina che era stata l’amante del suo antenato paterno. Il suo coefficiente sociale era dunque altissimo, se solo lo confrontiamo con quello di Joan Crawford, per esempio, che era figlia di una lavandaia, oppure con quello di 125 Lana Turner, il cui padre lavorava nelle miniere d’argento di Wallace e aveva il vizio delle carte e del bere. Le si poteva accostare solo Anne Baxter, nipote del grande architetto Frank Lloyd Wright, oppure Gloria Grahame, il cui padre discendeva da Edoardo III e la madre era imparentata coi sovrani di Scozia. Per una curiosa astrale premonizione il 1907 è l’anno in cui William Selig, un artista di vaudeville dell’East Coast, folgorato sulla via dei fratelli Lumière, e che in breve tempo sarà imitato da David Griffith e Cecil De Mille, scoprì Hollywood (Bosco di agrifoglio) come luogo adatto per girarvi film: il clima era eccellente, il paesaggio straordinario e i terreni, abitati da conigli, scoiattoli e coyotes, logicamente costavano pochissimo. Il 1907 è l’anno di tante cose. In Finlandia, primo paese al mondo, viene riconosciuto alle donne il diritto di voto, in Italia Maria Montessori apre la sua prima scuola e Pio X dichiara guerra al modernismo. Ma è anche l’anno in cui, nel suo piccolo, nasce un’altra attrice che contenderà alla Hepburn se non il primato artistico quello della longevità: Argentina Brunetti, morta a Roma a 98 anni. Era figlia della bravissima Mimì Aguglia, che lavorò con le compagnie di Nino Martoglio e Giovanni Grasso e fu soprannominata la Duse siciliana. Argentina, bella e aristocratica, interpretò una sessantina di film. I più famosi, nei quali ricoprì ruoli di comprimaria, sono La vita è meravigliosa di Frank Capra e Gilda con Rita Hayworth e Glenn Ford. Katharine aveva tutto, tranne la precisione del destino. Il nonno materno morì suicida, uno zio paterno si gettò dalla finestra e un prozio si sparò un colpo di pistola, finché un giorno il fratello Tom s’impiccò senza apparente motivo nella soffitta di casa, a 15 anni. “Sapeva che sarebbe stata sua sorella a trovarne il cadavere” sostiene Christopher Andersen nella biografia scritta per i novant’anni dell’attrice. La tragedia peserà per sempre sulla Hepburn, e forse il tremolio del labbro, che ne contraddistinse a un tempo la fragilità e la forza 126 espressiva, l’assalì proprio davanti al corpo senza vita dell’amato fratello. L’anno del suo ingresso nel mondo cinico e abbagliante di Hollywood, dopo alcune ottime prestazioni sui palcoscenici di Broadway, è il 1932. L’anno della vittoria del democratico Franklin Delano Roosevelt alla presidenza degli Stati Uniti e, per contrappasso, del dittatore Salazar in Portogallo che al potere resterà abbarbicato per 35 lunghissimi inverni. Katharine entra dalla porta principale grazie al raffinato regista George Cukor che la sceglie e la dirige in Febbre d’amore accanto all’inarrivabile e per questo molto presuntuoso John Barrymore. Sul set i rapporti tra i due non furono dei più facili. Verso la fine delle riprese la giovane Hepburn sbottò: “Non so se reciterò ancora con lei”. E il grande John, indiscusso profilo da medaglia, attore romantico per eccellenza, alcolista e sfrenato narcisista, replicò gelido: “Perché, l’ha mai fatto?” Tuttavia, in un libro dedicato alla diva, Alvin Marill scriverà: “L’interpretazione di Barrymore è brillante ma il film è dominato dalla luminosa personalità di Katharine Hepburn”. Il film racconta la storia di una ragazza che vive nell’angoscia di essere fisicamente tarata nel momento in cui apprende che il padre è rinchiuso in una clinica psichiatrica. Lei, che aveva del suo in quella vicenda cinematografica, considerato che parte della famiglia era stata segnata dalla follia, mise nel ruolo un’autenticità che nessuna attrice avrebbe potuto raggiungere. Da piccola era stata talmente ossessionata dalla paura di perdere la ragione che il set fu una sorta di doloroso recupero del passato, ma riuscì a guarirne dopo l’accoglienza del pubblico e, cosa che non guasta, i 1.500 dollari la settimana che guadagnò durante le riprese, a fronte degli ottanta dollari che le davano gli impresari a teatro. Un film con la Hepburn fu il degno coronamento di quel 2 giugno, festoso e senza più paura, che vedeva le donne votare per la prima volta in Italia. La Turchia, l’arretrata Turchia, il Paese che in Italia evocava scenari 127 catastrofici al grido di “mamma li turchi!”, quel diritto aveva concesso nel 1932 per mano del suo grande presidente, Atatürk. Katharine, con il suo abbigliamento non precisamente femminile e l’atteggiamento ribelle e indipendente fu una bandiera dell’emancipazione delle donne in America e nel mondo. Non era il tipo alla Gail Russell per intenderci, l’attrice che finì alcolizzata per timidezza e che a soli 37 anni fu trovata morta nel suo appartamento, stroncata da una sbornia. E neppure alla Vera Ellen, la cantante ballerina, minuta e sorridente, che per tre anni fu fatta passare come la fidanzata di Rock Hudson, omosessuale sotto stretta copertura. No. Kate Hepburn aveva la coscienza e la dignità della sua appartenenza, senza svenevolezze ma neppure le durezze di una Bette Davis. La prima volta che incontrò Spencer Tracy, l’uomo della sua vita, lo squadrò dalla testa ai piedi e gli disse con disprezzo: “Troppo basso”. Il vecchio Spencer la guardò a sua volta e rispose: “Se sarai brava ti porterò alla mia altezza”. Parlava di centimetri artistici naturalmente. La battuta servì a smontare l’alterigia dell’attrice e a farla innamorare di un uomo che si sarebbe rivelato depresso, infedele e alcolizzato, e che tuttavia lei avrebbe amato per 25 anni, fino alla morte di lui. Prima di incontrarla, Spencer Tracy aveva avuto relazioni con Joan Crawford, Judy Garland e Loretta Young. Sempre nella biografia, Andersen racconta che l’attore si mostrò sensibile anche al fascino delle sue colleghe, come Ingrid Bergman e Grace Kelly, e che la Hepburn fu particolarmente ferita per il tradimento con la Bergman. Fedele al vecchio detto di Oscar Wilde, Spencer sapeva resistere a tutto tranne che alle tentazioni. Insomma, cercava di guadagnare il tempo perduto da giovane quando le donne non se lo filavano per niente perché era d’una povertà assoluta. Per sua stessa ammissione aveva attraversato periodi in cui il fondo dei suoi pantaloni era così sottile che poteva sedersi su un nichelino e indovinare se era testa o croce. Raggiunta la ricchezza guadagnò la follia. A volte si 128 chiudeva in una stanza d’albergo, si sdraiava nella vasca da bagno e dava fondo per giorni agli alcolici che si era portato appresso. Nel momento in cui la crisi si aggravava, Kate lo legava al letto e lo liberava solo quando era sicura che non potesse più farsi del male. Fu meglio e più di una compagna, eppure Spencer Tracy, ipocritamente cattolico, non ebbe mai il coraggio di lasciare la moglie per lei; né lo stesso coraggio trovò John Ford, sposato, che con la Hepburn aveva avuto una lunga relazione. A quei tempi gli alcolizzati erano chiamati ubriaconi. Me li ricordo affollare le putie, che erano botteghe del vino trasformate a poco a poco in trattorie minime dove col mezzo litro venivano di norma serviti piatti di legumi, polpette al sugo, uova sode. In questi miseri locali gli avventori arrivavano a gambe salde e ne uscivano traballanti, talvolta venivano “prelevati” dalle mogli con rosari d’urla e lamentazioni. Ma il rientro, per solito, si concludeva a suon di botte che per alcuni giorni rifinivano le facce delle povere donne già ammaccate dalla fatica dei lavori domestici e costrette spesso a subire il “debito coniugale”, una sorta di tacito diritto dei mariti a pretendere da loro rapporti sessuali controvoglia. Insomma, oggi chiameremmo quel “debito” semplicemente stupro. Come meravigliarsi, quindi, se a Kabul l’imbelle Karzai legittima i mariti a stuprare le mogli? Nelle putie si giocava a carte, si discuteva di calcio, di femmine e ci si lasciava andare al dolce inganno del rimpianto, del come si era e del come si sognava di essere, del denaro che si contava in moneta e raramente in cartamoneta, dei figli che soffocavano l’esistenza e delle mogli che erano diventate troppo vecchie per essere ancora desiderabili. E così annegavano i dispiaceri nel vino, normalmente guasto o annacquato, e se ne tornavano a casa cantando e limando gli angoli dei palazzi. Nei fumi dell’alcol ridavano fiato alle storie poco prima raccontate, tra un bicchiere e l’altro. Le più appassionanti erano quelle su Angelo Grasso… Una 129 volta la moglie del puparo, che aveva mangiato ricotta in abbondanza, si trovò a dare voce alla bella Angelica intercalando le battute con fastidiosi e comici singhiozzi. Al che il marito, come racconta Emilio Greco nella sua autobiografia, per salvare lo spettacolo fece dire al pupo Orlando, che stava manovrando, questa battuta: “Bottana di bordello, se mangi più ricotta ti spacco ‘a fissa in quattro comu n’accia” (la fissa, in Sicilia, è l’organo genitale femminile e l’accia è il sedano). Il pubblico andò in delirio e cominciò a scagliare contro i due burattini di legno, a mo’ di gradimento, sedani e finocchi che di solito masticavano e sputavano rumorosamente durante lo spettacolo. Mondo magico, misterioso, quello dei pupi; il mondo del commendatore Insanguine che scolpiva le mani a pugno dei suoi pupi, dame o guerrieri che fossero, nello stesso modo: le mani d’una fanciulla che l’aveva folgorato d’amore tanti anni prima. Kate Hepburn è morta il 29 giugno 2003 all’età di novantasei anni, dopo avere collezionato quattro Oscar e dodici nominations, sempre come migliore attrice protagonista, ed essere stata l’affascinante rompiballe del cinema internazionale, colei che ruppe il cliché delle donne fatali e vaporose, che non si fece mai mettere la saliva sul naso (’a sputazza ’nto nasu) dagli uomini, grigi o potenti che fossero. Il 2003 segna anche la scomparsa di Gregory Peck, che, giovanissimo, recitò con lei in Piccole donne di Cukor, e di altri grandi attori italiani come Alberto Sordi e Massimo Girotti. Ma quell’anno segna anche la scoperta di un pianeta fuori dal sistema solare e che dista dalla Terra cinquemila anni luce. È il pianeta più lontano che l’uomo abbia mai individuato nello spazio. Solo pensando all’immortalità e alla bellezza di Katharine è possibile non smarrirsi di fronte all’insondabile profondità dell’universo e coltivare le poche illusioni necessarie. Nel 1998 Kate si ammalò gravemente. Ricoverata in ospedale, per settimane si temette per la sua vita. 130 Preparai il “coccodrillo”, l’articolo che sarebbe servito in caso di decesso. Il pezzo le portò bene perché rimase congelato in redazione per otto anni. Nella vita ci vuole fortuna. Lo dice spesso mia madre di fronte alle difficoltà dell’esistenza. Ma se col pensiero torna indietro negli anni il suo unico cruccio è quello di avere perduto il marito troppo presto. Poi si consola con la “riuscita” dei figli, anche se mia sorella non è dello stesso avviso. Lei voleva fare la ballerina. A 16 anni, dopo avere dato prove eccellenti nella ginnastica artistica, sotto la direzione del professore Montalto, entrò nella scuola di ballo di Franca Bartolomei, che teneva le lezioni dietro il cine-teatro Metropolitan. Dopo tre mesi aveva sbaragliato le allieve di tutti i corsi. Era un fenomeno. Ancora oggi conserva la figura di Kate e il viso di Audrey: le due grandi Hepburn del cinema americano. Una primavera di non so quale anno, l’accompagnai allo stadio Cibali per assistere ai campionati studenteschi. Alla fine della manifestazione scese in campo e tentò qualche sgambata. Al primo tentativo del salto in lungo, che non aveva mai fatto, stabilì il record regionale femminile. La professoressa Rizzo cercò di non farsela scappare e di convincerla a abbandonare la ginnastica per l’atletica. Ne nacque quasi un incidente diplomatico con Montalto. Ma mia sorella scelse la danza. A diciotto anni non aveva più niente da imparare, allora la Bartolomei, che aveva un’altra scuola a Roma, la invitò a perfezionarsi nella capitale. Doveva trasferirsi. Mio padre, spaventato, disse no; mia madre, ancora più spaventata, disse no. Chissà come sarebbe cambiata la sua vita se i miei genitori avessero avuto meno paura. C’è un bel film del 1977, di Herbert Ross, Due vite, una svolta che in qualche modo tenta una risposta. È la storia di due amiche, Anne Bancroft e Shirley MacLaine, che s’incontrano dopo tanti anni: la prima è diventata una stella della danza internazionale, l’altra, pur essendo stata in gioventù anche lei una bravissima ballerina, è 131 diventata invece una madre di famiglia. Parlando delle loro vite, tuttavia, ognuna rimpiange quello che non ha: la Bancroft la famiglia, la MacLaine la danza. Il 1977 è l’anno della scomparsa di Lucille LeSueur, ottima ballerina anche lei (soprattutto di charleston) e poi grande attrice col nome di Joan Crawford. Quello che Katharine aveva per educazione e cultura familiari, Joan lo conquistò con tenace volontà. Era di umili origini, sua madre lavorava in una lavanderia, e per questo fece di tutto per dimenticarsele. Cominciò a corteggiare Douglas Fairbanks jr. e ben presto riuscì a sposarlo contro il parere del vecchio Fairbanks e di sua moglie Mary Pickford che per la verità a sedici anni era scappata con Owen Moore, un attore spiantato e ubriacone. Ragazzina ribelle, non ancora convertita al conformismo della ricchezza, Mary aveva avuto una sola passione: quella per la sua mula che chiamava Maddalena e giudicava l’essere più intelligente del mondo, naturalmente dopo di lei. Douglas e Mary erano così popolari che nessuno si occupava di loro. Erano personaggi troppo per bene, troppo catalogati e ben serviti perché i giornali ne tirassero fuori storie appetibili o trasgressive. Abitavano in cima alle colline di Beverly, in una lussuosa dimora in stile spagnolo, battezzata Pick-Fair, che tutti ambivano frequentare perché significava promozione sociale. Nel maggio del 1928 vi era stato ricevuto il principe Giorgio d’Inghilterra con gli alti ufficiali dell’incrociatore Durban. Fu una festa memorabile. Per l’occasione, la piccola grande Mary, che sullo schermo interpretava ruoli di mendicante, sfoggiò una collana con una grande croce tempestata di smeraldi e un anello sormontato da un impressionante smeraldo. I gioielli provenivano dal tesoro degli zar. La Crawford fu un osso duro perché era ambiziosa e scaltra, una donna che in poco tempo riuscì a migliorare il proprio stile di vita, la recitazione legnosa, a costruirsi un nuovo personaggio avendo cura di sottolineare le 132 labbra carnose con abbondante rossetto, a truccare gli splendidi occhi in modo da farli risultare ancora più grandi, a rendere il resto del volto simile a una maschera classica. Così combinata, appoggiata e determinata, Joan Crawford andò alla conquista di Hollywood. Del resto, era la stessa strada intrapresa anni prima dalla suocera che era figlia di un commesso di bordo prima di diventare una delle donne più famose e ricche d’America. Una carriera prestigiosa quella della Crawford che mostrò di possedere, accanto alla seconda parte del cognome, il carattere forte della Pickford e la stessa ambizione. Film memorabili i suoi, a parte un Oscar, due nominations e quattro mariti importanti. Dopo Fairbanks jr. sposò l’attore Franchot Tone (molto popolare negli anni Trenta e Quaranta e che personalmente ricordo nel bel film di Frank Lloyd La tragedia del Bounty accanto a Charles Laughton e Clark Gable), poi l’altro attore americano Philip Terry e infine Alfred Steel, dirigente della Pepsi Cola nel cui consiglio di amministrazione la diva entrerà dopo la morte del marito. Non ebbe figli ma ne adottò quattro, un maschio e tre femmine, tra cui Christine che scriverà uno spietato libro di memorie, dal titolo Mammina cara, che le costerà l’eredità. Il libro, da cui sarà tratto un film con Faye Dunaway, descrive la Crawford come una donna nevrotica, alcolizzata, a volte isterica a volte paranoica, che scatena sui figli le sue collere al limite del sadismo. Nel 1932 girò Grand Hotel di Edmund Goulding con un cast di attori che avrebbe intimorito chiunque: Greta Garbo, John e Lionel Barrymore, Lewis Stone, Wallace Beery. Il primo giorno delle riprese la divina Greta la guardò con attenzione, incuriosita. Il secondo giorno avvertì come un campanello d’allarme, flebile ma comunque tollerabile. Il terzo giorno cominciò a preoccuparsi. Il quarto le tolse il saluto. La grande Garbo aveva capito che quella ragazzetta apparentemente innocua sarebbe passata sul cadavere della madre pur di arrivare al successo. “L’amore è un 133 fuoco”, diceva spesso la Crawford “ma non saprai mai se scalderà il tuo cuore o brucerà la tua casa”. Violenta, eccessiva, arrampicatrice sociale, non conosceva mezze misure, ma possedeva un talento smisurato che la porterà all’Oscar nel 1945. Il film è Il romanzo di Mildred, di Michael Curtiz, in cui interpreta la parte di una madre ambiziosa ma vulnerabile. Una delle figlie, la snob e violenta Veda, è la cantante Ann Blyth che per questo ruolo guadagnerà una nomination. Sarebbe stata una perfetta “belva friulana” se il cinema si fosse interessato alla terribile storia di Rina Fort, la donna che per amore sterminò a Milano la famiglia del suo amante, Giuseppe Ricciardi, un commerciante catanese di stoffe “magro, alto, olivastro, rugoso e intrallazzista”, come lo descrive Salvatore Nicolosi nel suo bel libro Uno splendido ventennio (il ventennio non è quello fascista ma quello che Catania visse tra il 1944 e il 1964). La famiglia di Ricciardi aveva lasciato da poco Catania e s’era trasferita nella capitale lombarda. Rina Fort, abbandonata dall’amante, in un raptus omicida uccide a colpi di spranga di ferro Franca Pappalardo e i suoi tre figli, Giovanni, Pinuccia e Antoniuccio, rispettivamente di sette, di cinque anni e di otto mesi. Una settimana dopo la strage, incalzata dagli interrogatori della polizia, pronuncia, come un’attrice tragica, queste parole: “Alle vostre metodiche e continue domande, sento il dovere di fronte a Dio, per la pace che accoglierà nelle tombe le salme degli innocenti e della madre dei bimbi, vi dico che, spinta da una morbosa passione e da un folle amore, ho ucciso”. Poi scoppia in singhiozzi ed esclama: “Non posso proseguire, vedo troppo sangue davanti ai miei occhi”. Alla stazione di Catania le salme furono accolte da una folla commossa e furente. “Se piangono i milanesi”, gridò una donna “noi di Catania che cosa dobbiamo fare?” Come ricorda Nicolosi, sul vagone piombato stava attaccato un foglio con su scritto: “Quattro salme”. Sotto, a matita copiativa, era stato aggiunto: “Assassinate a Milano dalla Ford”. 134 Nel momento in cui cominciai a rendermi conto della dimensione della tragedia, di questa come d’altre, e compresi che la vita non era la favola più o meno bella che mi avevano insegnato il cinema e i libri della Salani, divorati al ritmo di quasi uno al giorno, di quel brutale eccidio mi restò, in modo irrazionale e fanciullesco, la distribuzione degli anni e dei sessi dei tre bambini uccisi: il numero e la distanza d’età era pressappoco la stessa tra me e i miei fratelli. Questo per dire che il male non vive appartato, ma può riguardare chiunque, può di colpo distruggere, per altre e impensabili vie, la famiglia più fortunata, quella comunità d’affetti e di gioia così mirabilmente dipinta in un quadro di Percy Tarrant, Living for school. “Play the guitar, play it again, my Johnny/ maybe you’re cold, but you’re so warm inside/ I was always a fool for my Johnny/ for the one they call Johnny guitar.” La struggente canzone di Victor Young e Peggy Lee traccia il successo dell’insolito western di Nicholas Ray, il regista “ambidestro” o bisessuale che dir si voglia, e consolida la fama e la bravura di Joan Crawford. Ma in Johnny Guitar l’attrice ha acquisito un’altra faccia, meno femminile e più cavallina, niente a che vedere con la bella e disinvolta stenografa Flaemmchen, che si lascia corteggiare dal ladro John Barrymore, o con l’intraprendente giornalista Bonnie Jordan di La via del male. Nel mio ricordo la Crawford resta un’interprete eccezionale, vigorosa, combattente nella vita e nello schermo, resta come amore di celluloide solo nella parte che ebbe in Grand Hotel, più brava persino della Garbo, ma dopo diventa insopportabile perché l’interna aggressività pare raggiungere con l’età le fattezze del viso, irrigidendole. La vecchia Joan sarebbe stata perfetta anche nel ruolo di Betsy Trotwood, l’eccentrica zia di David Copperfield che nell’omonimo film di George Cukor è interpretata da Edna May Oliver. L’ultimo vero film la Crawford lo interpreta accanto alla rivale Bette Davis, Che fine ha fatto Baby Jane?, del 1962, di Robert Aldrich. Magistrali davvero le due 135 attrici, l’una nella parte d’una paralitica l’altra in quella della sorella vessatrice. Bette Davis odiava Joan Crawford. Forse perché vi si vedeva riflessa: stesso carattere forte e ribelle, stessa bravura, stesso destino “estetico”. La odiava dello stesso sentimento che Mark Twain provò per la vedova di Thomas Bailey Aldrich: “Non credo che imparerei mai a gradirla, a meno di trovarmi con lei in mare su una zattera senza altre provviste”. Da giovane, era abbastanza carina, piena di fascino e di personalità. Con gli anni però quei suoi grandi occhi diventarono bovini, il viso le si appesantì e la bocca si atteggiò a perenne disgusto. Dopo avere studiato recitazione con Katharine Hepburn e Lucille Ball, ed essersi esibita a Broadway in due spettacoli, tentò la carta del cinema. Il 3 dicembre 1930 giunse alla stazione di Los Angeles ma non trovò nessun rappresentante dell’Universal a riceverla. In verità, qualcuno era andato alla stazione ma se n’era tornato deluso e ai dirigenti della casa cinematografica aveva detto di “non avere visto nessuna donna che assomigliasse a un’attrice”. Le affidarono film di poco conto che non riscossero alcun successo al botteghino. Dopo due anni l’Universal stracciò il contratto. Samuel Goldwyn, il potente produttore della M.G.M. che aveva rifiutato di scritturarla, in tempi non sospetti aveva detto: “Troppo brutta per recitare”. Mentre stava preparando i bagagli per tornarsene a New York ricevette la telefonata di Murray Kinnell, un attore della Warner Brothers che aveva lavorato con lei in The menace e che la riteneva adatta per un film che lui stesso doveva interpretare: The man who played God. Firmandole il contratto, David Warner le disse: “Hai il fascino di Stanlio e Ollio messi assieme, ma ti prendo per il tuo talento”. Non si conosce la risposta dell’attrice ma si sa che per anni diede filo da torcere al produttore e agli attori che recitarono con lei. Non ci pensò due volte a prendere di petto Humphrey Bogart che puzzava di alcol già dal mattino e di rifiutare il 136 ruolo di Rossella O’Hara per non recitare accanto a Errol Flynn destinato in un primo momento alla parte di Rhett. Pentitasi amaramente dell’avventata decisione si fece costruire su misura il ruolo d’una testarda donna del Sud nel film La figlia del vento di William Wyler che le valse il secondo Oscar. Il primo l’aveva vinto nel 1936 con Paura d’amare di Alfred Green. Una donna così, meglio perderla che trovarla. L’attore e commediografo Sasha Guitry avrebbe detto: “Se uno ti porta via la moglie (quella moglie!) la migliore vendetta è lasciargliela”. Il 1939 è il suo anno magico. Infila quattro film di ottima caratura: Il grande amore, Il conquistatore del Messico, Il conte di Essex e, soprattutto, Tramonto per la cui interpretazione il magazine Time scrisse: “Se fosse un’automobile sarebbe una Rolls-Royce con tutti i migliori accessori”. Il 1962 è l’anno della riconciliazione con la vecchia nemica Joan Crawford. Erano stati anni oscuri, dopo i successi degli anni Trenta e Quaranta, tanto che a un certo punto decise di mettere un annuncio su una rivista cinematografica: “Madre di tre bambini di dieci, undici e quindici anni, divorziata, americana, trent’anni di esperienza come attrice cinematografica, versatile e più affabile di quanto si dica, cerca impiego stabile a Hollywood”. Ma l’arco splendente della sua carriera stava ormai raggiungendo la punta più bassa, laddove il sole si perde nella luce invisibile che l’aspetta. Un giorno si guardò allo specchio e improvvisamente capì di essere diventata vecchia, triste e sola: quattro matrimoni in fumo, un aborto per non interrompere le riprese di un film, una figlia che le si rivolta contro, un’osteomielite, un tumore al seno, un ictus e un infarto. Bette Davis è morta a Parigi nel 1989. Pochi giorni prima, al festival di San Sebastiano, aveva ritirato un premio alla carriera. Nel 1952 mio nonno Carmelo si spense dopo anni di malattia e disagi. Le piccole cose che ricordo di quest’uomo, che parlava poco e ascoltava molto, le cose 137 che mi appartengono, sono la penna stilografica, che ho ricordato, e La capanna dello zio Tom, il romanzo di Harriet Beecher Stowe che La Sicilia pubblicò come feuilleton in prima pagina e che lui raccolse, puntata dopo puntata, e rilegò personalmente. Dopo più di un secolo e mezzo dai fatti descritti dalla Stowe la Capanna diventerà monumento dello Stato del Maryland. Il modesto edificio, con l’adiacente villa in stile coloniale, che si trova a Rockville, è stato acquistato per un milione di dollari dalle autorità statali. Nel celeberrimo tugurio visse il protagonista del romanzo, Joshua Henson, che per trent’anni era stato schiavo d’una famiglia di agricoltori prima di essere venduto e mandato nel Kentucky. Incapace di comprarsi la libertà fuggì in Canada con moglie e figli. Quel giorno di lutto ci fu proibito a noi ragazzi di accompagnare il feretro ai Tre Cancelli. “No, i bambini s’impressionano”, disse mio padre. I bambini eravamo io, mia sorella, mio fratello e alcuni cugini. Fu zio Michele, il ferroviere, a tenerci per il tempo necessario a casa sua. Ci fece mangiare e riposare. Chiusi gli occhi e feci un sogno guidato. Nonno Carmelo lo sognai con la faccia di Spencer Tracy in Joe il pilota di Victor Fleming. Il film, del 1943, racconta la storia di un pilota che muore in combattimento e che torna sulla terra, invisibile agli altri ma non all’amata compagna e al pubblico. Immaginai il nonno che mi sorrideva, mi prendeva per mano e mi accompagnava a fare una passeggiata in un campo d’erbe alte. La sera fummo invitati a casa d’una famiglia di piccoli costruttori, molto amici, ma mia madre rimase con le sorelle e i fratelli a raccontarsi il dolore. Fummo rimpinzati di dolci e soffocati d’attenzioni. Al rientro, nella non grande casa di via Giuseppe Verdi, la mamma aveva gli occhi stanchi. La notte non riuscii ad addormentarmi. Vidi il nonno che passeggiava instancabile e mi diceva: “Sono qua, sono tornato, non ti spaventare”. Il cimitero è rientrato nella mia vita, più volte. L’ultima ne fui frastornato. Non è più un luogo di 138 preghiera e di raccoglimento, è un’appendice agghiacciante della città: file di auto come nelle ore di punta, intasamenti, clacson, nervosismo, imprecazioni. Una signora, giustamente scandalizzata, non riuscì a tenersi il commento. “Un cimitero perso!” Il coraggio, sostiene Don Abbondio nei Promessi sposi, uno non se lo può dare. Eppure, il coraggio è frutto di educazione, di parole e di silenzi “che parlano”, segnano e scavano, ed è anche un clima che si vive e si respira. Attraversare corridoi oscuri e stare nel buio come in apnea, con il cuore che ti sta per scoppiare, è un modo di darsi coraggio, certo in maniera empirica ed elementare, ma in qualche modo con un suo insegnamento. Il coraggio è quello di andare contro corrente, di essere soli, di patire le conseguenze dell’esclusione dal gruppo. Il coraggio di restare fedele a un’idea, anche sbagliata. Il coraggio di Enzo Trantino, per esempio, avvocato vulcanico, ex parlamentare di Alleanza nazionale e formidabile battutista. Una volta, intervenendo a una lectio sul Don Chisciotte di Cervantes, tenuta nella cappella Bonaiuto dall’attore e regista Michele Branca, figlio di Orlando Branca che del mondo delle Tv locali è un esperto, cominciò a parlare da par suo restando però seduto. A un certo punto uno del pubblico, anche per ascoltare meglio l’intervento, esclamò: “Si alzi, per favore!” Al che Enzo Trantino, che non si fa prendere in castagna neanche dal Padreterno, continuando a stare seduto replicò: “Ma io sono alzato!” Lui non è stato mai fascista, lui era monarchico, una persona d’altri tempi, che accarezzava i ricordi, che viveva nel passato romantico come fece Joseph Roth che per tutta la vita rimpianse l’Austria Felix e il suo re, Cecco Peppe. Molti della sua generazione si fecero corrompere dal potere, dalle prebende, dai ministeri, ma lui è rimasto fedele ai suoi ideali. Più volte gli rimproverai quella “prigionia” e scherzando gli dissi che se fosse diventato democristiano ci avrebbe guadagnato in onori e potere. Ma davanti alla porta del suo destino sta un inflessibile 139 guardiano: la Coerenza. Sentimento difficile la coerenza. E tuttavia gli amici della mia generazione, anche quelli che non frequento o non sento da anni ma che al primo squillo di telefono sono pronti a rinnovare l’amicizia intangibile di sempre, non l’hanno perduta la coerenza, che è innanzitutto amore per la lotta e per l’onestà, e che magari non si traduce, come in Enzo Trantino, in uno specifico assetto ideologico ma la cui componente essenziale è la capacità di indignarsi. Sempre e comunque. Noi, della generazione postbellica, cresciuti in una sorta di pastorale siciliana, siamo stati fortunati perché le nostre esperienze, spesso dolorose, non ci hanno risucchiato nella disperazione d’una contro-pastorale che è quella, mi pare, che ha accompagnato la generazione degli anni Settanta, a credere almeno alle confessioni del cantante e attore Paride Acacia che nella sua autobiografia, I sogni finiscono all’imbrunire, scrive: “Nessuna sacra passione ha benedetto la nostra gioventù, nessun fuoco vivo ha bruciato i nostri anni migliori. Abbiamo vissuto anestetizzati e sterilizzati nella nostra vita ordinaria, scortati dal regime delle nostre madri… mai un pianto per un sogno infranto, mai un dubbio, nessuna via Crucis, nessun errare nel deserto per redimersi e realizzarsi… abbiamo spiato la vita attraverso le finestre con le persiane rigorosamente socchiuse, in penombra, senza mai affacciarci”. Il lucido, dolente pessimismo di Paride Acacia segna una distanza vera tra passato remoto e passato prossimo, tra consumo e pre-consumo, tra Gregory Peck, per buttarla in celluloide, e Paul Newman, tra L’uomo dal vestito grigio e La gatta sul tetto che scotta. “Le nostre mani” scrive ancora l’artista siciliano, nato a Messina nel 1971, “non hanno impugnato né molotov, né libretti rossi ma stupidi cocktail e chitarre scordate. Ci siamo limitati a glorificare un passato che le leggende narravano essere stato mitico, ed abbiamo vissuto in un eterno presente sterile”. Enzo Trantino è un uomo di dubbi. Sta qui, 140 probabilmente, la differenza tra la generazione degli anni Quaranta-Cinquanta e quella di Paride Acacia. Non a caso un bel libro di dodici racconti di Trantino s’intitola Certi del dubbio. “Toglieteci tutto” scrive l’autore nella prefazione, “ma non il dubbio, che in Francia è elegante indecisione mentre da noi è condimento obbligato del pane e del tempo”. In altre parole, se in Cartesio il dubbio è metodologico, nel senso che non ha un valore assoluto in sé ma serve a raggiungere l’evidenza, nei siciliani il dubbio è strutturale, la via maestra all’acquisizione del dubbio stesso. I dodici racconti descrivono in qualche modo un’autobiografia, non solo quella dell’autore ma anche di molti siciliani, catanesi, ex giovani leoni che sono cresciuti nella certezza del dubbio non nella certezza della verità. Di verità rivelate ce n’erano state troppe prima della guerra, gridate dai balconi e dai pulpiti di un Paese gloriosamente immaturo e credulone. Della categoria dei dubbiosi e dei coerenti è Giuseppe Gennaro, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, col quale da giovane misuravo i passi perduti di corso Italia, parlando di filosofia, di futuro, di ragazze… “parlare” di ragazze, perché la vita di provincia, come sostiene Balzac nelle Illusioni perdute, è stranamente contraria alle soddisfazioni dell’amore e favorisce invece i dibattiti intellettuali della passione. Anche lui è rimasto legato alla luminosità della giovinezza, all’incanto della parlata, alla famiglia come principio e sentimento, ai libri e allo sport, alla politica non politicante ma strumento di riscatto delle classi deboli. Allora avevamo “l’età metafisica”, come dice Simone de Beauvoir, nel senso che la vita esisteva sotto forma di idee e quindi era luminosa, incantata e astratta, come scritta nelle pagine di un libro. Dubbioso di rango anche Carlo Paterniti, ordinario di diritto penale all’università e avvocato, eterno deluso come me di questa terra irredimibile e tuttavia sempre lì a combattere per ciò che si può; e poi Puccio Maimone, 141 sportivo di classe, uno che non si arrende mai e che s’è inventato una casa editrice in una città che è palude di se stessa; Laura Boemi, insegnante di lettere e mia compagna di classe al Cutelli, la più brava, la più attenta. Per i vent’anni della maturità organizzò un incontro con i compagni di classe. Ci ritrovammo in pochi, quasi estranei, a rimestare vecchi ricordi, vecchie battute, a riscoprire ciò che non si era, ciò che si voleva dimenticare. Eravamo come i sopravvissuti di Varlam Šalamov riuniti non dall’amicizia ma dal bisogno e che dopo il “lager” tornavano a salutarsi di malavoglia. Accanto a Laura c’era Enzo Serpotta, procuratore aggiunto a Catania, bravo anche lui a scuola, e Nino Di Giovanni, irreprensibile per moralità nonché ottimo giocatore dilettante di calcio. Come me, come tutti, sognava di sposare una straniera, una tedesca, una del Nord profondo, bionda e con gli occhi azzurri. Ha sposato una brava ragazza bruna. Hanno due figli, due ragazzi che vivono in punta di piedi, come il padre, e come il padre hanno i capelli irlandesi, i capelli rossi. Più vicini nel tempo debbo ricordare Alfio Caruso, per gli amici Fredi, giornalista e scrittore di rango, a Milano da una vita, sposato con una catanese, Chiara, scrittrice anche lei, che gli ha dato tre figli, uno di questi, Giuseppe, scrive su l’Unità e ha pubblicato un libro dal curioso titolo, Chi ha ucciso Berlusconi, che naturalmente ha suscitato un pandemonio in Italia e in Europa. Nel 1993, Fredi, per avere scritto su La Gazzetta dello Sport alcuni articoli non precisamente amichevoli sulla vicenda del Catania calcio, radiato per fallimento e precipitato dal girone B di serie C1 (che per la verità non era gran cosa) alla categoria dilettanti, fu minacciato di morte da alcuni esagitati tifosi etnei e costretto per circa un anno a spostarsi con la scorta. Lui e Candido Cannavò. Furono giudicati traditori. E non solo dalle tifoserie della curva nord, pronte a mobilitarsi e a calpestare il codice penale al primo soffio ostile del vento, ma anche da buona parte dell’establishment cittadino. Davvero momenti drammatici che porteranno 142 i due bravi colleghi a staccarsi sempre di più dalla loro città natale. Ora, si può rischiare la vita per un paio di articoli sportivi? A Catania, evidentemente, sì. A Catania può succedere che un ispettore di polizia, Filippo Raciti, ci lasci la pelle per mano di un gruppo di tifosi delinquenti che lo bastonano a sangue con i tubi divelti dai bagni dello stadio. Può accadere che la festa di Sant’Agata, dopo la tragedia, nonostante la vibrata protesta di Pippo Baudo al Papa, continui a svolgersi come se niente fosse e che i cordoni del fercolo vengano trainati, al grido di “Cittadini, viva Sant’Agata!” dagli stessi esagitati ultras che hanno dato la caccia alle forze dell’ordine, per puro spirito criminale. Sulla “parata”, istituzionale e politica, ai funerali in cattedrale del poliziotto ucciso valgono le parole di Francesco Merlo su la Repubblica: “C’era molto più Cristo nel dolore di quella figlia rimasta senza padre, nella sua faccia intensa e generosa, nel suo sguardo straziato e sincero, che in tutta la demagogia devozionale di una delle feste religiose più pagane dell’Occidente”. Che la festa di Sant’Agata, sia diventata una sorta di rito pagano, con tempi e modalità che nulla o pochissimo hanno di religioso, è da tempo opinione diffusa. Che sia finita in mano alla criminalità organizzata, che sfrutta per far soldi la devozione e la colpevole distrazione della Chiesa locale, è argomento di molti salotti cittadini che la sera del cinque febbraio organizzano fastosi ricevimenti alessandrini e altrettante fastose chiacchiere. Ma nessuno ha mai spiegato chiaramente perché ogni anno la Santa rientri così tardi, perché il percorso del fercolo sia assurdamente e pericolosamente stracolmo di bancarelle, paninerie, rosticcerie, persino barbecue sistemati sui marciapiedi per arrostirvi carne di cavallo, polpette e salsicce… senza per altro provocare proteste significative sia per tale arabo guazzabuglio sia per le strade e le piazze rese sdrucciolevoli dallo sgocciolare incessante dei ceri grossi come tronchi d’albero e portati a spalla da 143 giovani fondamentalisti. Ai primi di febbraio del 2008, la magistratura catanese, svegliatasi dalla letargia nella quale di tanto in tanto scivola, ha chiarito ufficialmente la faccenda e messo le mani sui responsabili: la famiglia Santapaola-Ercolano e alcuni suoi addentellati. La festa diventa sempre più lunga e pletorica perché dà modo alla consorteria navigante attorno a Sant’Agata di gestire: primo, le candelore e le corporazioni annesse; secondo, le commesse per i fuochi d’artificio; terzo, il flusso delle candele che vengono ammassate sul fercolo e di volta in volta scaricate intonse sui camion che sono serviti a trasportarle (una sorta di partita di giro); quarto, le soste della processione con relative offerte in denaro; quinto, le scommesse sul rientro in cattedrale della patrona; sesto, i posti di ristoro… e altro ancora. Una strada lunga quella della santa patrona, lunga e pericolosa. Durante la guerra del Golfo, Papa Wojtyla invitò le diocesi a non celebrare per quell’anno feste religiose. L’arcivescovo di Catania, Luigi Bommarito, accolse subito la preghiera e convinse a fare altrettanto anche il sindaco, che per legge presiede i festeggiamenti agatini e che allora era Guido Ziccone. Quando però si sparse la voce che la festa sarebbe saltata la mafia minacciò di morte il sindaco. E ci sarebbe riuscita a levarlo di mezzo se il prof. Ziccone, il giorno dell’attentato, mentre si trovava tra un gruppo di fedeli davanti alla gradinata della chiesa di San Biagio, non si fosse accorto del killer e prontamente non avesse trovato riparo nell’auto di servizio. Furono giorni drammatici, con nuove pressioni e minacce, finché il cavaliere Luigi Maina, presidente da sempre delle celebrazioni agatine (esattamente dal 1952, quando Elisabetta diventò regina) suggerì al sindaco una via di mezzo: festa sì ma ridotta. E fu così che Guido Ziccone salvò la pelle mentre l’arcivescovo, che mise prontamente il capello sulla festa, attribuendosi il merito dell’escamotage, trovò il modo di ringraziare il primo cittadino baciandogli le mani. Dopo la morte dell’ispettore Raciti fu deciso che 144 negli stadi privi di garanzie di sicurezza le partite venissero disputate senza pubblico. Ma i presidenti delle società calcistiche ebbero il coraggio di protestare. I più sofisticati parlarono di “silenzio irreale” senza capire che in quel momento era invece un grido di dolore contro le aberrazioni dello sport, era “la cosa più pulita”, e giusta, come scrisse sul Corriere della Sera Aldo Grasso, per onorare la memoria del poliziotto Raciti e cominciare finalmente un discorso di responsabilità. Da ragazzi giocavamo a pallone in campetti improvvisati in terra battuta e non c’era che il silenzio a guidare la nostra gioia. Proprio in quella pace c’era l’intimo sentire nostro: il cuore che batteva forte a ogni goal realizzato, a ogni azione ben fatta; oppure il rossore che colorava il nostro disappunto per un rigore sbagliato o una palla persa. Ed era sempre il silenzio a accompagnarci nelle sale cinematografiche, a fare spazio alla mente perché del film catturasse ogni parola, ogni immagine, ogni sfumatura, ogni verità. Nemmeno nella storia più antica e selvaggia della città è possibile riscontrare quelle aberrazioni. Vorrà dire pur qualcosa se il ministro dell’Interno Amato, dopo la tragedia Raciti, definì Catania una sorta di Bronx in mano alla violenza dei disoccupati e alla criminalità organizzata. Ma forse la Catania del fare e del dire, la Catania del teatro e dell’ironia, del cuore e dell’istinto è esistita solo per parentesi brevi e lontane, forse sta solo nei depliant turistici, nelle compiacenti ricostruzioni storiche. Forse più reale e vera è la Catania del sottosuolo, della delinquenza minorile, della mafia e della violenza, la Catania degli affari e del tornaconto, dei politici sbruffoni e incapaci, la Catania degli ultrà che menano le mani e dopo avere messo a soqquadro un quartiere se ne vanno a casa a guardare i cartoni animati in Tv e a dormire sotto coperte dipinte coi colori della squadra del cuore. Tutto questo nell’affettuosa cecità dei genitori che osservano e non capiscono, non capiscono 145 che non è del tutto normale che un figlio, alla soglia della maturità, passi il proprio tempo in una stanza piena di bandiere rossazzurre e di trofei calcistici, pesi cento chili e venga deriso dai compagni. E lui, figlio buono, diventa cattivo per emulazione, per riprendersi un poco della stima dei propri dileggiatori, che poi sono peggio di lui per quel grammo superfluo di “spirtizza” in più che vantano. Noi, a quell’età, nella cameretta condivisa con il fratello tenevamo i poster del “Che” Guevara e di Marilyn Monroe, accanto ai libri di Giulio Verne, Salgari, Defoe, Stevenson, Swift. La memoria del tempo antico in cui scivolava la mia fanciullezza probabilmente è imprigionata nella favola, ma i fatti dell’oggi sono quelli appena ricordati, i fatti di ieri sono quelli che mi sforzo di raccontare con onestà. Che poi allora ci fosse meno democrazia e capacità di interpretare i fatti, che la pasta non tenesse la cottura e diventasse strumento di scambio di voto, che i bambini del sottoproletariato urbano avessero scarpe scalcagnate e vestiti rattoppati, che la DC distruggesse in blocco le città meridionali con una colossale speculazione edilizia mai avvenuta a memoria d’uomo, è un discorso vero ma che non serve a giustificare la violenza di questo tempo, la sua stupidità, gli anni che crescono su se stessi senza memoria, inafferrabili come menti alienate che s’aggirano nei verdi recinti a bocca spalancata. Né può consolare il fatto che il fronte del malessere si allunghi fino al ricco e orgoglioso Nord non più immune dalle infiltrazioni mafiose e delinquenziali. Drammatica ma precisa la canzone di Franco Battiato, Povera patria “… schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos’è il pudore”. Dicevo della fanciullezza, della favola, del mito. A volte, come sosteneva Oscar Wilde, “essere immaturi significa essere perfetti”. Naturalmente, l’immaturità “adulta”, quella che misura sui valori il proprio distinguo, la capacità di restare ancorati al proprio stile e alla propria indignazione; oppure l’incapacità di 146 corrompersi per cinismo o per vanità salottiera, di abbracciare le mode e gli inganni del potere, di giocare allo scavalco delle ideologie, di comprare libri e non leggerli, di ostentare titoli superflui o imbarazzanti… Eppure, un giorno di fine inverno, poche settimane dopo la “caccia al poliziotto” e la festa agatina, mutilata soltanto dei suoi fuochi d’artificio, avvenne un piccolo miracolo al Teatro Massimo Bellini. La folla dei melomani, a fine concerto, si raccolse attorno al maestro Riccardo Muti, e alla sua Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, e lo subissò d’applausi, dieci minuti buoni, e lui, dopo la standing ovation, disse di ricordare la città di un tempo, la città degli anni Sessanta dove esordì come direttore d’orchestra e alla quale erano legate memorie di simpatia e di stima. Raccontò come quella volta il portiere del teatro avesse condiviso con lui la birra che stava bevendo e come il primo violoncello, durante le prove della sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorak, travolto dalla passione del giovane maestro, così promettente, già così bravo, si fosse alzato d’impeto e lo avesse affiancato in una sorta di direzione binaria. Raccontò anche del profumo della città, il profumo della zagara, raccontò del calore umano ricevuto, dei vecchi orchestrali ormai morti o in pensione dei quali ricordava i nomi. A distanza di quarant’anni, in quella Catania, che aveva letto sui giornali come di una città diventata violenta, disse di avere ritrovato l’antica gentilezza e ricordò come alle prove centinaia di ragazzi del liceo musicale fossero entrati in punta di piedi, avessero ascoltato in religioso silenzio e fossero andati via con la stessa delicatezza. A conclusione, mentre il pubblico sottolineava con applausi scroscianti ogni passo della narrazione, il maestro Muti regalò un bis: il secondo entr’acte del Rosamunde di Franz Schubert. Un capolavoro, dolce e profondo. Quel giorno mi riconciliai con la mia città che pensavo avesse messo definitivamente una pietra al posto del cuore. Nessuno è mai così cattivo come spesso ci suggerisce il nostro risentimento, la nostra rabbia che 147 comunque è una forma di amore. E poi quei ragazzi, che ascoltavano Schubert e Beethoven, davano un peso nobile e straordinario alla città e facevano dimenticare di colpo i mille teppisti dello stadio; ragazzi magari sportivi anche loro ma non adusi a dormire sotto coperte rossazzurre, forse “immaturi”, come lo eravamo noi negli anni Cinquanta, ma di sicuro perfetti. Questa “perfezione” tuttavia è spesso un artificio, un sentimento di esclusività più vicino al sogno che alla realtà, un sentimento cinematografico, per dirla con la filosofia di questo racconto sentimentale. Noi catanesi crediamo che la nostra città sia il compendio d’ogni virtù e bellezza, per la sua storia, la sua cultura, il suo clima, e quindi restiamo delusi, atrocemente delusi, quando scopriamo che è come le altre, né bella né buona, né sublime né speciale, solo comune, solo sperduta in fondo allo Stivale, solo mediocre come mediocri sono diventate le città meridionali, le città plebee dell’ex Regno delle Due Sicilie. Di questa delusione s’è fatto portavoce ancora una volta Pippo Baudo sulla prima pagina de La Sicilia stigmatizzando il “gran calcio” che l’allenatore etneo Silvio Baldini aveva sferrato al collega Di Carlo dopo la partita ParmaCatania. “Noi siciliani siamo abituati a farci del male da soli”, ha scritto il presentatore televisivo “con i nostri comportamenti facciamo in modo che il nome della Sicilia venga spesso infangato, anche se tutto quello che si scrive e si dice non rappresenta mai l’intera civiltà siciliana…” Baudo, forse senza volerlo, ricalca la retorica siciliana del minimizzare le colpe e ingigantire le innocenze. Ma a furia di sorvolare non si fa che il gioco dei furbi e dei criminali che proprio di quella antica civiltà isolana si fanno scudo e vi si mimetizzano. Ormai, molta parte di questa “civiltà siciliana” sta solo nei libri, anche se i siciliani non hanno smesso di credere d’essere il sale della terra, gli dei dell’ultimo incanto, e quindi reagiscono con durezza a tutto ciò che stride con quella supposta perfezione. La conseguenza è 148 di camminare con la testa tra le nuvole, incantati e ciechi, senza vedere il burrone che s’apre lì a due passi. Da anni molti rifiutano di riconoscere Catania come una città soffocata dalla mafia perché ne hanno un’idea sentimentale, da pubblicità progresso. Molto spesso l’assolvono per astuzia dialettica perché assolvendola assolvono se stessi, ripescano l’alibi del passato splendente per minimizzare le colpe del presente. Ben più appropriato il commento conclusivo del Pippo nazionale: “Caro Silvio Baldini per il bene della squadra e della città si tolga dai piedi”. Saggio consiglio non tanto per un ritrovato “complesso di superiorità” ma per una civiltà di rapporti o quanto meno per semplice educazione. Il signor Baldini, che a tutti ha chiesto scusa tranne all’offeso, avrebbe meritato, lui sì, un solenne metaforico calcio nel sedere. Un altrettanto (non metaforico) calcio nel sedere avrebbe meritato il senatore di Alleanza nazionale, Nino Strano. Nel gennaio del 2008, poco prima che si determinasse la sconfitta del centro-sinistra, si scagliò con linguaggio da suburbio contro un collega dell’Udeur, Cusumano, reo di non avere accettato la consegna di far cadere il governo Prodi. Nel suo editoriale della domenica, su la Repubblica, Eugenio Scalfari commentò l’episodio con queste parole: “Mi ha dato un senso di vera tristezza assistere dagli schermi televisivi a quella seduta che non esito a definire drammatica, anzi tragica, per la sguaiataggine da bordello in cui è precipitata l’aula del Senato al momento delle votazioni. Le aggressioni fisiche, la rissa, gli sputi, gli svenimenti e quello spregevole buffone che dai banchi missini, col pullover rosso annodato al collo, gli occhiali neri e una bottiglia di spumante in mano, lanciava sconcezze e innaffiava di spuma i banchi e i senatori che vi erano seduti. Ha fatto il giro del mondo quell’immagine”. Il grande giornalista dimenticò di aggiungere che il senatore Nino Strano, da Catania, mentre si esibiva in quel fuori programma da suburbio, mangiava a bocca aperta mortadella 149 (trasparente l’allusione al premier Prodi dagli avversari soprannominato Mortadella). Ma non fu solo Scalfari e la stampa tutta a stigmatizzare l’accaduto, anche moltissimi catanesi sulle pagine de La Sicilia mostrarono di vergognarsi di avere un siffatto concittadino, un siffatto “spregevole buffone”. Al punto che lo stesso Strano, sinceramente spaventato per il suo futuro di parlamentare, chiese scusa a tutti sulle pagine del quotidiano cittadino. Conosco Nino Strano. È un ragazzo (si fa per dire) sveglio, trasgressivo e assolutamente privo di freni inibitori. Ma non mi sarei mai aspettato che scendesse a quel livello. Qualche giorno dopo essere stato eletto, mi confessò: “Ma tu ci pensi? Io, senatore della Repubblica!” Chi glielo doveva dire, insomma. L’autoironia gli faceva onore. Ora, non so che pensare. Il potere è un cancro che lentamente si mangia tutto: l’onore, la dignità, l’equilibrio, il rispetto del prossimo, il cuore. Tutto. Dopo Fredi Caruso, Francesco Merlo, citato poco fa, tra i grandi giornalisti italiani. Dopo il mio passaggio alla Rai, prese il mio posto a La Sicilia. Ma non era contento di occuparsi di spettacoli. La sua mente già allora viaggiava oltre i recinti tecnici della cultura e le barriere sin troppo visibili del giornale di provincia. Non volle laurearsi. “A che mi serve?” Era, comunque, un passo avanti nel capire i fatti e raccontarli. Il 15 novembre del 1976, stavo ancora a La Sicilia, arrivarono due importanti notizie: la morte di Jean Gabin e quella di Ercole Patti. Poiché erano di mia competenza mi attivai, con l’aiuto delle agenzie, per mettere insieme due oneste biografie. Patti era uno scrittore catanese di un certo nome e collaboratore del giornale, che per altro avevo conosciuto ed ero stato anche ospite in casa sua (una villetta immersa in una piccola campagna di ulivi vicino al mare di Pozzillo), e quindi non ebbi dubbi nel dargli il rilievo maggiore. Francesco, che si trovava in quel momento in redazione, non fu dello stesso avviso. Ai suoi limpidi e ancor giovani occhi il grande attore francese era più 150 importante del romanziere etneo. Debbo riconoscere che aveva ragione. La ragione di Arbasino, per dire, quella che suggerì allo scrittore di occuparsi del fenomeno rock’ n’ roll anziché del laburismo per il quale era stato mandato a Londra. La preferenza egli l’accordò al costume anziché alla cronachetta politica che pure in quel momento sembrava più importante. Le sue letture escludevano i romanzi. Detestava la letteratura francese. “La solita solfa” mi diceva. “Il protagonista lascia la provincia e corre a Parigi a fare fortuna. E allora?” Eppure, quel viaggio dal piccolo al grande universo è stato, ironia della sorte, la metafora della sua vita. Per molti anni ha vissuto proprio a Parigi con una bella moglie inglese e tre affascinanti monelli. John Elkann lo voleva alla direzione de La Stampa. Un giorno venne a prenderlo col suo aereo personale, lo portò a Torino, gli fece vedere il giornale, la casa che avrebbe abitato, si mise d’accordo sullo stipendio, poi accadde ciò che non doveva accadere. La notizia, riservata, arrivò alle orecchie di Prodi e di Berlusconi che diffidavano del suo libero pensiero. Fecero muro e la famiglia Agnelli si spaventò. L’azienda navigava in cattive acque e aveva bisogno della politica. L’Avvocato, ne sono certo, avrebbe mantenuto il punto. Qualche anno fa Torino ha ricordato Gianni Agnelli con una mostra fotografica sulla sua vita e sul secolo da lui attraversato con splendore e charme. La mostra, dopo l’inaugurazione romana al Vittoriano, era stata allestita lungo la rampa della Mole Antonelliana, in qualche modo sovrapponendosi, ma anche esaltandolo, al museo del cinema. Anzi, ne era una prosecuzione logica, una sequenza filmica non solo per l’iconografia che definisce la straordinaria esistenza dell’Avvocato ma soprattutto per ciò che suscita nel cuore dei visitatori: l’idea di un uomo fortunato, intelligente, ricchissimo, a suo agio coi potenti e con gli umili, tutto sommato un divo senza volontà di esserlo, e quindi un uomo meritevole d’essere proiettato con la sua vicenda umana sul grande schermo del mondo. Per essere 151 ammirato, amato, ma anche, se si vuole, criticato. “Sono trascorsi cinque anni dalla sua morte”, ha ricordato Luca Cordero di Montezemolo che ne ha ereditato il ruolo non certo la classe “ma in realtà sono molti di più”. Torino, dopo le Olimpiadi invernali, è cambiata, dice. Prima era grigia, polverosa, assopita, che faceva difficoltà a mettersi in mostra, adesso è una città del futuro. All’apertura della mostra ero con mia moglie tra i tanti italiani curiosi di capire fino al dettaglio la magnifica rappresentazione regale che è stata la vita degli Agnelli. Mancavo da Torino da un quarantennio. Ricordo che il mio primo reportage su La Sicilia lo scrissi sulle suggestioni sabaude, sui salotti di pietra e i caffè che mostrano con orgoglio i loro arredamenti fine Ottocento, i gianduiotti, i gelati, l’alterezza della gente che in quegli anni rifiutava di dare alloggio ai nostri emigranti, anche ai giovani meridionali che studiavano al Politecnico. In questo senso, Torino è cambiata. Basta passeggiare il sabato pomeriggio per le vie del centro, fino a piazza Castello, per assistere a uno spettacolo rumoroso e gioioso di giovani che assomigliano ai nostri giovani, di signore che sono le nostre signore, vanitose e indaffarate, a parte i cagnolini che si portano appresso, di uomini che sono i nostri uomini, firmati grandi magazzini, di auto che sono le nostre auto, piccole grandi o lussuose che siano. Sì, l’omologazione sembra completa. Eppure, Torino suggerisce anche un altro percorso che è sempre lì, che dice quanto la città nonostante tutto sia rimasta fedele a se stessa, alla sua storia, al suo Risorgimento, alla Fiat del Lingotto e di Mirafiori, alla dinastia regale dei Savoia e alla dinastia laica degli Agnelli. La mostra sul secolo dell’Avvocato, pur evocando scenari diversi e colorati, è una continuità logica di fondali mai estinti, mai tirati giù. S’è detto che Gianni Agnelli ricordava nei modi e nelle fattezze un principe rinascimentale. Vero e non vero. In verità, era un re sabaudo senza corona, anzi, meglio di un re 152 sabaudo, un sovrano austriaco con ascendenze francesi e anglosassoni, un incrocio fantastico di quanto di meglio potesse vantare l’aristocrazia europea, compresa l’erre moscia. “Mettigli un elmo in testa, mettilo a cavallo, ha la faccia di un re”, diceva di lui Federico Fellini. Nell’Italia degli anni Venti, assieme ai fratelli, era stato allevato da Miss Parker nel più rigoroso british style. Vestiva sempre alla marinara, come per altro avrebbe ricordato in un libro rievocativo la sorella Susanna: blu in inverno, bianco e blu nella mezza stagione, completamente bianco in estate. Ma col tempo egli avrebbe modificato, fino all’eccentricità, il proprio abbigliamento: l’orologio sul polsino, la cravatta fuori del pullover, gli scarponcini Tods sotto l’abito elegante, le camicie col colletto botton down. Perché egli non possedeva la banalità del sangue blu (semmai l’aveva azzurro), la costrizione della dinastia e tutte le balle che si legano al “dovere” di un re. Egli era libero come un sogno. Dice Valerio Castronovo, uno che gli Agnelli ha conosciuto molto bene: “Il rapporto che l’Avvocato aveva con Torino andava oltre le vicende e le persone che concernevano la Fiat; si estendeva alla storia e alla cultura della città. Nelle sue peregrinazioni cittadine qualche volta la mattina andava al museo del Risorgimento. Gli piaceva soffermarsi nell’aula del Parlamento…” Gianni Agnelli amava la sua azienda, al punto da mettere sull’ideale stemma di famiglia l’espressione da lui più volte usata “Siamo nati meccanici”, ma il passato regale della sua città gli restava dentro come una seconda anima. Un passato dinamico in verità, una radice forte che doveva servire a alimentare il nuovo. “Per essere italiani nel mondo”, soleva dire “dobbiamo innanzitutto essere europei in Italia”. E questa modernità si alimentava di ciò che Torino aveva saputo esprimere nella cultura, nelle idee e nei valori civili di uomini come Norberto Bobbio, Massimo Mila, Alessandro Galante Garrone e di altri esponenti della Torino azionista. Non disdegnando però 153 “l’altra parte”: l’Ordine Nuovo di Gramsci, l’aristocrazia operaia di Gobetti, la casa editrice di Giulio Einaudi. È impressionante quanti uomini illustri conoscesse e frequentasse. Con i Kennedy era di casa, così pure con Bush padre e coi Clinton; l’ex segretario di Stato americano Kissinger era suo intimo amico e le volte che veniva in Italia se lo portava allo stadio a vedere la sua amata Juventus; Kruscev, Tito, Gorbaciov, Gerald Ford, Ronald Reagan, i reali inglesi e quelli d’Olanda lo stimavano, così pure l’Aga Khan, Juan Carlos e Ranieri di Monaco; per non dire di Fidel Castro, De Gaulle, Chirac, Shimon Peres, Arafat e dei presidenti della Repubblica italiana e dei massimi politici nostrani. Le 250 foto del percorso, curato da Marcello Sorgi su progetto espositivo di Cynthia Sgarallino, testimoniano una vita mai vissuta con lentezza ma sempre a tavoletta, spinta al massimo come una Ferrari. Dall’infanzia “dorata ma breve” al matrimonio con Marella Caracciolo nel ’53, dalla trentennale esperienza alla guida della Fiat ai viaggi nel mondo e alle grandi passioni sportive: l’automobile, lo sci, la vela. Un uomo così, un uomo che ha avuto tutto dalla vita e che si è posto accanto e sopra la grande aristocrazia europea, alla quale era più o meno imparentato, che ha spesso dettato l’agenda politica e industriale italiana, che ha vissuto dentro e fuori i confini nazionali, naturalmente anche dentro gli argini della sua Torino, un poco italiana e un poco mitteleuropea, un uomo così che ha posto l’asticella della propria esistenza sempre più in alto, e ogni volta superandola senza sforzo, non poteva non conoscere il risvolto amaro della vita, il dolore che stringe i deboli e i forti, il dolore che polverizza ogni umano privilegio, ogni umana fortuna. Perde il padre, ancora giovane, in un incidente aereo; perde il figlio Edoardo, l’erede, che non riesce a uscire dal tunnel della droga e che un giorno si butta da un cavalcavia; perde il nipote Giovannino, figlio del fratello Umberto, che aveva designato a succedergli, 154 fulminato da una rara forma di tumore. Perde, insomma, l’invincibilità. Lo incontravi e ti domandavi quale fosse il suo segreto, il segreto di stregare il prossimo, il segreto di farsi perdonare la ricchezza e talvolta il capriccio, e sulle prime non sapevi dare una riposta convincente. Perché il fascino d’una persona risiede dentro di noi, dentro la nostra debolezza, dentro il nostro essere niente ma che tuttavia reclama la propria immortalità. Una volta, mentre passeggiavo con amici sul lungolago di Saint Moritz, lo vidi seduto su una panchina mentre conversava tranquillamente con Jas Gawronski e con un signore anziano. Incapace di bloccare la mia vanità, lo salutai di slancio, senza conoscerlo. Gesto importuno ma irresistibile, come segnarsi davanti all’effigie del santo patrono o come imitare i fans che si mettono in prima fila, vicino alla transenna, nella speranza di toccare l’attore o il cantante di successo. E lui rispose con garbo al saluto. Essendo restio a un comportamento così infantile mi stupii di me stesso ma in seguito capii che a dettarlo era stata la mia invisibilità. Più tardi uscii dal mio mistero ma non ebbi occasione di incontrarlo per lavoro. Tuttavia, mi divertivo a ascoltare gli aneddoti del collega Marco Franzelli che lo conosceva attraverso Luca Cordero di Montezemolo. Era il tempo in cui la “tedesca” Lilli Gruber nell’annunciare un servizio su Schumacher ne pronunciava il nome con esasperante correttezza, mentre gli altri colleghi si affannavano sugli accenti e sulle aspirate quasi sempre sbagliandoli. E così l’Avvocato, che ogni sera seguiva il Tg1 delle 20, affascinato da cotanta ostentata sapienza, mise in giro la storiella che se uno avesse voluto pronunciare correttamente il nome del pilota tedesco avrebbe dovuto telefonare prima alla Gruber e farsi spiegare. Non amava essere adulato e si annoiava facilmente, a meno che l’interlocutore non lo sorprendesse con l’insolito. Avendo molto visto e molto vissuto era una miniera di aneddoti e battute fulminanti. Il giorno in cui 155 seppe che il pentito Buscetta era tifoso della Juve se ne uscì con questo commentò: “Se lo incontrate ditegli che è la sola cosa di cui non potrà mai pentirsi”. E se qualcuno gli domandava delle sue avventure galanti rispondeva con ironica saggezza: “Ci si innamora a vent’anni. Dopo si innamorano soltanto le cameriere”. Quando è morto, Torino ha perso il suo presidente, l’Italia il suo figlio più prestigioso e il mondo l’uomo che seppe farsi re a monarchia passata di moda. Dicevo del silenzio, l’attivo silenzio degli anni Cinquanta. Solo in quello spazio luminoso potevano attivarsi le risorse migliori del pensiero, come in una bolla di vetro in cui cade, dopo averla rovesciata, la finta neve che va a coprire leggera icone e santuari, figure e monumenti di latta colorata; come nella storia dell’angelo custode Cary Grant che si muove in una cittadina d’insignificanti problemi e scopre il paradiso negli occhi e nel sorriso della moglie del vescovo protestante. Ricordo la pace del silenzio nelle chiese velate di penombra, nelle biblioteche foderate d’incunaboli e antichi ritratti, nelle operose botteghe artigiane dove i necessari sgrusci erano più che altro musica. Ricordo i vicoli illuminati dall’allegria delle lavandaie e dai giochi dei monelli, che allora mi parevano “chiasso” ed erano invece canto. Era tutta la città che cantava, e se ne riusciva a cogliere il fraseggio perché attorno regnava il silenzio: il silenzio del giardino Bellini, del viale degli uomini illustri senza naso (storico sberleffo e monelleria), delle coppiette infrascate senza il minimo successo, dei cigni che beccavano dalle mani dei bambini spaventati e felici, dei piccoli truffatori del tre-oro-vince-tre-oroperde, dei fotografi che nascondevano la testa dietro enormi macchine di legno e scattavano ritratti immortali, degli omini che ti consegnavano il futuro, la “prineta”, dopo averlo fatto pescare, in una massa di foglietti inutili, da un onesto pappagallino verde. Era il Concerto per pianoforte n. 21 di Mozart e l’Eroica di Beethoven, la Toccata e fuga in re minore di Bach e la 156 Ciaccona, era Chopin e Debussy, Bellini e Rossini… oggi è una composizione dodecafonica, che certo ha il suo posto nella storia della musica ma che io non ascolto, e non ascolto perché non mi piace. È come vedere Robocop uno, due e tre oppure Rambo uno, due e tre. Meglio essere stupidi con Perdutamente tua che con Rocky uno, due, tre, quattro e cinque, meglio restare serenamente “immaturi” e serenamente disinformati. 157 SEI Rita Hayworth, Joan Fontaine, Lauren Bacall Nella primavera del 1946 la marina americana ordinò l’evacuazione dei 167 abitanti dell’atollo di Bikini nelle isole Marshall. A operazione conclusa, sulla piccola isola furono costruiti bunker d’osservazione e trasferite 5.400 cavie (ratti, capre, maiali) per studiare gli effetti delle radiazioni che si sarebbero sprigionate da lì a pochi mesi col lancio di due bombe atomiche. All’inizio dell’estate venne dislocata nella grande laguna di Bikini una flotta di 246 navi, più o meno in disarmo, compresa la portaerei Saratoga, sfuggita all’attacco di Pearl Harbour, e la corazzata Nagato, sequestrata ai giapponesi e a bordo della quale l’ammiraglio Yamamoto aveva dato l’ordine di attaccare la base americana delle Hawaii. Con quel massiccio trasferimento di mezzi gli alti comandi statunitensi intendevano testare la potenza degli spaventosi ordigni nucleari su precisi obiettivi militari. La prima delle bombe, “inaugurate” l’anno prima sulle popolazioni di Hiroshima e Nagasaki, fu sganciata il 2 luglio sul ponte di una corazzata, dipinto di rosso per farlo individuare meglio dall’alto. Ma l’aereo non centrò il bersaglio e l’ordigno fece relativamente pochi danni. La seconda bomba venne fatta esplodere il 26 luglio all’interno di un sommergibile piazzato al centro della flotta. L’effetto stavolta fu devastante. Decine di navi vennero polverizzate e la Saratoga, di oltre 48mila tonnellate, fu risucchiata all’interno del fungo atomico e poi scaraventata nei fondali marini, dove ancora giace per il divertimento degli amanti delle immersioni e dei relitti sommersi. La prima delle due bombe fu battezzata col nome di Gilda, in omaggio a Rita Hayworth che stava furoreggiando in America col film di Charles Vidor, che alla prima uscita aveva già incassato tre milioni di 158 dollari. Iniziativa, per la verità, di dubbio gusto (pare fosse venuta in mente ai dirigenti della Columbia) che l’attrice non mancò di sottolineare e di amareggiarsene. L’atomica Gilda, dunque, esplose due volte: prima tra il pubblico, poi su quello sperduto angolo del Pacifico. E la rossa, conturbante Rita sarà per sempre Gilda, anche interpretando ruoli diversi e contrastanti come quello della Signora di Shangai girato accanto al marito Orson Welles. Una volta, cercando le ragioni del fallimento dei suoi matrimoni, confessò: “Sposavano tutti Gilda ma la mattina dopo si svegliavano con me”. “Non c’è mai stata una donna come Gilda”, annunciavano i manifesti del film. In effetti, la Hayworth riassumeva in sé due dive: Greta Garbo per la purezza, Marlene Dietrich per il peccato. Una fortunata sintesi di donna di malaffare e dea dell’amore romantico che rispecchiava in pieno i gusti e i desideri del pubblico che con la guerra aveva perso la fiducia nelle istituzioni e negli ideali tradizionali. Per raggiungere quella perfetta sintesi degli opposti, i tecnici lavorarono sodo. Innanzitutto sul nome. Via quel Margarita Carmen Cansino che faceva rima con troppe cose. Meglio il cognome della madre, Haworth, che era stata una ballerina di Ziegfeld, al quale aggiunsero una Y. E via anche quel colore nero di capelli e quella leggera pinguedine che la rendevano troppo ragazza della porta accanto. Dopodiché le allargarono la fronte rasando un centimetro buono di capelli, le incapsularono i denti troppo laschi, le ritoccarono gli zigomi e gli occhi ma per un errore del chirurgo plastico, come ricorda Antonia Bonomi, “una palpebra resterà abbassata e sarà costretta a portare sempre ciglia finte per mimetizzare il difetto, mentre l’occhio lacrimerà perennemente”. Il film mostrava come le donne, stanche di fare le fidanzatine o le casalinghe, avessero ormai conquistato l’indipendenza sessuale e dimostrato come il mito dell’onesto lavoro naufragasse di fronte al desiderio della ricchezza facile. La rispettabilità era messa in gioco e il passato giudicato un insieme di menzogne 159 sulle quali si basava la coesione d’una società sostanzialmente corrotta. Se questi erano i desideri e le scelte della società americana, in Italia soffiavano impetuosi altri venti. L’ordine borghese s’incarnava per grandi linee nel matrimonio indissolubile, nella prima comunione, nel liceo classico e nel latino, nelle classi separate, nell’educazione fisica separata, e persino nelle tende alle finestre, nel reggiseno, nel costume da bagno intero, nello smoking e nella musica classica. Anna Tonelli, in Politica e amore, ricorda come la Chiesa custodisse con fermezza i sacri principi della morale. Numerosi erano i manuali cattolici che invitavano le donne a sottomettersi all’uomo. In Amore di sposa, M. Mazzel scrive: “La donna non meni troppo la lingua facendo a ogni tratto osservazioni su quanto il marito ordina e dispone nell’andamento della vita domestica, ma si lasci guidare sottomettendosi al giudizio e al modo di vivere del proprio sposo”. A un ragazzo che voleva sposarsi, l’amico consigliava: “Non scegliere tua moglie tra le giovinette troppo brillanti, perché hanno il giudizio ancor più corto delle sottane e hanno ancor meno idee in capo che stoffa sulle spalle o sulle braccia”. A casa mia il matrimonio era visto come il coronamento del vero amore e la verginità era giudicata ancora un valore, magari non nelle forme estreme teorizzate da Pio XI nell’enciclica Casti connubii del 1931. “Dritta a casa”, diceva mia madre a mia sorella che, per vocazione e non per sciocca obbedienza, fendeva la folla come se avesse inghiottito un manico di scopa. Dopo il collegio Sacro Cuore di via Martino Cilestri frequentò l’istituto commerciale De Felice, in piazza Roma. Classe mista. Credo che molti compagni di scuola ne fossero innamorati. Inutilmente innamorati. La sua regola era cattolica ma non bigotta, anche perché non avrebbe mai tollerato ingiuste imposizioni maritali o consigli aberranti come da manuale (filoarabo): “Cerchi di non far mai nulla senza aver chiesto il consenso o il parere del marito, quando si tratti di uscire 160 di casa, di fare una compera, di iniziare una pratica e via dicendo”. Sembra di ascoltare le aberranti regole delle case mussulmane in cui le donne se ne stanno appartate a ricamare, a deprimersi e come unica trasgressione quella di salire sulla terrazza per sognare sugli orizzonti liberi che si aprono davanti ai loro occhi, tenuti per lo più socchiusi nelle penombre delle stanze e serrati nei talami nuziali nel momento in cui arriva il turno di dispensare eros al marito-signore. Mio cognato è un uomo onesto e silenzioso, e la severità la impone a se stesso più che alla famiglia. Fino ad alcuni anni fa dirigeva la sezione medica di un’industria farmaceutica nella zona industriale di Catania, la Cyanamid, e prima ancora lo stesso lavoro aveva svolto a Milano, alla Boehringer-Ingelheim. Suo padre aveva alcune proprietà nelle campagne di Centuripe e suo zio, fratello della madre, era Giuseppe Saitta, filosofo e storico della filosofia. Aveva tenuto le cattedre di filosofia morale e filosofia teoretica all’università di Bologna. Ex sacerdote, allievo di Gentile a Palermo, il suo idealismo si distaccava da quello del maestro per un più radicale immanentismo ed un’accentuata polemica antireligiosa. “Amado mio/ love me forever/ and let forever begin tonight...” La canzone di Doris Fisher e Allan Roberts, che Rita Hayworth canta con la voce di Anita Ellis, è una parte importante del film, definito da Kate Cameron, sul Daily News di New York, “spazzatura d’alta classe”. E tale, probabilmente, sarebbe passata alla storia se a nobilitarla e a renderla immortale non ci fosse stato il fascino della diva. Ruth Waterbury sul Los Angeles Examiner scrisse: “Rita Hayworth si rivela una intelligente donna di spettacolo. Per non parlare della sua bellezza. Il risultato è un melodramma fastoso e affascinante. Se la storia è inverosimile, potete tranquillamente ignorarla concentrandovi sulla protagonista”. Accanto a Amado mio è da ricordare Put the Blame on Mame. Rita la interpreta mentre si sfila il lungo guanto nero e lo fa vorticare prima di lanciarlo agli ammiratori. Al cinema dei ferrovieri cadde il 161 soffitto. Le canzoni ma anche le immagini e le parole. Come lo schiaffo di Glenn Ford alla Hayworth e la battuta di lei: “Ti odio a tal punto che forse un giorno ne morirò, Johnny”. Quello schiaffo, che in realtà è la cifra autentica del film, restò sonoro e senza lacrime. Non conobbe i risvolti drammatici che coinvolsero Renée Faure durante le riprese del film La vipera del deserto di Serge de Poligny. L’attrice francese doveva girare una scena nella quale era previsto che dovesse piangere. Per una che aveva girato La conversa di Belfort non doveva essere un problema. Ma per quanto si sforzasse non le riuscì di farlo. Allora, su suggerimento del regista, il partner Georges Marchal provò ripetutamente a schiaffeggiarla, sul serio. Ancora una volta senza risultato. Alla fine, nel momento in cui la sua faccia rischiava di gonfiarsi seriamente, i suoi occhi distillarono alcune lacrime e il ciack, per disperazione, fu dato per buono. Solo quando rientrò nel suo camerino l’attrice scoppiò in inutili singhiozzi. Due ore dopo si calmò. L’anno successivo, impegnata nel film di Christian-Jaque La certosa di Parma, si guardò bene dall’avere problemi. Rita Hayworth muore nel 1987 a sessantanove anni, distrutta dall’alcol e dall’alzheimer. Il suo ultimo sorriso, un’inebetita smorfia, fu raccolto dalla figlia Yasmine che ne aveva la tutela da sette anni, dal momento in cui l’attrice era stata giudicata incapace d’intendere e di volere. Il vizio della bottiglia glielo aveva attaccato Ernest Hemingway che l’amò come tanti nella sua vita. Si sposò cinque volte ma due furono i grandi amori: Orson Welles, troppo intelligente, e il principe Alì Khan, troppo ricco. Nella sua carriera girò 60 film, non tutti da ricordare, ma è stata uno dei grandi miti del cinema americano. Una volta, al festival di Taormina (siamo alla fine degli anni Ottanta), Glenn Ford, ospite d’onore e ormai avanti negli anni, alla domanda di Lello Bersani quali fossero state le persone che più avevano contato nella sua vita rispose: John 162 Wayne e Rita Hayworth. Lello Bersani lo incontravo al festival del cinema di Taormina. Era un bravo cronista televisivo, vaporoso, leggero e sessualmente chiacchierato. Eppure, una volta mi confessò di avere avuto in gioventù una love story con Anna Maria Pierangeli, l’attrice che amò Kirk Douglas e James Dean prima di sposarsi col cantante Vic Damone. Ma l’amore del giovane cronista per la bella e giovane attrice naufragò di fronte al no deciso della signora Pierangeli. Parafrasando la celebre frase del presidente Fumaroli, che mise alla porta l’imberbe Bellini innamorato pazzo di Maddalena, disse: “Non do mia figlia a uno spiantato!” Parole analoghe dovette pronunciare la madre di Mary Pickford di fronte alla caparbia volontà della figlia, avviata a una splendida carriera, di sposare l’attore irlandese Owen Moore, ricordato poco fa. Quando seppe che Mary, a bordo del piroscafo Texas, stava scappando con l’innamorato alla volta di Cuba, noleggiò un motoscafo e tentò l’abbordaggio in prossimità delle coste cubane. Niente da fare. Mary, che aveva appena sedici anni ed era innamorata persa, tenne duro e lei fu costretta a masticare amaro rinunciando al proposito di fare arrestare il futuro genero per ratto di minorenne. Diventata una stella di prima grandezza, Mary mise fine a quel matrimonio avventuroso. Owen Moore, per invidia o debolezza, era scivolato nella follia dell’alcool. Dall’unione con Vic Damone, che era figlio di immigrati italiani e si chiamava Vito Rocco Farinola, nacque un figlio, Perry, che per poco rischiò di non venire al mondo. Oriana Fallaci, nel suo libro I sette peccati di Hollywood, la racconta così: “Pier, come la chiamavano gli intimi, era al terzo mese e andava in vacanza a Palm Springs. Prese l’aereo e durante il viaggio si chiuse un momento nella toilette. La hostess dimenticò di chiamarla perché mettesse la cintura di sicurezza mentre l’aereo ballava e Pier cadde con una gamba dentro il water closet trascinandosi addosso uno 163 specchio. La trovarono, all’arrivo, col ventre e la faccia pieni di schegge di vetro, la gamba e il bacino fratturati”. Due anni dopo Amado mio uscì in Italia Addormentarmi così di Mascheroni-Biri nel cui arrangiamento il maestro Pippo Barzizza, re dello swing all’italiana, sottolineava le magiche atmosfere di Amado mio, adatte per altro a un testo che insiste sul contatto “bocca a bocca” e sulla voluttà di “morire insieme”, “labbra sulle labbra”. Interprete della canzone era una giovane cantante, Lidia Martorana, che l’anno prima era stata tra i vincitori di un concorso per voci nuove indetto dal Radiocorriere. Aveva una voce morbida e sensuale. Durante la guerra aveva fatto parte, assieme a Claudia Dell’Aglio e Pina Garduzio, del Trio Aurora, rivale del Trio Lescano. Fu fatta fuori dalla Rai all’alba degli anni Cinquanta e il suo posto fu preso da Carla Boni. È tempo di musica nuova. Accanto al jazz, mortificato dal regime fascista in quanto musica afroamericana, accanto al tango e alle melodie di Frank Sinatra, Bing Crosby e Cole Porter, irrompono nuovi ritmi: rumba, raspa, bajon, beguine, bolero. Le feste da ballo, per lo più, si svolgono nelle case private. La musica è affidata a un giradischi al quale bisogna cambiare spesso la puntina. I dischi sono a 78 giri e se cadono si spezzano e se vengono usati troppo i solchi si allargano e la musica comincia a raschiare, saltare, ripetersi. Le feste sono di solito circoscritte in saloni molto illuminati e circondati da sedie occupate dalle madri, dalle nonne e dalle zie delle ragazze, sentinelle incorruttibili che si convincono a chiudere un occhio solo se i ragazzi rappresentano una buona sistemazione. In questo caso, basta un cenno e la ragazza, che per tutta la serata ha ficcato l’avambraccio nel petto del cavaliere per non farsi sfiorare le tette, allenta la difesa. Feste da oratorio, tutto sommato, eppure il fascismo aveva cercato di combattere quel “paganesimo”, o “autunno spirituale”, che altro non era che semplice sussulto di 164 modernità, di rapporto più libero tra i sessi. Con la Liberazione il testimone passa più incisivamente alla Chiesa e alla Democrazia Cristiana, ma non scherzano neppure sull’altro fronte, se è vero che il PCI invita i compagni di fede a rispettare nel ballo i “limiti della decenza” evitando di abbracciare troppo le ragazze e di “abbandonarsi a lascivi toccamenti”. A parte le indicazioni di partito o di parrocchia, le pulsioni erotiche dei ragazzi restano comunque inespresse. I sacri confini, gli hudùd di cultura araba, esistevano anche da noi, nell’Occidente laico. I confini che separavano gli uomini dalle donne, erano ovunque: nelle scuole, negli stabilimenti balneari, nelle palestre, nei partiti, nei giochi. Fino a pochi anni fa, nei piccoli centri dell’entroterra siciliano, le piazze erano competenza dei maschi, dei loro pensieri arditi, dei loro sguardi e osceni sorrisi se una “straniera”, che magari veniva da Messina, attraversava quello stretto dominio. Nessuna delle donne si salvava, annoverate tutte nella categoria delle buttane, tranne le madri e le sorelle. Le terrazze per le siciliane erano i balconi da dove si intessevano sospiri e pettegolezzi, si lanciavano bigliettini agli innamorati, che passavano sotto e magari cercavano di sbirciare nelle gonne tenute strette coi ginocchi. Da quei balconi venivano stese, perché tutti potessero vederle e apprezzarle, le lenzuola macchiate di sangue dopo la prima notte di nozze: sancivano la perdita della verginità della ragazza. Ma se c’era qualche problema si rimediava con salsa di pomodoro, o sangue di piccione come racconta il film di Naine Labaki, Caramel, ambientato nella Beirut d’oggi che della Sicilia di allora sembra uno specchio fedele. I ragazzi, con la complicità delle ragazze, davano fondo alla loro immaginazione pur di raggiungere le loro innamorate, farsi promettere o al più dare un casto bacio, guardarsi negli occhi, scambiarsi pegni d’amore. Nel 1957 il musicista Eduardo Alfieri ottiene un grande successo con una canzone, A sonnambula, ispirata a quei sotterfugi d’amore. Mirabile il testo di Gigi Pisano: 165 “Carmela è na bambola/ e fa ’ammore cu me./ Ma a mamma è terribile,/ nun m’a vo’ fa’ vedè…/ Allora aggio truvato/ nu bellu ritruvatu./ Carmela fa ‘a sonnambula,/ pe’ mme venì a truvà…/ e fa scema a mammà!” Il regista Gianni Puccini ne avrebbe tratto un musicarello, Carmela è una bambola, con Marisa Allasio e Nino Manfredi. È tempo di poesia. Ogni ragazzo, giudicato inabile alla visita di leva, ogni ragazzo chino sui libri e non sui fumetti o sui giornali sportivi, ogni ragazzo stretto di petto che tratta l’amore per conto d’altri e arrossisce al solo sguardo d’una donna, pianeta misterioso e insondabile, scrive versi all’innamorata, per lo più immaginaria o al di fuori della sua portata. Versi immaturi, pieni di confusa sofferenza, di sentimenti tanto grandi quanto astratti, versi che nascono da povertà di linguaggio e di tecnica, come nelle poesie dei popoli bambini. Componimenti che scaturiscono dalla vanità e dal bisogno di mostrarsi, di esistere, di controbilanciare l’incapacità di farsi valere nella società. Cattivi poeti, in definitiva, che nell’impossibilità di esprimersi in forme letterarie complesse si affidano al verso perché formalmente più semplice e vicino alla loro ignoranza. Il palazzo dove ho abitato fino a diciotto anni divide due strade: via Vecchia Ognina e via Giuseppe Verdi, diventata poi da quel tratto in poi via Pietro Mascagni. In uno dei palazzi di questa strada abitava una ragazza bionda, con gli occhi azzurri e le trecce. Aveva un viso dolce e delicato, con un che di malinconico e di inafferrabile che mi richiamava alla mente Olivia de Havilland innamorata di Errol Flynn nella Leggenda di Robin Hood. L’ho vista crescere accanto ai miei anni, camminare con le sorelle più piccole che teneva per mano: una specie di famiglia March del quartiere Bovio. Facevano tutto in fretta, sia che andassero a scuola sia che ne tornassero, come folletti allegri e spensierati. La domenica andavano a passeggio mentre con mio 166 fratello, dalla terrazza, lanciavo apparecchi di carta. Quando scomparivano dietro l’angolo di via Francesco Crispi smettevo di fare il balordo e cominciavo a pensare al futuro. A cinque anni, osservando il lavoro delle maestranze impegnate a costruire proprio il palazzo di Olivia de Havilland, volevo fare il muratore ma a dieci anni, ascoltando alla radio il maestro Cinico Angelini, avevo cambiato idea: meglio il direttore d’orchestra, meno faticoso e più gratificante. Nel frattempo, davo sfogo alla mia esuberanza giocando col sole: ne catturavo i raggi su uno specchietto e li rilanciavo sul viso dei passanti, là sotto, dove giacevano i relitti degli aeroplani di carta. Oppure usavo la fionda per stendere, sempre dal terrazzo di casa, i colombi dalla cacca assassina. Facevo come tutti i bambini del mondo, come Hassan, il cacciatore di aquiloni a Kabul, il ragazzo hazara che con gli altri della sua etnia veniva represso con inaudita violenza dai pashtun. L’idea del giornalismo mi si radicò nella mente nel momento in cui seppi che a trenta metri da casa mia abitava il direttore de La Sicilia, Antonio Prestinenza, un uomo piccolo, piuttosto brutto ma di grande intelligenza e bontà, che era sposato con una bellissima donna. Di fronte al mio portone, in un appartamento al piano rialzato, abitava invece una vecchia amica di Domenico Sanfilippo, l’editore del giornale. “Zio Domenico”, rotondo nella figura e con gli occhi che sprizzavano ironia, l’andava a trovare di tanto in tanto. Indossava un doppiopetto, che teneva sempre sbottonato, e immaginavo quanto la sua vita dovesse essere interessante e straordinariamente felice. Era una sorta di signor Matuscek, il protagonista del film di Ernst Lubitsch Scrivimi fermo posta, del 1940, con James Stewart e Margareth Sullavan. Come quel personaggio, rude e bonario, che dirigeva un negozio di pelletteria alla vecchia maniera e trattava gli impiegati come figli, anche il vecchio Micio (guai però a chiamarlo vecchio! per vanità, imponeva ai redattori di non usarla mai quella parola; per anni le cronache del 167 suo giornale parlarono sempre di persone “anziane”), anche zio Micio, dicevo, trattava la redazione come una famiglia. E La Sicilia, allora, era una grande famiglia. Non c’era bisogno che suonasse, perché la figlia della signora stava sempre affacciata al balcone, e quando lo vedeva arrivare gli andava a aprire per poi tornarsene a controllare il traffico degli umani. Mi faceva impressione perché la ragazza, piuttosto bruttina, era perennemente imbacuccata, sia d’estate sia d’inverno e, logicamente, sempre raffreddata. Non mi sarei meravigliato se la madre le metteva anche del cotone idrofilo tra collo e maglia per evitarle il minimo alito di vento. Cercarono di maritarla, inutilmente, con Antonio B. Lombardo, un assicuratore che collaborava col giornale. Una brava persona: buona, gentile, generosa. Se l’avesse sposata l’avrebbero assunto in pianta stabile al giornale. Rinunciò. Il sacrificio era troppo grosso. Si accompagnava con donne stupende, che tutti gli invidiavamo, ma dopo un poco le mollava senza ragione. La B, che non era proprio un complimento, inserita tra nome e cognome, fu un’idea del caporedattore del giornale, Renzo Di Stefano, per distinguere la firma da quella di un altro collaboratore, professore universitario che da giovane aveva fatto parte di Ordine nuovo, l’organizzazione neofascista fondata nel 1956 da una scissione a destra del MSI. “Ordine nuovo” aveva come simbolo l’ascia bipenne e il motto era lo stesso delle SS: “Il nostro onore si chiama fedeltà”. Si ispirava alle dottrine razziste e nazionalsocialiste del barone Julius Evola, il filosofo dell’idealismo mistico, autore nel 1937 del libro Il mito del sangue. Trent’anni dopo Evola trovò ancora il delirante coraggio di rimproverare Almirante di non organizzare apertamente squadre d’azione per “distruggere i centri della sovversione” e “stroncare gli scioperi”. A quel tempo, Antonio Lombardo (quello senza B), a quanto si diceva, girava con una catena in macchina per picchiare gli odiati comunisti. Ma come avrebbe potuto 168 farlo non si capiva, era talmente magro e fragile! Anche di lui ero amico. La sorella Silvana sposò Giuseppe Las Casas, fratello di Barbaro e figlio del notaio Antonio, che frequentai per qualche tempo, ad Acitrezza, assieme a un gruppo di altri ragazzi e ragazze coi quali s’andava a fare il bagno nel Canalone, un tratto di mare che divideva l’isola Lachea dal più grande dei faraglioni. C’erano Angelo Arcidiacono, futuro campione olimpico che già allora tirava di scherma; le sorelle Mattina, buone e sempre allegre; i fratelli Modica e i fratelli Reitano; Gigliola Paternò, simpatica ribelle, che troverà assurda morte nelle acque della Grecia; Egle Corvaja, figlia del direttore della Banca d’Italia a Catania, la cui bellezza c’intimidiva; Giovanna Rasario, pittrice di talento, il suo rosso ricordava il rosso Matisse; Aldalisa Cantone, silenziosa e osservatrice; e altri nomi e facce che non rammento. Una bella stagione di ricordi delicati, di giochi, di amori fragili, di promesse e amarezze. Talvolta nel Canalone facevo il bagno con il collega Renzo Di Stefano. Ci cambiavamo nella casa di una vecchina, che l’affittava per poche lire, e poi un pescatore ci trasbordava con la sua barca da piazza Marina all’isola Lachea. Il mare era trasparente. Rammento che Renzo beveva sempre un poco d’acqua salata. “Fa bene allo stomaco”, diceva. Una volta provai a fare la stessa cosa ma vomitai l’anima. Più tardi in quello specchio d’acqua il preside Arturo Mannino, che frequentava il giornale e aveva un difficile rapporto col figlio, fu ucciso dall’elica di un motoscafo che non poteva attraversare quel tratto di mare riservato ai bagnanti. Il responsabile, un uomo che a me sembrava fatuo, se la cavò con niente. Da ragazzo non leggevo giornali. Era mio padre a farlo, dopo pranzo. Ci leggeva gli articoli pubblicati sulla terza pagina del Corriere della Sera e tutta la famiglia stava ad ascoltarlo. Mi ricordo alcune prestigiose firme: Giovanni Papini, Alberto Savinio, naturalmente Indro Montanelli, Guido Piovene, Dino Buzzati, Orio Vergani, scrittori che hanno segnato la 169 storia della letteratura del Novecento. Amavamo molto Giovanni Papini, l’ateo per eccellenza diventato poi cattolico di uguale eccellenza; ma non tanto per ciò che scriveva (noi ragazzi non potevamo capirlo bene) ma per il suo essere quasi cieco e l’affidarsi per la lettura alla nipote Ilaria Occhini che gli prestava occhi e voce. Forse nacque da lì la vocazione d’attrice della giovane Ilaria. Il mio “giornale” era la strada, che “leggevo” dalla terrazza; erano le pettegole fantasie di Giovanna, la persona di servizio dei nostri padroni di casa; erano i racconti di mia madre che conosceva ogni cosa del quartiere pur standosene a casa a lavorare. Era un’osservatrice nata, mia madre. In ciò assomigliava alla zia di Proust, Léonie, che ogni mattina spalancava la finestra su via dello Spirito Santo, a Combray, come per aprire il giornale, e si tuffava avida nella folla e ne scrutava ogni passo ed espressione. E da lì capiva tutto, o quasi, ricostruiva e inventava e non si dava pace se qualcosa alla fine non quadrava. Per fortuna c’era l’affezionata cameriera Françoise che al ritorno dalle commissioni le raccontava e perfezionava le sue puntuali immaginazioni. Tale facilità di osservazione e infantile ricostruzione proveniva dalla controllabilità dei confini del quartiere, sia quello di Combray, dal quale si diramavano le opposte strade della tenuta di Swann e di Guermantes, sia quello di Catania, il Bovio, che prende nome dalla piazza intitolata al filosofo napoletano e ideologo repubblicano Giovanni Bovio. Bastava stabilire un punto di controllo e le persone, che la limitatezza dello spazio rendeva abitudinarie, le trovavi e le ritrovavi a ore più o meno stabilite, perché lì era il loro centro di interesse e di necessità, lì facevano la spesa, chiacchieravano, andavano a messa, comperavano i giornali, osservavano e venivano osservate. Non c’era bisogno di telefono per comunicare o sapere le cose, bastava il “telegrafo irlandese”, come lo chiamava Frank McCourt, che diffondeva le notizie porta a porta, persiana a persiana, ringhiera a ringhiera, 170 con imprecisione scanzonata. Mia madre era una casalinga come tante nel dopoguerra. Rassettava, faceva la spesa, cucinava, lavava, stirava e, nei lunghi pomeriggi, con i figli che le si raccoglievano intorno a fare compiti e domande sul mistero del mondo che magicamente si apriva, trovava il tempo di rammendare e cucire. Diciotto ore all’in piedi. Al servizio degli altri. Per sé, un ritaglio di lettura, un minimo spazio di riflessione, a parte il cinema che la coinvolgeva come tutti noi. Il filo ha legato la sua vita. Il filo dell’ago e quello del pensiero, in un metodico andirivieni, strumento dell’operare e del ragionare, come acutamente osserva Francesca Rigotti in un originale saggio in cui si contestano per altro arcaici pregiudizi, come quello del letterato francese della metà dell’Ottocento, Frédéric Solulié, il quale osservava che “le donne tengono in mano la penna come un ferro da calza e scrivono come rammendassero mutande”. E invece le donne, armate di quei due fili intrecciati, hanno dato saggezza al mondo, coi loro libri e la loro filosofia delle piccole cose, del lavoro silenzioso, dell’accumulo, dell’ordine e della disciplina. Già in quel conservare ossessivo negli armadi tutto l’apparente inutile possibile, i vestiti fuori moda, le lane e gli scampoli, c’è una grandezza che trascende l’atto in sé. Mia madre non buttava mai niente, come da antica saggezza popolare: conserva la pezza per quando viene il buco. Mia madre conservava tutto: la bomboniera del mio matrimonio, le medaglie d’oro e d’argento del Leonardo, le cravatte, gli abiti di mio padre, ordinati e puliti come se si dovesse ancora indossarli… le riviste di cinema… Non appena mio fratello fu in età di seguire per un’ora e mezzo un film, senza distruggere il sedile e disturbare gli spettatori, mia madre prese l’abitudine di condurci allo Spadaro, di pomeriggio, una volta la settimana. E poiché quelle ore d’incanto non dovevano sovrapporsi ai compiti e ai lavori domestici, con mia sorella ci mettevamo subito a studiare, appena alzati da 171 tavola, e poi ad aiutare mamma a lavare i piatti e le stoviglie, asciugarli, pulire la cucina… in tempo per cogliere la suggestione del grande schermo. Gli altri giorni accumulavano l’attesa di altri film. Ma il tempo passava in fretta perché c’erano tanti sogni da elaborare, tanti libri da leggere, tanti racconti da ascoltare da nostra madre mentre concepiva l’ennesimo modello di vestito per mia sorella. Sul tavolo da pranzo stendeva la stoffa, acquistata da Matteo Ventimiglia, in via Umberto, o da Caflish, in via Etnea, la segnava col gessetto, seguendo le linee del cartamodello, e poi tagliava, imbastiva e rifiniva alla macchina per cucire, una Diamant a pedali. Joan Fontaine, ragazza senza nome, nel 1940 entra a piccoli passi nella scena di Rebecca, la prima moglie e la occupa con la forza della sua fragilità. Tratto dal romanzo di Daphne Du Maurier, il film è uno dei capolavori di Alfred Hitchcock, alla sua prima esperienza americana. Opera gotica, senza sorriso e piena di suspence, che ottiene un grandissimo successo grazie all’interpretazione della timida e smarrita Joan, finalmente al meglio delle sue possibilità dopo alcuni film insignificanti. L’anno dopo ripete il successo, e conquista l’Oscar per la migliore interpretazione, con Il sospetto, sempre del maestro Hitchcock che l’ha presa a ben volere. Al posto dell’enigmatico Laurence Olivier stavolta c’è Cary Grant, anche lui ambiguo e inquietante. Vedere il film e uscirne senza avere lasciato il cuore a Lina McLaidlaw è pressoché impossibile. Se in Rebecca Joan Fontaine lotta col fantasma di una donna, in questo mirabile secondo film combatte col fantasma di un uomo malvagio che lei sospetta sia il lato oscuro e terribile del marito. Nella famosa scena in cui Cary Grant porta alla moglie un bicchiere di latte, presumibilmente avvelenato, il regista, per focalizzare l’attenzione del pubblico sul bicchiere, lo illumina dall’interno con una lampadina. Per decidere il finale 172 del film, poi, organizza un sondaggio tra la gente: il protagonista deve risultare colpevole o innocente? La risposta è inequivocabile: il bel Cary Grant non può essere un assassino. Ma il finale risulta appiccicato e contrasta con l’andamento del film. Il passaggio di un Cary Grant da malvagio a vittima delle circostanze risulta, infatti, poco credibile. Il finale non piaceva nemmeno a Hitchcock che avrebbe voluto girarne uno diverso, come confessò a François Truffaut nel famoso libro-intervista. E il finale è questo: Cary Grant porta il bicchiere di latte avvelenato, realmente avvelenato, a Joan Fontaine che ha appena finito di scrivere una lettera alla madre in cui confessa che il marito vuole ucciderla. Poi la donna prende il bicchiere ma prima di berlo, e di morire, dice al marito: “Caro, per favore, vuoi spedire questa lettera alla mamma per me?” Dissolvenza, apertura, breve scena. Cary Grant arriva fischiettando, apre la buca delle lettere e butta dentro la lettera che lo inchioderà. Infine, la terza grande interpretazione di Joan Fontaine: Lettera da una sconosciuta (1948) dell’altro maestro del cinema Max Ophüls. Anche stavolta l’eroina lotta con un fantasma di cui si è perdutamente innamorata: un pianista (Louis Jourdan) che promette grandi cose ma che poi si perde nell’abulia, nella smemoratezza e nel rimpianto del talento sprecato. Nella lettera, Jean scriverà all’amato Louis questa frase indimenticabile: “Ora so che mai niente accade per caso: ogni istante ha il suo peso, fino a che anche la morte appartiene al passato”. Ancora oggi non mi stanco di vederlo. Il soggetto del film è di Stefan Zweig, lo scrittore ebreo che nel suo capolavoro Il mondo di ieri racconta di una generazione, quella dell’Austria Felix, avviata alla catastrofe morale e politica, così come aveva fatto, su più alti registri, Joseph Roth. Il libro, che venne pubblicato postumo, dopo il suicidio dell’autore, lo lessi a quindici anni e ne feci una tesina per il professore di storia e filosofia. Allora mi sembrò una cosa immensa: il libro… e il mio scritto. 173 Se Joan Fontaine era la foglia che trema nel vento, Lauren Bacall era l’albero. Energica, volitiva, coi piedi ben piantati a terra, questo era la leggendaria moglie di Humphrey Bogart. In Acque del Sud, di Howard Hawks, il film galeotto che la legò al destino del vecchio Humphrey, lei è semplicemente spettacolosa. Da allora in poi per il pubblico è stata lo Sguardo. Quando nei panni di Marie Browing, detta Slim, col suo elegante completo a zampa di pollo entra nella stanza dell’ex capitano Harry Morgan e gli chiede un fiammifero capisci che stai entrando nel vertiginoso mistero della donna. Lo capisce soprattutto il protagonista che decide di trasformare la finzione in realtà. Si sposeranno alla fine delle riprese, nonostante la differenza d’età: lei 20 anni, lui il doppio; lei al primo matrimonio, lui al quarto. In una conversazione con William Powell, nel film Come sposare un milionario, Lauren riassumerà il proprio personaggio, che in quel caso collimava con quello reale, con questa battuta: “Deve credermi, mi sono sempre piaciuti gli uomini maturi: metta un Roosevelt, un Churchill… e quel tardone di Humphrey Bogart dove lo mette?” Sarà un’unione felice, di quelle “finché morte non vi separi”. Nasceranno due figli: Stephen e Leslie, in onore di Leslie Howard, al cui ricordo Bogart era particolarmente legato: grazie a lui nel 1936 aveva ottenuto la parte di protagonista in La foresta pietrificata. L’esangue e romantico Hashley di Via col vento morirà tragicamente nel 1943 mentre tornava a Londra in aereo dopo una missione segreta a Lisbona. Howard Hawks, di fronte all’amore travolgente di Lauren e Bogey sul set, che si sovrapponeva alla sceneggiatura e in parte la condizionava, fu costretto a rifare alcune scene del film che era ispirato al romanzo di Ernest Hemingway, Avere e non avere. Le rifece a malincuore perché anche lui s’era invaghito della bellissima esordiente pur avendo già una relazione con Dolores Moran, l’altra protagonista del film. Del resto, 174 del romanzo di Hemingway era rimasto ben poco. Artefice della manipolazione era stato William Faulkner che spostò l’ambientazione da Cuba (considerata dal presidente Roosevelt amica, e quindi intoccabile) alla Martinica (in mano al governo di Vichy, e quindi toccabilissima), eliminò vari episodi del romanzo, altri ne scrisse di sana pianta, modificò alcuni personaggi e li mise sotto uno stesso tetto, l’hotel Marquis. Tutto in una settimana. Gelosia a parte, Volpe grigia, com’era soprannominato Hawks, impressionato dall’amore incomprimibile che si andava sviluppando tra Lauren, ragazza ebrea del Bronx, e Humphrey, uomo del secolo precedente, riuscì a dare alla finzione scenica una miracolosa autenticità. Per meglio dire, non fece nulla per offuscare la passione tra i due protagonisti e li lasciò liberi di esprimersi. Esprimersi in un film la cui intelaiatura richiamava il più celebre Casablanca. Come nella storia raccontata da Michael Curtiz anche qui Bogart è un personaggio apparentemente cinico e politicamente disimpegnato, un personaggio che bada soprattutto al proprio tornaconto ma che sotto sotto è un romantico, leale con gli amici, tenero con la persona che ama, e che alla fine rischia tutto per l’idea che gli arde dentro. Prima di assumere il cognome della nonna, Bacall, e approdare da New York a Hollywood, la giovane Lauren, il cui vero nome era Betty Perske, aveva ottenuto qualche particina a Broadway ed era stata fotografata come modella per alcune riviste. A scoprirla fu la moglie di Hawks, “Acciuga” Gross, impressionata dagli occhi della ragazza che ammiccava dalla copertina di Harper’s Bazaar. Anche il marito rimase stregato da quello sguardo sensuale e capì che di quella ragazza avrebbe potuto fare una diva. La convocò per un provino e la scelse, nonostante le perplessità dei suoi collaboratori, come protagonista di Acque del Sud. La formazione vincente, regista-attori, si ripropose due anni dopo con Il grande sonno tratto dall’omonimo 175 romanzo di Raymond Chandler, lo scrittore che diede vita a uno dei personaggi più affascinanti dell’hardboiled, Philip Marlowe. Il film, “inestricabilmente complicato”, secondo il giudizio di Morando Morandini, resta tuttavia una delle vette insuperate del cinema nero “per la misura di suspence, erotismo e ironia” che possiede. I due strepitosi attori furono ancora insieme nel 1947, La fuga di Delmer Daves, e nel 1948, L’isola di corallo di John Huston. Quest’ultimo film è tratto da un dramma di James Maxwell Anderson, Key Largo, del ’39. Ma Houston manipolò per ragioni patriottiche il testo trasformando il protagonista da disertore in valoroso reduce. Nella parte finale il regista si ispirò al romanzo di Hemingway, Avere e non avere, pubblicato due anni prima e che aveva fornito, come s’è visto, l’intelaiatura ad Acque del Sud. Il maggiore McCloud, protagonista del film, assomiglia molto al capitano Morgan, specie quando questi trasporta un gruppo di gangster dalla Florida a Cuba e poi se ne sbarazza durante la traversata: le situazioni sono pressoché identiche. La differenza sostanziale è che nel romanzo lui muore mentre nel film raggiunge la salvezza e la ragazza di cui s’è innamorato. Di questa coppia d’eccellenza, dentro e fuori lo schermo, il cui amore sembrava eterno come i ponti di Cesare, fu amico Frank Sinatra. Peccato che dopo la morte di Humphrey il grande cantante, generoso, altruista ma terribilmente cinico e amorale, circuì la vedova, la illuse, se la portò a letto e poi l’abbandonò. Fece anche di peggio, l’accusò di opportunismo. E non era vero. A rimetterci, naturalmente, fu solo lei. Perse la corona di vedova inconsolabile e finì nel tritacarne implacabile di Beverly Hills. Oggi Lauren Bacall, nonostante le ottanta primavere e passa, è una donna energica e combattiva. Alla conferenza stampa del 2004 a Vienna, tenuta in occasione della Viennale, sparò a zero contro il cinema spazzatura e contro George W. Bush definito “il peggiore presidente che l’America abbia mai avuto”. E 176 ancora non sapeva che alla fine del suo mandato l’ineffabile Bush avrebbe ammesso che la guerra in Iraq era stata il suo più grosso errore. Alla faccia del caciocavallo direbbe Totò. Le scuse non hanno alcun valore se riposano su migliaia di morti. Il festival del cinema austriaco le dedicò una personale di 10 pellicole. “Ormai i film”, disse l’immortale Lauren “sono girati da uomini d’affari che mirano al guadagno e non da chi ama davvero il cinema”. Alla domanda se si riteneva una leggenda rispose: “Per parlare di leggenda bisogna essere morti”. Lo stesso giorno, in un’intervista a Time Magazine, sparò a zero contro Tom Cruise: “Non credo sia un grande attore”. Ne criticò soprattutto l’ostentazione degli amori privati, “per farsi pubblicità”, e l’appartenenza a Scientology, la setta religiosa fondata da Ron Hubbard. Sull’ex moglie Nicole Kidman confezionò un aforisma al vetriolo: “A parte l’essere morti, per diventare una leggenda occorre un passato”. Nel 1997, la casa editrice Polillo, che si accingeva a lanciare in Italia il romanzo di Stephen Bogart Suonala ancora, organizzò un incontro tra l’autore e la stampa. L’occasione era ghiotta non tanto per il libro quanto per Stephen Bogart, figlio del grande Bogey e dell’affascinante Lauren Bacall. Lo incontrai con la troupe del TG1 all’hotel Trinità dei Monti, in via Sistina, accanto a Villa Hassler. Era con la moglie che, curiosamente, somigliava alla suocera: stessa altezza, magrezza, distinzione. Lui aveva un po’ la faccia del padre, ma meno tenebrosa, e il sorriso della madre; non aveva bisogno di mettersi le scarpe col sopratacco, come faceva l’illustre genitore nel momento in cui sulla scena doveva abbracciare la moglie (e come fa oggi Berlusconi); inoltre non fumava e non beveva. Mi disse che Bogey poteva vivere anche in una stanza, purché fosse adeguatamente fornita di alcolici e sigarette. Per non fare la solita intervista seduta, ce ne andammo giù per la scalinata di Trinità dei Monti. Pregai anche la moglie di accompagnarci. Volevo come 177 ripristinare il sogno che mi aveva turbato da ragazzo, ripercorrerlo fino in fondo, capire quanto la realtà potesse ancora ingannarmi. Era una bella mattinata di primavera e le azalee erano al massimo della fioritura. Stavo camminando col figlio di una leggenda. Parlammo del romanzo, una sorta di noir alla Chandler e alla Hammett, e di come avesse voluto rendere omaggio al padre intitolandolo con la sua celeberrima battuta: “Suonala ancora”. E l’amico Sam nell’appartamento sopra il Rich’s café di Casablanca cominciò a suonare As time goes by. Mi parlò dei suoi figli, del suo lavoro di produttore televisivo, della sua casa nel New Jersey e dei tanti, non tantissimi, ricordi che lo legavano al vecchio Bogey. Mentre li salutavo ho pensato alla fumosa saletta del dopolavoro ferroviario dove per la prima volta vidi Acque del Sud e m’innamorai della giovane Slim. Immortale la scena del fiammifero, immortale l’ancheggiamento finale con cui lei raggiunge lui e insieme lasciano per sempre l’hotel Marquis della Martinica. 178 SETTE Merle Oberon, Veronica Lake, Myrna Loy, Loretta Young Quand’ero al ginnasio seguivo le lezioni con i gomiti appoggiati sul banco, le mani intrecciate a preghiera e immaginavo, magari sotto l’influsso di un film storico appena visto, comparazioni interessanti tra il passato e il passato prossimo, tra la grandezza dell’Impero romano e la piccolezza del fascismo che a quel mito glorioso pretendeva ispirarsi. Papà ne parlava spesso. Metteva i due problemi a confronto, li passava al setaccio e dopo avervi dato una robusta scrollata ciò che restava impigliato nelle maglie del suo ragionamento erano lo jus civitatis e lo jus gentium; e ciò che finiva diritto nella pattumiera erano le corporazioni, Mussolini e Sciaboletta, il re che scappò in Egitto lasciando la figlia Mafalda in mano ai nazisti che la spedirono nel campo di concentramento di Buchenwald dove morì. Ma queste erano idee un pochino sovversive per quel tempo. Catania aveva votato monarchia al referendum e il fascismo continuava ad essere una nostalgia. Non avendo conosciuto le lotte partigiane, la protesta dei cittadini spesso si colorava di nero: il nero delle camicie, il nero dei pensieri, il nero dei portali dei palazzi barocchi. Alle elezioni nazionali del 1971 il MSI si piazzò al secondo posto, con quattro deputati. La DC ne ebbe solo uno in più. “I voti neri erano maturati”, scrisse l’inviato del Corriere della Sera Alfonso Madeo “in un clima di generale disperazione, di frustrazione popolare, di caotici squilibri sociali. La corruzione, l’abuso, il clientelismo avevano tolto credibilità alle strutture stesse dell’organizzazione civile”. Furono quegli abusi e quella corruzione che travolsero l’onesto, anche se bizzarro, ingegnere Giuseppe Mignemi che scontò trentasei giorni di carcere per un’accusa ridicola che poi cadde al processo, grazie alla difesa 179 dell’avvocato Trantino. Lo andarono a prelevare e gli misero ai polsi manette nuove di zecca, manette all’americana, talmente nuove che ebbero difficoltà ad aprirle. Durante la prigionia scrisse un diario che nascondeva nel rotolo della carta igienica. Riflessioni, ricordi, accuse tracciati sui bordi bianchi dei giornali perché non gli fornivano la carta per scrivere. All’uscita di prigione, il superiore si mostrò scandalizzato: “E che, ingegnere, si porta via anche la carta igienica?” La risposta fu all’altezza del personaggio: “È di un tipo speciale. Intendo regalarla agli amici che hanno avuto paura di difendermi”. Tre anni dopo lo storico 1971, al referendum sul divorzio, i catanesi votarono come la maggioranza degli italiani. Se ne infischiarono di Fanfani e di Almirante, alleati di ferro, e lasciarono ai baciapile il rimorso di non averli capiti. Ma il Paese restava diviso tra fascisti e comunisti. Cantore della separazione ideologica, vista tuttavia con occhio bonario e paternalistico, fu Giovannino Guareschi che di sé diceva: “Nel mio vocabolario, avrò sì e no duecento parole… quindi niente letteratura o altra mercanzia del genere”. Con quelle duecento parole, però, che magari saranno state quattrocento, inventava storie di cronaca talmente verosimili che poi, a suo dire, si ripetevano nella realtà. Il miracolo della popolarità di Guareschi, scrittore di fede monarchica odiato sia a destra sia a sinistra, stava proprio in questa aurea mediocritas oraziana, in questo discendere nelle parole povere e mediocri dell’inferno per salire in quelle pure e splendenti del paradiso. Da uomo tutto d’un pezzo, bastian contrario fino all’autodistruzione, riuscì nella sua vita a scontentare tutti. Nel 1942 fu arrestato per offese a Mussolini, l’anno dopo finì nei lager nazisti per essersi rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, nel dopoguerra venne condannato due volte: la prima per avere offeso il presidente Einaudi, la seconda per avere diffamato De Gasperi. Questo secondo processo fu particolarmente odioso per la gravità delle accuse. Sul settimanale 180 Candido Guareschi aveva pubblicato due lettere, risultate false, con le quali il futuro presidente del consiglio chiedeva nel 1944 agli alleati anglo-americani di bombardare la periferia di Roma allo scopo di demoralizzare i collaboratori dei tedeschi. Condannato in prima istanza, avrebbe potuto evitare il carcere se si fosse convinto di ricorrere in appello, e in questo senso si adoperò il ministro Scelba. Ma Guareschi era Guareschi e quindi, per coerenza, rifiutò quella “via di fuga”. Guareschi come l’ultimo dei moicani, insomma, l’ultimo esemplare di un mondo la cui complessità a volte gli sfuggiva perché era onesto fino alla grazia e al candore, perché riusciva a inventare storie che non sempre si perpetuavano nella realtà e nella verità della vita. Con appena duecento parole, o quelle che sono, Giovannino Guareschi è riuscito a creare due formidabili personaggi, don Camillo e Peppone, e a vendere in tutto il mondo 20 milioni di libri. Due personaggi che saranno rilanciati nel cinema da Fernandel e Gino Cervi e che hanno divertito e affascinato generazioni di democristiani e comunisti. Perché questo era lo scrittore, al di là delle durezze ideologiche: un artista nel mezzo della corrente, un uomo che ha sempre cercato di non farsi travolgere, anche se non sempre si è salvato. Di fronte a questa scommessa vinta cade tutto. Cade l’ideologia, cade il risentimento, crolla il pregiudizio. Duecento parole! Messe in fila non arrivano a definire quasi niente di ciò che ci angoscia “in questo mondo di ladri”, come canta Antonello Venditti, ma precisano in maniera mirabile la terra di provincia in cui viviamo, il paese che adoriamo, la gente con la quale ci piace parlare e magari litigare. Se Leopardi ha descritto l’infinito, Guareschi ha messo il cannocchiale a rovescio e ci ha fatto vedere l’infinito all’incontrario, il mondo piccolo che non ha bisogno di grandi e spesso astrusi concetti ma di valori veri che puoi ricordare, e fartene cullare, alla fine d’una giornata di lavoro, chiudendo gli occhi e ringraziando chi c’è da 181 ringraziare. In fondo, il prete e il comunista rispecchiano l’onesta ambiguità del controverso scrittore. Gene Gnocchi avrebbe detto che la tonaca nera e il fazzoletto rosso sono stati il ventricolo destro e quello sinistro di Guareschi che fu, in ogni caso, monarchico di cuore e ribelle di mente. E fa impressione rileggere certi articoli maramaldeschi che furoreggiarono all’epoca delle note vicende giudiziarie. Azione giovanile, rivista della Gioventù italiana di Azione cattolica, titolò un’intera pagina con queste parole: “Guareschi ovvero lo scarafaggio”. Quei cattolici avevano dimenticato, per risentimento personale, quanto lo scrittore aveva fatto per la vittoria democristiana nel 1948. Memorabili e fantasiosi erano stati i suoi slogan contro i comunisti “trinariciuti”, come li definì: la terza narice serviva a fare uscire il cervello dei militanti per portarlo all’ammasso del Partito che aveva il compito di “pensare” per loro. Graffianti e geniali erano quelle fulminanti trovate: “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”, “Mamma, votagli contro anche per me”… il voto era reclamato dallo scheletro di un soldato italiano dietro reticolati sovietici. Alle parole vili e volgari del periodico cattolico Giovannino Guareschi rispose a modo suo, come s’è visto, entrando nel carcere di San Francesco, a Parma, per trascorrervi 14 lunghi mesi di rivolte spirituali e rimorsi. Lasciando la prigione, ricorda Enzo Biagi, portò con sé tre sacchi di lettere, speditegli dai suoi lettori, e una profonda amarezza. Poi la grande confessione: “Mi sono sbagliato. De Gasperi, se ci ripenso, era il migliore. Se ne andò, quand’ero in prigione, e me ne dispiacque”. Non è vero che il mondo resti lo stesso, non è vero che siamo tutti uguali. Oggi Guareschi avrebbe fatto sue le parole di Giorgio Gaber, “Io non mi sento italiano…”, lui che italiano era fino al midollo, che amava la sua provincia, che era fatto per le cose semplici e buone, ma che a vedere il Paese ridotto com’è alla rappresentazione televisiva di se stesso 182 avrebbe di sicuro cominciato a cantare: “Mi scusi Presidente/ non è per colpa mia/ ma questa nostra Patria/ non so che cosa sia…” Guareschi aveva pagato per le sue idee, a volte conformistiche a volte ribelli, aveva lottato per costruire un mondo migliore ma quel mondo aveva cominciato a corrompersi. I funerali di questo grande ribelle senza patria ma che la patria aveva amato moltissimo furono celebrati sotto lo stemma sabaudo (ma forse lui restò monarchico “perché non c’era più il re”). Le uniche persone degne del nome che vi parteciparono furono Enzo Biagi ed Enzo Ferrari. Si scoprirono il capo e pregarono, perché erano fieri di essere stati amici di una persona che aveva pagato per le sue idee e per i suoi sbagli. Quel giorno il Potere, che Guareschi aveva sempre sbeffeggiato, si nascose. Non trovò nemmeno una scintilla d’umana pietà per dargli l’ultimo saluto. Talvolta, parafrasando Giulio Verne, è più difficile trovare persone perbene nel nostro infelice Paese che in un penitenziario del Bengala. Alla fine di tutto, che cosa possiamo dire di Giovannino Guareschi? Che fu un clericale e un piccolo borghese? Fu un cattolico, profondo e impegnato, non un clericale. In lui, come disse una volta il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, c’era la sintesi della sapienza cristiana e della sapienza umana. Fu un borghese, certo, ma piccolo soltanto di tasca e grande di cuore. In definitiva, fu un uomo di difficili costumi. Se il professore faceva una domanda, non puntavo l’indice in aria, non lo facevo per timidezza, anche se conoscevo la risposta. Odiavo i fanfaroni della sapienza illustrata, i fasulli ben vestiti e pettinati come ometti che giocavano a fare gli ometti. I docenti, di solito, cadevano nella trappola, e non cercavano altre risposte nella categoria degli acquattati. Se la domanda deflagrava nelle retrovie, dove di solito stavano seduti gli ultimi della classe, erano scene penose di “non ricordo” e di appelli disperati con lo sguardo ai compagni vicini. Mi rammento di un ragazzo con vari 183 problemi irrisolti che se ne stava rintanato tra le braccia e ogni tanto, per sciocca emulazione, alzava la mano anche se non sapeva la risposta. Si alzava, esprimeva un timido sorriso circolare e faceva scena muta. Incalzato dal professore diceva: “Ce l’ho sulla punta della lingua”. Tornava a sedersi, dapprima confuso poi soddisfatto perché pensava che il professore e gli stessi compagni fossero caduti nella trappola, si fossero cioè convinti che soltanto la timidezza gli avesse impedito di rispondere. Di recente, in Gran Bretagna, il ministero dell’Istruzione ha suggerito agli insegnanti delle scuole elementari di scegliere loro chi interrogare perché di norma gli scolari timidi si fanno travolgere dall’esuberanza dei più intraprendenti che scalpitano dai banchi per mettersi in mostra e rendono invisibili i compagni passivi e insicuri ma non meno bravi. Bambino invisibile, dunque, avevo come unico e perverso alleato un batticuore ossessivo e paralizzante. Spesso me ne stavo nascosto nella mia nebulosa sognante, cercando, se la lezione era di tutto riposo, una trama di racconto per i miei amori di celluloide. Me ne strappavo solo quando un mio compagno, di abissale svogliatezza, interrogato dal professore, si alzava e ripeteva, ogni volta: “Francamente, non mi sento preparato”. All’ennesima franchezza il professore non ebbe dubbi: “Francamente non ti credo. Due meno meno”. Era un alunno che “scaldava il banco”, come si usava dire per i ragazzi svogliati. Nelle scuole pubbliche però erano i banchi a scaldare gli alunni: le aule erano gelate e i ragazzi, che normalmente tiravano su col naso in mancanza di fazzoletti, indossavano vestiti che se ne infischiavano delle stagioni perché possedevano la perfetta coerenza della miseria. Il giorno dopo avere visto La voce nella tempesta mi feci un lungo viaggio nelle brughiere dello Yorkshire mentre il professore di religione tentava un accordo impossibile tra il Vecchio Testamento e la mia disattenzione. Certo, il povero Isacco non aveva armi 184 possibili contro Merle Oberon e la sua passione disperata e intermittente per Laurence Olivier. Impossibile accordo per me, impossibile per i miei compagni impegnati anch’essi a elaborare il loro cinema privato, che ovviamente era anche il mio: le ragazze del Sacro Cuore, per esempio, che studiavano nell’istituto accanto al nostro, oppure la partita della nazionale che la radio avrebbe trasmesso nel pomeriggio. La domanda è: può una persona che non ha mai conosciuto l’amore, che ha vissuto sempre in casa, che ha seguito l’avvicendarsi delle stagioni sperando sempre che qualcuno bussi alla porta e la conducavia, che ha consumato la mente nella lettura e il cuore nella speranza, può questa persona essere in grado di scrivere una storia d’amore immortale? La risposta è no, se parliamo di persone comuni. La risposta è sì se parliamo di Emily Brontë, l’autrice d’uno dei romanzi più belli della letteratura romantica di tutti i tempi, Cime tempestose. Il film, girato da William Wyler nel 1939, tradisce il libro ma in qualche modo lo esalta. Il finale non è quello immaginato dalla scrittrice. La passione che divora il protagonista Heathcliff per la ribelle Cathy va oltre la morte di lei e si traduce visivamente nel viaggio della coppia maledetta verso un improbabile aldilà di nuvole e di sogni. Ma questa soluzione dà una forza simbolica così convincente al film da condizionare il romanzo stesso. Chi ha visto prima il film di Wyler e poi ha letto il libro si trova a percorrere una strada obbligata, a leggere una specie di fotoromanzo, perché le immagini di Merle Oberon e di Laurence Olivier non lasciano spazio all’immaginazione ma obbligano il lettore a sovrapporle a quelle dei protagonisti del romanzo. Un po’ come accade con il Nerone di Peter Ustinov. L’attore era talmente perfetto nella parte che da lì in avanti l’imperatore incendiario non avrebbe avuto, nel pensiero dei lettori, che la sua faccia e la sua corpulenza. Merle Oberon aveva una bellezza insolita e 185 misteriosa. Era nata in Tasmania (suo padre era ufficiale dell’esercito inglese) ed aveva studiato a Calcutta. Con Laurence Olivier aveva girato l’anno prima in Inghilterra un filmetto a colori appena sopra la banalità, L’avventura di Lay X, di Tim Whelan. Al ruolo di Cathy aspirava Vivien Leigh che in quegli anni, sebbene sposata, s’era perdutamente innamorata di Laurence Olivier e voleva stargli accanto nella trasferta americana. Ma Wyler fu di diverso avviso. Di certo, però, la bella e volitiva Vivien, recitando accanto all’amante, avrebbe saputo rendere al meglio quel misto di passione selvaggia e di ambiguità che c’è nella protagonista del romanzo. Fu una buona scelta, comunque, perché Merle Oberon riuscì a entrare nell’anima del personaggio con intelligenza e a sancire lo straordinario successo del film. L’ottimo risultato però fu ottenuto a costo di gravi tensioni durante la lavorazione perché Laurence prese a strapazzarla per il solo fatto di essere stata preferita all’amata Vivien. La volta che Merle Oberon, come racconta Donald Spoto nella biografia dedicata a Sir Laurence, si lamentò che durante una scena particolarmente intensa le erano arrivati gli spruzzi di saliva dell’esagitato partner, l’attore si infuriò: “Puttanella dilettante! Per l’amor di Dio, che cosa vuoi che sia un po’ di saliva, tra attori! Piccola idiota!” Episodio a parte, Laurence continuò a trattarla come “una conquista da quattro soldi di Korda”. Alludeva al regista Alexander Korda che, ironia del caso, era stato anche l’amante di Vivien Leigh quando l’attrice era scivolata nel suo letto per entrare meglio in quello del grande Olivier. Di quelle furibonde liti sul set nulla traspare nel film. Chiuso tra le pagine del libro della Garzanti, che sta nella biblioteca di mio padre, c’è il fotogramma di una scena nella quale i due attori guardano sognanti le cime tempestose della brughiera, le Wuthering Heights. Un’immagine superba, ritagliata da una rivista, che legittima l’Oscar a Gregg Toland per la migliore fotografia. All’inizio degli anni Cinquanta la Garzanti, 186 riallacciandosi alla tradizione dei Fratelli Treves, lanciò sul mercato una nuova collana, Amena (Attraente), che raccoglieva le migliori opere della narrativa contemporanea e del passato, tra cui Cime tempestose. Nella seconda di copertina del romanzo della Brontë c’è scritto tra l’altro, in un italiano faticoso: “Tra le molte opere ormai pubblicate, tutti possono trovare una lettura piacevole, che solleva lo spirito nelle ore del riposo e, ciò che pure ha il suo peso, che costa la metà di un biglietto d’ingresso al cinema”. Il conflitto tra cinema e letteratura è già evidente. Il pubblico comincia a preferire l’incanto dello schermo a quello della pagina scritta. Più tardi il cinema, che ha messo in ginocchio i libri, con l’avvento della televisione subirà la stessa legge del contrappasso. Il libro in oggetto costava 500 lire, ed era un Oscar Mondadori ante litteram. Sulla copertina c’è la foto a colori di Merle Oberon e Laurence Olivier, ma meno bella di quella appena descritta, mentre sul frontespizio è segnata a matita una frase: “Non posso vivere senza la mia vita, non posso vivere senza la mia anima”. Il giorno in cui caddero le prime bombe a Catania, che fecero strage di civili, mio padre era al lavoro, nella farmacia di Spadaro Ventura, e mia madre, a casa, stava lavorando a maglia. Uno dei micidiali ordigni, che potevano pesare fino a una tonnellata, cadde in via Ventimiglia, a due passi dalla nostra abitazione. Senza pensarci due volte, mia madre afferrò me e mia sorella, appena in grado di camminare, e a piedi corse alla stazione, seguita da zia Sara, la sorella maggiore, che aveva con sé una valigia in cui aveva stipato vestiti e un poco di biancheria. Correndo verso piazza dei Martiri si ricordò del marito. Non gli aveva lasciato nemmeno un biglietto. Pensò di tornare, ma ormai era troppo tardi, le Fortezze Volanti potevano rifare il giro e sganciare un altro carico di morte. Pazienza. Mio padre avrebbe capito. Da qualche mese, infatti, si pensava di raggiungere uno dei paesini dell’Etna che cominciavano 187 a raccogliere un numero sempre crescente di sfollati. Il treno ci fermò a Giarre e da lì prendemmo la corriera per Sant’Alfio, dove arrivammo in un pomeriggio di sole spento e di paura rasserenata. Mio padre giunse a tarda sera, in bicicletta. Trenta chilometri di pedalate tutte in salita. Furono più lacrime che abbracci. Che fatica allora. Per due mesi mio padre fece quella mala vita. Scendeva la mattina, aiutato da tutti i santi del paradiso, e saliva la sera, sempre in bicicletta, nel disinteresse degli stessi santi che s’erano impegnati a spingerlo nella discesa verso Catania. Uno di quei lunghi giorni di angoscia e affanni stava per concludersi in modo tragico. Mio padre era andato a procurare un sacco di farina in un mulino vicino a Randazzo, lo aveva sistemato sul portapacchi della ruota posteriore e stava tornandosene soddisfatto a Sant’Alfio quando si accorse improvvisamente che da una parte all’altra della strada era stato steso un filo di acciaio. Fu un attimo. Lanciò la bicicletta in avanti e si gettò a terra. Salvo per miracolo, di riflessi. Quel filo avrebbe potuto tranciargli la testa. Arrivò a casa lazzariato, ma contento di avere salvato la farina. “Per una settimana siamo a posto”, disse scaricando il pesante sacco sul tavolo della cucina. Mia madre per poco non svenne. Lo medicò con cura, gli scrostò il terriccio rimasto attaccato alle ferite e, piangendo, disse: “Non so come avrei fatto”. Il nostro padrone di casa, a Sant’Alfio, aveva un cugino americano, figlio di un fratello del padre emigrato negli Stati Uniti ai tempi della fillossera, un micidiale parassita delle piante che distrusse alla fine dell’Ottocento in Europa milioni di ettari coltivati a vigneto mandando sul lastrico un numero impressionante di famiglie. Questo cugino faceva l’operatore di cabina in un cinematografo di Los Angeles e per darsi un tono si vantava di conoscere personalmente molti divi di Hollywood le cui foto, accompagnate da lettere mirabolanti, spediva al parente siciliano. E questi le mostrava con orgoglio al popolo degli sfollati che imparavano a sognare quel mondo di 188 celluloide che il regime fascista aveva cercato di appannare. Alcune delle “figurine”, quali erano in realtà, furono regalate a mio padre e con gli anni finirono nella mia scatola del Plasmon piena delle meraviglie dell’infanzia: biglie colorate, un coltellino, una bilancia fatta con i coperchi del lucido da scarpe Brill, lamette, monete antiche, una fionda. La più bella, forse, era quella di Veronica Lake, la diva bionda coi capelli “a nascondino”, che negli anni dei bombardamenti sulla Sicilia aveva girato film come I dimenticati, La chiave di vetro, Il fuorilegge e il divertente e raffinato Ho sposato una strega di René Clair, che avremmo visto negli anni Cinquanta. Molte altre cose avremmo saputo dell’attrice che con Alan Ladd, il piccoletto dalla faccia romantica, tentò di rifare il verso alla più celebre e collaudata coppia del cinema di quel tempo: Humphrey Bogart e Lauren Bacall. Alan Ladd era poco più alto di Mino Maccari e Leo Longanesi sui quali al tempo del Fascio circolava questa fulminante battuta: quando non riescono a prendere sonno passeggiano nervosamente sotto il letto. In minimis maximus Deus? Stavano bene insieme, Alan e Veronica, non fosse altro che per l’altezza. Lei appena sopra il metro e mezzo. Una minidiva, insomma, per altro con poco seno e stretta di spalle, ma che reggeva il primo piano alla grande, anche se l’attrice diceva di non essere mai stata un sex symbol ma un sex zombie. Eppure il suo viso era di una bellezza entusiasmante. Il taglio di capelli, detto peek-a-boo, che le nascondeva mezza faccia, fece impazzire le americane al punto che molte fabbriche, per evitare incidenti sul lavoro, obbligarono le operaie a lavorare coi capelli raccolti dietro la nuca. Una delle sue fans sarebbe stata decenni più tardi l’attrice Miriam Bertolini, che avrebbe cambiato il suo nome in Veronica, Veronica Lario, oggi seconda e battagliera ex moglie di Silvio Berlusconi. Prima di separarsi ha avuto il coraggio e la dignità di condannare l’esuberanza extramaritale del marito e certe sue scelte politiche. 189 La vita di Veronica Lake fu più che infelice. La prima volta si sposò con l’art director John Stewart Detlie, un uomo solido, intelligente, che aveva disegnato chiese e palazzi del centro di Honolulu. Nonostante fosse al sesto mese di gravidanza girò I dimenticati di Preston Sturges, anno 1942. Fortunatamente la bambina, Elaine, nacque senza problemi, ma il secondo figlio, William, concepito e portato avanti durante le riprese di un altro film, Un’ora prima dell’alba di Frank Tutle, morì sette giorni dopo avere visto la luce anzitempo. Era nato prematuro perché la madre, mentre stava girando una scena, calpestò inavvertitamente un cavo elettrico. Alla fine di quell’anno, il 1944, il matrimonio si concluse con un divorzio. E Veronica cominciò a bere. Si sposò una seconda volta, con André de Toth. Ebbe due figli, Michael e Diana, poi scomparve dalle scene, dopo un processo per bancarotta, sostenuto col marito. Inevitabile il divorzio. Ogni tanto un titolo di giornale riportava la notizia di un suo arresto per ubriachezza, fino a che un giornalista, ed erano passati dieci anni, la scovò in un locale dove lavorava come barista (forse perché le bottiglie erano a portata di mano). Non ancora cinquantenne si riprese, tornò faticosamente al lavoro. Piccole parti. Si sposò una terza volta, con un musicista, e una quarta, con un capitano di marina inglese dal quale non fece in tempo a divorziare perché un’epatite fulminante la trascinò nella tomba. Non era scaltra, Veronica Lake, forse non era nemmeno perspicace come molte sue colleghe che per restare a galla pagavano gli elogi, come dice Balzac, e le più abili pagavano le critiche. Ma pagare spesso non basta. Non era una donna pratica, insomma. Non era come Ingrid Bergman, per dire. Quando Rossellini, dopo il divorzio, andava a trovare i figli, le volte che si trovavano con la madre all’hotel Raphael, a Parigi, come racconta Charlotte Chandler nella biografia dedicata a Ingrid Bergman, e portava loro regali incredibili, come un cucciolo di canguro o una 190 scimmietta, l’attrice svedese se ne lamentava: “Ma perché ai bambini non porti mai vestiti e scarpe?” Sic transit gloria mundi. Lo diceva spesso mio padre nel suo limpido sforzo di educarci al rispetto degli altri e di noi stessi, nel suo incessante ammonirci che senza sacrificio e impegno non c’è futuro, perché la vita non regala nulla e si vendica se non fai il tuo dovere. Nessuno di noi figli ha mai fumato una sigaretta perché da piccoli eravamo bombardati dalle sue requisitorie sui pericoli del fumo. E noi l’ascoltavamo con attenzione e rispetto perché aveva l’autorità per dirci quelle cose. Lui, come del resto mia madre, non aveva mai fumato. E non ho mai guardato con invidia o complessi di sorta i miei compagni che già al liceo tiravano qualche Alfa o Nazionale Esportazione per darsi un tono e fare colpo sulle ragazze. Più tardi, la rappresentazione di quella supposta maturità si sarebbe trasformata in vizio, che incatramava i polmoni, sporcava i denti e rendeva l’alito insopportabile. In compenso, sono stato un accanito fumatore passivo. Quand’ero a La Sicilia, la redazione Interni-Esteri, dove lavoravo, diventava dopo alcune ore una fumeria. Allora mi alzavo, spalancavo e cominciavano le proteste. Ero troppo giovane per meritare la mia piccola libertà. La giovinezza mi veniva invidiata e rimproverata, talvolta diventava paradossale pretesto per non farmi “crescere”, per farmi restare nell’età dell’eterna attesa… di promozioni, aumenti di stipendio, viaggi. Un collega particolarmente freddoloso, Orazio Francica Nava, che sentiva spifferi fastidiosi anche in pieno agosto, una volta mi propose scherzosamente: “Perché non impari a fumare anche tu?” Fantastico. Il vecchio Orazio (i lettori ricorderanno i suoi servizi di medicina su Antenna Sicilia) non aveva rivali nel dettare le notizie “a braccio”, senza averle cioè prima maturate e poi scritte. Era corrispondente del Giornale di Sicilia e quando i colleghi della redazione Cronaca l’informavano di una grossa notizia di nera, lui si faceva 191 raccontare per sommi capi, si attaccava al telefono e trasmetteva il pezzo a Palermo. Non meno di una colonna. Un mostro. Costruiva la notizia davanti a noi, con particolari del tutto inventati ma verosimili, e ogni tanto sorrideva facendo ruotare il braccio libero come per dirci: “Minchiate comu ’i trona!” Quell’abilità era comune a molti giornalisti costretti ad allungare il brodo delle notizie per puro calcolo economico. Prima della guerra e subito dopo, infatti, gli articoli venivano pagati secondo la lunghezza. Il che, per molti anni, renderà i giornali di provincia prolissi e illeggibili, ripetitivi e adulatori. Per solito, la critica ha bisogno di meno parole e maggiore intelligenza per esprimersi, mentre l’elogio cresce su se stesso e affoga negli aggettivi. Orazio, che vantava nobili natali, veniva a lavorare in giacca e cravatta. Inappuntabile. Solo la domenica indossava maglioni naviganti e pantaloni sformati ai ginocchi. Lo faceva per distinguersi dagli operai che per tutta la settimana lavoravano in tuta e solo la domenica potevano permettersi di indossare l’abito dei signori. Un vecchio collega, ormai scomparso, Massimo Caporlingua, sosteneva che la notizia sta tutta nelle prime cinque righe, il resto è accademia. Il resto era la simpatica logorrea del barone Orazio, discendente dalla famiglia del cardinale Giuseppe Francica Nava, che dettava per fatti e “ricami”, sperando che gli eventuali tagli non compromettessero troppo l’entità del guadagno. Se n’è andato dopo una lunga tenace malattia. Enzo Trantino, su La Sicilia, lo ha ricordato da par suo: “Pensando al garbo, al sorriso intelligente, alla grazia discreta… pensando all’interesse per l’altro… pensando a tanta innocente delibera di entusiasmo senza eccessi, rendo onore a Orazio, di professione ‘signore’, senza pause, senza ostentazioni”. Nel giro d’una settimana, nel mese di agosto del 2007, assieme al giovane vecchio Orazio partirono per il regno delle ombre Giancarlo Bonaccorsi, archivista de La Sicilia, eterno vinto di se stesso, che un giorno di tanti anni fa fece con me una scommessa: suonare per 192 intero al pianoforte, di cui era un discreto esecutore, il concerto di Varsavia di Addinsell (non vinse la scommessa ma vinse la mia completa amicizia); e Tony Barlesi, compagno di scuola al Leonardo da Vinci, buon cronista, ragazzo ironico e per bene, che ha ispirato al collega Tony Zermo questo finale: i giornalisti non muoiono, semplicemente scompaiono. “La vita non è un avere e un prendere, ma un essere e diventare”. Parola di Myrna Loy, “la regina di Hollywood”, l’attrice elegante colta e ironica che voleva diventare infermiera e occuparsi di bambini prima di restare folgorata dalla magica atmosfera del palcoscenico di celluloide. Il critico Pietro Bianchi ha raccontato che da giovane, a Parma, aveva visto tutti i suoi film perché n’era perdutamente innamorato. E un altro ha confessato la strana mania di indossare l’abito della domenica a ogni prima di un film con la diva e di lasciare alla fine dello spettacolo un bouquet di violette sulla poltrona dove stava seduto. Strana feticistica mania. Non ricordo di avere visto, nel caro e mai dimenticato dopolavoro ferroviario, i film de L’uomo ombra, con Nora e Nick, che sancirono il successo dell’attrice. Molte di quelle pellicole, girate in coppia con William Powell, le ho viste in anni più recenti e solo in TV. Allora furono un grande successo. Oggi accusano gli anni, come una vecchia signora che si ostina a restare giovane camuffandosi con creme e belletti. Soprattutto William Powell è un detective Nick che sa di brillantina e fatuità. Ma lei, la sofisticata Myrna, resiste con classe all’usura del tempo. Molto spesso nelle televisioni locali viene mandata in onda La casa dei nostri sogni, di Henry C. Potter, 1948, ed io sono lì, puntuale, a seguire la vicenda del pubblicitario di New York e della sua famiglia che s’indebita per comperare e ristrutturare una villa nella campagna del Connecticut. I protagonisti sono in gran forma: Myrna Loy, Cary Grant e Melvyn Douglas. La famiglia americana assume in questo film la 193 meravigliosa simbologia di se stessa: felice senza eccessi, serena con qualche nube, unita nelle difficoltà della vita. Un po’ come dieci anni prima nel film di Michael Curtiz, Quattro figlie, con le sorelle Lane (Rosemary, Priscilla, Lola) e Gale Page. Film per famiglia, che rispecchiavano l’etica di una società puritana e tradizionalista. E su questa falsariga Hollywood scatenerà i suoi migliori talenti: l’antesignana Mary Pickford, Shirley Temple, Judy Garland, Deanna Durbin. In fondo, era la rappresentazione, in piccolo, della mia famiglia: né ricca né povera, né originale né scialba, né illusa né disincantata. Al calar della sera, l’unico svago era la radio, un Allocchiobacchini a valvole che troneggiava nel salotto e che avevamo acquistato a violino (a rate). Ascoltavamo l’orchestra del maestro Cinico Angelini e quella del maestro rivale Pippo Barzizza. Una rivalità per modo di dire perché i due artisti si rispettavano. Ma l’Italia del tempo si divideva su tutto: su Coppi e Bartali, democristiani e comunisti, laici e cattolici, Nord e Sud, polentoni e terroni… (mi sono scordato com’è la situazione oggi). Angelini aveva avuto il merito di rilanciare nel dopoguerra Nilla Pizzi, allontanata dalla radio nel 1942 perché il regime fascista riteneva la sua voce troppo sensuale. La cantante rientrò a guerra finita e cominciò a riscuotere i primi successi con Dopo di te, Che si fa?, Bongo bongo, Avanti e indrè e O mama mama. Canzoni allegre in cui la sensualità aveva margini molto stretti. Fu il festival di Sanremo, inaugurato nel 1951, a dare lustro al maestro Cinico Angelini e a Nilla Pizzi che vinse il primo e il secondo premio rispettivamente con Grazie dei fiori e La Luna si veste d’argento. Con gli anni Cinquanta si apriva la voce calda e morbida della nuova regina della canzone italiana. “Grazie dei fior/ fra tutti gli altri li ho riconosciuti/ mi han fatto male eppure li ho graditi/ Son rose rosse e parlano d’amor…” Sul finale di quell’amore ormai estinto partiva la commozione: “… addio/ per sempre addio/ senza/ rancor”. 194 L’anno dopo è un trionfo ancora più grande. Vince il primo, il secondo e il terzo posto: Vola colomba (che accompagna il ritorno di Trieste all’Italia), Papaveri e papere(che viene tradotta in 40 lingue e adottata dal partito comunista per i manifesti della campagna elettorale di quell’anno), Una donna prega. Sempre nel 1952 nasce il festival di Napoli che lei vince regolarmente con Desiderio ’e sole, piazzandosi anche al terzo posto con Mergellina. Una cosa mai vista. Al vertice della popolarità, incide decine di dischi che diventano altrettanti successi. Poi il lento declino tra amori contrastati: Gino Latilla, che si è innamorato di lei, tenta il suicidio, e il maestro Angelini, dopo un rapporto durato anni, la lascia. Si può dire che la sua sfolgorante carriera si arresti davanti alla modernità, di fronte al volo fantastico di un omino dipinto di blu che arriva al cuore della gente grazie anche alla televisione. Rievocando su la Repubblica i quarant’anni di Volare, Edmondo Berselli scriveva: “Vola Modugno, si solleva sugli anni Cinquanta, si sporge sul decennio successivo… e il suo librarsi in volo, autentico ‘angelus novus’ della canzone, rivela la consapevolezza di un’Italia diversa, che ci è già cambiata sotto il naso”. Sei anni prima, profeticamente, una delle più belle canzoni di Nilla Pizzi, Vola colomba, parla di una donna che vorrebbe volare verso il suo amore. Di solito cominciava mia sorella. “Dio del ciel se fossi una colomba/ vorrei volar laggiù dov’è il mio amor,/ che inginocchiato a San Giusto/ prega con l’animo mesto:/ fa che il mio amore torni/ ma torni presto…” Sanremo vuol dire anche Sicilia. Palermitano era Nunzio Filogamo, che inaugurò la rassegna nel ’51, con quella sua vocina ibrida e metallica (Miei cari amici vicini e lontani, buonasera! Buonasera ovunque voi siate), e catanese Pippo Baudo (tredici edizioni) che il festival se l’è cucito addosso e ancora non si trova nessuno in grado di rimpiazzarlo come si deve. Ma tra il principio e la fine ci sono stati altri personaggi che a Sanremo hanno dato dignità come il presentatore 195 Nuccio Costa (due edizioni: nel ’69 in coppia con Gabriella Farinon e l’anno successivo con Enrico Maria Salerno e Ira Fuerstemberg), i cantanti Marcella Bella e suo fratello Gianni, Carmen Consoli e Gerardina Trovato, Giusy Romeo (che diventerà Giuni Russo) e Corrado Lojacono (grasso e leggero come le figure di Botero), per non dire del sottosegretario Francesco Turnaturi che, come ricorda Sergio Buonadonna, scrisse il testo della canzone Io credo portata in finale nel ’75 da Nico dei Gabbiani. “I miei pezzi migliori”, confesserà “li ho sempre scritti sui banchi di Montecitorio”. Febbraio 1970. Ventennale del festival. Di solito, l’avvenimento era seguito dal collega Sandro Delli Ponti de Il Resto del Carlino (in allarmante sospetto di iettatore) che mandava l’articolo in copia anche a noi. Ma quell’anno il quotidiano bolognese pensò di riprendersi l’esclusiva e così improvvisamente ci trovammo scoperti. Non si poteva tuttavia lasciare cadere la cosa sia per l’importanza dell’avvenimento sia perché Nuccio Costa premeva che ci fosse un giornalista siciliano a scrivere del festival e di conseguenza della sua prestazione. Nuccio per altro era amico del condirettore Piero Corigliano nonché della redazione e quindi gli fu facile convincere la direzione a spendere qualche soldo. E così dall’oggi al domani toccò a me occuparmi del festival. Non ero ancora giornalista professionista ma ne scrissi con impegno e passione, e un poco frastornato per essere in mezzo al gotha della musica leggera italiana e tra tanti colleghi blasonati. Ho ancora negli occhi la figura di Enzo Tortora chino sulla macchina per scrivere mentre costruisce il suo pezzo per La Nazione di Firenze. Era stato da pochi mesi licenziato dalla Rai perché aveva paragonato l’azienda, in una intervista al settimanale Oggi, a “un jet supersonico pilotato da un gruppo di boy-scout che litigano ai comandi rischiando di mandarlo a schiantarsi sulle montagne”. C’erano quasi tutti i big della canzone, nomi che 196 contavano e ancora contano a distanza di quarant’anni, nomi che farebbero la fortuna di almeno dieci festival dei giorni nostri. Cito a caso, come mi vengono: Adriano Celentano, Rita Pavone, Tony Renis, Pino Donaggio, Rosanna Fratello, Ornella Vanoni, Fausto Leali, Carmen Villani, i Camaleonti, i Dik Dik, Gianni Nazzaro, Marisa Sannia, Nicola di Bari, i Ricchi e Poveri (al loro esordio), Iva Zanicchi, Sergio Endrigo, Patty Pravo, Little Tony, Renato Rascel, Dori Ghezzi (ancora la ricordo: dolce, timida, bellissima, seduta su uno dei gradini che portano alla sala stampa ed io che l’ascolto con la testa annebbiata), Rosalino Cellamare (che si sarebbe chiamato Ron), Caterina Caselli, Gigliola Cinquetti, Bobby Solo, Nada (giovanissima ma con l’ambizione di una star), Nino Ferrer, Claudio Villa, Luciano Tajoli, Mal, Anna Identici, Antoine, Mario Tessuto, Orietta Berti. E non dico degli sconosciuti. Allora il festival era una cosa seria. La ventesima edizione, che si svolse nel salone delle feste del Casino municipale, prima di approdare nel ’72 al teatro Ariston, fu vinta da Celentano in coppia con la moglie Claudia Mori con la canzone Chi non lavora non fa l’amore. La vittoria si portò appresso un’infinità di polemiche perché il testo sembrò un favore ai padroni, com’erano definiti, non agli operai… “arrabbiata lei mi grida che ho scioperato due giorni su tre, coi soldi che le do non ce la fa più ed ha deciso che, lei fa lo sciopero contro di me!” I sindacati non potevano apprezzare e nemmeno il partito comunista, meno che mai i giovani (si stava aprendo un decennio terribile) che accusarono Celentano di essere un reazionario e un sorpassato. Non immaginavano che un giorno sarebbe diventato un predicatore civilmente impegnato, quasi “de sinistra”. Tornai a Sanremo nei tre anni successivi, poi mi stancai. Dietro le quinte il mondo della canzonetta è noioso, banale, povero di linguaggio. Per essere accettato ha bisogno della finzione del video, delle riviste patinate, degli inganni della cronaca rosa, della intermediazione del sogno. 197 Loretta Young emerse, per la prima volta, dal “sipario” dei capelli biondi di Jean Harlow. Aveva un ruolo di rincalzo ma significativo in La donna di platino che il maestro Frank Capra diresse nel 1931, prima cioè dei suoi grandi film. È una leggera e divertente satira del mondo del giornalismo americano. La bruna Loretta vi interpreta la parte di una giornalista innamorata del collega Robert Williams che in un primo momento le preferisce la ricca ereditiera Harlow. Le due donne si contrappongono a distanza, e alla fine il bruno prevale sul biondo, la sconosciuta sulla diva affermata, la discrezione sull’abbaglio. Il film l’ho pescato in un negozio di DVD, all’angolo tra via Etnea e viale XX Settembre, oggi scomparso. Il peso degli anni si sente ma diventa leggero solo guardando gli occhi sgranati sul mondo di Loretta Young, l’attrice elegante e sofisticata che entrava nella testa degli spettatori a ridosso del The End, al commento delle emozioni provate, al giudizio sulla bravura degli interpreti in cui si cerca di riannodare i fili della vicenda. Lei era come un prezioso quadro d’autore che si apprezza col tempo: quando gli stereotipi si svelano, ci si stanca delle prospettive e dei colori fasulli e si va alla profondità delle cose. La sua vita professionale fu impeccabile, per impegno e bravura, ma quella privata fu un mezzo disastro. A diciassette anni scappò con un ubriacone, Grant Withers, che aveva conosciuto sul set del musical La rivista delle nazioni di John Adolfi. Era il 1929. Quell’anno Loretta girò sette film, in ruoli abbastanza marginali. Il rapporto con Grant durò otto mesi. Withers, belloccio e accattivante, era un buon caratterista (oltre cento film al suo attivo, tra cui Sfida infernale di Ford) ma quando beveva diventava aggressivo e manesco. Il divorzio, che arrivò nel 1931, fu chiesto da Loretta stanca di dover pagare, a matrimonio praticamente finito, i conti di quel perdigiorno e alcolista di marito. Ironia della sorte, quell’anno l’attrice girò un film proprio accanto a Grant, 198 To young to married, Troppo giovane per sposarsi. Anni dopo si legò a Clark Gable, il re di Hollywood, allora sposato con la ricca e pluridivorziata Rhea Langham. Clark non amava la moglie, più vecchia di lui di 17 anni; le era solo riconoscente per avergli aperto le porte del successo e dato l’immagine decisiva. Assieme alla MGM, Rhea aveva lavorato sodo per sistemargli le orecchie a sventola e i denti troppo laschi. Ma il vero amore di Clark Gable non sarà Loretta Young ma Carol Lombard, la regina della screwball comedy, scomparsa in un incidente aereo. Amore o no, verso la fine del 1935 dall’unione tra Clark e Loretta nacque una bambina, Judy, che venne nascosta per non suscitare scandalo. Nessuno seppe nulla, tranne la madre di lei che programmò l’imbroglio nei minimi particolari: prima accompagnò la figlia in Europa, affinché partorisse in gran segreto, poi nascose la nipotina in un brefotrofio. Quando la piccola compì due anni,Loretta finse di adottarla e in seguito le diede il nome dell’uomo che aveva sposato, il magnate Thomas Lewis. La verità, la piccola “orfana”, l’avrebbe appresa molto più tardi, esattamente 35 anni dopo la nascita. Il rapporto con la madre ovviamente entrò in crisi e lei fu costretta a rivolgersi a uno psicanalista. Ma dopo un po’ nella casa della sognante e ben educata Loretta riapparve il sereno, e Judy tornò al suo mestiere di attrice e produttrice televisiva. Ma fu sempre ossessionata dai ricordi dell’infanzia. Poiché aveva ereditato le orecchie a sventola del vero padre, la madre gliele nascondeva sotto un berretto di foggia maschile finché, compiuti sette anni, con un’operazione pin-back un chirurgo non le eliminò l’imbarazzante certificazione genetica. E i rumors furono messi a tacere, seppure la bimba, che capiva e non capiva, restò col dubbio d’una paternità fantastica. La stessa illusione coltivò la piccola Marilyn, allora Norma Jean Baker, che per molto tempo fantasticò che lo sconosciuto padre fosse proprio Mister Baffetti, il 199 seducente Rhett Butler di Via col vento. La madre glielo fece credere e lei tenne la foto del presunto padre segreto sul comodino mostrandola alle amiche per confondere la vera imbarazzante paternità con lo splendore di un nome altisonante. Nel cuore di Loretta restò sempre quel lontano rimorso e forse fu per questo che cominciò a andare a messa ogni mattina alle sei, a tenere il rosario appeso al parabrezza dell’automobile e a impiegare in giaculatorie il tempo perduto ai semafori. Queste cose accadevano nel mondo del cinema. Queste cose accadevano in Sicilia dove le ragazze che partorivano figli al di fuori del matrimonio erano considerate perdute. In un libro-inchiesta di Lietta Harrison sui rapporti sessuali in Sicilia, Le svergognate, del 1963, alla domanda: “Preferirebbe avere per sorella una ragazza madre o un’assassina per onore”, la risposta dell’intervistato era inequivocabile: “Un’assassina”. Le “svergognate” riacquistavano l’onore solo col matrimonio, anche se erano state stuprate. Il barbaro costume cambiò nel 1965, l’anno in cui una diciassettenne di Alcamo, Franca Viola, che era stata rapita dal proprio spasimante per indurla al matrimonio, trovò il coraggio di ribellarsi. Per quel gesto fu ricevuta da Paolo VI e l’Italia tutta le si strinse attorno. Una vicenda che trovò attenzione anche nel cinema. La parte di Franca Viola, nel film La moglie più bella di Damiano Damiani, fu interpretata da un’attrice allora sconosciuta ma bella come il sole e sensuale da togliere il sonno, Ornella Muti. Per trovarne una simile dobbiamo arrivare alla conturbante Scarlett Johansson: figura piena nei punti giusti, seni da sballo, labbra peccaminose, sguardo innocente e perverso. Prima di sbocciare con questi maestosi attributi “la ragazza con l’orecchino di perla” aveva ricoperto numerosi ruoli di bambina dolente e sfortunata. Quelli erano gli anni in cui il Paese si divideva sul delitto d’onore, che fu abolito dopo l’assassinio del professore Francesco Speranza. Questo docente, che 200 insegnava geografia al Magistero di Catania, e il cui unico figlio è mio amico, la sera del 20 ottobre 1964 fu ammazzato, mentre stava facendo esami, da un maestro elementare di Piazza Armerina, Gaetano Furnari, che gli sparò cinque colpi di pistola per vendicare l’onore della figlia. Ovviamente, al processo gran parte dell’opinione pubblica catanese si schierò con l’assassino e diede l’intera colpa al professore e alla ragazza, Maria Catena, rea di avere avuto una relazione con il galante docente. Al maestro Furnari furono concesse le attenuanti previste dall’articolo 587 del codice penale, relativo al delitto d’onore, e pertanto venne condannato a soli due anni e undici mesi di reclusione. Non gli diedero di più per non precludergli l’insegnamento! Maria Catena, che aveva vent’anni ed era solo una provinciale sprovveduta, oltre al ludibrio della pubblica opinione si beccò, in piena udienza, uno schiaffo di Mimmo Speranza che col padre aveva perduto affetto e avvenire. 201 OTTO Ginger Rogers, Barbara Stanwyck, Gloria Grahame Nel palazzo dove abitava mio nonno si accedeva attraverso un grande portone che dava in uno stretto e lungo cortile sul quale si affacciavano i ballatoi di due costruzioni parallele. A sinistra c’erano le abitazioni di nonno Carmelo, della signora Sterlini e di altre famiglie che non ricordo; a destra quelle delle famiglie Piazza, Motta e Fallica. Quest’ultima era imparentata con Pippo Baudo, che avrei conosciuto molti anni dopo a La Sicilia e frequentato a Roma, sempre per ragioni di lavoro. Mia sorella se lo ricorda alle feste danzanti in casa degli zii. Aveva più capelli e, ovviamente, era secco e lungo come uno stecco. Suonava il pianoforte e incantava le ragazze. La musica si diffondeva nel cortile, sbatteva sui panni stesi da un balcone all’altro e finiva nella mia testa sognante. Accanto alle canzoni di Cherubini, D’Anza e Bixio c’erano quelle di Cole Porter, Jerome Kern, Gershwin, Irving Berlin, le canzoni che attraverso i musical avevano esaltato il cuore e l’immaginazione del mondo. E con quella musica, melodica o ritmata, arrivò anche il tip-tap di Fred Astaire e di sua sorella Adele, prima che il il cantante-attore-ballerino approdasse tra le braccia di Ginger Rogers, la stella. La danza, Virginia Katherine McMath, l’aveva “tecnicamente” nel sangue. “Ha cominciato a ballare ancor prima di nascere”, dirà la madre. “Sentivo i suoi piedini tamburellare per mesi dentro di me”. La vecchia Ginger era nata per avere successo. Quando dico “la vecchia Ginger” (così come per altri attori) prendo in prestito l’affettuosa definizione del giovane Holden che chiama vecchia, cioè più matura di lui, la sorellina Phoebe. Nel momento in cui incominciò a lavorare con Fred Astaire era pressoché sconosciuta ma possedeva una volontà di ferro che l’avrebbe portata a interpretare 202 una miriade di film d’ogni genere guadagnando anche un meritato Oscar per un’opera drammatica, Kitty Foyle (1940). Ma fu in coppia con Fred Astaire che entrò nella leggenda di Hollywood. Una coppia litigiosa e felice sullo schermo ma nella vita privata ognuno per la sua strada, anzi, i due si detestavano al punto che i rari baci, che per esigenze di copione avrebbero dovuto darsi davanti alla cinepresa, furono finti, opportunamente mascherati o elusi. “Heaven, I’m in Heaven…” Indimenticabile la canzone di Irving Berlin, indimenticabile Cappello a cilindro di Mark Sandrich, anno 1935. Fred era esile e leggero, sembrava senza corpo; Ginger era bionda e piumosa, con le sue forme perfette pareva uscita fresca da un salone di bellezza. Lui, in frac e top hat, rappresentava uno dei massimi “disegni” del Novecento; lei, vestita di satin e di luce, era il desiderio allo stato puro. Ma è soprattutto la canzone che li sostiene e li avvolge, una melodia scritta da un autore che non sapeva leggere la musica e suonava il pianoforte come un bambino alle prese con lo spartito del Piccolo montanaro di Zimacki. Irving usava solo i tasti neri e per questo si fece costruire uno strumento speciale con pedali che consentivano di cambiare tonalità. Un assistente si occupava poi di trascrivere gli spartiti. Jerome Kern, altro mostro sacro, disse una volta: “Irving Berlin non ha un posto nella musica americana. Lui è la musica americana”. Gli Stati Uniti gli debbono molto, gli debbono White Christmas e, su tutte, God bless America, una delle canzoni patriottiche più amate dagli americani, quasi un secondo inno nazionale. Indimenticabile la versione della cantante Kate Smith che accompagnò l’America forte e generosa sui fronti della seconda guerra mondiale. Nell’ascoltarla non c’era soldato o civile che non portasse la mano al cuore e ne seguisse con commozione le parole. “God bless America/ land that I love…” Interessante la vita di Irving Berlin, geniale compositore che morirà a centouno anni dopo avere 203 composto quanto di più bello, prezioso e affascinante ci sia nella musica leggera del secolo scorso. Nel 1926 sposò in seconde nozze Ellin McKay, di quindici anni più giovane. Il matrimonio destò scalpore non per la differenza d’età o per il diverso credo religioso (lui ebreo, lei cattolica), ma per la diversa estrazione sociale (lui figlio di poveri immigrati russi, lei figlia di un magnate delle telecomunicazioni). Il padre di Ellin, furiosamente contrario alle nozze, arrivò a diseredare la figlia ma Berlin, in risposta, assegnò alla moglie i diritti d’autore della canzone Always. Fu un’unione solida e lunghissima, 62 anni, che si interruppe solo con la morte di lei, nel 1988. L’anno dopo morirà anche il vecchio Irving. Aveva aperto gli occhi nella Russia degli zar e sarebbe morto nell’America del petroliere George Bush mentre in Europa cadeva il muro di Berlino. Non sappiamo come finì la storia col suocero, se questi si mangiò le mani o restò nella sua follia denigratoria. La storia di Irving Berlin ricorda in piccolo quella di Nino Lombardo. Anche Nino suonava a orecchio. Me lo confessò lui stesso, dopo anni che aveva accompagnato con la sua orchestrina la giovinezza della mia generazione. Imparava dai dischi. Bastava che li ascoltasse un paio di volte per mettersi al pianoforte ed eseguire le canzoni con precisione. Gli anni Sessanta a Catania sono stati narrati dalla sua band, dal suo stile di velluto, mai aggressivo, che conciliava i balli della mattonella con un rock da piccola balera mentre nel cielo splendeva la Luna immaginaria di Fred Buscaglione e quella rossa di Claudio Villa. Le note del suo complessino risuonavano soprattutto nel mitico Lido dei Ciclopi, il fantastico giardino equatoriale affacciato sul mare che da sempre divide Acicastello da Acitrezza, luogo di ricordi e di privilegio, inattaccabile dal buon senso ma lucente come un diamante. Fu lui, Nino il Sorridente, il responsabile dei tanti amori nati, spezzati, raramente sopravvissuti sulla pista da ballo dei Ciclopi e tra le fronde degli alberi diventati sentinelle di 204 confine e alibi formidabile per non togliere dai piedi quel Lido di ricchi e di raccomandati, quel Lido in cui teppistelli e vagabondi di buona famiglia per non pagare il biglietto delle serate chic s’ingegnavano a sbarcare dal mare facendosi beffe dell’inflessibile guardiano, il signor Belfiore. Questi era un omino votato anima e corpo al suo vecchio panama e alle sue scarpe bicolori, al bon ton e al servilismo. Quando al Lido veniva in visita la Duchessa di Misterbianco, la Proprietaria!, vestita come una dama Liberty, bianca e svolazzante d’affettati sorrisi, egli si sprofondava in inchini imbarazzanti e allontanava, con un ampio e risoluto gesto del braccio, i curiosi bagnanti che si facevano legittime domande su quell’apparizione fuori tempo massimo. Fred Astaire fu inventato durante la depressione economica degli anni Trenta, e lui, bravo soldatino di celluloide, in coppia con la bella, imbronciata e sorridente Ginger, diede una mano a superare quel momento, con semplicità e intelligenza, distraendo e divertendo; perché con le finte soluzioni dei suoi film, luminosi coriandoli nei cieli brumosi dell’America, disossava i problemi. Gli americani, che lavoravano sodo e facevano sacrifici, la sera andavano al cinema per vederlo, per ubriacarsi nelle sue fastose quinte di cartapesta e il giorno dopo tornavano a lavorare più sereni. Che cosa facevano in fondo gli stessi spettatori del dopolavoro se non ubriacarsi d’illusioni? Anche per loro la vita era dura, la vita del dopoguerra, scarsa di cibo e di vestiario, ma un sorriso di Ginger e un tip-tap di Fred erano come una bevuta all’osteria sotto casa. Eppure, quel sogno fu a un passo (di danza) dall’essere estinto. Al suo primo provino Fred si sentì gelare il sangue: “Non sa recitare, non sa cantare, ha una calvizie incipiente e riesce a malapena a mettere insieme quattro passi di danza”. Ginger e Fred hanno fatto nove film insieme, tutti più o meno simili, tutti con un lui che s’innamora e con 205 una lei che prima resiste e poi gli cede. Un lungo improbabile sogno firmato RKO. Fu una coppia professionalmente perfetta e romanticamente improbabile: lui pareva il padre di lei e lei sembrava la figlia di lui, che scappa di casa per rifarsi una vita lontano dalla famiglia. Anche se in cartellone il nome di Fred Astaire occhieggiava dall’alto quello di Ginger Rogers le parti in commedia erano perfettamente uguali. Alla richiesta se le donne potevano ottenere gli stessi risultati degli uomini, molte femministe americane utilizzavano, senza capirla, la celebre battuta dell’ex ambasciatrice americana in Svizzera, Faith Whittlesey: “Fred Astaire era considerato un eccellente ballerino, ma anche Ginger Rogers era in grado di ballare altrettanto bene. Peccato che lo facesse all’indietro e con i tacchi a spillo”. L’osservazione della signora Faith era una osservazione della stessa Ginger Rogers fatta per rimarcare un concetto esattamente opposto. “Sulla scena”, confessò una volta “facevo tutto quello che faceva Fred Astaire, e per di più lo facevo all’indietro e sui tacchi alti”. Difficile immaginare Fred col cilindro e i tacchi a spillo. Cappello a cilindro è il capolavoro della celebre coppia che girerà con Mark Sandrich altri film entusiasmanti: Seguendo la flotta (con le melodie immortali di Irving Berlin), Voglio danzare con te (le musiche, premiate con l’Oscar, portano la firma di George Gershwin), Girandola (sempre con le canzoni firmate da Berlin). Utilizzando lo stesso canovaccio, gli stessi attori, la stessa conclusione, le stesse danze di mirabile armonia e bellezza, questi film diventavano, per mistero e incanto, fasulli e autentici allo stesso tempo. Insomma, erano come le favole che sai inventate e tuttavia stanno ancora lì, dopo secoli, ad appassionare grandi e piccini; come le storie di Tartarino di Tarascona che Daudet scrisse per vere e che i lettori gradirono lo stesso pur sapendole inventate. È una fiaba vera Follie d’inverno, diretto nel 1936 da George Stevens, con un piccolo rovesciamento di ruoli: stavolta 206 è Ginger Rogers a inseguire Fred Astaire. La canzone che fa da filo conduttore è di Jerome Kern, The way you look tonight, che quell’anno vinse l’Oscar. Splendido il motivo, come il primo piano di Ginger coi capelli impastati di shampoo, che in verità era panna montata, l’unica che durante le riprese non colasse negli occhi. Film di cartapesta anche questo, ma capace di trascendersi e di farsi leggero come una nuvola; e tu mai crederesti che la sequenza del ballo finale, sull’onda del motivo Never gonna dance, richiese ben 47 ciak. Alla fine, alla povera Ginger sanguinavano i piedi. Ho conosciuto il più grande ballerino classico della storia, Rudolf Nureyev. L’ho intervistato nel suo camerino, al teatro antico di Taormina, mentre aspettava che il linoleum dove avrebbe dovuto danzare si asciugasse: l’umidità della sera lo aveva reso scivoloso. Non ricordo se restò seduto quando entrai con la troupe del TG3, credo di sì, ricordo che ci guardò dall’alto in basso, pur standosene stravaccato nella sua poltroncina mentre noi eravamo intenti ad allestire il set per la ripresa televisiva. Sul costume di scena indossava una specie di kimono che lo faceva assomigliare a un principe orientale; ai suoi piedi c’era una grande sacca zeppa di scarpe da ballo. Come i veri artisti, e lui era davvero il più grande, rispondeva alle domande senza guardare. Piccolo di statura (forse per questo non si scollò dalla sedia), mascelle forti, labbra carnose, aveva occhi profondi e malinconici come se custodissero la provvisorietà della sua giovinezza, l’essere nato nello scompartimento di un treno, l’avere patito la violenza del regime comunista. Nessuno è riuscito a eguagliarlo, nessuno è stato in grado di librarsi nell’aria come lui e“posarsi”sulle tavole del palcoscenico, senza sforzo apparente, senza tradire il minimo fiato. Stava lì, in aria, come Pelè quando si staccò da terra e insaccò di testa il pallone e poi “scese” tranquillamente lasciando di sasso il povero Burgnich. È morto di Aids a Parigi, il 6 gennaio del 1993, come il suo compagno Freddie 207 Mercury, omosessuale anche lui. Eppure, stando alla recente biografia di Julie Kavanagh, Nureyev fu sedotto dalla sorella di Jackie Kennedy ed ebbe rapporti anche con la moglie del suo insegnante e con una ballerina cubana. Molti film hanno contenuti ideologici. Fred Astaire che spende tutto il suo tempo a inseguire la bella Ginger Rogers per mari e per monti, come fa in Cappello a cilindro, fino a raggiungerla in un’improbabile Venezia di cartone con le gondole che navigano in mezzo metro d’acqua, trasmette un preciso messaggio: l’uomo è cacciatore, la donna preda. Non a caso in Cappello a cilindro lei fa la parte d’una mannequin, Dale Tramont, che si guadagna la vita sfilando per un celebre stilista di moda che la fa vivere nel lusso ma che poi “le presenta il conto”, per usare il pettegolezzo di un personaggio di contorno, ovviamente censurato dal fascismo e ripristinato nel dopoguerra. Non erano tempi, quelli italiani, di porre al centro della fiaba una mantenuta. Meglio lasciarla nell’ambiguità, tenerla sul filo della simpatia, che metterla sotto i riflettori della verità, e pazienza se alcune situazioni diventavano forzate e incomprensibili. Lo stesso accade per Cerco il mio amore, secondo film girato da Sandrich nel ’34 con la celebre coppia, dove la protagonista Mimi Glossop da sposata viene retrocessa a fidanzata, perché solo così può aspirare a un nuovo amore. La moglie, per definizione e propaganda politico-religiosa, era allora madre e angelo del focolare. Il film non è all’altezza degli altri, ma si fa valere, oltre che per l’abilità dei due protagonisti, per l’intramontabile canzone Night and day di Cole Porter e per la performance della sconosciuta diciottenne Betty Grable che si esibisce in un simpatico numero di danza con Edward Everett Horton, la celebre “spalla” di Fred Astaire. Altri non si reggono in piedi, per dire, ma mantengono la sottile perversione della piccola realtà che s’incunea nella fiaba e ne esce trasformata, come La 208 magnifica avventura di George Stevens, girato da Fred Astaire nel ’37 senza Ginger Rogers e “talmente brutto che non si sa da dove cominciare a criticarlo”, come avrebbe detto il critico inglese Tom Milne. E tuttavia stai lì a farti catturare dalle musiche di George Gershwin, dalle scemenze di Gracie Allen, incredibilmente scritte da Wodehouse, dai passi stentati di Joan Fontaine (comunque bella e credibile) e dalle coreografie di Hermes Pan che quella volta vinse l’Oscar. Riesci a digerire persino lo scialbo Non ti posso dimenticare di Edward H. Griffith del ’43 con la bella Joan Leslie che tenta drammaticamente il tip-tap con il funambolo Fred ma che poi si riscatta cantando My shining hour. Joan Leslie, che va tranquillamente per i novanta, all’inizio della carriera girò tre film di tutto rispetto: Una pallottola per Roy di Raoul Walsh (1941) con Humphrey Bogart, Il sergente York di Howard Hawks (dello stesso anno) con Gary Cooper, Ribalta di gloria di Michael Curtiz (1942) accanto a uno straordinario James Cagney. Se a quest’attrice dagli occhioni azzurri sgranati sul mondo davi una canzone lei la interpretava con ogni sacramento (bravissima in Goodnight, sweet dreams), se le affidavi una parte drammatica o brillante che fosse se la cavava senza difficoltà, se però la costringevi a ballare non andava più in là d’una brutta copia di Ginger Rogers. Film scacciapensieri, dunque, quelli di Ginger e Fred. Ma anche film ideologicamente rassicuranti, tesi a consolidare ruoli e assetti sociali. La housewife (non desperate) che traffica in cucina, come nelle pellicole per famiglie degli anni Quaranta e Cinquanta, ha un compito ben definito: convincere le donne a stare a casa e a fare la calza. Del resto, che cosa fa Biancaneve nella casa dei sette nani? Si mette a riordinarla. Ci vorranno anni perché le donne capiscano che la pulizia della casa non è tutto, che la vita domestica spesso è un inferno, che la rispettabilità del marito talvolta è un inganno, che ricamare e contemplare la luna e le stelle non è il 209 massimo dell’impegno civile. Lo capiranno leggendo La mistica della femminilità di Betty Friedan. Capiranno che l’essere donna è lo stesso che essere uomo, con gli stessi diritti cioè, le stesse opportunità, e che possono guidare la macchina, farsi belle, magari civettare, lèggere i giornali, mandare il marito a fare la spesa e ogni tanto appioppargli i figli. Insomma, una vita da maschi, da divi maschi che nei film non prendono l’autobus perché l’auto sportiva è il loro destino: la velocità, il rischio, il sorriso Colgate come simbolo del sentirsi soddisfatti. Sarà stato questo lontano invisibile filo pubblicitario di stupido benessere a convogliare le mie poche risorse su una Mini Minor verde col cambio sul pianale che era una bellezza. Non so quante cambiali firmate e pagate grazie alla collaborazione, come critico televisivo, col settimanale Lo Specchio di Giorgio Nelson Page: un settimanale di destra che utilizzava le “farfalle” del Sifar per i suoi scoop giornalistici. Avevo ventiquattro anni ed ero laureato da poco. Voglio dire che ero un poco addormentato. Di sicuro per immaturità e ignoranza, forse anche per comodo. O forse, forse, per me vale il giudizio scanzonato di Edmondo Berselli su Guccini: “In realtà lui poeticamente era un carducciano e politicamente un mezzo socialdemocratico, molto moderato e tendenzialmente governativo, gradualista, avanti con le riforme, senza avventure”. Non gradirono la firma nel momento in cui elogiai il comportamento di don Renzo Mazzi, il parroco dell’Isolotto, rimosso dall’allora vescovo di Firenze, cardinale Ermenegildo Florit, e poi processato con la falsa accusa di avere impedito, assieme ai fedeli, di celebrare messa all’inviato del cardinale. Il direttore mi telefonò e mi disse: “Noi le diamo ampia libertà, ma schierarsi con un prete comunista!” Accanto ai messaggi pubblicitari, più o meno evidenti, c’erano quelli subliminali: ti entravano nel 210 cervello a tua insaputa. Nel 1958, in America, furono inserite nel film di Joshua Logan, Picnic, con William Holden e Kim Novak, le scritte Coca-Cola e Pop-Corn. Nessuno spettatore si accorse di niente. Tuttavia il consumo di quei prodotti durante la proiezione aumentò del 58 per cento. Ma forse la ragione fu un’altra. La ragione fu l’esplosiva Kim Novak, ultimo prodotto hollywoodiano uscito dalle mani del fabbricatore di stelle Ely Levi. Kim non sapeva recitare, aveva le gambe grosse e la faccia a pagnotta, inoltre era ignorante come una capra. “Quando un uomo mi baciava la mano” confessò una volta, “lo lasciavo fare e poi gliela baciavo anch’io”. Ma Ely fece il miracolo: le aggiustò i denti, gli occhi, i capelli e per tre mesi, per farla dimagrire, le fece mangiare sedani crudi e bere succo di pomodoro. Nella famosa scatola del Plasmon, che racchiudeva la mia infanzia, c’era anche la figurina di Barbara Stanwyck, uno schiaffo di sette consonanti e una vocale. Il suo nome di ragazza era Ruby Stevens ma la futura dark lady del cinema americano pensò di cambiarlo il giorno in cui s’imbatté nel poster di un dramma teatrale di William Clyde Fitch, Barbara Fietchie, con Jane Stanwyck. Ne fu talmente suggestionata che si ribattezzò seduta stante prendendo in prestito il nome di battesimo dell’eroina del titolo e il cognome dell’attrice protagonista. Cominciò a lavorare in una compagnia telefonica a 14 dollari la settimana. Vent’anni dopo, quando ormai la chiamavano “La Regina”, il governo l’avrebbe inserita nella lista delle donne più pagate d’America. Si sposò due volte, con Frank Fay e con Robert Taylor. Il primo matrimonio si ruppe il giorno in cui il marito, ubriaco fradicio, gettò nella piscina il figlio adottivo Dion. Fay era un po’ di tutto: produttore, attore, scrittore, paroliere. Dopo il divorzio finì tra le braccia d’una testa matta, l’attrice di musical Frances White, che alla fine lo prosciugò con una richiesta esagerata d’alimenti. Il 211 secondo matrimonio cominciò malissimo per Barbara. La possessiva madre del divo coi baffetti pretese che la prima notte di nozze il figlio restasse con lei in casa. L’affascinante protagonista de La Signora delle camelie e Il ponte di Waterloo era piuttosto chiacchierato a quei tempi. I rumours lo consideravano gay, sia pure a corrente alternata, e non risparmiavano nemmeno la glaciale Stanwyck finita, a quanto pare, nella rete di Marlene Dietrich e Joan Crawford. Ma per questo secondo marito, Barbara ebbe grande affetto e tenerezza. Già vecchia d’anni e di ricordi provò un cocente dolore quando le lettere d’amore che Robert Taylor le aveva scritto andarono perdute nell’incendio della propria casa. Lo strano amore di Marta Ivers, Il terrore corre sul filo, Il romanzo di Thelma Jordon furono i tre grandi film di Barbara, ma la più convincente interpretazione l’attrice la fornì in La fiamma del peccato, di Billy Wilder, accanto a Fred MacMurray ed Edward G. Robinson. Anno 1944. Tratto dal romanzo Double indemnity di James M. Cain, l’autore di Il postino suona sempre due volte, il film fu sceneggiato da Raymond Chandler. “Ho ucciso per denaro e per una donna”, dice il protagonista Walter Neff alla fine della storia “e non ho preso il denaro e non ho preso neanche la donna. Bell’affare”. L’assicuratore Walter Neff scivola ignaro nella trappola della bella e sensuale Phyllis Dietrichson che lo usa per assassinare il marito. Prima però i due, diventati amanti, concordano una assicurazione sulla vita della vittima che prevede, in caso di morte per incidente ferroviario, un doppio risarcimento (double indemnity), centomila dollari. Quindi l’ignaro signor Dietrichson deve assolutamente cadere dal treno in corsa. Il piano è geniale. Dietrichson viene ammazzato in macchina da Neff, che si è nascosto nel sedile posteriore, mentre la moglie lo accompagna alla stazione. Neff prende il suo posto e, al momento opportuno, salta dal treno, raggiunge l’auto dell’amante, recupera il cadavere e lo abbandona sui binari. 212 Non potranno però godersi i soldi perché un collega di Neff, Barton Keyes, magnificamente interpretato da Edward G. Robinson, scopre la macchinazione grazie anche alla testimonianza di un passeggero, un certo signor Jackson, cui dà volto e voce il grande caratterista Porter Hall, che ha visto Neff proprio sul treno. Convocato nell’ufficio di Barton Keyes, mister Jackson dà vita a un numero entusiasmante: “Sono di Melford, Oregon! Se lo dico lo penso e se lo penso posso giurarlo”. Prima di essere congedato concorda un rimborso spese che prevede una piccola maggiorazione. Come facevano molti inviati di giornale che inserivano nelle note spese la voce “l’uomo non è di legno”. Cioè a dire, giornalisti e commessi viaggiatori hanno diritto a qualche scappatella extraconiugale. La situazione precipita. Walter Neff capisce di essere stato usato dall’amante, che vuole solo il denaro dell’assicurazione, e decide di eliminarla. Lei intuisce il piano e gli spara ferendolo gravemente, ma non ha il coraggio di finirlo. “Sono guasta dentro”, gli confessa “non ti ho mai amato, né te né nessun altro, ma ora sento che è diverso”. Lui non le crede e la uccide. Allo stremo delle forze si reca in ufficio per registrare al magnetofono la confessione dei due delitti. Il film è angosciante, terribile; ti resta nelle ossa per giorni e giorni. “Non sentivo più i miei passi”, dice Neff nella confessione. “I miei erano i passi di un morto”. Straordinario lui, Fred MacMurray; straordinaria soprattutto lei, Barbara Stanwyck, con gli occhi sgranati sulla propria follia omicida, con la sua sottile e perfida carica sexy. La fiamma del peccato resta la cifra della carriera di questa inarrivabile attrice noir. È morta il 20 gennaio del 1990 a Santa Monica, all’età di 83 anni. Non ci sono stati funerali solenni. Il suo corpo è stato cremato e le ceneri sono state sparse a Lone Pine, California. Ai piedi di un pino solitario, oggi irrimediabilmente perduto, riposano anche le ceneri di Luigi Pirandello. Barbara sarebbe stata un’eccellente interprete pirandelliana. 213 Barbara Stanwyck e Fred MacMurray sono i prototipi di sangue e passione di Eva Kant e Diabolik, la celebre coppia dark creata nel 1962 dalle sorelle Angela e Luciana Giussani. Un fumetto che non sono mai riuscito a leggere. Nell’anno d’esordio ero già al secondo anno di università e i miei orizzonti s’erano un pochino allargati. Ma credo che le gesta di quell’eroe di carta non mi avrebbero appassionato. Conservavo nel cuore la mia infanzia costruita su Il Corriere dei piccoli e sui libri della Salani. Il Corrierino, uscito per la prima volta nel dicembre del 1908 come supplemento del Corriere della Sera, stabiliva un nesso ideale tra il mio incanto di bambino e il disincanto di mio padre, accanito lettore del Corrierone. Non entrava altro fumetto in casa nostra; nemmeno Topolino, giudicato non perfettamente educativo. Nel saggio In trappola col topo, Antonio Faeti cerca di decifrare e “assolvere” l’ambiguo Mickey Mouse ma, nonostante la buona volontà, Topolino resta un personaggio troppo asettico per essere vero, troppo convenzionale per essere amato, troppo amico dei potenti e dell’ordine per essere preso a modello. Mi piacevano invece le avventure del signor Bonaventura, di Bibì e Bibò, di Arcibaldo e Petronilla. Mi piacevano quei fumetti senza fumetto (la nuvoletta con dentro le scritte), le cui vignette erano spiegate in calce con versi a rima baciata o alternata… “e così finisce l’avventura/ del signor Bonaventura”. Col senno del poi dico che quel giornaletto non era poi tanto innocente: insinuava nei piccoli lettori una carica anarcoide, di insofferenza rispetto agli schemi del tempo. Ma questo era un bene. Altro che Topolino! A differenza di quelle del cinema, le dark ladies di carta partivano cattive e diventavano buone. Come Modesty Blaise, che aveva un suo codice d’onore; o Dragon Lay, la supercattiva di Terry; o Breathless Mahoney, la donna perduta di Dick Tracy; infine Narda, la principessa che prima tenta di uccidere Mandrake e poi se ne innamora. Come, tutto sommato, fa Gloria 214 Grahame che ne Il grande caldo s’innamora del poliziotto Glenn Ford e lascia il gangster Lee Marvin. Gloria Grahame, nata Hallward, oggi dice poco o niente, ma aveva un grande talento. La famiglia del padre discendeva da Eduardo III mentre la madre era imparentata con i sovrani scozzesi. Si racconta che il nonno diede a Oscar Wilde l’idea per il romanzo Il ritratto di Dorian Gray. Si sposò due volte (con l’attore Stanley Clements e col regista Nicholas Ray) ed ebbe quattro figli. Il grande caldo, girato nel 1953 sotto la direzione di Fritz Lang, resta il suo film migliore, come La fiamma del peccato per la Stanwyck. Anche qui l’atmosfera è cupa, disperata. Dal romanzo di William P. McGivern, il film racconta la storia del sergente Dave Bannion (Glenn Ford) che vuole fare luce sul misterioso suicidio di un collega. Le indagini lo conducono a una spietata organizzazione criminale capeggiata da Mike Lagana, un uomo all’apparenza rispettabile ma che tiene sotto schiaffo un’intera comunità col ricatto e l’omicidio. Bannion non si lascia intimidire, va avanti e per tutta risposta gli mettono una bomba in macchina ma finiscono con l’ammazzargli la moglie. A quel punto entra in scena Debbie Marsh (Gloria Grahame), la pupa del gangster Vince Stone (Lee Marvin), a sua volta braccio destro di Lagana. Debbie è una strana ragazza, a due facce, la buona e la cattiva. Quando Stone le deturpa il viso, lanciandole in uno scatto d’ira un caffè bollente, lei prende coscienza, recupera la dignità (la faccia buona) e aiuta il poliziotto Bannion a incastrare Lagana e la sua gang. Tragico il finale. Nel personaggio di Glenn Ford in lotta con un mondo che lo sovrasta, può leggersi in filigrana la vicenda personale di Fritz Lang che a quel tempo era stato inserito nella lista nera dei presunti comunisti di Hollywood. Lo scrittore e giornalista John Kleeves, in un capitolo del saggio Divi di Stato, affronta a modo suo e senza peli sulla lingua la questione delle black list e del 215 maccartismo. L’asservimento di Hollywood alle esigenze della propaganda di Stato, sostiene, è una storia documentata. Agli inizi l’industria cinematografica crebbe in pace e autonomia (non si aveva ancora idea della sua formidabile importanza politica), ma poi cominciò ad attirare l’attenzione del governo quando produsse alcune pellicole di contenuto sociale. La tendenza fu acuita con l’arrivo negli Stati Uniti, a partire dal 1936, di molti intellettuali tedeschi progressisti, che fuggivano dal nazismo, come Bertolt Brecht, Thomas Mann, Erich Fromm, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Fritz Lang, Billy Wilder. Ebbe così inizio la stagione dei film “comunisti”, secondo l’accusa dell’establishment americano. Ma non erano film comunisti, erano semplicemente opere che trattavano problemi reali della gente: reinserimento dei reduci, odio razziale, situazione carceraria, malattie psichiche. Ma era proprio questo il problema. Hollywood andava posta sotto controllo. Non doveva più produrre film del genere, problematici e disfattisti. A guardare bene, l’accusa di comunismo era un pretesto, un alibi per nascondere la più sconcertante delle censure di Stato. Accusando Hollywood di comunismo il governo non faceva altro che comportarsi come il regime dittatoriale sovietico che voleva sconfiggere. Come ulteriore avvertimento trasversale, le banche di New York, che finanziavano i produttori californiani, furono invitate a restringere il credito. Ma i danni maggiori, gli intellettuali, che erano stati inseriti nelle liste nere, li ebbero dalla gente comune, dai vicini di casa, dai conoscenti. Furono create associazioni “ultramericane”, tra cui l’American Legion forte di tre milioni di iscritti e un milione di simpatizzanti: si occupava di tenere vivo il risentimento nei confronti dei “deviati”, e picchettava anche gli ingressi dei cinema in cui si proiettavano film all’indice o nei cui titoli di coda compariva un personaggio della lista nera. Tutti o quasi tutti si piegarono. Non ebbero problemi invece, sempre secondo la “verità” di Kleeves, John Wayne, per 216 esempio, che era un delatore abituale dell’FBI, ed Elvis Presley, che aveva addirittura un nome in codice, “Colonel Burrows”. Ma non furono pochi gli attori che durante la guerra lavorarono per i servizi segreti del loro Paese. In una recente biografia su Laurence Olivier, scritta da Michael Munn, si apprende che il grande attore inglese lavorò per l’intelligence di Sua Maestà allo scopo di convincere la scettica America a entrare in guerra contro la Germania nazista. 217 Tony Curtis e la moglie Janet Leigh Janet Leigh in Psycho Audrey Hepburn in Vacanze romane Greer Garson tra Walter Pidgeon e Richard Ney in La signora Miniver Glora Grahame e James Stewart in La vita è meravigliosa Bette Davis e Francot Tone in Paura d’amare Barbara Stanwyck e Henry Fonda in Lady Eva Claudette Colbert e Clark Gable in Accadde una notte Doris Day e John Gavin in Merletto di mezzanotte Greta Garbo in La regina Cristina Susan Hayward in David e Betsabea Ginger Rogers e Fred Astaire in Cappello a cilindro Ginger Rogers e Fred Astaire in Cerco il mio amore Jeanne Fontaine e Cary Grant in Il sospetto Ava Gardner e Burt Lancaster in I gangsters Ingrid Bergman in Casablanca Jeanne Crain in Femmina folle Jean Simmons in Androclo e il leone Hady Lamarr in Ecstasy Joan Crawford e John Barrymore in Grand hotel Joan Crawford, Conrad Veidt e Melvyn Douglas in Volto di donna Katharine Hepburn e Spencer Tracy in Lo stato dell’Unione Gene Tierney e Don Ameche in Il cielo può attendere Lana Turner in Dottor Jekyll e mister Hyde Anne Baxter in Eva contro Eva Marlene Dietrich in L’angelo azzurro Maria Montez Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo Veronica Lake in I dimenticati Merle Oberon e Lawrence Olivier in La voce nella tempesta Maureen O’Hara e Tyrone Pwer in Il cigno nero Rita Hayworth in Gilda RhondaFleming e Arlene Dahl in Veneri rosse Virginia Mayo e Paul Newman in Il calice d'argento Lauren Bacall e Humphrey Bogart in Acque del sud Lauren Bacall e Humphrey Bogart in Il grande sonno Vivien Leigh e Clark Gable in Via col vento Myrna Loy e Cary Grant in L’indimenticabile signor Dick Loretta Young e Joseph Cotten in Mi svegliai signora Elizabeth Taylor e Paul Newman in La gatta sul tetto che scotta Jean Simmons e Laurence Olivier in Amleto Deborah Kerr e Robert Taylor in Quo vadis? June Allison Grace Kelly e Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco Jennifer Jones in Duello al sole Jennifer Jones in Bernadette Jean Harlow e Clark Gable in L’uomo che voglio Katharine Hepburn con Cary Grant e James Stewart in Scandalo a Filadelfia Linda Darnell in Ambra Ingrid Bergman e Humphrey Bogart in Casablanca Grace Kelly e Frank Sinatra in Alta società NOVE Greer Garson, Gene Tierney, Virginia Mayo Piazza Angelo Majorana è stata il mio posto delle fragole, la culla dell’infanzia, ma raramente testimone dei miei giochi. Ammiravo le prove di coraggio dei ragazzi di strada, i loro passatempi poveri e fantasiosi, ma me ne stavo in disparte, pensando che quel mondo non mi appartenesse compiutamente. A volte mi lasciavo andare, ma per sentirmi estraneo ancora di più e talvolta rifiutato dagli occasionali compagni. Ero una specie di Tom Sawyer in mezzo a una banda di monelli alla Huckleberry Finn. La piazza, che si affaccia su via San Giuliano e su un ex carcere borbonico, adesso sede della polizia amministrativa, era come il Mississippi di Mark Twain, il fiume dell’avventura e del mistero, lo spazio verde di un quartiere vibrante di umanità sul quale le radio a tutto volume riversavano note romantiche e d’allegria assieme alle voci dei banditori e degli ambulanti, ai rumori operosi degli artigiani, alle grida festose dei ragazzi che si rincorrevano e battagliavano a cavallo di manici di scopa, mentre all’Angelus le campane distinguevano il confine del sacro. Una vita semplice e a suo modo meravigliosa, una vita alla Frank Capra, popolare, autentica. Il quartiere dopo i lutti della guerra era diventato, in Sicilia come altrove, una sorta di fortilizio sicuro, un luogo in cui i figli, per convinzione comune, sarebbero scampati alla miseria, all’ignoranza, alle malattie, all’oppressione, “alla intimidazione sociale e, soprattutto, alla mediocrità”, come scrive Philip Roth nella Pastorale americana. Insomma, c’era grande fiducia nella vita e nel futuro di quei ragazzi “inesorabilmente pilotati verso il successo”. Anche se nell’ombra c’era chi lavorava in silenzio per presentare il conto di tutte quelle gioie, di tutto quell’amoreggiare con la vita. 218 Geoffrey Lucy nel 1963 ricorderà, in un numero di Selezione del Reader Digest, il disagio di molti giovani occidentali che spesso sfociava nella noia, nella disperazione, nel nichilismo. Fece impressione la storia di quattro ragazzine francesi che tirarono a sorte quattro bigliettini e vi si conformarono. Nel primo c’era scritto “Mi ucciderò”, nel secondo “Ruberò”, nel terzo “Farò la brava ragazza”, nel quarto “Mi prenderò un amante”. Una settimana dopo, Isabelle si tagliò le vene dei polsi, Marie rubò una giacchetta, Janine si comportò da brava ragazza, Annie fece l’autostop e si dette a sei automobilisti. Insomma, si affidarono al caso e diventarono sante o peccatrici per gioco. Il mio quartiere, a sud della Civita, pur collocato alla periferia della periferia del Grande Impero, sembrava anch’esso segnato da un destino di progresso, senza rotture distruttive col passato. Anche quei giovani correvano verso il futuro senza abbandonare l’esempio dei genitori perché ciò che impediva le loro possibili (o inevitabili) ribellioni era, stando sempre al giudizio dello scrittore ebreo americano, “la rettitudine dell’epoca” e “l’abnegazione dei genitori” vissute come ideologia vigente. La trasmissione delle regole s’interruppe quando il quartiere non bastò più, quando i ragazzi diventati adulti si accorsero che la “rettitudine” era stata svenduta nei palazzi e palazzetti del potere. E allora fecero la rivoluzione pur sapendola impossibile, secondo il giudizio di Alberto Ronchey. Ma il concetto appartiene ad Albert Einstein: “Analizzando ogni giorno tutte le idee, ho capito che spesso tutti sono convinti che una cosa sia impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la realizza”. Insomma, i ragazzi del ’68 erano gli “sprovveduti” di Einstein e i loro padri, per cui l’impossibile era una matematica incertezza, non potevano capirli. Fu la sconfitta d’ogni sicurezza, la notte buia e inesorabile, la perdita della luce che aveva alimentato per tutta la vita Seymour Levov (e la sua monumentale normalità) e che di fronte alla figlia diventata prima terrorista e poi giaina non gli resta che 219 piangere. Inutilmente piangere. E morire. Dopo verranno i figli “inerti” degli anni Settanta, i “bamboccioni” come li avrebbe definiti il ministro dell’economia del governo Prodi, Tommaso Padoa Schioppa, postmoderni e antideologici, quelli della generazione di Paride Acacia, per dire, che nella citata autobiografia scrive: “Il futuro non ci ha mai spaventato, né tanto meno incuriosito; il nostro ‘domani’ era il giorno seguente, poi ancora quello dopo, in un susseguirsi di ‘atti’ sempre uguali… il virus del fare lo abbiamo debellato con un cocktail di farmaci scaduti… in un mondo che pretendeva il diritto al lavoro noi riaffermavamo il nostro diritto a non fare un cazzo…” Insomma, come scrive Andrea G. Pinketts, cercavano di ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzasse loro. E tuttavia come dargli torto se sono nati nel decennio più lungo del secolo breve, se sono cresciuti nell’esempio di padri ribelli per rabbia e conformisti per stanchezza? Come non capire che gli anni di piombo (Brigate rosse, rapimento e uccisione di Aldo Moro, stragi, morte di P.P. Pasolini) hanno reso inerte una società incapace di risveglio? Quegli anni non sono stati rivoluzionari sono stati velleitari, hanno provocato lutti, dolore e messo una generazione nella condizione di smarrirsi: prima nel benessere poi nella frustrazione. Il mondo non stava andando più avanti. Il mondo correva tra le braccia delle Charlie’s Angels, del pensiero debole e del tormentone di Roberto D’Agostino in Quelli della notte: “Lo diceva Neruda che di giorno si suda, ma la notte no…” Catania fino all’immediato dopoguerra era una città del suono e del canto, una città dove potevano distinguersi la musica degli organini, le zampogne natalizie, le litigate un po’ vere un po’ finte delle massaie ai carrettini degli ambulanti, il comperare a credito nelle botteghe del perdono il cui stento guadagno si calcolava sulle ristrettezze economiche della gente. E questa, se a fine mese non riusciva a onorare il debito, non usciva di casa, vergognosa di farsi 220 vedere in giro, e si liberava del rimorso solo quando tornava a varcare la soglia delle rivendite con larghi sorrisi e la mano nel borsellino. “Quantu c’hai a dari?” Catania era anche una città dei profumi che scendevano dalla Montagna, della zagara delle campagne vicine e del gelsomino che pendeva dai balconi e dai muriccioli e la cui fragranza si spandeva nelle stanze ombrate dalle tende e dalla malinconia. Di questa Catania, di questa paragrafia nostalgica e umorale, mirabilmente descritta da Goliarda Sapienza nel suo libro postumo Io, Jean Gabin, non resta che l’infanzia dei ragazzi di quel tempo, non resta che il ricordo, non restano che le pietre e gli edifici nobiliari: insomma, ciò che la furia distruttiva dei palazzinari non è riuscita a profanare, ciò che il frastuono delle automobili non può seppellire. Quando si parla di Catania, del suo fulgore e dei suoi personaggi, della sua musica e della sua letteratura, si parla quasi sempre al passato, al già visto e immortalato, non potendo il presente consolarci più di quanto faccia l’oggi nelle altre città del Meridione, non potendo il futuro rappresentarsi, qui e altrove, in una qualche alta misura afferrabile. E così questa città ci rende nostalgici e retorici di un passato che risplende anche nelle sue zone d’ombra, nella fatica e nel limitato orizzonte. Risplende perché quel passato non aveva fretta, era come immerso nello spirito, era riassunto da una comunità d’ingegni prodigiosi ancorché legati a un tempo acerbo e povero. Catania non era preclusa al suo mare. Gli edifici della cattedrale, il sontuoso palazzo Biscari, fino a piazza dei Martiri, erano affacciati alla marina dove i pescatori arrivavano con le barche a vela, vendevano il pesce ai rigattieri, e si riposavano pulendo e rassettando gli scafi, riparando le reti, raccontandosi storie di bufere e di vento, di calme piatte e di pescate miserabili o miracolose. Catania non era separata nemmeno dalla sua Montagna, seppure di faticoso accesso, non come ora che il cemento le contende ogni bellezza e stupore. L’inverno era dedicato allo sport degli sci e delle slitte, 221 ma dall’oggi distinguendosi per quel senso d’avventura che accompagnava gitanti e sportivi. A conclusione della giornata, e alle prime ombre della sera, i pullman facevano tappa nei paesini etnei per l’ultima fragorosa necessità: ballare a scarponi pesanti in uno sfiorarsi di sguardi e talvolta di corpi che mandavano in delirio il desiderio delle coppie. Nelle fredde primavere, che assicurano ancora oggi la neve alle alte quote, era come scendere dal Kilimangiaro e ritrovare dabbasso la savana e le palme del deserto, la macchia mediterranea che lega l’isola al Magreb, gli ulivi e gli oleandri, le facce scure della gente meticcia, il sorriso e la responsabilità. Quand’è cambiata Catania, quando la sua provincia? Volendo utilizzare la metafora delle lucciole di Pasolini, direi che la trasformazione è avvenuta nel momento in cui sono scomparsi gli organini dalle strade e dalle piazze. Il passaggio dalla dolcezza all’inquietudine è stato segnato dal rombo delle auto e delle motociclette, come ricorda Saverio Fiducia nelle Passeggiate sentimentali; un rumore complesso che ha coperto il suono degli organini e reso vani i gesti delle donne zingare, quasi sempre accompagnate da ragazzini tristi, che mettevano in moto la manovella e “andavano da un marciapiedi all’altro offrendo la stampa delle canzoni in voga, ma la gente né il pianino udiva né la donna vedeva, e se questa fermava qualcuno con occhi imploranti, il supplicato sfuggiva”. Quell’immagine ce l’ho negli occhi, come una sequenza cinematografica, lungo il viale XX Settembre, nel tratto compreso tra piazza Trento e via Grotte Bianche. Lei era colorata e frusciante, d’età indefinita, e il ragazzino era come preso in prestito, affittato alla bisogna. E nessuno sentiva e nessuno comperava. Era cominciato il grande inganno, la grande disattenzione. C’era un altro suono che s’imponeva oltre allo strepito del traffico: l’agitarsi melodrammatico della gente, il “rumore” del primo benessere; il vivere meno controllato, il lento ma inesorabile distacco dal sociale. La città non diventava 222 più incontro ma separazione, spostava il suo asse a sudest, verso il mare, verso orizzonti di fuga, d’altre immaginazioni e retoriche. Poveri organini. Se si guastavano il loro “medico” era don Saru Porto, della ditta in commercio Rosario Porto e Figli, fabbricante di fisarmoniche e poi di chitarre e mandolini, padre di due autentiche celebrità, suonatori di fisarmonica appunto. “Don Saru”, il ricordo è sempre del Fiducia, “dopo che l’ultimo organino era partito e lui, con orecchio infallibile, lo aveva udito perdersi nei meandri di San Berillo e del Massarello, soddisfatto della giornata scendeva la scaletta della fabbrica, si sedeva sull’ultimo gradino e ordinava ‘A mùstica!” Che era ’u bummulu, l’orciolo di terra di Lentini che serviva a tenere fresca l’acqua. Beveva a lunghe sorsate e alla fine, dopo essersi asciugate le labbra con la manica della camicia, si guardava intorno e cominciava a cantare. “Ti passau ’u pitittu?” gli diceva la moglie cominciando ad apparecchiare per il pranzo. Lui arrivava caracollando, mangiava e poi si metteva a dormire. Un’ora di sonno disturbato, dalle mosche e dalle moschitte. Se don Saru avesse saltato la pennica e si fosse avventurato alla ricerca del suono dell’organino, laggiù dove le acque dell’Amenano s’affacciano raspose in piazza Duomo per poi rituffarsi nel sottosuolo, avrebbe di sicuro incontrato il caffettiere girovago per l’ultima mescita del suo portentoso caffè. E dopo di lui, l’acquaiolo e il venditore di cicoria, raccolta all’alba nelle vicine campagne. Alla fine, lo avrebbe trovato l’organino a manovella e ne avrebbe ascoltato ancora una volta il canto malinconico “che serve a spezzare e fugare la solitudine, cioè l’intima pena segreta di essere al mondo”. Le virgolette racchiudono ancora una volta un pensiero di Saverio Fiducia che ricordo nella vecchia sede de La Sicilia, in via Santa Maria del Rosario. Era un uomo piccolo e severo, con i capelli e i baffi alla Verga, candidi come la neve. Portava al suo amico Antonio Prestinenza gli articoli per la terza pagina che il 223 direttore curava personalmente. In quel vecchio convento, trasformato in tumultuosa e profanatrice redazione, si muoveva in punta di piedi, gentile e sommesso, inchinandosi da vecchio gentiluomo a ogni passaggio di giornalista, amico o sconosciuto che fosse. Questa era Catania, questi erano i suoi personaggi. Una città che ha perduto l’innocenza e la rettitudine con l’irrompere furente della mafia e dei politici d’avanspettacolo, una città che fino alla rasoiata del ’68 era stata legata all’Ottocento come dicevo nel capitolo quattro, alla sua innocua retorica, ma che da quella rivoluzione studentesca, poi atrocemente corrottasi, è rimasta assente, sperduta, incapace di coglierne i migliori frutti. E dunque quella Catania resta nel mio cuore come una stagione smarrita. La famigerata American Legion, ricordata nell’altro capitolo, non diede problemi a Greer Garson, la signora Miniver di celluloide, l’attrice che più d’ogni altra interpretò il ruolo della brava moglie e della madre esemplare, il simbolo dell’America puritana, patriottica, coraggiosa. Con la sua “nasca all’aria”, lo sguardo fiero e appassionato, il temperamento forte, fu un’attrice che non raggiunse il glamour di altre e forse meno titolate colleghe ma che negli anni Quaranta s’impose con classe all’attenzione del pubblico. Aveva alle spalle una solida esperienza teatrale e ben trentacinque primavere quando approdò al cinema. La convinse il magnate della MGM, Louis Mayer, che a Londra la vide recitare e subito s’innamorò della sua calda voce e del portamento aristocratico. In un primo momento lei si mostrò restia, ma alla vista dei molti zeri sul contratto “alluciò”, come direbbero dalle mie parti. Il primo film doveva essere Il paradiso delle fanciulle dedicato ai fasti di Ziegfeld, ma l’attrice dovette rinunciarvi per una caduta da cavallo che le provocò la lesione della spina dorsale. Fu sostituita da Luise Rainer che per quel ruolo vinse l’Oscar come migliore attrice protagonista, che doppiò l’anno successivo con La buona terra. Rimessasi su, e 224 stanca di aspettare la grande occasione, Greer accettò una piccola parte in Addio, Mr. Chips! di Sam Wood, che girò nel ’39. Non pienamente soddisfatta della prova, stava per tornarsene nella natia Londra quando apprese che non solo il film era candidato all’Oscar ma che anche il suo nome era stato inserito nelle nominations come migliore attrice protagonista. La statuetta andrà a Vivien Leigh per Via col vento ma fu comunque una vittoria essere entrata in lizza con artiste del calibro di Greta Garbo, Bette Davis, Irene Dunne e della magica Vivien. Lo stesso anno la MGM le confezionò una storia che per la verità non stava in piedi, Una donna dimenticata, accanto a Robert Taylor. Per sua fortuna non ebbe il tempo di meditare sull’empasse perché finalmente arrivò l’anno buono, il 1940. Il film è Orgoglio e pregiudizio, tratto dal capolavoro di Jane Austen, e il ruolo è quello di Elizabeth, una delle cinque figlie da marito dei coniugi Bennet. Forse per la parte era un po’ anziana (più adatta senza dubbio Keira Knightley nel remake del 2005) ma il risultato fu spettacolare. Al suo fianco c’era Laurence Olivier, mostro sacro del teatro inglese e che a Hollywood aveva sfondato l’anno prima con La voce nella tempesta. L’attore trovò pane per i suoi denti e spesso venne travolto dalla partner, dilettante di lusso sul set ma che era stata un’ottima professionista sul palcoscenico. L’anno dopo, Greer Garson sfiora ancora l’Oscar con il film Fiori nella polvere, di Mervyn LeRoy, basato sulla vita di Edna Glaney, la donna che fondò i primi orfanotrofi nel Texas e lottò affinché la parola “illegittimo” venisse tolta dal certificato di nascita dei bambini abbandonati. Grazie al technicolor, il pubblico poté ammirare per la prima volta il rosso ardente dei capelli della protagonista che con quel film darà vita al fortunato sodalizio con Walter Pidgeon che le sarà marito in La signora Miniver di William Wyler e in Addio signora Miniver di Henry Potter. Il primo film, girato in pieno conflitto mondiale e che frutterà all’attrice l’Oscar per la migliore 225 interpretazione, sarà elogiato, e raccomandato al pubblico, dal presidente Roosevelt e da Winston Churchill. E piacque anche a Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich, perché la storia raccontata dal film, la storia d’una famiglia inglese che affronta i dolori della guerra, poteva essere anche una storia tedesca, di coraggio e sacrificio. Ambedue le pellicole, intense e commoventi, consegnano l’attrice alla storia del cinema, anche se lei in un primo momento non voleva calarsi nei panni di una donna sposata e madre di un figlio già all’università. Ma dovette subire la legge del contrappasso: se prima era stata una sin troppo vecchia Elizabeth Bennett adesso era una sin troppo giovane Kay Miniver. Greer Garson mise subito gli occhi sul giovane e belloccio “figlio”, l’attore Richard Ney di quindici anni più giovane, e poco dopo la fine delle riprese lo sposò. Fu un matrimonio sbagliato, come il precedente del resto, trascinatosi per anni ma già finito durante la luna di miele. Il primo marito, Alec Snelson, era un compagno d’infanzia: geloso, possessivo, nettamente al di sotto della cifra intellettuale della moglie e, soprattutto, della suocera, l’attrice Nina Ross, che vedeva in quel ragazzo una zavorra per la carriera della figlia. Inadeguato anche il giovane Richard, alla fine, soprattutto per l’immagine pubblica che la Garson dava di sé: seria, responsabile, affidabile. Finì anche quel matrimonio. Definitivo sarà il terzo, con Elijah Fogelson, che aveva fatto i soldi col bestiame e possedeva un ranch spettacoloso nel Nuovo Messico. Sarà l’uomo della sua vita. Lo sposerà nel 1949, quasi alla fine della carriera cinematografica e prima di inventarsi come attrice televisiva. Un’unione felice, tenera… “alla signora Miniver”. Fiori nella polvere c’erano, naturalmente, anche a Catania. Fiori coltivati, più o meno distrattamente, ’o cummittu, l’ospizio di beneficenza di via dei Crociferi che raccoglieva i derelitti, i bambini senza famiglia, i 226 bambini che camminavano in fila per due nelle strade del centro storico con la testa rapata a zero, per evitare l’annido dei pidocchi, e a occhi bassi perché il luminoso mondo circostante non era il loro, perché imparassero a farsi una ragione della loro sfortuna. Talvolta uno dei bambini, vestiti di grigio, il colore della loro esistenza, in quella passeggiata che assomigliava all’ora di svago dei carcerati, alzava lo sguardo oltre la fila, su qualche fortunato coetaneo che gli passava accanto, vestito d’altri colori e sorrisi, e lo seguiva per un buon tratto, con la testa girata, e capiva che la città era inesorabilmente divisa a metà. A vederli, il cuore mi si stringeva in una morsa inesplicabile di disagio; guardavo mio padre che mi spronava a meritarmi il privilegio d’essere nato in una famiglia normale. La miseria era il luogo al confine della mia vita borghese, come dice Orhan Pamuk nel suo bel romanzo Neve: mio padre dirigente, mia madre casalinga, mia sorella e mio fratello, i mobili, la radio, le tende, la casa… l’altro mondo restava fuori. Mio padre considerava speciali i suoi figli, sia pure con pudore. Eravamo talmente speciali che un giorno di primavera, io e mia sorella (mio fratello gattonava appena) attirammo in un tranello un piccione vagabondo e gli tagliammo le ali perché non tornasse più al nido e restasse a giocare con noi in terrazza. Lo mettemmo in una scatola e cercammo di rimpinzarlo col resto del granoturco che era servito da esca. Ma non mangiò nulla finché non arrivò un altro colombo, che si fece catturare senza opporre resistenza. Era il compagno, o la compagna, del prigioniero. Tagliammo anche a lui, o a lei, le ali e mettemmo in croce papà perché ci procurasse una piccionaia. E questa arrivò la settimana successiva. Non era una piccionaia qualsiasi ma un albergo a cinque stelle per colombi viaggiatori. Si trovarono bene nei nuovi alloggi, al punto che concepirono un figlio, che purtroppo visse poco. Non ricordo come finì la storia. Forse ai colombi ricrebbero le ali e guadagnarono la libertà oppure finirono in 227 pentola. Eravamo bambini speciali, l’ho detto, nel primo come nel secondo caso. Io, mia sorella, mio fratello, che allora era occupato a svegliare il quartiere coi suoi pianti o le sue grida di gioia. Colombi a parte, a quell’epoca ero timido e confuso, uno che a scuola scriveva i temi sentendoseli scorrere dentro, nel suono delle parole, prima che nella razionalità dei concetti, uno che stava sempre un passo indietro prima di convincere se stesso a lanciarsi nella mischia, uno che parlava poco per timore di sbagliare e se lo faceva il cuore gli batteva forte, uno che giudicava la vita con sentimento, che credeva nelle persone, che guardava alla realtà con la magia del dover essere, della felicità, degli affetti. La vita, insomma, era per me una nebulosa di stelle invisibili ma con un nucleo forte dentro, con una razionalità interiore che alla fine si sarebbe svelata nella sua purezza assoluta, come un diamante chiuso nella roccia o un cuore di ghiaccio incontaminato caduto dallo spazio e sepolto al Polo Nord, come racconta Peter Høeg nel finale del suo complesso romanzo Il senso di Smilla per la neve. Per spiegare ancora: la vita di un ragazzo sta chiusa nella crisalide prima di diventare un essere compiuto e spiccare il volo verso liberi e compiuti orizzonti. Il cinema però, lungi dall’essere una prigione, un inganno o un incantamento, era un fuoco, un motore che spingeva la mia adolescenza e quella della mia generazione verso la maturità, senza pericolosi salti però, senza delusioni precoci, ma col compito preciso di preparare il passaggio del confine, grado a grado. Talvolta l’immedesimazione raggiungeva vette suggestive e favolistiche come quelle conosciute dal personaggio Giosuè descritto da Giuseppe Bonaviri in uno dei suoi racconti. Un giorno Giosuè va al cinema Olimpia, a Catania, a vedere un film di cappa e spada con Tyrone Power. Sennonché la suggestione è tale che alla fine della proiezione si vede rimbalzare il divo dallo schermo in sala e da qui nella vicina piazza Stesicoro dove immagina di seguirlo, magari per misurare la 228 propria supposta abilità di spadaccino. Fu la suggestione, per altro, di Goliarda Sapienza quando, ragazzina innamorata di Jean Gabin, immaginava di seguire il suo eroe francese nelle stradine di San Berillo a Catania pensando ai vicoli della Casbah di Pépé le Moko. Tornando ai bambini senza nome poteva accadere che uno di quei fiori si staccasse dalla polvere e trovasse i suoi meritati prati assolati. Giuseppe De Felice fu tra questi. Nato nel 1859 da umile famiglia, e rimasto ben presto orfano di padre, trascorse gli anni della fanciullezza o’ cummittu, ma proprio in quel luogo derelitto trovò la forza di emergere, studiare, laurearsi e diventare un grande oratore e un politico di rango, il più autorevole e stimato esponente delle idee socialiste a Catania. Forse sulla sua strdaa trovò una signora Glaney che l’aiutò a guardarsi intorno, ad alzare lo sguardo sul mondo che era di tutti e non solo dei signorini lavati e profumati di fresco che ai genitori chiedevano questo e quello. Altra cosa erano i collegi gestiti dalle suore, come ci racconta Emma La Spina nel suo libro-denuncia Il suono di mille silenzi. Alle trovatelle, e l’autrice era una di queste, veniva lesinato il cibo e persino l’acqua che le bambine, la cui unica “colpa” era quella di essere figlie abbandonate, erano costrette a rubare dagli sciacquoni dei water. “Ho scritto tutto questo”, ha confessato l’autrice “per le mie compagne, che ancora vivono nel profondo timore di parlare delle loro sofferenze, quasi ne siano state le carnefici e non le vittime. Ho scritto tutto questo per spalancare porte che per troppo tempo sono rimaste chiuse, per illuminare camere buie, per far crollare muri cementati con l’indifferenza e l’ipocrisia. Ma, soprattutto, ho scritto tutto questo perché non sono mai riuscita a urlarlo prima. Sono una delle mille bambine in silenzio nelle grandi stanze di un istituto”. Oleg Cassini era il marito di Gene Tierney, la più bella donna della storia del cinema, secondo il giudizio 229 di Darryl F. Zanuck, fondatore della 20th Century Fox. Il matrimonio, durato undici anni (dal 1941 al 1952), naufragò per l’incapacità dell’attrice di accettare le contrarietà della vita. Uscì di testa e fu ricoverata in un ospedale specializzato per malattie depressive. La più giovane delle due figlie, Daria, nacque mentalmente ritardata. La causa, a quanto pare, fu dovuta al fatto che l’attrice, mentre girava uno dei suoi migliori film, Il cielo può attendere di Ernst Lubitsch, anno 1943, contrasse la rosolia. Non riuscì a farsene una ragione. Durante il suo primo film, Il vendicatore di Jess il bandito di Fritz Lang, 1940, scoprì di avere la voce troppo sottile. Per renderla più robusta si mise a fumare. Morirà a settantuno anni di enfisema polmonare. Oleg Cassini apparteneva alla high life di Washington. Il padre era un conte russo la madre una nobile fiorentina. Alto, intelligente, pieno di charme, si trasferì in America per cogliere la fortuna che bussava con prepotenza alla sua porta. A fare il disegnatore di moda cominciò per passatempo ma poiché aveva una marcia in più rispetto agli altri sbaragliò il campo e ben presto trasformò la moglie Gene nelle dieci donne più eleganti d’America. Poi arrivò la tragedia della figlia Daria e tutto precipitò. Gene si smarrì, Oleg si smarrì. Lei rimase prigioniera del suo dolore, lui, che a Hollywood era arrivato a bordo di una MG rossa e senza una valigia, tornò nella costa orientale e cominciò a frequentare bellissime modelle. Oriana Fallaci, nel già citato I sette peccati di Hollywood, ne descrive i percorsi con quel misto di distacco e di umana partecipazione che erano la cifra del suo talento. Questa grande giornalista e scrittrice il 19 settembre 1993 mi mandò un biglietto di ringraziamento per un servizio che avevo realizzato per il Tg1 sul suo fortunato e toccante libro Lettera a un bambino mai nato diventato un audiolibro di altrettanto successo. Con la sua calligrafia chiara e rotonda scrisse: “Caro Piero Isgrò, ha fatto un pezzo proprio bello sul mio libro parlato. Io la ringrazio affettuosamente”. Il sottolineato era suo. Perché ricordo questo episodio? Per 230 orgoglio, sicuro. Ma per dire anche che la gentilezza alberga soprattutto nel cuore delle persone speciali. E Oriana Fallaci era una persona veramente speciale. Vittorio Feltri, quando è a corto di idee, prende uno dei tanti libri o articoli splendenti di Oriana, ne legge qualche pagina e trova lo spunto decisivo per i suoi articoli. Il cielo può attendere fu uno dei primi film a colori che ricordo. Il “picciotto” era Don Ameche. Si chiamava Domenico Felice Amici ed era uno degli otto figli di un barista che si era trasferito nel Wisconsin dal lontano Abruzzo. Il cognome lo prese in prestito dalla marca di un telefono che allora andava per la maggiore. La “picciotta” era Gene Tierney, la raffinata attrice che era stata educata in Svizzera e nelle migliori scuole dell’East Coast di New York. Il film è la storia di un impenitente dongiovanni, Henry Van Cleve, legato però moltissimo alla moglie e al figlio. Dopo morto racconta la sua vita al diavolo, convinto di finire all’inferno per le numerose scappatelle. Ma Mefistofele, dopo averlo ascoltato, non lo ritiene “degno” di finire tra i dannati e lo dirotta in paradiso. Entrando in ascensore, per salire nel regno dei beati, Henry incontra una bella donna che invece sta per scendere agli inferi. Da peccatore incallito, allora, rinuncia all’insperato premio e insegue l’ennesima e ultima “preda” dicendo a se stesso: Il cielo può attendere. Solo che la scena venne tagliata per pruderie hollywoodiana e il finale fu diverso, meno laico e più accomodante, per cui il significato del titolo si perse nelle cattive intenzioni dei censori. Mark Twain diceva di preferire il paradiso per il clima e l’inferno per la compagnia, anche se alcuni teologi moderni sostengono la sostanziale inutilità dell’inferno dal momento che nessuno ne ha mai varcato la soglia. Forse l’“utilità” serve alla Chiesa per dare un senso al proprio insegnamento e un ordine sociale alla comunità dei fedeli. Con uguale convinzione molti scrittori laici rovesciano il discorso e sottolineano la noia immortale che deve serrare i cuori dei beati del paradiso. Uno di questi fu George Orwell che scrisse: 231 “Sappiamo bene che il paradiso cristiano, com’è di solito rappresentato, non attrarrebbe nessuno”. Troppa estasi e beatitudine, insomma, che alla fine possono diventare incubi. Ma se è vero, come dice Tertulliano, che una delle maggiori gioie del paradiso è di guardare le torture dei dannati ecco che il problema si ripropone. Forse il più saggio si rivela il dongiovanni Henry: prima di qua, tra le donne, e poi di là, a riprendersi dalle fatiche. Durante il suo regno di celluloide, Gene Tierney, oltre ai due mariti (Oleg Cassini e Howard Lee, che era stato uno dei mariti di Hedy Lamarr) collezionò amanti di prima grandezza, a cominciare da John F. Kennedy, incontrato nel 1946 sul set di Il castello di Dragonwyck di Joseph Mankiewicz, per finire con Tyrone Power e il principe Alì Khan che l’abbandonò provocandole un fortissimo esaurimento nervoso che la spinse sulla soglia della follia. Nel 1979 pubblicò l’autobiografia, Autoritratto, in cui mise a nudo la sua tormentata personalità, perennemente in bilico tra la severa educazione d’alta classe, ricevuta da ragazza, e il fatuo mondo del cinema. Una donna di terra che diventa donna di mare, in definitiva, che rovescia la lezione del grande Henrik Ibsen; una signora speciale che distrugge la realtà per il sogno e con questo per sempre si addormenta. A pensarci bene, la storia assomiglia a quella raccontata da John M. Sthal in Femmina folle in cui la protagonista, Gene Tierney appunto, interpreta il ruolo di una donna possessiva che per eccesso d’amore distrugge quanti le stanno attorno, fino al tragico finale. Proprio nelle parti di “cattiva” Gene riscosse i maggiori successi così come avevano fatto Margaret Lockwood (L’uomo in grigio, La bella avventuriera, Bedelia), Tallulah Bankhea e Gale Sondergaard. La stagione del dopolavoro ferroviario volgeva al termine. Gli ultimi anni, prima del definitivo abbandono, alternammo l’angusta sala di via Luigi Capuana con il cinema Spadaro, in via Sabotino, non lontano da casa. Era un locale nuovo, ampio, 540 posti 232 tra platea e tribuna. La platea era per operai e piccoli borghesi, la tribuna per chi aveva fatto qualche soldo e cercava di distinguersi anche a costo di respirare il fumo che saliva dal basso. Era un vero cinematografo, insomma. Rispecchiava la società imperfetta che andava consolidandosi col primo timido benessere. Entravi e già ti batteva il cuore, come se ti trovassi in un tempio di misteriose meraviglie, ancora prima di vederle. Anche i cinegiornali, che precedevano la proiezione dei film, erano da noi accettati non tanto come “informazione”, c’erano i quotidiani per quello, ma come assaggi della torta che da lì a poco avremmo consumato. Ne ricordo il logo: un mappamondo, col David di Michelangelo accanto, fasciato dalla scritta “La settimana Incom”. Questa era l’informazione “televisiva” di allora. Era stata fondata da Sandro Pallavicini nel 1938 e si era affermata nella nascente Repubblica. Sul piano politico questo cinegiornale, che entrò in concorrenza con quello dell’istituto Luce, per poi sostituirlo, si mantenne vicino al governo ma non trascurò l’opposizione. Fu messo definitivamente in crisi dalla TV, nel 1965. L’incontro con Virginia Mayo, che un critico definì “la prova vivente dell’esistenza di Dio”, avvenne al cinema Spadaro. Era bella e saggia, Virginia Mayo. Si sposò una sola volta, con l’attore Michael O’Shea, ebbe una sola figlia, Mary Catherine O’Shea, e visse sempre alle Mille Querce, California: come a tracciare un analogo destino con Tara di Via col vento. La ricordo nella Leggenda dell’arciere di fuoco di Jacques Tourneur, 1950, con Burt Lancaster nel ruolo di un coraggioso cacciatore, Dardo, che organizza in Lombardia la rivolta contro il conte Hess, luogotenente del Barbarossa, che per altro gli ha rubato la moglie e il figlioletto. Virginia Mayo è messa in ombra dalle gesta e dai funambolismi di Lancaster ma la sua grazia rifulge come i dardi fiammanti scoccati dal marito contro la prepotenza del conte Hess. Va meglio l’anno dopo con 233 Le avventure del capitano Hornblower di Raoul Walsh, con Gregory Peck. Il film, tratto da un romanzo di Cecil Scott Forester, scrittore britannico specializzato in avventure di mare, racconta la storia di un capitano di goletta inglese che combatte in Nicaragua e in Francia per il suo Paese, pensando sempre a Lady Barbara, sorella del duca di Wellington, ma che è sposata all’ammiraglio Leighton. Dopo un’ultima missione vittoriosa, Hornblower torna in patria e scopre di essere rimasto vedovo. Il cordoglio per il lutto dura però un momento. Il capitano coraggioso incontra da lì a poco l’innamorata, fresca anche lei di vedovanza (guarda caso), la fissa negli occhi, la stringe tra le braccia, la bacia … “e si ficiru ’i ficu”, secondo il commento d’uso della platea del cinema Spadaro nelle storie d’amore. Variante colorita e popolaresca, questa, del “vissero felici e contenti”, come nelle fiabe ascoltate accanto alla conca, il braciere della mia infanzia, il fuoco sacro che riscaldava il salotto di nonno Carmelo, attorno al quale si raccoglievano i suoi figli e le loro storie. Il terzo film che ricordo è Il calice d’argento di Victor Faville, 1954. È un improbabile racconto storicoreligioso che allora mi affascinò ma che rivisto anni dopo risultò un polpettone indigesto. Paul Newman, al suo esordio, si pentì di averlo girato e per circa due anni, dalla radiofonica BBS, chiese perdono ai suoi fans. Resta però la bellezza di Virginia Mayo che andava assomigliando sempre più alle pin-ups di Gil Elvgren e Ren Wicks, i disegnatori delle ragazze-spillo che andavano a finire nei calendari profumati dei barbieri negli anni Cinquanta. Resta la celebre “s” romagnola della sua doppiatrice Dhia Cristiani, restano i suoi occhi azzurri, le sue labbra carnose, la sua incantata visione della vita, restano i suoi film musicali accanto a Danny Kaye, rigorosamente doppiati, e quelli drammatici: La furia umana di Raoul Walsh, del 1949, e I migliori anni della nostra vita di William Wyler, del 1946, dove interpreta il ruolo della giovane moglie infedele (errant young wife) di un reduce di guerra. 234 DIECI Linda Darnell, Rhonda O’Hara, Deborah Kerr Fleming, Maureen I calendari profumati con le donnine seminude mi riportano alla mente l’innocente sadismo dei barbieri. Starmene seduto per mezz’ora, senza muovere un muscolo, sotto l’azione della macchinetta, impegnata a strapparmi più che a tagliarmi i capelli sopra le orecchie, è stata una delle esperienze più sconvolgenti della mia vita di bambino. Quando saltavo giù dal cavallino, rapato a zero, le gambe le muovevo appena e il collo mi faceva male. A quel punto il tagliatore di teste, camuffato da lavorante, mi dava un affettuoso scappellotto e diceva che ero stato bravo. Mio padre sorrideva e mi conduceva via. Il martirio finì quando l’aguzzino passò alle forbici e al rasoio. A continuare a sconvolgermi tuttavia restava l’unghia esagerata del suo mignolo che gli serviva per scavarsi il naso o togliersi i tappi di cerume dalle orecchie. In origine lo spaventoso artiglio aveva una funzione simbolica: sanciva la raggiunta professionalità del barbiere che da preparatore di saponate, spazzolatore d’abiti e pulitore di pavimenti diventava finalmente “mastro”, magari dopo svariati e faticosi esercizi di rasatura dei palloncini. Più ne faceva scoppiare più si allontanava la promozione. I barbieri non erano solo abili tagliatori di barba e capelli o massaggiatori di visi, spalmatori di creme e applicatori di pannicelli caldi, erano dispensatori di saggezza e d’informazione. Nelle loro botteghe si parlava di sport e di politica, di donne e di cinema, si scambiavano pettegolezzi, vanterie, storie incredibili e inconfessabili. In tempi più antichi venivano chiamati anche per radere i morti e vestirli (usanza orientale per altro, come racconta il film del giapponese Yojiro Takita, Departures), salassare i clienti, incidere bubboni, curare malattie della pelle, 235 cavare denti, ospitare complessi di mandolini e chitarre, costruire in ultima analisi una socialità primitiva basata sulla gerarchia del “ragazzo, spazzola!”, su l’apprendista e lo stregone, sul giovane e il vecchio, su chi sta sotto e chi sta sopra. In Sicilia allora c’erano più sarti e barbieri che professori, più pettinatori di pensieri che insegnanti d’ortografia. Uno degli artisti più blasonati dei calendarietti di Brown&Bigelow, che gli uomini conservavano come reliquie nel portafogli, era il vecchio Gil che alla figura femminile riuscì a dare un’immagine di prosperità, ironia e sensualità. I soggetti erano in gran parte stupende donnine con la bocca di rosa e le gonne che s’impigliavano sempre in qualcosa (nella pompa dell’acqua, nella scala, nella palizzata, nel remo della barca) e scoprivano gambe, reggicalze e curve callipigie mozzafiato. Per non dire dei seni maestosi che scoppiavano dai vestiti aderenti o che s’intravedevano dalle trasparenze dei babydoll. Lascio immaginare a cosa servissero quei disegni di puro sesso al quadrato. Accanto a Gil Elvgren, che per venticinque anni fu il disegnatore ufficiale della Coca-Cola, c’era uno stuolo di artisti niente male, a partire da Rolf Armstrong e finire a Earl Moran, Art Frahm, Walter Otto. Fu dopo la Grande Depressione che questi geniali cartoonist s’impegnarono a ridare all’America il suo fiato, a dare consistenza alla leggenda americana attraverso l’opulenza della forma di cui dicevo. Anche Linda Darnell, l’attrice dal viso perfetto, entrò nelle loro sapienti tessiture di colori e pennelli. Possiamo immaginarla nel disegno, olio su tela, intitolato Vento di poppa di Gil Elvgren: una bellissima bruna tenta, senza molto successo, di trattenere il cappello e il vestito giallo che si solleva al passaggio di un aereo al decollo. Ha la sua faccia anche la ragazza sul cavallo a dondolo, sempre di Gil, mentre mostra magnifiche gambe inguainate in calze di seta. La madre di Linda Darnell doveva essere come la 236 protagonista del film di Luchino Visconti, Anna Magnani, che cerca disperatamente di costruire un futuro d’artista alla propria figlioletta. A undici anni la lanciò come modella e a tredici le fece fare un’audizione cinematografica, sempre dichiarando età anagrafiche giuridicamente ineccepibili. Il talent scout vide quella meraviglia terrestre, una specie di Dolores Haze nei panni di Lolita, che dimostrava non meno di diciotto anni, e se la portò a Hollywood, ma appena si accorse che era minorenne si spaventò e la rimandò indietro. La signora Darnell non si scoraggiò. Era una di quelle donne che avrebbero messo le figlie nel letto di Barbablù pur di farle diventare star. Hollywood Babilonia è una miniera di nefandezze. Molti produttori per il provino sceglievano direttamente il sofà del loro studio. “Lo fanno tutte” confesserà una Marilyn Monroe alle prime armi, “e se tu non vuoi ce ne sono altre venti, cinquanta, cento dietro la porta, pronte a farlo”. Come del resto fecero Joan Crawford, Lana Turner, Betty Hutton, Hedy Lamarr, Jane Russell. “Eravamo gentaglia, noi del cinema, una banda di farabutti, ammalati di sesso, rozzi e volgari, viziosi, cinici, ignobili” confessò una volta uno dei pionieri di Hollywood, specializzato in film biblici, Cecil B. de Mille. Anni dopo, Veronique Passani, la moglie francese di Gregory Peck, disse la stessa cosa ma in modo spiritoso: “Tutto quello che trovi di utile a Hollywood sono i distributori di benzina”. Per Linda Darnell la grande occasione arrivò nel 1939 (aveva appena sedici anni) con Hotel for women, un filmetto di Gregory Ratoff che lo stesso anno la diresse anche in Moglie di giorno. Linda, che aveva sangue cherokee nelle vene, girò 46 film, più o meno passabili, ma il suo nome resta legato al personaggio di Ambra, dall’omonimo film di Otto Preminger, del 1947. Un film profetico. Nell’Inghilterra di Carlo II, l’avventuriera Ambra, generosa ma un poco bitch, ama un soldato di ventura, lo salva dalla peste ma poi lo perde di vista. Sempre pensando a lui, diventa l’amante 237 di un brigante, poi di un capitano delle guardie e infine dello stesso re. Un giorno torna l’antico innamorato, ma ormai è troppo tardi. Nella storia entrano disgrazie a non finire, piaghe, pestilenze e, soprattutto, il grande incendio che distrusse Londra nel 1666. Tre secoli dopo, esattamente la notte del 9 aprile del 1965, Linda Darnell, che aveva da poco finito di girare Lo sperone nero di Robert Springsteen, stava dormendo in casa della sua vecchia segretaria, a Chicago, quando fu svegliata da un fumo soffocante. La camera da letto era al piano di sopra. Si precipitò verso le scale, ma non fece in tempo a scappare perché le fiamme la imprigionarono coprendola di ustioni per il 90 per cento. Morì il giorno dopo, in ospedale, soffrendo le pene dell’inferno. La sera, prima di andare a dormire, aveva visto in TV un suo vecchio film, Star Dust, Polvere di stelle. Sedici anni prima analoga sorte era toccata all’attrice russa Maria Ouspenskaya, che ne Il ponte di Waterloo è l’austera direttrice di ballo Olga Kirowa. Mentre era a letto e stava fumando fu colpita da un ictus e non trovò la forza di fuggire. Le fiamme, rapidamente sviluppatesi a causa della sigaretta, le provocarono ustioni mortali. Linda Darnell non fu una grande attrice ma un sex symbol e come tale visse in balia delle tensioni dell’esistenza, d’ogni suo sommovimento. Incapace di ancorare la bellezza a un solido talento, annegò i dispiaceri (tre matrimoni falliti) nell’alcol. Morì tra le fiamme che, simbolicamente, l’assediarono per tutta la vita. Ma, a ben ricordare, la morte cominciò ad affacciarsi il giorno in cui imparò a sdraiarsi sui sofà. Queste “debolezze” il pubblico le conosceva, a volte rammaricandosene a volte godendo a rovistare nella spazzatura di celluloide. Le storie sono tante, lontane e recenti, perché Hollywood non cambia né può cambiare. Qualche anno fa abbiamo letto che Marlon Brando passava con facilità da un sesso all’altro e che aveva amato indifferentemente Burt Lancaster e Rita 238 Hayworth, Tyrone Power e Anna Magnani, Montgomery Clift e Ingrid Bergman. Di recente, i soliti biografi post mortem hanno innescato e fatto esplodere un’altra bomba: Paul Newman, due mogli e sei figli, sex symbol assoluto del cinema internazionale, pare abbia avuto anche lui rapporti omosessuali. Lo ha rivelato Darwin Porter in The man behind the baby blues. L’attore, che incantava il pubblico femminile con il solo sguardo, cominciò con Marlon Brando, poi passò a Sal Mineo (gay incallito), quindi ebbe rapporti con James Dean, Anthony Perkins, Montgomery Clift, Steve McQueen, Robert Wagner. Per non dire delle frequentazioni alle orge bisex di Tyrone Power (dove apprese che Tyrone ed Errol Flynn erano amanti) e a quelle (etero) di Sinatra. “Non sarai mica frocio? Girano strane voci su di te”, gli disse Frank. Tutto ciò che Hollywood toccava diventava il rovescio dell’oro. A parte i biografi, scrupolosi e no, c’erano poi le grandi pettegole di Hollywood, come Hedda Hopper e Louella Parsons che si divertivano a distruggere persino quel poco di buono che c’era nello star system. Erano ricchissime e molto corteggiate dai divi che ne temevano i gossip al fiele. La prima, figlia di un macellaio, si diede al giornalismo dopo aver girato 141 film inutili. La sua religione era: “Non risparmiare nessuno. Dire, sempre, male di tutti. Compiacersi d’essere definita una vipera”. La seconda, scrittrice e sceneggiatrice, più che l’inchiostro usava anche lei l’arsenico. Visse fino a 91 anni nonostante che mezzo secolo prima i medici, per una forma di tubercolosi, le avessero concesso sei mesi di vita. Evidentemente, a essere buoni, la salute non ci guadagna. E c’erano poi la cattivissima Elsa Maxwell, che cominciò come pianista e finì come ruffiana, e Sheilah Graham, modesta attrice di teatro e di music-hall, che aveva avuto una relazione con Scott Fitzgerald. Sheilah in realtà si chiamava Lily Sheil e veniva dall’East End di Londra. Era una strana ragazza ma di cuore. Fu lei ad aiutare l’infelice e ormai alcolista scrittore dopo che la moglie di lui, Zelda, era 239 finita in manicomio. E poi c’erano i mille giornalisti, maldicenti per vocazione e necessità, che lavoravano inseguendo, 24 ore su 24, i “peccatori” di Sunset Strip e Sunset Boulevard, di Ciro’s, Mocambo e dei ristoranti della Cienega che dal cuore di Hollywood arriva alla downtown di Los Angeles. Tanti chilometri e tanta fatica per dare in pasto al pubblico storie di scandali in celluloide più o meno veri, più o meno inventati. Se Lana Turner dormiva in pigiama felpato l’indomani venivano a saperlo anche i minatori dell’Idaho e se dai banchi della chiesa cattolica di Beverly Hills Van Johnson si allargava il colletto per il caldo l’occhiuta Louella Parsons, che aveva assistito alla scena russando dalle ultime file, lo faceva sapere ai suoi quattro milioni di lettori. Di converso, Warren Beatty, fratello minore di Shirley MacLaine, in una biografia non autorizzata confessò di avere sedotto circa tredicimila donne, famose e no. Tra le famose: Jane Fonda, Leslie Caron, Julie Christie, Diane Keaton, Madonna, Isabelle Adjani. Tra le “vittime” c’era anche Jane Collins, costretta a lasciarlo per evitare di essere distrutta. L’aitante Warren pretendeva di fare l’amore fino a sei-sette volte al giorno. Insomma, solo i dongiovanni etnei avrebbero potuto (a parole) tenergli testa. Rhonda Fleming, con i suoi capelli rossi e gli occhi verdi, la carnagione color crema e la voce suadente, fu trasformata in oggetto del desiderio mentre nella vita privata l’attrice continuò ad andare in chiesa, a occuparsi di istituzioni benefiche e a cambiare mariti lo stretto necessario. La sua bellezza era talmente squisita che riusciva a “incantare” persino la cinepresa. Si racconta che un giorno un operatore, irritato dalla sua eccessiva avvenenza, si mise d’impegno nel riprenderla nel peggiore dei modi. Restò di stucco quando si accorse che le immagini erano ancora più splendenti di quelle girate con scrupolo. Sembra una stupidaggine, e 240 forse lo è. Rhonda, come tutte le dive che allineano parecchi zeri sul cachet, godeva d’ogni privilegio. In L’arma della gloria, diretto da Roy Rowland nel 1957, la produzione assunse una delle più celebri stunt woman di Hollywood, Martha Crawford, che per meno di cinquemila dollari non tentava manco una caduta dalla sedia. Martha era una bella ragazza, forte e coraggiosa, con Rhonda fece subito amicizia. Per farle un favore cadde da cavallo in maniera così tumultuosa e veridica che la povera bestia si spezzò le zampe e una volta, a causa degli schiaffi che prese al suo posto, finì in ospedale con la faccia tumefatta. Martha era sposata con un fantino di origine italiana, John Cantarini: talmente spericolato che in California il suo nome era diventato sinonimo di crazy kid. Magnifico il cammeo d’esordio in Io ti salverò di Hitchcock in cui Rhonda interpreta Mary Carmichael, una paziente di Green Manors, la clinica psichiatrica del Vermont dove si dipana la vicenda e l’amour fou di Ingrid Bergman per Gregory Peck ingiustamente accusato di omicidio. Ma ancora più convincente è nel film Out of the past di Jacques Tourneur, che nell’Italia del 1947 venne scioccamente tradotto in Le catene della colpa che lasciava immaginare un film con Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson e invece si trattava di una delle opere noir più importanti del cinema americano. Protagonisti Robert Mitchum, Jane Greer (eccellente dark lay dal viso d’angelo), Kirk Douglas e Rhonda Fleming, appunto, che gareggia in cattiveria e perversione con la Greer senza però riuscirci. Di questo fascino che bucava lo schermo anch’io fui (giovane) testimone. Se non ricordo male, il film, che vidi nella piccola sala del dopolavoro ferroviario, era La cortigiana di Babilonia, girato in Italia da Carlo Ludovico Bragaglia, con Tamara Lee, Roldano Lupi e Ricardo Montalban. Il seno di Rhonda era maestoso. Rividi il film due volte, proprio per quel seno ribelle che infuriò nella mia testa per molto tempo. Queste erano le 241 occasioni per “peccare”, per poi darsi un giro di vite e correre dal confessore che pareva non aspettasse altro. Questo era l’arco del desiderio e della penitenza in quegli anni siciliani acerbi, anni di calendarietti profumati, di confessionali, di pedinamenti delle ragazze, di passeggiate sotto i balconi, di gelsomini e di canzoni. Il 21 marzo 1953, nella chiesa parrocchiale del Pantheon, a Siracusa, padre Bruno celebrò le nozze tra Angelo Iannuso e Antonietta Giusto, due giovani innocenti e poveri. Una cerimonia semplice e un ricevimento ancora più semplice. La coppia andò ad abitare al numero 11 d’una casetta al pianterreno di via degli Orti di San Giorgio, arredata con poche cose: un letto, un armadio, un tavolo, quattro sedie, un fornello, poche pentole e stoviglie. Come capezzale, unico oggetto superfluo e necessario, un bassorilievo di gesso che raffigurava il Cuore Immacolato di Maria, regalo d’una cognata che l’aveva comperato per 3.500 lire in un emporio del centro della città. Quattro mesi dopo, il 29 agosto, alle 8.30 del mattino, Antonietta, che portava una gravidanza difficile, al punto che talvolta le si annebbiava la vista, si accorse che la sua Madonnina stava piangendo. Asciugò le sue notturne lacrime, per meglio osservare lo sconvolgente fenomeno, e si accorse che dalle pupille inanimate della Santa Madre scorreva uno strano liquido: lo toccò, lo portò meccanicamente alle labbra e lanciò un grido al marito che stava in cucina. “Ha perso il bambino”, pensò il poveruomo precipitandosi in camera da letto. Anche lui, come San Tommaso e come la moglie, mise il dito e assaggiò. Non c’erano dubbi. Allora si lasciò cadere in ginocchio davanti al capezzale miracoloso, e così fece la moglie. Pregarono un tempo eterno fino a quando la piccola stanza dei sogni impossibili si riempì di persone. Il fenomeno durò quattro giorni e fece il giro del mondo. Per settimane e settimane, per mesi e mesi, in quella strada, tracciata ai confini dell’Italia, si 242 riversarono migliaia di fedeli e di curiosi, si gridò al miracolo e si fecero buoni affari. Me la ricordo quella notizia che ci mise, a noi siciliani, in cima alla curiosità della gente e mi ricordo pure le balle di cotone nei magazzini della Fidap, l’industria farmaceutica diretta da mio padre, alte quanto me, in attesa di essere spedite ai commercianti di Siracusa, che le riducevano in piccoli fiocchi imbevuti d’acqua salata e venduti ai fedeli come testimonianza autentica delle lacrime della Madonna. Se fossero state le lacrime del miracolo la piccola immagine di gesso avrebbe dovuto lacrimare come un rubinetto aperto giorno e notte. Un mese più tardi il mio quartiere fu svegliato da un altro “miracolo”. Una donna, che abitava anch’essa al pianterreno, vide un’ombra disegnarsi sulla parete e immaginò che assomigliasse alla Madonna di Lourdes. Si formò una processione di gente che si mise a pregare e a cantare inni alla Santa Vergine. Le apparizioni durarono qualche giorno, con cospicue offerte alla “vedente”, finché si scoprì che l’ombra non era quella della Madonna ma dell’ascensore del palazzo accanto. Verso la fine degli anni Novanta, a Riesi, un paesino del Nisseno che odora di vino e di mafia, si gridò al prodigio per molto meno. Sull’intonaco ancora fresco della facciata di un palazzotto l’umido aveva lasciato una macchia simile a una forma umana. Una donna la vide e le parve di individuarvi la faccia del Cristo della Sindone. Passò la voce e dopo un po’ la strada si intasò di fedeli disposti a credere a tutto. Finché la macchia fu asciugata dal sole. Il 1953 è l’anno della morte di Giuseppe Stalin, al quale dedicai, pur comprendendone vagamente i crimini, un “Eterno riposo”… se mai si fosse svegliato. È anche l’anno della legge truffa, dei “forchettoni” e di Un uomo tranquillo di John Ford, con Maureen O’Hara, l’irlandese dai capelli rossi e dai grandi occhi verdi, che fa la parte della fidanzata e poi della sposa di John Wayne. Lo scenario del film è proprio l’Irlanda, il Paese 243 natale dell’attrice, il paese duro e selvaggio della sua giovinezza prima che Charles Laughton la notasse e l’imponesse allo star system hollywoodiano. Il quiet man è il grande e robusto John Wayne nel ruolo di un ex pugile che torna nella sua vecchia patria per dimenticare la brutta avventura di un incontro finito in tragedia e per rifarsi una vita. Qui incontra la ribelle Maureen ed è amore a prima vista. Ma i due debbono vedersela con il fratello di lei, il possente e altrettanto magnifico Victor McLaglen, che contrasta le nozze per timore di dover dare la dote alla sorella. Ne nasce una storica scazzottata che dura mezzo film e che è una delle cose più divertenti dell’opera. Lui, John Wayne, avrebbe fatto a meno della dote ma lei, la focosa Maureen, pretende ciò che le spetta, anche a costo di mandare all’aria il matrimonio. Una questione di principio, insomma. Una questione comune alle nostre genti del Meridione, del resto. La dote, un tempo, era la dote; giuridicamente disciplinata, punto ineliminabile d’ogni avvio di contratto matrimoniale, punto d’orgoglio col quale si misuravano le rispettive potenze, o impotenze, familiari. E se l’amore dei promessi sposi non era saldo andava tutto all’aria. L’unico antidoto alla “malattia” del denaro e al compromesso dei sentimenti era la fuitina. I due giovani innamorati, stanchi di tutte quelle speciose difficoltà, mettevano i rispettivi genitori di fronte al fatto compiuto: fuggivano di casa e se ne andavano a consumare il “peccato” in albergo o in casa di amici compiacenti. A quel punto i genitori, per salvare l’onore, erano costretti a calare le corna e a dare il consenso al matrimonio riparatore. Forse non fu un caso che in quei giorni mi misi a imitare il vecchio John, allenandomi contro il vento e meritandomi gli sberleffi di mio fratello, bambino dall’ombra d’oro, bambino che ne ha passate tante e che non può morire, come il protagonista del bel romanzo di Alessandro Baricco, Questa storia. Aveva otto mesi quando un acetone rischiò di portarselo all’altro mondo. Furono giorni molto tristi. Venne pure il prete a 244 battezzarlo. I miei avevano ritardato la cerimonia perché volevano fare una bella festa. E venne pure il pediatra, un professore secco e lungo come la sua scienza medica. Disse un paio di papalate che mio padre cercò timidamente di contestare. Al che l’illustre medico, che a Catania passava per la maggiore, rispose infastidito: “Lo cura lei o lo curo io?” Lo curò così bene che una notte mia madre, che si coricava accanto il suo piccolo figlio per controllarlo e magari alitargli un poco del suo calore, svegliò mio padre e gli disse: “Pino, ’u picciriddu è freddo come la morte”. E cominciò a strofinargli le manine e a cullarlo. Quella scena m’è venuta incontro di recente con tutto il suo lontano dolore assistendo alla proiezione del film di Griffith, Agonia sui ghiacci, con una superba Lillian Gish, al Centro Zo di Catania. Non si può capire. Nel momento in cui la protagonista, spinta dalla disperazione e non avendo nessuno a cui rivolgersi, decide essa stessa, irrazionalmente, di battezzare il figlioletto, che le sta morendo di stenti, perché altrimenti non andrebbe in Paradiso, mi sono ricordato del battesimo di mio fratello nella camera da letto dei miei genitori. Sette persone in tutto: mio fratello, mio padre, mia madre, il padrino, il sacerdote, io, mia sorella. E due candele accese per parvenza di chiesa. Il ricordo s’è fatto straziante allorché Lillian Gish, nel tentativo di rianimare il suo piccolo gli strofina più volte le manine fino a che il medico non le dice che è tutto inutile: il bambino è morto. Mio padre balzò dal letto, armò una siringa gigante e gli fece un’iniezione di dieci centimetri cubici di soluzione alcalina. Passò mezzora e gliene fece un’altra, della stessa portata. Ma mio fratello respirava appena. Se ne stava andando con la benedizione del grande pediatra. Mia madre allora cominciò a piangere in silenzio e a pregare. Quando il gallo annunciò l’alba, che poteva rivelarsi tragica, mio padre non sapeva più dove fare le iniezioni. Il suo era un azzardo disperato. Ma fu alla fine di quell’azzardo d’amore che mio 245 fratello riprese colorito. Era salvo. Mio padre l’aveva salvato perché gli aveva fatto scorrere nelle vene un fiume di bicarbonato che sciolse il suo male. Maureen O’Hara aveva tutto: prestanza fisica, bellezza, intelligenza, bravura e una calda voce di contralto. Era considerata una delle cinque donne più belle del mondo. Si sposò tre volte. Una prima con George H. Brown (1939-1941), ma il matrimonio fu annullato; una seconda con Will Price (1941-1953); una terza (1968-1978) con un generale d’aviazione, Charles Blair, vecchio amico di famiglia. Blair fu nella realtà quello che Wayne fu nella finzione: coraggioso, leale, testardo. Era un ottimo pilota. Dopo avere prestato servizio nell’Air Force, passò alla Pan American; quindi gestì con la moglie una compagnia aerea, Antilles Airboats. La carriera di Maureen può dividersi in due periodi: il bianco e nero di Com’era verde la mia valle di John Ford e di Notre Dame di William Dieterle, e il technicolor di Un uomo tranquillo e di La lunga linea grigia, ambedue di John Ford. In mezzo, film di poco conto in cui tuttavia rifulge la forte personalità dell’attrice. In Il Cigno nero di Henry King, 1942, dopo avere tenuto sulla corda un intraprendente Tyrone Power alla fine lo stuzzica con questa frase da femminista ante litteram: “Io assaggio sempre una bottiglia di vino prima di comperarla”. Al che il pirata Henry Morgan, che assiste alla scena, commenta avvilito: “Questa è la fine dei Caraibi”. Lei è stata la donna ideale del cowboy, la compagna forte e coraggiosa che gli sta a fianco mantenendo intatta la propria dignità e fierezza, lei è la donna che rifulge nel tramonto infuocato mentre il suo cavaliere d’argento cavalca nell’orizzonte della Monument Valley. In una bella e nostalgica canzone degli anni Settanta, gli Statler Brothers lamentano la demolizione dello Strand Theatre, il cinema della loro infanzia, luogo dei loro primi incontri col cinema western, e ricordano 246 “i cowboy d’argento che cavalcavano sullo schermo d’argento”. Magnifica espressione, questa, che è proprio quella della mia giovinezza, del piccolo cinema di via Luigi Capuana che diventerà un sacco di stupide cose, come il Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, demolito e ricostruito per farne un posteggio. Lo studioso Charles Silver, introducendo un suo libro sui film western, dove per la verità ci sono più foto che notizie, parla anche lui del suo cinema dell’infanzia, l’Elmora, a Elizabeth, nel New Jersey. Scrive: “Erano rare le mattine di sabato e domenica, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, che non mi vedessero seduto in platea, al mio solito posto. Vedevo di tutto, storie d’amore, i musical di Ester Williams, ma soltanto John Wayne, Randolph Scott e i tipi come loro riuscivano veramente a entusiasmarmi”. Il sorriso della Williams non l’avrei barattato per nulla al mondo, nemmeno con il Winchester del colonnello Kirby in Rio Bravo di John Ford. L’antica fabbrica di William Wirt Winchester, fondata nel 1857 a New Haven, rischia di chiudere. Poche commesse. Una sorta di maledizione che viene da lontano. La ricchezza non portò fortuna a William e a sua moglie Sarah: persero l’unico figlio alla nascita, lui si ammalò e morì ancora in giovane età, lei si trasferì in California dove per un ventennio si dedicò alla costruzione di un palazzo che andò distrutto nel terremoto di San Francisco nel 1906. Nata in un villaggio a sud di Dublino, Maureen O’Hara, rossa di capelli, carnagione lattea come tante sue connazionali, riassumeva la contraddizione storica e irriducibile dell’Irlanda essendo figlia di un cattolico e di una protestante: una miscela esplosiva che la fiammante attrice mise a frutto in Un uomo tranquillo. Il film fu girato nella cittadina di Cong, a ridosso del parco nazionale del Connemara, un luogo che esprime bene il carattere dell’isola, la tenacia, l’intelligenza del suo popolo forte e paziente che ha donato all’umanità scrittori e poeti del calibro di Swift, Yeats, Wilde, 247 Shaw, Joyce, Beckett. Forse è la durezza dell’Irlanda, la sua storia drammatica, la sua antica povertà, la sua innocenza più volte tradita e offesa, a rendere possibile una tale potente fioritura di talenti così com’è stata possibile, in piccolo, quella siciliana che nel suo lungo soffrire ha espresso scrittori come Verga, Pirandello, Sciascia, Brancati. Non conoscevo l’Irlanda. L’amavo per le commedie di Bernard Shaw e Oscar Wilde, per il “flusso interiore” dell’Ulisse di James Joyce, per l’Aspettando Godot di Samuel Beckett (la cui prima rappresentazione vidi, ragazzo, nell’aula magna del Liceo Cutelli trasformata in teatro e che per la verità mi frastornò). L’amavo per il film appena citato, per le bevute ciclopiche di birra scura (l’amara impossibile fantastica Guinness) dei suoi abitanti sempre sul filo di un’allegra fragorosa ubriachezza, per la sua musica malinconica e luminosa, per il piccolo Freddie Bartholomew indimenticabile interprete di Capitani coraggiosi, per George Brent e Barry Fitzgerald, per Maureen O’Sullivan che fu una dolce Jane accanto al Tarzan di Johnny Weissmuller, per Peter O’Toole e Richard Todd… e guardate quanti altri talenti ha prodotto questa verde culla d’antiche speranze frustrate. L’amavo, dunque, senza conoscerla. A entrarci, dentro, nelle sue città e nei suoi villaggi, è come riscoprire dal vivo un lungo film di parole forti e sequenze folgoranti che ti sei covato dentro e che collimandole, oggi, con la realtà non trovi spazi di confine incolmabili o separatezze. Un miracolo. Perché l’Irlanda, caso più unico che raro, è come appare e come te l’immagini. Così come t’immagini il suo cielo: “un oceano di nuvole e luce” che “ti annega di verde e ti copre di blu”, come nella bella canzone interpretata da Fiorella Mannoia. Veniva dal Nord Europa anche Deborah Kerr. Precisamente dalla Scozia. “Il suo nome fa rima con star”, dissero i produttori dopo alcune sue prove memorabili. Fu candidata all’Oscar sei volte, ma non 248 vinse mai. Venne risarcita nel 1993 con un Oscar alla carriera. Nessuna è riuscita a battere questo record all’incontrario. La prima volta gareggia con Edoardo mio figlio di George Cukor, del 1949. Ma è battuta da Olivia de Havilland con L’ereditiera di William Wyler. Ottimo film, per la verità, in cui Olivia da timida e ingenua ragazza innamorata diventa la spietata punitrice del suo spasimante, il fasullo e arrampicatore sociale Montgomery Clift. La seconda volta si presenta con Da qui all’eternità di Fred Zinnemann, 1953. Il film ottiene ben otto statuette, compresa quella a Donna Reed, migliore attrice non protagonista. Lei, niente. Le viene preferita Audrey Hepburn, protagonista di Vacanze romane di William Wyler. Il film di Zinnemann ebbe un andamento travagliato. In un primo momento la parte della moglie adultera, che si innamora del sergente Burt Lancaster, doveva andare a Joan Crawford, ma l’attrice rinunciò. Non le piacevano i costumi. La figlia della lavandaia era piuttosto pretenziosa. Nel camerino e sul set non tollerava temperature diverse dai 20 gradi. E se il termometro superava sia pure di un grado o due quel limite non si presentava. La Kerr fu scelta per caso e senza troppa convinzione. Anche il ruolo dell’ex pugile Clift, che rifiuta di entrare nella squadra di boxe della sua compagnia, doveva essere di un altro attore, Robert Mitchum, certamente più adatto, quanto meno per prestanza fisica. Ci si mise pure la censura, ma Joseph E. Breen, che pure era a capo d’una commissione che doveva far rispettare il famigerato Codice Hays, fu di manica larga. E così passarono le carognate di certi caporali e ufficiali americani e passò pure il bacio a pelo d’acqua, sulla spiaggia, tra Deborah e Burt. Alla fine della cerimonia, Frank Sinatra, premiato come migliore attore non protagonista, lasciò a piedi il teatro e venne fermato dalla polizia che gli contestò il possesso della statuetta d’oro. La terza volta concorre con Il re ed io di Walter Lang, 1956. È un successo travolgente al botteghino. Il 249 partner Yul Brynner vince l’Oscar come migliore attore protagonista. Lei deve cedere il passo a Ingrid Bergman che si impone con Anastasia di Anatole Litvak. Nello spazio di un mattino Yul Brynner diventa un divo e un sex symbol. Le donne lo trovano irresistibile, i ragazzi lo imitano. A Des Moines, nello Iowa, quattordici liceali vengono sospesi per essersi rasati a zero i capelli come lui. È un attore maschio che perfeziona il carisma con dichiarazioni come questa: “Non sono come quegli attori che tirano calci alle lattine e ostentano la t-shirt strappata. Ci sono pochi veri uomini nei film di questi tempi”. Il riferimento a James Dean, e anche a Marlon Brando, è trasparente. La quarta volta è sicura di farcela. Interpreta il ruolo di una suora in un’isola deserta, accanto al marine Robert Mitchum, in L’anima e la carne di John Huston, 1957. Ma quell’anno deve vedersela con un gruppo di attrici niente male: Anna Magnani, Elizabeth Taylor, Lana Turner e Joanne Woodward che alla fine vince con La donna dai tre volti di Nunnally Johnson. Al quinto tentativo partecipa con Tavole separate di Delbert Mann, 1958. È una timida zitella che conquista David Niven, ma non l’Oscar che va a Susan Hayward per Non voglio morire di Robert Wise. La sesta e ultima volta viene battuta dal destino. Si presenta con il fiacco I nomadi di Fred Zinnemann, 1960. Considerato che ha bussato inutilmente alla porta degli Oscar per cinque volte, il rituale risarcitorio di Hollywood potrebbe stavolta premiarla. E invece no. Sulla sua strada si mette di traverso Liz Taylor con Venere in visone, un film mediocre di Daniel Mann, interpretato accanto a Laurence Harvey inguaribile omosessuale che una volta s’innamorò perdutamente, e inutilmente, del segretario-cameriere di Frank Sinatra, il nero George Jacobs che darà alle stampe un’onesta biografia del cantante. La diva dagli occhi viola la batte sul filo di lana, anche per via di una sapiente orchestrazione mediatica dei produttori che amplificano la voce su Liz molto 250 malata, addirittura in fin di vita. Lo scandalo della love story con Eddie Fischer, che per lei ha abbandonato Debbie Reynolds, le viene perdonato. Anche Deborah Kerr, assieme alle altre candidate, fa quadrato attorno alla collega sofferente e invia dalla Svizzera un telegramma che tuttavia è un capolavoro di perfidia. “La Taylor merita di vincere” scrive, “non perché è malata ma perché la sua interpretazione è superba”. Shirley MacLaine telefona dal Giappone e propone alla moribonda diva di accettare, eventualmente, il premio al suo posto. Anni dopo la brava Shirley, che quell’anno gareggiava con il delizioso L’appartamento di Billy Wilder, confesserà ai giornalisti: “Ho perso l’Oscar per una tracheotomia”. La bella raffinata elegante Deborah morirà nel 2007, a 86 anni, dopo lunghe sofferenze a causa del morbo di Parkinson che ne aveva devastato la bellezza e l’alterezza. Pensarla insicura e tremante, lei che dominava la scena, fa male al cuore, fa male all’illusione che i divi non muoiano mai e che non possano mai corrompersi. Ho parlato dei sei film per i quali fu inutilmente candidata all’Oscar ma ne voglio ricordare un altro, Un amore splendido, 1957, in cui dà vita, assieme a Cary Grant, a una delle scene più commoventi della cinematografia mondiale. Lei è una cantante, lui un play boy che vive alle spalle delle ricche amanti pur essendo stato in passato un pittore di talento. Fanno amicizia, durante una crociera nel Mediterraneo, s’innamorano e si danno appuntamento, da lì a sei mesi, in cima all’Empire State Building. Vogliono capire, in quel lasso di tempo, se il sentimento che li lega sarà ancora forte. Ma l’impegno non può essere mantenuto perché lei, proprio quel giorno, ha un incidente d’auto per cui resta paralizzata alle gambe. Lui crede di essere stato dimenticato e cerca di dare un senso alla propria vita spezzata ricominciando a dipingere. Una sera s’incontrano casualmente a teatro, si salutano in maniera formale, si lasciano senza che lei abbia il coraggio di 251 dirgli la verità. Il giorno dopo lui, che non sa e non può dimenticarla, va a trovarla a casa. Quando si accorge della grave infermità scattano le lacrime. Cary e Deborah sono superbi, e superba è la musica di Harry Warren, An affair to remember, che quell’anno sfiorò l’Oscar. Ma non ce la poteva fare contro All the way. Il transatlantico, dove nasce l’idillio, sembrava un parente stretto dell’Achille Lauro, la sfortunata nave italiana che nell’ottobre del 1986, appena salpata da Alessandria d’Egitto, venne sequestrata da un commando palestinese agli ordini di Abu Abbas. I terroristi presero in ostaggio 450 passeggeri e l’equipaggio chiedendo in cambio la liberazione di 32 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Le trattative, delicate e difficili, ebbero subito una svolta drammatica perché il commando uccise a sangue freddo un cittadino americano, Leòn Klinghoffer, costretto a muoversi sulla sedia a rotelle. Lo buttarono giù senza pietà. Il mondo ne fu inorridito. Il giorno dopo i terroristi si arresero. Più tardi, mentre venivano trasportati in Tunisia, l’aereo venne dirottato da quattro caccia americani su Sigonella. Qui fu chiesto ai militari italiani di consegnare i terroristi ma l’allora presidente del Consiglio Craxi si oppose. Furono giorni infuocati. La cronaca radiotelevisiva, allora c’era solo la Rai, venne affidata alla redazione di Catania. Me ne occupai solo io, lavorando diciotto ore al giorno e coprendo tutte le testate nazionali. Il capo della redazione era in vacanza e in vacanza rimase, due miei colleghi se la videro dalla finestra. Quando i passeggeri dell’Achille Lauro tornarono in Italia feci noleggiare per conto del TG1 un elicottero, con a bordo il nostro operatore, Enzo Martinez, che riprese le immagini del commovente rientro in patria. La gente alla vista di quel pezzo d’Italia che gli andava incontro dal cielo si mise a piangere e ad agitare i fazzoletti. Deborah Kerr, bella, raffinata, dolce, era il prototipo delle ragazze per bene, quelle che frequentavano i 252 college e si scandalizzavano d’ogni volgarità, e che a quindici anni erano ancora alle prese con un dubbio amletico: i bambini nascono sotto i cavoli o li porta la cicogna? E invano scrutavano il cielo alla ricerca dei trampolieri con l’improbabile fardello nel becco. “Ma allora com’è il fatto?” si domandavano tra di loro, finché la più sperta della comitiva riusciva a entusiasmarle con la “perdizione”. A quei tempi, correva l’anno 1963 e collaboravo a La Sicilia come critico televisivo, avevo preso a seguire una di queste signorine Kerr con la puzza sotto il naso e la convinzione che il sesso ce lo avessero di traverso. Ci misi una settimana prima di fermarla. Era perfetta, tranne i ginocchi che parevano quelli di un terzino. Portava una minigonna di pelle rossa e una treccia bionda che le oscillava maliziosamente. Mi squadrò dalla testa ai piedi e fece cadere una mazzata del tipo: “Quelli come te non li calcolo nemmeno”. Forse la frase fu meno brutale, fatto sta che mi lasciò senza respiro, senza risposte superbe per metterla in riga. “Ma come si permette!” pensai “Sono un giornalista…” Ero solo uno stronzetto che veniva pagato mille lire a pezzo, con la ritenuta d’acconto, e si confrontava con le servitù prediali e il contratto di baliatico… Anni dopo, alla caserma Castro Pretorio (dicembre 1967), il capitano della compagnia ai soldati messi in riga domandò quali fossero i loro mestieri. Eravamo tutti soldati semplici e quindi ai suoi occhi potevamo praticare solo mestieri semplici. Quando risposi, senza esclamativo e quasi vergognandomi, “Sono un giornalista”, lui, squadrandomi dalla testa ai piedi, commentò ironico: “Giornalista o giornalaio?” Gli avrei volentieri sparato. Sia pure con quel catenaccio di 91-38 che avevo in dotazione. 253 UNDICI Jean Simmons, June Allyson Il primo ruolo di Jean Simmons fu quello della piccola Estella in Grandi speranze, film girato nel 1946 da David Lean e tratto dall’omonimo romanzo di Charles Dickens. Un anno dopo, per sapienza di trucco e di fotografia, diventa la maliziosa e ribelle Kanchi in Narciso nero della ditta Michael Powell & Emeric Pressburger, appetibile come “un paniere di frutta dolce, deliziosa, pronta a essere mangiata”, secondo le parole della scrittrice Rumer Godden che ispirò il film. Prima di girare, ogni mattina, per scurirle la pelle la sottoponevano a un’ora e mezza di makeup. Ancora un anno dopo indossa i panni di Ofelia nell’Amleto di Shakespeare, trascritto per il cinema da Laurence Olivier che ne è anche il protagonista. Per quella parte sfiora l’Oscar come attrice non protagonista. Glielo soffia Claire Trevor con L’isola di corallo di John Huston. Ma si consola al festival di Venezia con il premio per la migliore interpretazione. L’unico Oscar che le fanno appena sfiorare è quello che ritira nel 1957 per conto di Alec Guinness, premiato per Il ponte sul fiume Kwai. L’attore inglese è impegnato nella lavorazione del film La bocca della verità di Ronald Neame e quindi non può essere presente alla cerimonia. La notizia dell’importante riconoscimento gliela dà l’autista, mentre si sta recando sul set. “Sir, alla radio hanno detto che lei ha vinto quella cosa che gli americani chiamano Oscar”. Grande attore e grande snob il vecchio Alec. Nel libro di memorie, Blessing in Disguise, racconta come nel luglio del ’43, allora tenente della Royal Navy, sbarcò in Sicilia con un certo anticipo rispetto alla data fissata dagli alti comandi alleati e che occupò il suo tempo facendo il bagno nelle acque purissime di Capo Passero. Jean Simmons si sposò due volte: con l’attore 254 Stewart Granger, che la portò dalla natia Londra a Hollywood (ebbero un figlio); e col regista Richard Brooks. È lei, più di ogni altra diva, che segna il passaggio dal dopolavoro ferroviario al cinema Spadaro, dal bianco e nero al colore. La ricordo nei film in costume La tunica di Henry Koster e La regina vergine di George Sidney (1953), Sinuhe l’egiziano di Michael Curtiz, I gladiatori di Delmer Daves e Désirée di Henry Koster (1954). Infine, Spartacus di Stanley Kubrick del 1960 in cui interpreta la coraggiosa compagna del gladiatore rivoluzionario Kirk Douglas. È morta nel gennaio del 2010 nella sua casa di Santa Monica in California. Aveva quasi 81 anni. Come ha scritto Maurizio Porri sul Corriere, la sua è stata la classica carriera hollywoodiana, nel segno tuttavia del due: due matrimoni, due figli, due divorzi, due gatti, due whisky in più. Aggiungerei due anime: quella dolce di Ofelia e quella ambigua di sorella Sharon, anche se fu simbolo soprattutto di candore e di delicato sex appeal. Ma a chi assomigliava Jean Simmons? A un sacco di “persone” che conoscevo e non avevo mai incontrato. A Lucia Mondella, la promessa sposa di Renzo Tramaglino, per esempio. Quando in quinta ginnasio il professore di lettere commentava l’ottavo capitolo del capolavoro manzoniano, la Lucia seduta nel fondo della barca, che posa sul braccio la fronte, come per dormire, e piange segretamente, non è più Lucia ma Jean Simmons che si allontana dai suoi amati… “monti sorgenti dalle acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente…” Ho riletto più volte I promessi sposi, ogni volta commuovendomi e pensando alla mia immaturità ginnasiale che me li faceva quasi odiare, fagocitato com’ero dai romanzi della Biblioteca dei miei ragazzi della Salani. Jean Simmons assomigliava pure a Barbara Puglisi, anche se nella memoria di molti c’è il magnifico volto di Claudia Cardinale. Sì, la dolce e ignara moglie del 255 bell’Antonio Magnano, la ragazza che prende coscienza del suo matrimonio rato ma non consumato e, dietro suggerimento dell’arcivescovo, abbandona il marito per sposarsi col duca di Bronte, grasso ma che ha fatto una cura dimagrante a Parigi spendendo un milione di lire. Sarebbe stata una bella gara tra lei e la nostra diva, anche se la Simmons avrebbe dato al personaggio di Barbara una migliore tensione emotiva e una più dolente risolutezza. Di certo, Vitaliano Brancati avrebbe scelto la moglie, Anna Proclemer, per quel ruolo, tanto più che a lei aveva dedicato il romanzo dell’amore impossibile. Rapporto infelice quello tra lo scrittore e l’attrice: lei d’uno splendore non offuscabile, lui piccolo e insignificante. Né valeva la genialità a compensare la voragine estetica che li separava. Corrado Brancati era suo fratello. Alto funzionario della prefettura di Catania, era anche il critico cinematografico de La Sicilia. Quando capitava in redazione raccontava sempre una barzelletta. Con garbo ed eleganza. Inarrivabile. In un libro dedicato a Vitaliano ricorda, tra l’altro, quando lo scrittore siciliano partì per essere operato a Torino. “Io e mio padre l’accompagnammo alla stazione di Catania e l’ultimo suo sguardo verso di noi, dal finestrino del vagone-letto, era pieno di malinconia”. Era triste per l’intervento chirurgico, che lo avrebbe ucciso a soli quarantasette anni, era triste per il suo matrimonio a pezzi, era triste per tante cose. Ma a Torino Anna Proclemer lo raggiunse. La sera prima dell’intervento andarono al cinema a vedere un film con Marlon Brando, The man. La storia di un reduce che ha perso l’uso delle gambe. Quando Corrado Brancati andò in pensione cercò di sistemare al giornale la figlia più piccola. C’erano precedenze da rispettare e gli dissero di no. Ci rimase malissimo. Alla fine di settembre del 1968 stavo per completare il servizio militare, come dirò più avanti. Il giornale mi mandò a seguire i lavori del Premio Brancati che proprio quell’anno era stato fondato da Moravia, 256 Pasolini, Corsaro, Ronsisvalle e altri. Chiesi il permesso in caserma e mi misi in borghese. Conservo una foto che mi è molto cara e che mi ritrae accanto a Pier Paolo Pasolini e ad Elsa Morante, vincitrice di quella prima edizione con Il mondo salvato dai ragazzini. Due persone che mi parvero solari e gentili. Nell’ambito del Premio Brancati venne allestita nella scuola elementare di Zafferana un’opera teatrale di Vanni Ronsisvalle, dal titolo Onan, che si ispirava al personaggio biblico al quale si fa risalire la prima pratica di sesso solitario. Ora a me sembrò profanatorio che un dramma di quel tipo venisse rappresentato in una scuola per bambini e perciò ne scrissi di conseguenza. Annoverai l’autore, che sarebbe diventato mio amico, tra i “pasolinidi”, tra coloro i quali cercavano di imitare il genio e la sregolatezza di Pasolini. Ne venne fuori un putiferio. Quello, purtroppo, era ancora un tempo acerbo, per me soprattutto che assorbivo l’indignazione conservatrice del giornale e che volavo in un cielo basso e dal limitato orizzonte. A questo punto vorrei ricordare la già accennata Biblioteca dei miei ragazzi della Salani che ha accompagnato e segnato la mia giovinezza. Quando non avevo poesie da mandare a memoria o non ero impegnato a giocare la mia partita cinematografica al dopolavoro ferroviario mi immergevo nella lettura di questi romanzetti che prendevo in prestito dalla biblioteca di classe. Erano quasi tutte traduzioni di libri della Bibliothèque de Suzette, a loro volta pubblicati a puntate, negli anni Venti, sulla Semaine de Suzette, il settimanale per bambine dell’editore GautierLanguereau. E, infatti, i romanzi erano firmati per lo più da donne. Così come ho fatto con la penna e l’album delle figurine li ho acquistati al mercato online. Oggi li possiedo quasi tutti tranne sei, difficili da trovare. Prima di raccoglierli, con pazienza, volume dopo volume, il mio amico libraio, Carmelo Volpe, me ne aveva procurati una dozzina della Salani Nostalgia. Erano solo ristampe ma quando le vidi la fitta al cuore fu da “prima 257 copia”. E la vecchia Volpe commentò: “Ora cchi fai, ti leggi tutti?” Ma non sono un feticista. Concordo con Henry Miller quando smonta l’ossessione del possedere dei bibliofili al punto da sostenere che i libri letti vanno regalati perché si perpetui negli altri l’incanto della lettura… con buona pace del mio amico Mughini che alla sua mania di prime copie, raccolte negli anni con pazienza e dispendio economico, ha dedicato un volume, La collezione, al solito bello e interessante per come egli racconta, ricorda, incanta. Ma se ho fatto un’eccezione è perché i libri della Salani sono legati a una stagione forte della mia vita ma che aveva bisogno d’essere “verificata”. A volte ne guardo le copertine, leggo qualche brano, mi fermo a pensare, a ricordare. A ricordare Carmelo Volpe, libraio dei librai catanesi, amico degli studenti senza un soldo ma che lui riforniva di saggi e romanzi quasi sempre pagati “a babbo morto” e cioè mai. La sua libreria di piazza Umberto era un cenacolo, un centro di scambi culturali, di programmi e immaginazione non ancora uccisi dal cinismo e dalla malapolitica. Costretto a chiuderla per la spietata concorrenza dei centri commerciali s’era ritagliato un piccolo angolo a due passi da lì. E ce l’avrebbe fatta a risalire la china se un ictus non l’avesse messo fuori combattimento. Il Natale scorso sono andato a trovarlo con Nino Milazzo. Gli ho portato in dono l’ultimo mio libro, Il Musicista e l’Imperatore, con una dedica appropriata che l’ha fatto piangere. “È ca non mi pozzu mòviri!” disse. Il primo della lista della Biblioteca dei miei ragazzi è stato Il circo Barletta di Miryam Catalany con le belle illustrazioni di Henry Morin e la copertina di Maria Augusta Cavalieri che m’era rimasta impressa dagli anni Cinquanta; poi Un Pierrot e tre bambine di Berta Bernage con i disegni sempre di Henry Morin e la copertina della bravissima Cavalieri; a seguire La piccola pantofola d’argento di Miryam de Carnac e i disegni di René Giffey e Per l’onore di Roccabruna di Marguerite Bourcet, illustrato da Ferdinand Raffin. 258 Come scrive Beatrice Solinas Donghi, che all’argomento ha dedicato uno studio ben documentato, queste scrittrici erano nella media “brave artigiane” che misero a punto “un genere di romanzo giovanile misto d’intimismo e di avventura, con caratteristiche in parte nuove”. Dulcis in fundo, La teleferica misteriosa di Aldo Franco Pessina, con i disegni di Fiorenzo Faorzi, e l’intramontabile, tenero, struggente I ragazzi della via Paal di Ferencz Molnar con le illustrazioni dello stesso Faorzi. Più che la scrittura ciò che mi ha colpito sono state le illustrazioni, minuscoli mondi grafici che sono affiorati di prepotenza dalla laguna del tempo a ricordarmi ancora una volta che il fanciullo che c’era in me non è mai scomparso, s’è solo ingrigito e immalinconito. Grafica a parte, i libri sono edificanti e consolatori, moderatamente ribelli, rigorosamente classisti e in qualche caso anticomunisti. Bourcet, Giraud, Péronnet, Bruyère, Rosmer, Duché, Verdat, Bernage, Otis, Goudareau, De Kérany, Rivière danno della vita una visione pacata, senza scosse, radiosamente motivata dal rispetto delle leggi e delle convenzioni sociali, dalla serena accettazione della ricchezza e della povertà. Questi erano i miei libri. I fumetti mi annoiavano, tranne Il Corriere dei Piccoli come ho già accennato. Ma il mio primo ricordo dell’affascinante giornalino segna un giorno di dolore. Cinque maggio 1949. Ero appena tornato da scuola e con mia madre e i miei fratelli stavo aspettando il ritorno di mio padre dal lavoro. Ancora non avevo l’età delle notizie, della capacità cioè di capirle ed elaborarle correttamente dentro di me. Avevo sette anni e in quel tempo fanciullo erano sette vagiti. La tragedia di Superga, avvenuta nel tardo pomeriggio del giorno precedente, non si era ancora materializzata nella mia casa. Forse la radio ne parlò, ma sul tardi e a quell’ora noi bambini eravamo a letto. La mattina dopo qualcosa si percepì nell’aria ma venne sopraffatto dalla corsa verso i doveri del lavoro e della scuola. E non ricordo se il mio insegnante unico, al 259 Leonardo, ne avesse accennato in classe. Forse lo fece e io non lo rammento. Ciò che però ricordo con precisione è la faccia di mio padre quando, alla solita ora del pranzo, rientrò a casa. Né mai dimenticai le sue parole: “Poveri ragazzi”. I nomi li conoscevo a memoria. Bacigalupo (il portiere che se avesse voluto con uno scatto di reni poteva saltare sulla traversa e sedersi tranquillamente ad assistere alla partita), Ballarin, Maroso (praticamente un muro), Grezar, Rigamonti, Castigliano (una sicurezza), Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola (non ce n’era per nessuno). Se ne continuò a parlare, mentre mia madre controllava la cottura della pasta (“prima che diventi colla per manifesti”), a precisare i particolari strazianti, il lutto dei familiari, dei tifosi, della gente comune, il cordoglio delle squadre avversarie che al Grande Torino riconoscevano l’indiscusso valore. Quel giorno, come d’abitudine, non ci fu la lettura della terza pagina del Corriere della Sera. Di solito, a fine pranzo, mio padre con la sua bella voce ci faceva entrare nel mondo adulto e incantato di Papini e Savinio, Piovene, Montanelli, Buzzati, Vergani e noi stavamo a ascoltarlo, attenti e affascinati per ciò che potevamo capire. Quel 5 maggio, giorno di un altro lutto storico, ci narrò invece i particolari dell’aereo schiantatosi nella nebbia contro il muraglione del terrapieno posteriore della basilica di Superga, ci parlò dei calciatori imbattuti sul campo e sconfitti dall’infame destino, ci parlò d’una nazione attonita, sconvolta, e di tante cose terribili, mentre io cominciavo a pensare al Corriere dei Piccoli che ancora non avevo finito di leggere, credendo, irrazionalmente, di trovarvi una traccia di quell’abisso di dolore. Il mio ricordo del supplemento del Corriere comincia quel giorno. Un giorno complicato, come s’è visto, complicato per un bambino di sette anni alle prese con le tabelline, le fiabe di Perrault e dei fratelli Grimm, gli astucci e i pennini, le dita macchiate d’inchiostro, la carta assorbente, il fiocco azzurro (che sempre si scioglieva) sul grembiule nero e l’incontenibile voglia 260 di crescere, nonché il terrore della pagella e del sette in condotta. Aspettavo l’uscita del Corrierino con maniacale impazienza. Aspettavo di immergermi nelle avventure del Signor Bonaventura, di Bibì e Bibò, di Fortunello e di Arcibaldo e Petronilla prototipi dei borghesi arricchiti. Ne guardavo i disegni colorati con rapimento, li scorrevo d’un fiato per poi seguirne con attenzione la trama attraverso le didascalie scritte sotto ogni vignetta. Era il settimanale dei ragazzini delle famiglie medie, il giornalino che veniva dal passato, dall’Italietta di Giolitti e dal fascismo, era un ponte non ancora distrutto dalla guerra ma che continuava a legare rispecchiandole le abitudini, l’educazione, la formazione di due generazioni di giovanissimi. Due generazioni che ascoltavano le mamme raccontare fiabe nelle sere d’inverno, che portavano la fascia nera al braccio per la morte di un parente stretto, e di quel lutto s’inorgoglivano per l’attenzione commiserevole della gente, che si facevano il segno della croce davanti alle chiese e alle icone, che avevano una idea vaga su come si veniva al mondo e pensavano che le donne incinte fossero semplicemente grasse. Due generazioni di bambini-bambini educati nella semplicità del bene, cresciuti nello scrupolo misterico dei primi nove venerdì del mese, dei fioretti alla Madonna nel mese di maggio, del rituale severo del venerdì santo: specchi velati nelle case, simulacri avvolti in panni viola nei luoghi di culto, candele accese, offerte, acqua benedetta. Bambini pieni di fervore religioso come nelle madrase islamiche, attenti a non bere nemmeno un goccio d’acqua prima della comunione, a chinare la testa quando il sacerdote compie la magia inesplicabile di trasformare il pane e il vino in corpo e sangue di Cristo, a serrare gli occhi quando l’ostia si scioglie in bocca e guadagnare il banco in silenzio e a mani giunte mentre il cuore si gonfia nell’ascoltare i canti gregoriani. Bambini senza Tv e con giocattoli inventati, con le calze rattoppate e i geloni nelle mani, bambini che mangiano pane cotto e macco 261 fritto e quando in tavola c’è una gallina vecchia fanno salti di gioia. Bambini. Domanda: Di tutte le religioni note qual è la vera? Risposta: La religione cristiana, il cui autore è Gesù Cristo. Domanda: Chi fu Abramo? Risposta: Colui il quale Dio promise che i suoi discendenti si sarebbero moltiplicati come le stelle del cielo. Domanda: Quante mogli ebbe? Risposta: Due, Sara, la padrona di casa; e Agar, la serva. E qui il bambino cominciava a traballare. Il Corriere dei Piccoli, la cui testata era stata disegnata da Antonio Rubino, era uno degli arredi necessari per un quadro domestico di quegli anni, accanto ai ferri del lavoro a maglia, al braciere, ai libri della Salani, alla sedia a dondolo della vecchia zia, ai quaderni con la copertina nera, alla radio a valvole che gracchiava… eterno ripetersi d’una nostalgia o necessità che veniva dal secolo precedente, come in un ritratto esemplare di Mary Cassat o di Berthe Morisot. Del resto, sul Corriere dei Piccoli aveva passato l’infanzia anche mio padre: le stesse vignette senza fumetto, gli stessi personaggi, colori, emozioni, la stessa educazione. Perché poco o nulla di significativo, fino al secondo dopoguerra, era avvenuto nella pedagogia risorgimentale, nessuno strappo decisivo, solo un eterno presente di parole edificanti, di sorrisi, di dolori e speranze… “u megghiu tempu veni appressu”. Esemplare, in tal senso, era il personaggio disegnato da Sergio Tofano, Bonaventura, con marsina e bombetta rossa, pantaloni bianchi due misure più larghe e il fido cane bassotto, personaggio bislacco insomma che partiva squattrinato e diventava dopo strampalate avventure milionario… “Qui comincia l’avventura del Signor Bonaventura”. Me lo ricordo quel milione, sventolato nell’ultima vignetta, che negli anni del boom economico diventò un miliardo e che, nell’accumulo settimanale, rese il protagonista “ricco ormai da far paura”. Quel denaro facile facile me lo ricordo come speranza, quasi come filosofia di vita, perché nella testa della gente, dopo i traumi di due guerre mondiali, c’era 262 la convinzione che “il mondo va comunque avanti”. Mio padre ne utilizzava la variante politica, pur essendo un moderato, “il mondo va a sinistra”. Le mamme utilizzavano le vecchie nenie per addormentare i bambini, e quando lavoravano ai ferri o all’uncinetto canticchiavano le canzoni di Norma Bruni e Luciana Dolliver, Tiola Silenzi e Delia Lodi, i padri si cimentavano con Alberto Rabagliati, Carlo Buti, Ernesto Bonino, i nonni ricordavano le gesta di Cavour e Garibaldi, e i figli leggevano Il giornalino di Gian Burrasca e Le avventure di Pinocchio sognando sulle illustrazioni di Enrico Mazzanti, Carlo Chiostri, Attilio Mussino, Piero Bernardini. Leggevano, naturalmente, Il Corriere dei Piccoli che restava saldo alle sue vecchie abitudini, al suo impianto pre-moderno. Anche i Sussidiari e i Fior da fiore si perpetuavano con le loro poesie immortali: Pianto antico “… l’albero a cui tendevi la pargoletta mano”, La cavallina storna “… che portava colui che non ritorna”, Che cosa è Dio? “… Nell’ora che nel bruno firmamento comincia un tremolio di punti d’oro”, Il Cinque maggio “… Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro…” Per non dire di Cuore, il libro dei libri, il libro di Edmondo De Amicis che legò dello stesso sentimento il profondo sentire di mio nonno, di mio padre e mio. Fu uno strumento utile dell’unificazione italiana, una sorta di televisione della parola, di catechismo laico che ha tessuto in un’unica trama il Nord e il Sud, che ha esaltato la patria, la famiglia, il dovere, ma soprattutto l’istruzione. Proprio in quegli anni s’andava attivando nel Paese un conflitto d’opinioni tra ottimisti e pessimisti: gli uni attribuivano alla scuola “un miracoloso progresso della società”, i secondi le addebitavano ogni malanno. Per altro, nel dicembre del 1880 l’assessore all’istruzione del Comune di Torino si opponeva in consiglio ad aumenti di stipendi ai maestri accreditando i sospetti dell’opposizione: “Teniamoli poveri se li vogliamo umili”. Lo stesso discorso, benché Dio regnasse ancora, facevano i razzisti americani sulla 263 gente di colore: “Se vogliamo che non alzino la cresta dobbiamo escluderli dall’istruzione superiore”. Miserie a parte, fu la scuola a togliere i ragazzi dalla strada, a evitare che venissero venduti e adibiti all’accattonaggio o sfruttati come giocolieri, danzatori o suonatori ambulanti. Un secolo e passa dopo, il figlio del regista Gillo Pontecorvo firmerà un film, Parada, ambientato in Romania, il cui protagonista, un clown mezzo arabo e mezzo francese, salva dall’abiezione dei vicoli un gruppo di ragazzini facendoli diventare clown. I bambini di Bucarest oggi hanno superato i confini del tempo, sono tornati indietro, alla Londra di Charles Dickens, si sono imbucati nel ventre molle delle città, disperati e affamati, come i cani che contendono gli ossi alla povera gente, ed hanno conosciuto ogni sorta di violenza. Meglio dunque continuare a vivere nelle strade periferiche dell’ex impero sovietico con un mezzo sorriso anziché con l’intera disperazione negli occhi, meglio un pasto caldo e un posto sicuro per dormire anziché vivere nel sottosuolo in compagnia dei topi e della notte che non finisce. E pazienza se per ottenere questo minimo vitale debbono divertire i passanti, magari più disperati di loro, tingendosi la faccia e costruendo piramidi umane. La scuola può aspettare. La scuola di due secoli fa, la scuola di Edmondo De Amicis che tentava di dare un futuro ai nostri progenitori, è addirittura un sogno per i bambini romeni del Duemila. E per i bambini degli slum di Mumbay, come ce li descrive Danny Boyle nel crudo e complesso The millionaire. Davvero impressionante capire che parte del mondo che ci appartiene resta ancorato a ciò che si muoveva prima di Precossi e Garrone, del muratorino e della maestrina della penna rossa, ancor prima della piccola vedetta lombarda e del piccolo scrivano fiorentino. Jean Simmons fu la ragazza della porta accanto ma in quel ruolo la sopravanzò June Allyson, l’attrice nata nel Bronx da una famiglia povera e che passò l’infanzia 264 in un busto ortopedico per una brutta caduta dalla bicicletta. Di sé amava dire: “Ho i denti grandi, parlo con la lingua di pezza, quando rido gli occhi spariscono, non canto come Judy Garland né ballo come Cyd Charisse, ma gli uomini mi portano a casa e mi presentano alle loro madri”. Sullo schermo fu la ragazza acqua e sapone per eccellenza, sempre sorridente, pur con i suoi occhi micciosi, fedele e coraggiosa. Si gettava nella mischia e vinceva anche se mai avresti scommesso sulle sue capacità seduttive. La svolta della sua vita fu un film con Fred Astaire e Ginger Rogers. Li vide ballare e decise di imitarli. Andò a scuola di danza, fece nuoto ed esercizi fisici logoranti per ridare energia e flessibilità alla spina dorsale e alla fine riuscì ad approdare a Broadway nel musical Sing out the news. Ma il ruolo che più risplende nella sua carriera è Piccole donne di Mervyn LeRoy in cui impersona Jo, una delle quattro sorelle March. Le altre sono impersonate da Elizabeth Taylor, Janet Leigh e Margaret O’Brien. La saga di Piccole donne, cui seguirono Piccoli uomini e I figli di Jo, descrive la vita della sua autrice, Louisa May Alcott che, come nel romanzo, aveva tre sorelle, trascorse un’infanzia difficile, e si diede ben presto alla letteratura. È stato uno dei libri della mia infanzia ma anche quello dei miei genitori, allegro e drammatico, ironico e romantico, anche se oggi può apparire superato. In un recente sondaggio, alla domanda: Quale delle quattro sorelle March viene apprezzata di più, la risposta è stata pressoché unanime: Jo. Come non essere d’accordo! Come non amare la vulcanica e generosa Jo, la più intelligente e la più ribelle, quella che sa vedere oltre l’orizzonte domestico della sua famiglia povera e benpensante! La forza di Jo sta proprio in questo coraggio, in questa determinazione a spezzare le abitudini borghesi e rassicuranti della società in cui è vissuta anche se dovrà rinunciare a un sicuro e ricco matrimonio. Se questo era il sogno, se questo era il romanzo, il 265 mio tempo borghese, a parte le rivoluzionarie aspirazioni, non determinava sorprese. I codici venivano rispettati, la vita procedeva in un solco ideale già tracciato, le parole e le idee non avevano un senso ambiguo. La ragazza della porta accanto era la ragazza per bene, assennata e dolce, la proiezione perfetta della madre, casa e chiesa. Era l’immagine di June Allyson, non quella del film di Luke Greenfield, The girl next door, che ha un passato da pornostar. Quest’imbroglio comincia da lontano, col padre di Playboy, Hugh Hefner, che nella sua rivista per soli uomini vorrà sì la ragazza della porta accanto ma senza vestiti addosso e, per colmo di perversione, con la faccia di Shirley Temple e le misure esagerate di Jane Mansfield, l’attrice che mise da parte il cervello perché “in una ragazza glamour è sempre stato un elemento di disturbo”. Si capisce, dunque, perché i ragazzi di allora preferissero presentare alle madri una come June Allyson invece di una come Lana Turner o Rita Hayworth, una che quando rideva le si stringevano gli occhi a fessura ma che aveva un modo onesto di dire e di comportarsi. Almeno nei film. Le vicende private furono altra cosa. Il primo marito, Dick Powell, lo sposò nel 1945. Il matrimonio durerà fino alla morte di lui, nel 1963, ma con pochi alti e molti bassi per il carattere incontenibile di lei. Gli amori extraconiugali di June furono brevi ma intensi. La prima volta s’innamorò di Alan Ladd, incontrato sul set di Una tigre in cielo. Ma il piccoletto di Hollywood era sposato e la relazione finì su un binario morto. Powell la perdonò ma da lì a qualche anno l’attrice s’invaghì d’un altro partner, Jack Lemmon. Passione travolgente anche questa che naufragò di fronte al puritanesimo del pubblico che nell’attrice identificava la moglie per eccellenza, l’angelo del focolare. June fu costretta a rientrare nei ranghi, anche stavolta col perdono del marito. Il proposito durò poco. Incontrò Jeff Richards e pensò di divorziare. Ci fu l’ennesima rivolta dei benpensanti e l’attrice ancora una volta scelse la carriera 266 all’amore. Due anni dopo la morte di Powell (dalla cui unione era nato un figlio, Dick Powell jr; la figlia femmina, Pamela, sarebbe stata adottata) la ragazza della porta accanto, sempre più acqua cheta che rompe i ponti, sposerà il parrucchiere del marito, Glenn Maxwell, ma sarà un matrimonio di comodo perché l’attrice si legò per lungo tempo allo scrittore e produttore cinematografico Dirk Wayne Summers. Il terzo marito sarà un dentista, David Askrow. Al confronto, Zsa Zsa Gábor, pur con i suoi nove matrimoni, era una dilettante perché non riuscì a collezionare quel numero impressionante di scappatelle e infedeltà. Fu un film a determinare la scelta della mia tesi di laurea. Era il 1962 ed avevo appena visto Vincitori e vinti di Stanley Kramer con Spencer Tracy, Marlene Dietrich, Burt Lancaster, Richard Widmark, Maximilian Schell e uno stuolo di altri grandi attori impegnati in ruoli secondari. Il film mi marchiò a fuoco. Acquistai e lessi La storia del Terzo Reich di William Shirer, un utilissimo “mattone” di mille e duecento pagine, mi documentai sui massacri nei campi di concentramento e sui processi che misero alla sbarra i criminali nazisti a Norimberga e alla fine mi presentai al professore di diritto internazionale. Come fu la mia tesi di laurea? Diligente e ammantata di furba bibliografia. Nella foga di esaltare “il processo di Norimberga” e di condannare i responsabili dei massacri di tanta gente inerme finii col giustificare le bombe di Hiroshima e Nagasaki, argomentando che le atomiche americane erano state sganciate per porre fine alla guerra mentre l’uccisione di sei milioni di ebrei era stata frutto di una “politica”, di un programma di sterminio durato anni, senza scopo e senza resipiscenze, senza giustificazione se non la difesa della razza, l’eugenetica, le ruberie, il dominio del mondo. Rifiutai di condividere l’idea che quei processi al nazifascismo fossero stati in buona sostanza una vendetta dei vincitori sui vinti. Come sempre è accaduto 267 e accade. La scelta dell’argomento della tesi entrò nella mia testa dunque non per letture e pandette, o per speculazioni giuridiche e dottrinarie, vi entrò per suggestione cinematografica. Difficile dimenticare la scena del giudice Ernst Janning (un formidabile Burt Lancaster) che si alza dal banco degli imputati e rimprovera il suo difensore, l’ottimo Maximilian Shell, che sta strapazzando una scomoda testimone: “Ricadiamo nella stessa ignominia?” Magistrale anche la figura di Spencer Tracy che è il presidente del tribunale, Dan Haywood, che rifiuta le logiche politiche del momento e firma quattro condanne esemplari, compresa quella del giurista Janning, onesto ma cieco. Nel 1948 i sovietici cercarono di isolare Berlino dal mondo occidentale. Washington, per mantenere la propria influenza nella regione, cercò in ogni modo l’appoggio del popolo tedesco. Ecco perché una dura condanna a Norimberga avrebbe potuto compromettere la simpatia tedesca verso gli Stati Uniti e quindi la politica di contenimento dell’espansionismo di Mosca. Eppure, nonostante le pressioni dello Stato Maggiore, Haywood fece il suo dovere fino in fondo. 268 DODICI Ava Gardner, Susan Hayward Wilma Montesi aveva ventun anni quando il nove aprile del 1953 venne trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica, a pochi chilometri da Roma. La polizia, dopo le prime indagini, piuttosto confuse e sbrigative, archiviò il caso. Si è trattato, disse, di un banale incidente dovuto a “un improvvido pediluvio”. In sostanza, la ragazza, in una giornata romana grigia e piovosa, anziché recarsi al cinema con la madre e la sorella, aveva preso la corriera per Torvaianica ed era andata a lavarsi i piedi a mare. Qui era sopraggiunto un malore improvviso ed era annegata. Punto. La verità senza colpevoli verrà qualche tempo dopo e trasformerà l’“incidente” in un appassionante giallo e poi in un clamoroso caso politico. Per la pubblica accusa Wilma era stata abbandonata sulla spiaggia dopo un festino a base di sesso e droga in cui avrebbero avuto una parte rilevante Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri, e Ugo Montagna, un nobile dal passato oscuro. Dopo un processo durato tre anni, e che farà rotolare le teste di un ministro, di un questore e di un numero imprecisato di testimoni in mala fede, i presunti colpevoli vennero assolti con formula piena. Ma il caso Montesi è molto di più, come ha scritto il giornalista della redazione romana de La Stampa, Francesco Grignetti, che al misterioso caso ha dedicato un libro. “È un fenomeno di costume, un vorticoso impazzare di pettegolezzi, un folle gioco di dietrologie, l’uso politico della giustizia, l’irrompere del morboso nei timorati anni Cinquanta. Morte, sesso, droga, gioco d’azzardo: d’improvviso i vizi dell’alta borghesia e le debolezze dell’aristocrazia diventano ghiotti materiali per la stampa”. Ed è polemica rovente tra quotidiani di opposto schieramento politico, come il duello tra L’Unità e Momento Sera. “Il giornale comunista”, 269 scrive Norma Rangeri “impugna la bandiera della questione morale e sfrutta il delitto per affondare il coltello nella DC”. Per tutta risposta Momento Sera pubblica la foto del comunista Giuseppe Sotgiu, presidente della provincia di Roma, “mentre esce con la moglie da un palazzo noto per ospitare la più famosa casa d’appuntamenti della capitale. Una battaglia politica senza esclusione di colpi e una lotta giudiziaria senza prove che si conclude con la clamorosa testimonianza di Alida Valli che scagiona il principale accusato, Piero Piccioni, suo fidanzato”. Insomma, quel tempo s’ingegnava a perpetuarsi. Il caso Montesi lancia il fenomeno dei paparazzi, i fotoreporter romani fastidiosi come pappataci e veloci come razzi. Ma il nome “paparazzo”, a quanto pare, lo inventò Federico Fellini sul set di La dolce vita. Ricordandosi di un invadente compagno di scuola che si chiamava Paparazzo, il regista battezzò sul campo con quel nomignolo il principe dei “fotografi di strada” di allora, Tazio Secchiaroli. L’intraprendente fotografo, che dava la caccia alle sue “prede” servendosi di una Lambretta, con la quale poi scappava con il prezioso rullino, s’era fatto le ossa proprio col caso Montesi di cui seguì la fase investigativa e processuale fino allo scoop della foto che ritraeva insieme Piero Piccioni e Ugo Montagna al Foro Italico. Tazio Secchiaroli, come pure Giuseppe Palmas e più tardi Rino Barillari e Massimo Sestini, era una specie di rapinatore dello scatto. Rapido nell’esecuzione, e altrettanto veloce nel sottrarsi all’ira dei malcapitati, riusciva sempre a portare a casa il “malloppo”, anche a costo di buscarle di santa ragione. Come quella volta al Cafè de Paris, che fu preso per il collo dall’ex re d’Egitto Farouk per averlo immortalato tra due conturbanti ragazze; oppure al Brik Top, dove ingaggiò una memorabile scazzottata con Anthony Franciosa sorpreso in compagnia di Ava Gardner. Roba preistorica rispetto all’oggi, rispetto al 270 verminaio di “vallettopoli” scoperto dal magistrato di Potenza Woodcock e del quale s’è mostrato protagonista l’agente fotografico Fabrizio Corona che ho visto crescere e di cui ricordavo il carattere buono e affettuoso e mai avrei pensato, minimamente pensato, di un suo coinvolgimento in simili scandali aberranti, proprio in quella orgogliosa Milano un tempo capitale morale d’Italia. Forse mi fa velo l’antico affetto ma la spaventosa campagna mediatica di cui è stato oggetto questo ragazzo, cresciuto in una famiglia normale e perbene, mi è parsa sproporzionata e ingiusta, non per i reati di cui è stato accusato ma per il fatto di essere stato messo a capro espiatorio di un mondo marcio di cui era solo un modesto attore se non una vittima. M’è sembrata una semplificazione eccessiva e di comodo, quasi che, tagliata la testa al “mostro”, tutto di sarebbe ricomposto come prima, come se nulla fosse. Troppo facile, troppo comodo. Fabrizio è la punta visibile di un iceberg molto profondo, d’una società degli inganni, corrotta e irresponsabile, che attraverso i mass media trova la propria legittimazione. Nel film di Gabriele Muccino, Ricordati di me, la massima aspirazione del personaggio Valentina è quella di diventare “velina”. Per raggiungere lo scopo arriva a compromessi inevitabili e degradanti, senza che la famiglia mostri di accorgersene, anzi, quando la vede in Tv affiancare come valletta il presentatore, che per altro l’ha concupita, è tutta contenta e applaude. Fabrizio Corona ha navigato in queste acque melmose, a volte se n’è fatto sommergere, spesso ha smarrito il limite tra bene e male, ma il suo comportamento nasce paradossalmente dal disprezzo per questa società malata che si pone a modello con le proprie ipocrite virtù mentre all’interno è bacata e piena di vizi. Lui ha socchiuso il vaso di Pandora, ha visto cosa c’era dentro e si è illuso di farsene custode, senza capire che non si può tenere compressa a lungo una molla senza che questa ti scoppi in faccia; senza capire, soprattutto, che non si può dominare il male senza farsene irretire e compromettere, 271 anche se dichiari a te stesso, alla tua famiglia, agli amici, che prima o poi darai un taglio netto a questo schifo e te ne andrai con tua moglie e tuo figlio in America, aprire un ristorante e vivere, finalmente, di onesto lavoro. Sembra un film americano già visto, un fumetto già letto. Ma non si può interpretare la vita con questi strumenti intellettuali e morali. Fabrizio Corona è diventato un eroe del nostro tempo, nel senso lermontoviano della frase, un giovane che per odio, o anche per debolezza o invidia, ha creato il male degli altri e alla fine di se stesso. A quei tempi, la “contessa scalza” era protagonista indiscussa delle notti romane. Ballava, beveva e faceva all’amore. Senza misura. Si era innamorata di Walter Chiari, il comico-mitraglia che nella sua vita riuscirà a sprecare tutto, compreso il talento. L’attore italiano l’aveva conosciuto sul set di La capannina di Mark Robson, un film che l’attrice, rievocandolo anni dopo, nella quiete londinese della sua casa, mostrerà di volere dimenticare. Walter Chiari era al top del successo artistico e mondano in quel momento. Ava Gardner sarà la conquista più esaltante. Altre c’erano state, altre sarebbero venute: Silvana Pampanini, Sylva Koscina, Lucia Bosè, Anita Ekberg, Mina. Anche lui litigò con Secchiaroli per averlo colto in dolce intimità con la bella Ava. L’ho conosciuto al Cantagiro del 1967, ospite d’onore, assieme a Paola Quattrini, della manifestazione. La prima tappa dello spettacolo si svolse allo stadio Cibali di Catania. Ricordo che alle porte di Palermo la carovana dei cantanti attraversò due ali di folla festante. Io viaggiavo con la collega Maria Pia Fusco, bionda, carina. A un certo punto, un gruppo di ragazzi si avvicinò al nostro finestrino e le gridò: “Buttana!” Maria Pia ne fu visibilmente colpita. “Perché?” La risposta mi competeva come siciliano doc. “Perché questi scapestrati”, provai a chiarire “restringono il concetto di onorabilità solo alle loro 272 madri e sorelle, oneste per definizione”. Lei non lo era perché veniva dal Continente, era truccata e ben vestita, apparteneva al mondo dello spettacolo e quindi al mondo del peccato. Credo che se oggi nelle strade del Magreb girasse una donna occidentale, senza veli e con corte vesti, il giudizio sarebbe lo stesso, lo stesso di quei ragazzi siciliani di quarantacinque anni fa. Fu a Carpi, credo, che entrai in confidenza con Walter Chiari. Quella sera, al termine dello spettacolo, che aveva visto ancora una volta furoreggiare nel girone degli esordienti Massimo Ranieri con Pietà per chi ti ama, si avvicinò al tavolo dei giornalisti, sfoderò un paio di battute, coniugò, come fosse un verbo, il futuro semplice del mio cognome e si mise a discutere di letteratura. Lo invitai a parlare de I Buddenbrook di Thomas Mann e lui mi citò, come capolavoro dello scrittore tedesco, La montagna incantata. Chapeau. Questo era Walter Chiari, che tre anni dopo finirà in galera per uso di stupefacenti. A distanza di trentasette anni Tatti Sanguineti, biografo dell’attore, ha sostenuto, in una puntata del programma televisivo La storia siamo noi, che Walter fu messo in prigione perché lo Stato aveva bisogno di un diversivo ideologico (e mediatico) per coprire la propria incapacità di reagire alle stragi degli anni ’60-’70. Di quel Cantagiro ho ricordi piacevoli e, in qualche modo, “storici”. Strinsi amicizia con Virgilio Crocco e Fabrizio Zampa, due colleghi de Il Messaggero. Fabrizio era figlio di Luigi Zampa, il regista che nel 1975 avrebbe diretto il film Gente di rispetto, con James Mason, tratto dall’omonimo romanzo di Pippo Fava. Un brutto film. In Versilia, Virgilio e Fabrizio preferirono saltare lo spettacolo, che ogni sera concludeva le tappe del Cantagiro, per andare alla Bussola di Marina di Pietrasanta dove si esibiva Mina. Non ricordo se per soldi o per altro ma li lasciai correre da soli verso ciò che allora appariva l’ideale artistico e femminile degli italiani. Per altro, Fabrizio conosceva Mina e aveva promesso al collega di presentargliela. Fu il colpo di 273 fulmine. Il giorno dopo Virgilio fece recapitare alla cantante un mazzo di rose rosse. Mina veniva da esperienze tormentate. Quattro anni prima aveva avuto un figlio da Corrado Pani, Massimiliano, suscitando scandalo alla Rai che le aveva improvvisamente chiuso le porte perché l’attore era sposato. Poi il rapporto era finito e n’era cominciato un altro col musicista Augusto Martelli. Finito anche quello. Il matrimonio con Virgilio Crocco, celebrato nel 1970, durò tre anni. Due mondi inconciliabili. Lui si guadagnava la vita scrivendo, lei cantando. Lui viveva nell’ombra onesta della sua professione, lei in quella ricca e luminosa dello spettacolo. Fecero in tempo a fare una figlia, Benedetta, e a separarsi con civiltà… finché lui, che amava l’America come una seconda patria, che non conosceva, trovò la morte proprio in quel sognato paradiso, travolto da un pirata della strada. Era un bel ragazzo, alto, intelligente, onesto. Chissà che cosa passa nella mente di una diva del canto, che pure ho amato con spreco di aggettivi nelle mie cronache televisive su La Sicilia, al punto da averne il rimbrotto di alcuni lettori che al moderno che s’avanzava preferivano il rassicurante passato di Claudio Villa e Jula De Palma. “Ma non le sembra di esagerare troppo con Mina?” mi scrisse un signore, alquanto seccato, “severamente” seccato, perché avevo definito “eccelsa” la cantante. Quell’anno la Rai, per l’ennesima volta, si coprì di ridicolo. Nel girone C, quello dei gruppi, gareggiavano i Nomadi con una bellissima canzone, Dio è morto, di Francesco Guccini. Una canzone profondamente religiosa, come scrive Christian Calabrese, perché parlava di una società “senza cuore e ideali” in cui Dio necessariamente è destinato a morire. “Dio è morto, nei bordi delle strade, nelle auto prese a rate, nei miti dell’estate… nei campi di sterminio, nei miti della razza, con gli odi di partito Dio è morto…” Ma le parole, ispirate a una poesia di Ginsberg, L’urlo, alla fine erano di grande speranza: “Se Dio è morto è per tre giorni, poi risorge”. Eppure, uno di quei funzionari che 274 hanno fatto la storia della Tv a rovescio, durante le riprese di una delle tappe, ritenne la canzone irriverente, se non blasfema, e non la trasmise. Gli ordini di massima venivano dall’alto, naturalmente, dall’onnipotente direttore generale Ettore Bernabei, fanfaniano di ferro, che in quegli anni, prima della rivoluzione del ’68, “taglia, censura, sminuzza tutti i servizi di Tv7 che non vanno bene”, come si legge nel libro inchiesta di Fabrizio Carbone allegato al settimanale Panorama del 18 febbraio 1985. La canzone Dio è morto era tanto irriverente che Radio Vaticana la trasmise per tutta l’estate e i Nomai vennero ricevuti in udienza privata da Paolo VI che non la finì più di complimentarsi. Ava Gardner, come dicono le biografie, era ritenuta la più bella attrice della storia di Hollywood. Ancora oggi, descrivendone la bellezza, la definiscono “notturna e dolente”. Perché nonostante tutto non riuscì mai a essere felice, perché nonostante tutto non riuscì a dimenticare la provvisorietà della sua infanzia, laggiù nel Nord Carolina, in un paesino chiamato Brogden, ultima di sette figli, con un padre contadino che di bello le trasmise solo il verde degli occhi. A vent’anni, al suo primo film, conosce Mickey Rooney, il quasi nano prodigio di Hollywood, e si lascia irretire dalla sua esuberanza e dai suoi consigli. Al crepuscolo della vita, ricordando quello sfortunato matrimonio durato undici mesi, dirà: “Michey era simpatico e pirotecnico, come nei film, quanto al resto… stenderei un velo pietoso”. Lasciò perdere anche Artie Shaw, il mago del clarinetto, che le insegnò a allargare la propria cultura e ad amare Hemingway. Lo sposò nel 1945. Lui veniva da sette mesi d’inferno con Lana Turner ed era considerato un grande talento oltre che un bell’uomo. Insieme con Benny Goodman (odiato rivale), Tommy Dorsey e Glenn Miller, è stato uno dei padri fondatori della musica swing. È morto a novantaquattro anni. Era del 1910, come mio padre. Ma il viaggio di mio padre nel 275 Novecento, breve e intenso, è finito molto prima. Mio padre veniva dalla provincia. Era nato a Maletto e aveva studiato al Capizzi di Bronte, uno dei collegi più prestigiosi del Meridione. Aveva una memoria prodigiosa e i suoi temi d’italiano venivano affissi in bacheca. Interruppe gli studi perché fu costretto a lavorare, come commesso di farmacia, e la sua vita cambiò. Prese la maturità quando era già sposato e padre di due figli piccoli. In sei mesi imparò il greco, il latino, la matematica e tutte le materie che non aveva fatto o approfondito a scuola. La commissione d’esami ne fu sbalordita. Studiava la sera, dopo cena, talvolta fino a notte fonda, in compagnia del vento che batteva alle finestre e al lamento dei cani randagi. Mia madre gli portava una coperta e gliela metteva sulle spalle. Non voleva né poteva arrendersi. Lo aveva giurato a se stesso, lo aveva giurato a suo padre mentre gli spirava tra le braccia, lo aveva giurato a tutte le persone che credevano in lui e che già lo chiamavano “dottore”. Si alzava al mattino presto e se ne tornava al lavoro, in bicicletta. Sempre sorridente, felice di un altro giorno che si apriva alla speranza. Affacciati dalla terrazza lo vedevamo fermarsi all’angolo della strada, salutarci con un ampio gesto della mano e sparire. Di quella sapienza ne approfittai alle medie, quando il professore di latino ci dava le versioni da tradurre in casa e le frasi più ostiche le lasciavo in bianco a mio padre che poi me le traduceva all’impronta. Talvolta rientrava molto tardi ed io gliele mettevo in bella evidenza sulla scrivania, prima di andare a letto. Al mattino le trovavo genialmente completate. Si laureò in chimica-farmaceutica già avanti negli anni, lavorando e studiando, leggendo ed educandoci al rigore, al sacrificio, al rispetto. “Adesso”, disse “non dovrò più vergognarmi se mi chiameranno dottore”. Nella sua vita non entrò mai in un bar a prendere il caffè. Non fumava, non beveva, in pratica non aveva vizi. Era ottimista e generoso, e non mi diede mai uno schiaffo: bastava il 276 suo sguardo, dolce e profondo; bastava la sua malinconia. Mio padre era anche la sua voce, calda e bellissima; era le canzoni che cantava e che noi stavamo a ascoltare come favole musicali, trame d’amori perduti, di signorinelle pallide e snelle, di piogge battenti, di stanzette all’ultimo piano e di rondinelle forestiere. Sul refrain di La signora di 30 anni fa il nostro entusiasmo saliva alle stelle: “Nel millenovecentodiciannove, vestita di voile e di chiffon, io v’ho incontrata non ricordo dove, nel corso oppure a un ballo-cotillon…” “Papà, ancora!” Mentre nelle nostre menti bambine vorticavano parole come ballo-cotillon, matite blu e amori eterni. Entusiasmante era La piccinina che mio padre cantava meglio di Carlo Buti. “Oh bella piccinina, che passi ogni mattina, sgambettando lieta tra la gente, canticchiando sempre allegramente…” Ma il suo cavallo di battaglia era Addio sogni di gloria. La interpretava con accesa nostalgia pensando, forse, alla sua vita in qualche modo spezzata e rincollata. “Addio sogni di gloria, addio castelli in aria… meglio tacer le memorie o vecchio cuor mio”. All’inizio degli anni Settanta scoprii che quell’abilità di canto, soprattutto di memoria di testi, l’aveva anche Enzo Biagi. Di questo grande maestro di giornalismo, scomparso alla fine del 2007, voglio raccontare un episodio. Proprio in quegli anni era stato invitato dal Lyceum di Catania a tenere una conferenza. Venne con la moglie e all’incontro incantò le signore del sodalizio con le sue battute e la sua arguzia, incantò soprattutto me, da poco giornalista professionista, incantò i miei più autorevoli colleghi Nino Milazzo e il caporedattore Renzo Di Stefano che mi aveva affidato l’incarico di redigere la cronaca dell’incontro. Mi dirà l’amico Renzo che Enzo Biagi apprezzò il mio articolo e che lo lesse due volte. La qualcosa, come si può facilmente immaginare, mi esaltò e mi fece venire il desiderio cocente di essere assunto, un giorno, al Corriere della Sera. E il sogno si sarebbe potuto avverare, penso, se 277 Nino Milazzo, appena assunto al giornale di via Solferino, non se ne fosse tornato subito in Sicilia vinto dalla nostalgia di casa e degli amici. Questo avvenne la prima volta. Dopo alcuni anni, Nino, pentitosi dell’avventata decisione, tornò a Milano e fu riaccolto a braccia aperte. Dopo qualche tempo alla porta della sua stanza di vicedirettore bussò Francesco Merlo, come avevo fatto anch’io nella prima metà degli anni Settanta. Al Corriere Francesco sarebbe rimasto una ventina d’anni e l’avrebbe illuminato con la sua ironia e la complessità del suo pensiero. Poi se ne andò perché il direttore Stefano Folli, uomo d’apparato e ragioniere più che ragionatore delle cronache politiche, pensò di ingabbiarlo nella propria mediocrità. Ma sto divagando. Il giorno dopo la conferenza organizzammo per Biagi e la moglie un viaggio alla Ducea di Bronte dove gli ospiti furono accolti con calorosa simpatia dall’allora amministratore, mister King. Fu una giornata memorabile. Pensai quanto fossi distante dalla sapienza e bravura dell’illustre ospite, quanto fossi piccolo e inadeguato anche se Biagi parlava come un papà dolce e comprensivo. Dopo pranzo cominciò la gara delle canzonette. E qui Biagi si mostrò imbattibile. Conosceva tutti i testi delle canzoni che avevano accompagnato la sua giovinezza. Incredibile. Bastava che si accennasse a una strofa perché lui la completasse. Nino Milazzo attaccava: “Quel menestrello d’amor, piccola bimba del cuor…” E lui: “Io vorrei nell’estasi sospirar chino ai tuoi piè, ogni segreto dolor scorderò sol per te”. Poi, tutti in coro: “Solo per te Lucia va la canzone mia come in un sogno di passion tu sei l’eterna mia vision…” Le canzoni interpretate dal Trio Lescano erano il suo cavallo di battaglia: Maramao perché sei morto, Ma le gambe, Pippo non lo sa, Tulipan. Mai avrei immaginato che dietro quel monumento di sapienza si celasse una così fantastica competenza. Su quelle canzoni anch’io me la battevo ma lui mi staccava alla grande e mi stese quando narrò la storia del Trio Lescano composto da tre 278 sorelle olandesi che in seguito presero la cittadinanza italiana ma che nel ’43 vennero cancellate dai programmi radiofonici perché la loro madre era di origini ebraiche e poi furono arrestate per spionaggio. Le autorità fasciste pensavano che le tre ragazze attraverso le canzoni mandassero messaggi in codice al nemico. Ha ragione Carlo M. Cipolla che sulla stupidità ha scritto nel 1988 un delizioso pamphlet: “La persona intelligente sa di essere intelligente. Il bandito è cosciente di essere un bandito. Lo sprovveduto è penosamente pervaso dal senso della propria sprovvedutezza. Al contrario di tutti questi personaggi, lo stupido non sa di essere stupido. Ciò contribuisce potentemente a dare maggiore forza, incidenza ed efficacia alla sua azione devastatrice”. Il mio incontro con Enzo Biagi finì lì, non lo vidi più, tranne una volta, di sfuggita, in via Teulada, al quarto piano dove c’erano le salette di montaggio. Venticinque anni dopo il caporedattore della redazione cultura del TG1, Giuseppe Sicari, che era andato in Siria, mi pare, a intervistarlo, mi disse che Biagi aveva voluto sapere i nomi dei giornalisti che lavoravano con lui e che arrivato al mio nome mostrò di ricordarsi… quel giorno siciliano di sole e di profumi, quel giorno che gli fece amare la Sicilia al punto da fargli venire il desiderio di acquistarvi una casa. Lo stesso inappagato desiderio di Tennessee Williams che voleva comperarsi un piccolo podere dalle parti di Taormina. La grandezza di Enzo Biagi era anche questa, la sua prodigiosa memoria, il ricordarsi le cose e le persone anche insignificanti, il mettere la sua umanità a filtro d’ogni rapporto, il vedere il re nudo quando gli altri, per servilismo, lo ritengono adorno di ricche vesti, lo stare sempre dalla parte della verità e della giustizia senza farsi corrompere dal potere, dalla politica. Ah, la politica! Enzo Biagi cominciò a morire il giorno in cui fu in pratica cacciato dalla Rai, quando solerti funzionari dell’azienda di Stato fecero proprio l’editto bulgaro di Berlusconi che aveva accusato il più grande e 279 onesto giornalista italiano di fare un uso “criminoso” della televisione. Dopo la sua morte, Berlusconi negò di averlo detto. Ma se così era, perché non impedì al consiglio di amministrazione della Rai, di sua ispirazione, di mandarlo via? Perché consentì tutta quella manfrina (di orari, spostamenti, compensi) che aveva il solo scopo di avvilirlo e di spingerlo alle dimissioni? Il solo scopo di minarne la dignità? Furono anni duri, durissimi: la morte della moglie, che ricordo con simpatia; il sostanziale licenziamento, sostanzialmente voluto anche da chi gli era stato amico; la morte della figlia piccola… un grido lacerante, il crollo sul pavimento, l’inutile corsa in ospedale. E quali sono stati gli anni duri dei berlusconidi che hanno gestito la Rai cercando di non disturbare troppo la concorrenza? Quali sono stati gli anni duri del successivo governo Prodi che non mise mai un dito nell’acqua calda per non farselo scottare? Nel 1948 Ava Gardner si sposò per l’ultima volta, con Frank Sinatra, prima di darsi alla sistematica distruzione di se stessa. Il matrimonio durò circa dieci anni e fu abbastanza tempestoso. Sinatra, che per lei aveva lasciato la moglie Nancy Barbato e i tre figli, dopo i primi anni di convivenza più o meno serena, diventò irascibile. La sua stella si stava appannando mentre quella della moglie brillava fastidiosamente. Nel 1952, come ricorda Dario Salvatori, toccò il fondo. I suoi dischi non si vendevano, le apparizioni televisive diventavano sempre più rare e il cinema lo aveva praticamente abbandonato. Inoltre, doveva centomila dollari al fisco. Quell’anno non fece altro che azzuffarsi negli aeroporti e negli hotel di tutto il mondo con la moglie e con i fotoreporter decisi a immortale la diva sempre più famosa e il marito sempre più incazzato, e sempre più mister Gardner. La dissestata unione praticamente finì con la perdita del bambino che la coppia stava aspettando. Era il 1953 e Ava Gardner era impegnata in Africa nelle riprese del 280 film di John Ford, Mogambo, accanto a Clark Gable e Grace Kelly. I soliti bene informati giurano che fu lei ad abortire. Non voleva un figlio da un uomo che non amava più. Eppure, quell’uomo, quando lei restò immobilizzata a letto, distrutta dall’alcol e dagli uomini e senza un soldo, pagò fino all’ultimo le cure mediche e il funerale. Davvero un cuore d’oro il vecchio Frank, amato come artista e tollerato come “mafioso”. Sebbene su questo aspetto molte biografie sorvolino, la figlia Nancy, nel libro dedicato al padre, Frank Sinatra, una leggenda americana, rivela di essere cresciuta con “quella strana gente” intorno. Jimmy Roselli, altro cantante di origine italiana, si vantava invece di avere sempre contrastato quelle scomode amicizie. Nella biografia, scritta da David Evanier, a un certo punto dice: “Quando cominciai a diventare famoso, i mafiosi erano sempre nelle prime file dei teatri con il loro sigaro in bocca. Mi amavano anche se volevano ammazzarmi perché non stavo al loro gioco. Erano le loro madri e le loro sorelle che glielo impedivano”. Eppure, cantò al matrimonio di John Gotti, fu ospite di Carlo Gambino e Larry Gallo che si fece seppellire stringendo tra le mani un suo disco al posto del rosario. Nessuno sarebbe entrato nel circuito di serie A dei night club senza la simpatia della mafia. Il pianista Chico Scimone, che più volte si esibì per Frank Costello e Willy Moretti, una volta fu ingaggiato, verso il 1938, da Costello per un compito inusuale: accompagnare al pianoforte un giovane cantante durante un’audizione. Il ragazzo era Frank Sinatra. “La mafia può creare una carriera o semplicemente distruggerla”, commentò Chico, anche lui in sospetto di amicizie compromettenti. Ma su questo baldanzoso gigantesco e simpatico vecchio, morto a novantaquattro anni nella sua amata Taormina, dove negli ultimi anni suonava tutte le sere il pianoforte al San Domenico, non è mai stata provata alcuna collusione mafiosa. Quando 281 emigrò negli Stati Uniti, ricorda su Repubblica Giuseppe Videtti, con la prima delle cinque mogli, l’attrice spagnola Aurora De Alba, e cominciò a esibirsi nei locali alla moda di Chicago e New York, fu di certo aiutato dagli “amici”. “I boss siculo-americani”, ammise “erano tutti nostalgici della loro terra, venivano ai concerti, li incontravo anche nelle navi da crociera in cui mi capitava di suonare…” ma tutto finiva lì in una sorta di innocente rimpatriata tra siciliani. Fu amico di attori e attrici che frequentarono, a Taormina, il suo locale, La Giara, messo su col fratello Egisto nel 1953. Ospiti fissi furono Ava Gardner (alla quale, di certo, raccontò l’episodio dell’ audizione dell’ex marito), Liz Taylor e Richard Burton, Gregory Peck, Peter Ustinov e Peter O’ Toole. Non solo divi, anche qualche ragguardevole boss di Cosa Nostra come Lucky Luciano al tempo del suo esilio in Italia. Ma la gente perdonava il vulcanico Chico che sul finale di partita, quando tutti i pezzi sulla scacchiera della vita sono stati “mangiati” e resta solo il re a difendersi e a attaccare, fu protagonista d’una trasmissione televisiva catanese nella quale suonava al piano, su richiesta, motivi del suo splendente passato. Il pubblico lo ammirava anche per le sue “scalate” dell’Empire State Building di New York. Il record personale lo stabilì a settantadue anni: 21 minuti e 13 secondi per salire i 1576 gradini dello storico grattacielo. Voleva campare fino a centoventi anni per continuare a stupire il mondo con le sue tenere e stravaganti gesta. Ma non aveva la ricetta del premier Berlusconi. Verso la fine del 2008 Alfio Caruso, ispirandosi alla fantastica storia di Chico Scimone, ha scritto un romanzo diviso in due parti, Willy Melodia e L’arte di una vita inutile, paradossalmente più vero del vero: per la precisione dei personaggi descritti, per l’ampiezza e la minuzia dei fatti raccontati, per il linguaggio asciutto, alla James Ellroy, e per i sentimenti forti e terribili che vi sono espressi. Se la vicenda umana di Scimone, pur vera, appare ammantata di leggenda lo si deve 282 probabilmente all’imprecisione, forse voluta, nella quale il protagonista ha sempre inserito la sua movimentata esistenza. Di converso, l’alter ego Willy Melodia sembra più credibile perché l’ambiente in cui agisce è descritto con rigore storico e sapienza letteraria. Diversamente da Scimone, che nacque a Boston, Willy Melodia vede la luce nella Catania povera e miserabile dell’inizio del Novecento ma al pari del suo “prototipo” possiede l’orecchio assoluto, quella capacità straordinaria di ascoltare la musica e riproporla senza leggere lo spartito. Le pagine dedicate ai quartieri etnei, ricchi d’umanità e sfasolati di fresco, sono magistrali. Propongono la lettura di una città non completamente innocente. Già da allora. Una città appesa al bisogno e alla sopraffazione, alla malavita e al gioco d’azzardo in cui il giovane protagonista impara la vita a rovescio, che lo accompagnerà fino all’età adulta, tra rimorsi e ripensamenti ma senza mai avere la forza e il coraggio di rompere con le cattive amicizie. Comincia a suonare in un bordello cittadino quando non ha ancora l’età per affacciarsi in quel mondo adulto e impara ad amare ciò che non può essere amato a lungo senza corrompersi. E questa sarà la sua cifra umana, il bisogno di conoscere attraverso il piacere, che lo porterà al fallimento di marito, di padre e di uomo. Ma Willy Melodia non è solo un gaudente, un ragazzo “leggero”. Sarebbe un’interpretazione riduttiva del personaggio. Egli è soprattutto una vittima della miseria e della paura. È per bisogno che scivola negli ambienti della malavita locale così come il padre che deve mantenere una numerosa famiglia. È per bisogno e paura che entra in confidenza con i boss della mafia italo-americana e se ne fa tappeto, senza ribellarsi, coprendosi occhi e orecchie per quieto vivere, per qualche dollaro in più. Eppure Willy Melodia è un personaggio che ispira simpatia, perché ogni cosa che fa, ogni cosa che sbaglia, la fa con innocenza, con generosità. Egli non è mai meschino, aiuta chi ha bisogno (perché c’è sempre uno più disperato di lui), non prevarica, accetta pregi e difetti 283 degli altri, ama con tenerezza i due figli avuti da relazioni diverse, mette sempre del denaro nelle lettere che invia alla madre, insomma sarebbe, “formalmente”, una brava persona se la vita non l’avesse traviato. Sembra la maledizione di Hollywood. Il cinema ti lusinga, ti fa ricco, ti mette sul piedistallo e poi ti presenta un conto che non puoi pagare. Nella sua autobiografia, Ava: my story, consegnata a un giornalista poco prima di morire, Ava Gardner scrive: “Avrei dovuto avere più orgoglio, più ambizione. Avrei dovuto imparare a recitare, ma non è stato possibile. Per diciassette anni sono stata schiava della Metro Goldwyn Mayer. Il contratto era più pesante d’una catena. Ti dicevano: fa’ questo, e tu dovevi farlo. Se disubbidivi ti toglievano lo stipendio, restavi senza soldi, senza lavoro. Quando pensavi di essere ormai una star, ti davano apposta particine umilianti, e se le rifiutavi ti sospendevano di nuovo. Dovevi appartenere a loro, anima e corpo, ubbidire sempre: la rivolta degli schiavi non era prevista né tollerata”. Tentò di rifarsi con la vita, ma fu anche peggio: tre matrimoni falliti e una serie spaventosa di amanti, a cominciare dall’ipocondriaco e folle Howard Hughes per finire con Walter Chiari e Luis Miguel Dominguin (futuro marito di Lucia Bosè) che Pablo Picasso, prima di diventargli amico, una volta definì “un torero della Place Vendome”. Ava Gardner è stata una buona attrice, basti ricordare Pandora di Albert Lewin (1951), Voglio essere tua di Robert Stevenson (stesso anno), Le nevi del Kilimangiaro di Henry King (1952), Sangue misto di George Cukor (1956). Ciò che ricordo di lei è la fossetta sul mento, lo sguardo ardente e profondo, l’incedere sicuro e, come scrisse Piero Di Domenico, “le spalle da regina, i gesti larghi del mostrarsi, l’ostentazione dei bellissimi piedi molto piccoli, i sospiri sapienti della voce”… la voce di Rosetta Calavetta che sarà anche la doppiatrice del cartoon Biancaneve, di Lana Turner, 284 Doris Day, Veronica Lake, Kim Novak e di Marilyn Monroe. Dove Ava è davvero magnifica è in Pandora che è una rivisitazione di due leggende: quella nordica de L’olandese volante e quella cattolica de L’ebreo errante. Nel film il protagonista maschile, James Mason, è condannato a errare per secoli su una nave fantasma per espiare l’uccisione della moglie, ritenuta a torto infedele. La sua pena di vivere cesserà allorquando una donna si innamorerà di lui fino a sacrificargli la vita. Questa donna, ovviamente, sarà Ava-Pandora. La prima volta che lo vidi avevo suppergiù dodici anni anni e ne rimasi folgorato. James Mason, verso la fine del film, viene ucciso da un rivale in amore. L’assassino, che è un famoso torero, pensa di avere così risolto i suoi problemi di cuore. L’indomani si esibisce nella plaza de toros davanti all’amata Pandora ma proprio quando sta per dare la stoccata finale si accorge che il rivale che ha ucciso a coltellate è in tribuna, vivo e vegeto. Ha un attimo di smarrimento che gli sarà fatale: il toro lo infilza in modo irreparabile. Amore, morte, resurrezione! Che cosa poteva pensare un ragazzo degli anni Cinquanta in una città di provincia che viveva una vita fanciulla, colma di fantasticherie e incapace di disegnare realisticamente il proprio futuro? Per giorni e giorni vagai dentro di me nell’illusione di percorrere l’immortalità, l’esistenza accanita e disperata dell’ebreo errante che allora vedevo non come maledizione ma come infinita opportunità. Rivedendolo dopo oltre mezzo secolo l’ho giudicato verboso e pretenzioso… ma la bellezza di Ava Gardner sconfigge il tempo, resta un’icona laica splendente. Nel 1954 una commessa di Catania, Eugenia Bonino, fu eletta miss Italia. I catanesi impazzirono di gioia, soprattutto il padre della ragazza che sul biglietto da visita si fece stampare: “Padre di Miss Italia”. Il sindaco La Ferlita, l’uomo che non sorrideva mai, nemmeno di fronte a un bilancio comunale ben fatto, la ricevette in pompa magna in municipio e trovò anche la forza di 285 sorridere. Era carina e buona come il pane di casa, come si diceva allora, la classica moglie insomma. Sparì dopo essere stata invitata a un paio di feste danzanti e a alcune cerimonie pubbliche e dopo avere preso parte a due film che nessuno ricorda più: Un palco all’opera di Siro Marcellini e I vagabondi delle stelle di Nino Stresa, anno 1956. Qui faceva la parte della servetta del padrone d’una pensione dove alloggiavano tre allegri studenti: Mario Girotti, Vincenzo Musolino e Riccardo Fellini. Per qualche anno ci siamo riempiti la bocca col suo nome e gli occhi con la sua bellezza di periferia. Nel mio ricordo ha un posto insignificante, ancora più piccolo di quello di Jean Peters o di Joi Lansing, per esempio, modesti ceri di sagrestia che il pubblico accende senza memoria ma che brillano nella penombra delle navate. Eugenia Bonino era piccola e rotondetta, con grandi occhi bruni e un sorriso dolce. Era il simbolo della bellezza siciliana e assomigliava a un sacco di ragazze che conoscevo, di vista. Era una di quelle che bisognava immaginarsele nude perché ti restassero nella memoria o ti accendessero di desiderio; una di quelle che i ragazzi, d’estate, vedevano spogliarsi attraverso le sconnessure dei tavolati o i buchi praticati nel retro delle cabine. Non era certo il tipo alla Susan Hayward che ti restava nella testa col semplice tremore delle labbra. Era, insomma, una di quelle ragazze anni Cinquanta che correvano in prendisole a fiori sulla sabbia col foulard in mano e si sedevano sul mezzo deretano per poi con le amiche intessere capricci sentimentali, pettegolezzi, mentre i ragazzi mostravano i bicipiti e risucchiavano la pancia per essere all’altezza di quelle piccole maestà di perversione. Ma tutto restava lì, sulla sabbia, negli sguardi, nell’orizzonte del mare. Le ragazze erano come sirene sdraiate e difficilmente avresti potuto immaginarle correre nel deserto dietro il loro grande amore, come fa Marlene Dietrich nella sequenza finale di Marocco. Il suo Gary Cooper, semplice legionario, vale più di un bracciale di diamanti, più di una bella sistemazione con l’azzimato inutile Adolphe Menjou. 286 Anche Susan Hayward si portò appresso un’infanzia dolorosa. Amava moltissimo la madre, ma la madre amava moltissimo l’altra figlia. Richard Widmarck una volta disse: “È una donna che è stata plasmata in un blocco d’argilla”. Dopo il fallimento del primo matrimonio con l’attore Jess Barker, durato dieci anni, tentò il suicidio quando seppe che la commissione di giustizia civile le aveva tolto la custodia dei due figli. Era il 1955 ed era impegnata nelle riprese del film Piangerò domani di Daniel Mann. Prima di svuotare il tubetto del sonnifero telefonò alla madre: “Non preoccuparti, d’ora in avanti non dovrai più prenderti cura di me”. La madre telefonò alla polizia e la salvò. L’anno dopo girò nel deserto dello Utah, quasi certamente contaminato dagli esperimenti nucleari, il film Il conquistatore di Dick Powell. Oltre metà della troupe, compreso il regista e il protagonista John Wayne, morirono nei trent’anni successivi. Powell morì nel 1963; Wayne, di più forte fibra, nel 1979; Susan nel 1975. Tutti e tre per un cancro al polmone, che, nel caso dell’attrice, contaminò anche il cervello. Due anni prima, ormai distrutta dal male e pressoché irriconoscibile, alla premiazione degli Oscar il pubblico eviterà di guardarla. Era stata chiamata per annunciare la vittoria di Glenda Jackson (Un tocco di classe) che neppure verrà a ritirare il premio. Penoso, penosissimo annuncio mentre Charlton Heston la sorregge e alcuni tra gli spettatori trovano la forza di guardare e di piangere. Negli anni Cinquanta le atomiche si sprecavano. Sia quelle che esplodevano negli atolli del Pacifico o nei deserti americani e sovietici, sia quelle che deflagravano nella testa del pubblico maschile. Non so le misure degli ordigni nucleari e termonucleari, ma ricordo bene quelle delle dive insaccate nei costumi elasticizzati: 90, 60, 90. Novanta di bacino, sessanta di vita e novanta di petto. Un violoncello perfetto. Era la fame della guerra che aveva inventato quella terna vincente sulle ruote del 287 mondo. Bisognava voltare pagina, dimenticare le tessere annonarie e dare l’immagine d’una prosperità che prima o poi avrebbe riguardato tutti. Il prima, però, apparteneva al cinema, alle dive con le quali riempirsi gli occhi e ingannare lo stomaco. Alle elezioni di Miss Italia del 1947 partecipò un quintetto niente male: Lucia Bosè, Gina Lollobrigida, Silvana Mangano, Eleonora Rossi Drago e Gianna Maria Canale. In pratica, il futuro star system del cinema nazionale. Vinse Lucia Bosè che sognava una carriera d’attrice e un matrimonio con un famoso torero (allora i sogni avevano tanto sofferto che potevano persino realizzarsi). Ma chiunque delle cinque avrebbe potuto indossare la sciarpa e la corona. Erano perfettamente scomponibili e componibili tra di loro in modo da ricavare comunque un ideale di bellezza. Tre anni dopo fa la sua prima mala comparsa Sofia Loren, che viene battuta da Anna Maria Bugliari. Chi era costei? Forse una raccomandata. O forse la giuria, con in testa Orio Vergani, si spaventò delle misure eccessive, non convenzionali, della candidata che, almeno di petto, arrivava al metro. Non si poteva esagerare. L’idea di mettere in tavola un pollo la settimana restava ancora una speranza, che partiva da lontano, se si vuole, visto che Mussolini era stato il primo a parlarne, ma ancora non c’erano le reali premesse. Ancora nelle case degli italiani arrivavano gli indumenti smessi dei civili americani e il loro cibo in scatola. Al mercato di piazza Carlo Alberto spedivano di tutto: abiti, coperte, divise, paracaute. Con una coperta militare, che poi immerse nella tintura blu, mia madre mi confezionò un cappotto e dalla seta dei paracaute ricavò eleganti camicie. Non c’era da vergognarsi. Le famiglie si rialzavano a fatica e il loro onore lo misuravano su altre cose: sul lavoro, sul sacrificio, sullo studio, sul futuro che non poteva tardare. Io lo misuravo sui libri e sul cinema. Susan Hayward era una perdente. Nella vita e nel 288 cinema. Dopo cinque tentativi vinse l’Oscar nel 1958 con Non voglio morire di Robert Wise. “Desideravo questo premio da vent’anni”, disse. “Ora posso dedicarmi a fare la moglie a tempo pieno”. Il film era ispirato a una storia vera: quella di Barbara Graham, una prostituta condannata a morte per un omicidio che disse di non avere commesso e che alla fine venne giustiziata nella camera a gas di San Quentin. Per pubblicizzare il film, il produttore scomodò lo scrittore francese Albert Camus e lo coinvolse in una dichiarazione contro la pena di morte. Lacrime a non finire anche con Piangerò domani e una nomination che rimase tale perché l’Oscar quell’anno venne dato a Anna Magnani per La rosa tatuata di Daniel Mann. La nostra attrice, sanguigna ed eccessiva, nel pianto come nel riso, s’impose anche su Jennifer Jones (L’amore è una cosa meravigliosa), su Katharine Hepburn (Tempo d’estate) e su Eleanor Parker (Oltre il destino). Potenza delle suggestioni! Questi sono gli anni del mio passaggio dalla scuola cattolica alla scuola statale. Un passaggio difficile, tormentato, ma alla fine liberatorio. Che cosa avevo imparato dai discendenti di San Giovanni Battista de La Salle, il fondatore della scuola dei poveri che diventerà la scuola dei ricchi? Avevo imparato a studiare. Ogni mese ci davano la pagella e ci interrogavano ogni 15 giorni; il tempo passava più a interrogare che a spiegare (il contrario del Cutelli: pagella trimestrale e, talvolta, anche l’interrogazione). Ci davano un sacco di compiti per casa e un sacco di poesie da mandare a memoria. Anche se i professori non erano un granché, il loro metodo d’insegnamento era pignolo, stressante ma proficuo. C’era un grosso problema, però, un vizio in re, che controbilanciava pesantemente lo sforzo pedagogico e mnemonico. E questo lo avrei capito tempo dopo. Il problema era la quasi assoluta mortificazione dello spirito critico. La cattedra era l’altare, il docente l’officiante, gli studenti i fedeli. Così come avveniva nella cappella dell’istituto (mezzora al giorno di Santa Messa) e in classe (un’altra mezzora, questa 289 obbligatoria, di religione). Nessuno poteva batterci sui grandi personaggi della Bibbia, e tutti potevano umiliarci sui grandi personaggi dell’umana sapienza. L’ipse dixit, di aristotelica memoria, era come incarnato nelle lezioni e fortemente simboleggiato dalla tonaca del professore. Questi mica era un docente qualsiasi, era anche questo si capisce, ma era soprattutto l’Oracolo, colui che parlava per verità rivelata. Questo è stato il grande equivoco della scuola cattolica di allora. Se ne rese conto mio padre, sollecitato anche dall’eccessivo peso delle rette trimestrali. Si rese conto che sarei cresciuto come uno stronzetto figlio di papà e non come una persona normale che deve affrontare le difficoltà della vita. E queste poteva insegnarmele solo la scuola laica, la scuola del libero pensiero, la scuola che assomigliava alla mia famiglia. Avevo quindici anni quando misi piede per la prima volta in una classe mista. Primo liceo, sezione I. Ovviamente, i docenti erano veri professionisti, vincitori di concorso, non religiosi, per lo più senza vocazione e senza laurea, che indossavano la tonaca per togliersi dalla miseria d’origine, studiare, insegnare ciò che potevano e darsi un futuro. Dei docenti laici il più bravo era l’insegnante di storia e filosofia che odiava i preti e la scuola cattolica. Mi dichiarò guerra subito, e mi odiò quando qualcuno gli riferì che ero venuto al liceo Cutelli per conoscere i figli del popolo, o qualcosa del genere. Al primo trimestre riuscii a collezionare l’insufficienza in quasi tutte le materie. Mio padre si allarmò ed io non seppi che cosa rispondere. Diventai rosso e scappai nell’altra stanza a piangere tranquillamente. L’indomani andò a parlare coi professori, per capire. Suo figlio era stato complessivamente bravo e non riusciva a capacitarsi. Possibile che il cambio di scuola avesse determinato il disastro? Impossibile. Il professore di storia e filosofia, il sacerdote del libero pensiero, l’uomo che abitava in una bellissima casa ottocentesca e possedeva un’automobile di lusso, l’uomo che detestava i ricchi e 290 amava i poveri, cambiò da così a così. Conosceva mio padre per averlo incontrato alle conferenze di Santino Caramella, professore ordinario di pedagogia all’università di Palermo e autore di un trattato di filosofia per studenti sul quale aveva studiato un’intera generazione di siciliani. L’equivoco fu chiarito, io non mi sentii più un estraneo e alla fine dell’anno venni promosso a pieni voti. Eppure, restò come una ruggine sottile tra di noi, tra chi conosceva la vita e chi la immaginava, tra un uomo di oltre quarant’anni e un ragazzo di quindici, tra la sapienza e l’ignoranza. Quarantacinque anni dopo ricevetti una sua telefonata. Voleva congratularsi per un mio intervento su Telecolor-Video3. “Ti ho telefonato perché so che ti avrebbe fatto piacere”. Un immenso piacere. Finalmente, ai suoi occhi, avevo superato l’esame. Caro vecchio, duro e scorbutico professore che odiava la retorica e amava il soggettivismo. Tranne quella volta, alla festa conviviale della maturità, quando il cameriere, su nostro suggerimento, gli portò una minestra salatissima: “Questa roba è immangiabile” esclamò. Già, oggettivamente immangiabile. Pur con qualche limite caratteriale, quel professore fu un maestro. Alla maniera di Francesco Guglielmino che ha forgiato generazioni di studenti attraverso la sua lunga e operosa vita: 1872-1962. Novant’anni esatti. Quasi un secolo ma che per la storia vissuta e per i personaggi grandi e piccoli incontrati e conosciuti fanno due secoli di esperienza. Nasce proprio quando muore Giuseppe Mazzini, uno dei personaggi che conteranno nella sua formazione ideale, e muore quando nasce il Concilio Vaticano II che porta la Chiesa a immergersi nei principi democratici della rivoluzione francese. Ha conosciuto la monarchia di Vittorio Emanuele II, di Umberto I, di Vittorio Emanuele III, ha conosciuto l’Italietta di Cavour, di Giolitti, il fascismo e la repubblica. Nel cielo ha visto solcare le rondini, i dirigibili e gli aeroplani. Ha visto la Catania dei grandi contrasti, quella della borghesia rampante della seconda 291 metà dell’Ottocento coi suoi palazzi magnifici, e quella degli operai alloggiati nelle casupole con le fogne a cielo aperto di San Berillo e della Civita, ha visto la ricostruzione del secondo dopoguerra e la civiltà rissosa dei condomini, ha visto la campagna sparire a poco a poco nel cemento dei palazzi democristiani, ha conosciuto ciò che c’era da conoscere, ha camminato per le strade fangose delle periferie etnee con un occhio al cielo e l’altro alle miserie del mondo, sempre amando e tollerando, ma sempre facendo sentire alta la sua voce di uomo severo e giusto. Come mister Chips, nel film di Sam Wood, al quale assomigliava persino fisicamente. Il ritratto che una volta ne fece Sciascia è il ritratto di Robert Donat nei panni del prof. Chips. “Era quasi totalmente sordo” scrive Sciascia, “ogni volta che aprivo bocca per dire qualcosa mi trovavo piantata davanti, a dieci centimetri, la nera scatoletta-microfono: inutile per lui, inibitoria per me. Ma capitava raramente, poiché amavo ascoltarlo... Arrivava al caffè puntualissimo: il bastone sottobraccio, come se ci tenesse a non appoggiarvisi. Sedeva, tirava fuori un libro da una tasca della giacca; la pipa, il tabacco e i fiammiferi da un’altra. E cominciava a parlare... ” Parlava di Verga, di De Roberto che aveva conosciuto molto bene, di Martoglio e di Tempio, parlava di Brancati e dei suoi affanni, parlava dei suoi tempi e dei suoi anni. Aveva visto tutto, come ho detto. Era nato nel silenzio dell’Ottocento e si era ritrovato nel rumore del fascismo e del Novecento, due guerre mondiali nella sua esperienza, aveva ammirato le donne in crinolina e le aveva viste nelle corte vesti della Belle Epoque. È stato un punto di riferimento vitale per generazioni di studenti, a scuola e all’università, ed è stato anche il perno di una stagione letteraria irripetibile a Catania, come ho ricordato in altra parte del libro. Guglielmino nutriva un senso doloroso del vivere, come Leopardi. Il senso della caducità gli era sempre presente, e lo vide per altro, intristendosene, negli occhi velati di Giovanni Verga, rudere ormai di se stesso, 292 senza più scintille creative; lo vide nel volto pallido di Mario Rapisardi, negli ultimi anni della sua vita, malato e dimenticato nella casa di via Etnea, morto si può dire come lo avrebbero voluto già dal secolo precedente i suoi tanti nemici. Forse pensò allora a una identificazione. Professore Rapisardi, professore lui; poeta Rapisardi, poeta lui stesso. Ma Guglielmino sopravanza come docente l’illustre Vate e come poeta i suoi “fiori” valgono dieci palingenesi. Il vecchio professore di Acicatena ci ha lasciato avari patrimoni di libri, anche se grande era il suo talento, ma generazioni di studenti, di scrittori, di uomini d’ingegno lo ricordano come un maestro di pensiero, una bussola nella tempesta della vita. 293 TREDICI Lana Turner, Doris Day Il padre di Lana Turner lavorava nelle miniere d’argento di Wallace, nel Nord dell’Idaho, ed aveva la passione del gioco. Quando la miniera non aveva bisogno di lui, s’ingegnava a sbarcare il lunario con le carte. Una sera, a San Francisco, dove s’era trasferito con la famiglia, vinse una grossa somma ma sulla via del ritorno a casa venne rapinato e ucciso. La famiglia tirò avanti alla meno peggio finché la quattordicenne Lana, che ancora si chiamava Julia Jean ed era bellissima, mentre sorseggiava un frappé alla fragola, in un bar nei pressi di Hollywood, fu notata da un fotografo dell’Hollywood Reporter che la presentò a Mervyn Le Roy. Il regista le cambiò il nome e se la portò in giro per gli studios. Probabilmente, la lasciò al suo destino quando seppe che aveva solo quattordici anni, oppure non riuscì a piazzarla per la paura dei produttori di finire in galera. Fatto sta che la giovane Lana, un anno dopo, stava ancora aspettando la grande occasione… marinando la scuola, studiando poco, bazzicando nel sottobosco (d’agrifoglio) del cinema. Una Lolita avanti lettera, che dello strepitoso personaggio inventato da Nabokov aveva tutto ciò che poteva distruggere un uomo: bellezza, candore, acerbo e malizioso sentire, sfrontatezza, disponibilità e insieme ritrosia, insomma, un demonio vestito d’angelo, una ragazzetta che, guardandola, non potevi fare a meno di peccare. Erotismo allo stato puro. Fu Zeppo Marx, uno dei celebri fratelli, che sbloccò la situazione insegnandole a mentire. Da quel giorno, Lana Turner diventò maggiorenne, guadagnò una comparsata nel film di Wellman, È nata una stella, e una particina in Vendetta di Mervyn LeRoy, in cui recitò con un pullover d’una misura più piccola perché le facesse risaltare il piccolo seno. Da allora, e per molti anni, 294 verrà intesa come “la ragazza del pullover”, ma anche come “la ragazza senza sopracciglia”, dopo che le sue, rasate per esigenze di copione, non erano più ricresciute. A ventisei anni, avendo all’attivo pochi film di rilievo, tra cui Il postino suona sempre due volte, di Tay Garnett, tratto dall’omonimo romanzo di James Cain, era già tra le dieci attrici più pagate di Hollywood. Sembrava uscita dai pennelli di Gil Elvgren. La ragazza con l’ombrellino sul risciò, o quella che imbraccia l’arco o mostra di aver confezionato la fionda con l’elastico del reggicalze, ha la sua bocca e i suoi capelli. Una magnificenza terrestre. Una donna dalla vita scapestrata, eccessiva in tutto, negli amori e nelle infedeltà, nei matrimoni (sette) e negli scandali. Dopo Artie Shaw sposa l’attore-ristoratore Steve Crane. Hanno una figlia, Cheryl, che alla nascita subisce il ricambio del sangue per via d’una incompatibilità con quello della madre. Poi è la volta del milionario Henry J. Topping jr. “L’uomo di successo è colui che guadagna più denaro di quanto sua moglie possa spendere. Una donna di successo è quella che trova un uomo così”. Questa era la filosofia di Lana Turner, figlia del minatore che amava il gioco d’azzardo e che spesso non aveva i soldi per pagarsi da bere. Come ha scritto Giuseppe Marotta in Visti e perduti, nascere bella fu la sua tragedia. Il cinema non le disse: “Vieni, ti educo”, le disse: “Vieni, ti fotografo”. E lei si fece fotografare perché era “una popolana ignorante e scema”. Nella sua rete ammaliatrice cadono come passeri Lex Barker, il Tarzan che tenta di ricalcare lo straordinario successo di John Weissmuller, l’allevatore Fred May, l’uomo d’affari Robert Eaton e infine l’illusionista Ronald Dante. Una tirata di fiato per aggiungere alla lista alcuni amanti e amici: Tyrone Power, forse l’unico amato veramente; Frank Sinatra, Robert Taylor, Cary Grant, Howard Hughes, Victor Mature, Fernando Lamas. Il bel Fernando era stato suo partner nella Vedova allegra di Curtis Bernhardt (1952) e non s’era vergognato di insidiarle la figlia Cheryl. 295 Fernando Lamas sarà il terzo marito di Ester Williams, la diva che nei movies nuotava tra cascate e zampilli d’acqua e recitava con molta buona volontà, la diva che incontrai al festival di Taormina, ormai grassa e stanca e che dell’antico splendore manteneva il sorriso. Mi disse che il suo vero e unico amore era stato Fernando Lamas, morto qualche anno prima. Si perdonano tante cose dalle parti di Hollywood. E poi avvenne il fattaccio che le rovinò la vita. La sera del 4 aprile 1958, nella grande casa coloniale di Bedford Drive, a Beverly Hills, la figlia Cheryl, dopo avere assistito all’ennesimo litigio tra la madre e il suo amante, il malavitoso Johnny Stompanato, corre in cucina, afferra un coltellaccio e lo pianta nelle spalle del giovanotto che cade in una pozza di sangue. Lana tenta di fargli la respirazione bocca a bocca. Niente da fare. L’ex guardia del corpo del gangster Michey Cohen, il gigolò mostruosamente dotato, arrogante e manesco, è già in viaggio per l’inferno. Avevano litigato per una questione di soldi. L’attrice era stanca di pagargli i debiti di gioco e glielo aveva gridato in faccia, lui l’aveva minacciata come aveva fatto altre volte. “Se ti dico salta, tu salti; se ti dico balla, tu balli”. E poi ancora: “Ridurrò la tua faccia a un punto tale che dovrai nasconderti per tutta la vita, tanto sarai schifosa”. Il trattamento lo aveva esteso anche alla madre di lei e alla figlia Cheryl. Che cosa doveva fare una ragazzina di quattordici anni che ascoltava terrorizzata dietro la porta? Mettersi a piangere oppure comportarsi come in una sequenza cinematografica? Scelse la seconda opzione e per lei cominciò un lungo calvario psicologico che la portò a odiare gli uomini e ad amare le donne. Approdo inevitabile, del resto, dopo che uno dei mariti della madre, Lex Barker, tentò di molestarla così come avrebbe fatto Fernando Lamas. Fu assolta per legittima difesa. Tutta l’America insorse contro l’attrice, definita madre dissoluta e snaturata, e fu sul punto di scendere in piazza quando vennero pubblicate le lettere 296 d’amore scritte all’amante. Di quell’uomo violento, Lana, non sapeva fare a meno, era un’ossessione. E non fu il solo a picchiarla. Tra i pochi, si provò a difenderla il celebre columnist Walter Winchell ma si ebbe l’immediato rimbrotto della vecchia e acida diva del cinema muto, Gloria Swanson: “Per me è disgustoso che tu cerchi di rifare una verginità a Lana. L’unica cosa vera che hai detto sul suo conto è che dorme con la camicia da notte di flanella”. Johnny Stompanato, alias Johnny Valentine, in fondo era un vile, uno che picchiava le donne e le sfruttava. Quello che valeva si capì il giorno in cui capitò sul set del film Estasi d’amore, di Lewis Allen, che l’attrice stava girando in Gran Bretagna con l’allora sconosciuto, giovane e aitante Sean Connery. Il bullo Johnny si avvicinò all’attore, gli puntò la pistola e gli disse di stare alla larga dalla sua donna. Connery gli sorrise e gli mollò un cazzotto che lo stese a terra. Poi, lo denunciò e con l’aiuto di Scotland Yard lo fece cacciare via dal Paese. Il futuro agente 007 cominciava a allenarsi. Nel 1966 Lana Turner diede il meglio di sé interpretando se stessa. Il film, Madame X, racconta di una donna che uccide per proteggere la propria famiglia, al termine d’una vicenda complicata e melodrammatica ma di grande impatto emotivo. Davvero memorabile l’incontro in cella tra la protagonista e il figlio che la difende dall’accusa di omicidio. Rivedendolo oggi la commozione mi assale, come un tempo, lacrime comprese. Piangere a una ragguardevole età è come ammettere di avere conservato il tempo non di averlo consumato, di averne congelato la favola, l’incanto; è come dire d’essere rimasto prigioniero del passato, di non avere percorso per intero la disillusione, la crudeltà del mondo, l’ipocrisia. E si è così, candidamente e razionalmente sprovveduti, soprattutto nella commozione e nel dolore. Insomma, come direbbe Lidia Ravera, io e molti altri siamo diventati “angeli vecchi”. Mi illudono le parole di Francesco De Gregori: “La storia siamo noi… siamo noi queste onde nel mare, 297 questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare. E poi ti dicono ‘Tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera’. Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera…” A quel tempo, per me, per quelli come me, la mafia era quella del cinema, la mafia americana, l’organizzazione dei gangster che uccidevano altri gangster e poi soffiavano sulle pistole fumanti. La mafia di Bugsy Siegel, per esempio, che costruì a Las Vegas il più grande hotel-casinò degli Stati Uniti, il Flamingo, autentico monumento al kitsch; o la mafia di Michey Cohen, il gangster di origine ebraica che tentò di rifare il verso a Dutch Schultz, quello del Cotton club all’epoca del proibizionismo. E ancora: la grande mafia di Al Capone, che viaggiava su una limousine corazzata del peso di sette tonnellate, fumava sigari habana e finì in galera non per i tanti delitti commessi ma per evasione fiscale; la grande mafia di Lucky Luciano e di Albert Anastasia, il famigerato capo dell’Anonima Assassini, che fu ucciso nel salone da barba dello Sheraton a New York su ordine di Vito Genovese; la grande mafia di Carlo Gambino, che cominciò la carriera falsificando le tessere di razionamento; e di John Gotti, che allargò gli interessi dei clan mafiosi in settori divenuti strategici come la droga e il traffico delle armi. La mafia siciliana invece era una sorta di mistero teatrale, una rappresentazione incerta, imprecisa; e comunque un affare che riguardava solo Palermo. Noi eravamo di qua, nell’Oriente siciliano dove sorge il sole prima di annegarsi nel lontano Occidente. Due terre distanti, che riuscivano a svelarsi dopo cinque ore di viaggio, in macchina o in treno. Era più facile prendere l’aereo e raggiungere New York. Ma noi, a Catania, “non ci capivamo niente” come scrive Tino Vittorio nella prefazione al libro di Giuseppe Lazzaro Danzuso dedicato alla nascita della prima televisione catanese, “Teletna”. “A Catania la delinquenza ubiquitaria dei 298 quartieri”, ricorda l’amico Vittorio “stava trovando il suo posto di eccellenza nella mafia. Uno l’aveva capito, ma noi non avevamo capito che Giuseppe Fava l’aveva capito. Ci pareva fosse una trovata teatrale, un’esagerazione da cui distogliere attenzione e energie, indirizzate, invece, nei laboratori rivoluzionari”. Insomma, quella nostra generazione era lontana da casa e dalla mafia ma era di casa nella guerra del Kippur, nel Cile di Allende, nelle stragi in massa organizzate da Pol Pot e nella Spagna senza Francisco Franco. “Eravamo in ogni luogo”, precisa Tino Vittorio “tranne che a Catania”. Confortati, per altro, da una stampa anch’essa altrove, anch’essa confusa, illusa. Come ricorda Giuseppe Lazzaro Danzuso, nel libro appena citato, “il problema non era quello di pubblicare le notizie, quanto di connettere tra di loro i fatti apparentemente lontani, di metterli insieme come tasselli di un puzzle per cercare di comprendere quale fosse la nuova realtà che si andava creando”. La percezione che Catania avesse perso la propria innocenza si ebbe la sera del 5 gennaio 1984 quando Maurizio Avola, a capo di un commando assoldato da Nitto Santapaola e da suo nipote Aldo Ercolano (ma questo si saprà dopo), sparò a Pippo Fava: cinque colpi di pistola alla nuca. Una vera inequivocabile esecuzione mafiosa. In seguito, il killer avrebbe scritto un libro con questo titolo: Mi chiamo Maurizio, sono un bravo ragazzo, ho ucciso ottanta persone. Il giornalista e scrittore aveva appena spento il motore della sua macchina, una Renault 5 rossa, dopo averla posteggiata in via De Cosmi, all’angolo con via dello Stadio, e si accingeva a raggiungere il Teatro Verga, dove si stava rappresentando una sua opera teatrale dal titolo profetico L’ultima violenza, quando fu raggiunto e ucciso dal killer. Una settimana prima lo avevo intervistato per il TG3. Mi aveva parlato, in toni lucidi e appassionati, di quel lavoro che riprendeva, su temi più vasti, il precedente La violenza. Pippo si esprimeva, e scriveva, con uno stile immaginifico, barocco, ma 299 sempre innestato nella verità delle cose e degli uomini. Conservo una foto che ci ritrae, assieme a Tony Zermo, al club della Stampa, d’estate. Era una persona coraggiosa, onesta e per bene. A quei tempi era l’anima e il cervello di Espresso Sera, il quotidiano del pomeriggio diretto dallo scialbo, ma con un’alta considerazione di sé, Girolamo Damigella, imparentato con la famiglia Simili proprietaria del giornale assieme a Domenico Sanfilippo. Pur desiderandolo ardentemente non riuscì mai a dirigerlo perché di lui non si fidavano. Mi ricordo che un’estate il mio giornale mi propose di dare una mano ai colleghi di Espresso Sera. Pattuimmo un compenso. Centotrentamila lire per un mese di sostituzioni. Lavorai al fianco di Pippo Fava e imparai a stimarlo ancora di più e a volergli bene. Al termine dell’impegno di lavoro (davvero massacrante perché al mattino lavoravo per il giornale della sera, e la sera per il giornale del mattino) feci un salto in amministrazione. Il direttore amministrativo a quel tempo era uno dei fratelli di Damigella. Fece preparare i soldi e me li consegnò. Centomila lire. Gli feci osservare che l’impegno era diverso e lui mi rispose con un’alzata di spalle. Gli lasciai i soldi sul tavolo e me ne andai. La sera stessa, mentre mi trovavo in tipografia, arrivò Pippo Fava. Si scusò e mi diede il denaro pattuito. “Gli ho fatto una cazziata che se la ricorderà finché campa”, mi disse con un sorriso. A rifletterci, oggi, forse la differenza ce la mise di tasca propria. Magari per un caffè ti faceva stirare il collo, ma sulle cose importanti, sui sentimenti, sulla generosità maiuscola, stava sempre in prima fila. A parte mio padre non ho mai conosciuto una persona come lui, uomo giusto e ribelle, in una città che non lo capiva, né poteva capirlo. Aveva cominciato a scrivere libri e commedie di successo. Era una penna magnifica e prolifica. Una vera miniera per un giornale. Eppure, quando cercò di passare a La Sicilia, la Proprietà, come si diceva una volta, gli sbarrò le porte, probabilmente per non sconvolgere gli assetti redazionali interni e anche per 300 l’azione sotterranea di alcuni colleghi che ne temevano la forte personalità e l’indubbio valore. E allora, dopo una breve parentesi romana, se ne andò a dirigere Il Giornale del Sud, un quotidiano nuovo di zecca, fondato dal cavaliere Recca, che presto finì nelle mani di politicanti e maneggioni che si illudevano di fare la concorrenza a La Sicilia. Fu licenziato nel momento in cui quegli aspiranti e mediocri editori capirono che non era addomesticabile e che avrebbe denunciato piuttosto che coperto i loro interessi. La successiva stagione dei Siciliani determinò la sua fine. Furono le battaglie contro i cavalieri dell’Apocalisse, contro la mafia, contro tutto e tutti che lo portarono all’isolamento e alla tragedia. Magari fece qualche sbaglio, ma l’averlo, di fatto, allontanato da La Sicilia e costretto, di fatto, a intraprendere una strada senza ritorno fu un errore. Certo, è il senno del poi che oggi mi rende “perspicace”. Allora nessuno, al giornale e negli ambienti che contano, avrebbe potuto immaginare, soltanto immaginare, le tragiche conseguenze di quel diniego. La “perspicacia” dell’oggi mi fa dire ancora che non era impossibile trovare una soluzione, un qualche compromesso, un modo per non offendere le aspettative dei colleghi o mortificarne le posizioni di comando. Non era impossibile sottrarsi alle loro recriminazioni e ai loro calcoli di bottega. Ex post, aggiungo che fu una mancanza di carattere editoriale e di lungimiranza. Pippo s’impaniò nella sua rabbia e nel suo forte desiderio di rivalsa. Alzò il limite della denuncia a un’altezza tale che l’establishment, quello opaco e nascosto, quello che si arricchiva senza togliersi i guanti, non poté sopportare. Il potere cittadino non era preparato, non era maturo, non era intelligente, non era furbo. Era semplicemente stupido e arrogante. Il potere mafioso, quello dell’argot etneo del parlare fumoso e per metafora (’a baccagghiu), gli correva parallelo. Seppure sussidiario ai neo-vicerè “di spade, di mazze, di coppe e di oro”, secondo l’arguzia di Tino Vittorio, aveva già i suoi capibastone e il suo programma 301 d’Oriente. Catania apprese la notizia con sgomento, il giorno dell’Epifania, ma poi si convinse che non poteva essere un omicidio mafioso e se ne convinse per paura. A quel punto cominciò a scorrere nelle sue vene il sangue guasto della maldicenza. Si disse che il giornalista era stato ammazzato per “questione di femmine”; anzi, qualcuno precisò che di mezzo c’era la donna di un malavitoso. Si scavò nella sua vita, furono setacciati il suo povero conto in banca, quello dei familiari e dei suoi collaboratori; si fece di tutto per seppellire la verità, semplice e tragica, con una montagna di crudeli ipotesi, chiacchiere, disonestà. Perché quella verità metteva a nudo una città più complessa e misteriosa di quanto si credesse, una città del sottosuolo ben più articolata e labirintica, crudele e spietata, rispetto alla città del sole e delle stelle, dell’arguzia e della intelligenza, che i catanesi erano abituati a vedere e a vantare. Fu dunque più comodo chiudere gli occhi e concentrarsi su un uomo solo, e alla fine abbatterlo, anziché guardare nell’abisso che si era aperto. Meglio la semplificazione della realtà che la sua mefitica articolazione, meglio passeggiare per via Etnea, andare al cinema, inorgoglirsi della fatuità della vita che andare dietro le quinte del palcoscenico e finalmente “vedere!” I catanesi, invece, secondo il giudizio dell’attuale vicedirettore di La Sicilia, Domenico Tempio, “continuarono a distogliere lo sguardo”. Analogo giudizio avrebbe espresso Alfio Caruso nel suo libro Perché non possiamo non dirci mafiosi: “Ma esistono i catanesi per bene? Sì, tutti noi siamo per bene, ma quante volte ci siamo dovuti voltare dall’altro lato o quante volte abbiamo dovuto far finta di non vedere”. In altre parole, Catania nulla sapeva ma nulla voleva sapere. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera qualche settimana dopo il brutale assassinio, Alfonso Madeo tentò un ritratto di Catania e del clima “malsano” e “avvelenato” che vi si respirava. Parole come pietre. A un certo punto un giovane magistrato, 302 intervistato dal giornalista, disse: “Viviamo nel più alto tasso di illegalità”. E un altro, meno giovane ma non meno sconsolato, aggiunse: “Il tasso di corruzione ha raggiunto in questa città indici inimmaginabili”. Dopo quasi vent’anni dalla selvaggia esecuzione mafiosa, la Cassazione ha confermato in via definitiva le condanne inflitte agli esecutori: ergastolo per Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, sette anni “patteggiati” per Maurizio Avola. Nulla a che vedere con le denunce televisive di Report, tutto sommato innocue e sopportabili, che hanno strapazzato nel marzo del 2009 l’amministrazione municipale e il direttore de La Sicilia, Mario Ciancio, al quale mi legano amicizia e antica riconoscenza, ma che tale debito non può impedirmi di cogliere la contraddizione tra il suo ruolo di direttore, e proprietario dei mass media etnei, e quello di imprenditore. Per il servizio di Report i suoi avvocati avevano chiesto alla Rai una secca e ripetuta smentita nonché dieci milioni di risarcimento danni (da devolvere in beneficenza). I giudici di primo grado gli hanno dato torto e l’hanno condannato alle spese legali: trentamila euro. Di recente sono andato a rileggermi il libro di Claudio Fava dedicato al padre. A un certo punto, con la mente limpida e onniveggente di chi ha molto sofferto, con amore e rabbia, egli dice: “Loro, i mafiosi, vivono sempre di parole brevi, azioni essenziali. Noi di pensieri troppo alti. Loro hanno imparato a conoscere e a governare i dettagli. Noi ci siamo lasciati sedurre dalle coreografie, dai fondali colorati. Pochi, in questi anni, hanno compreso la geometria di quei pensieri minimi: e sono stati puniti con la morte, tutti”. Il crimine è manifestazione bestiale ed ha scuri fondali, l’onestà ha quinte di colori abbaglianti perché appartiene al ragionamento e alla giusta azione. Quale poi sia la Giusta Azione, che può concepire nell’intimo ognuno di noi, non è facile dire. Si potrebbe rispondere partendo dal celebre monologo di Amleto Essere o non essere: “… così la coscienza ci fa tutti vili, e così la tinta nativa della risoluzione è resa malsana dalla pallida cera del 303 pensiero, e imprese di grande altezza e importanza per questo scrupolo deviano le loro correnti e perdono il nome di azione”. Non perdere l’Azione dunque ma agire recuperando la giusta coscienza. Non con la vendetta come fa Amleto, che spezza le catene del dubbio e vendica il padre, ma con la razionalità della denuncia. In fondo, l’azione politica e morale di Claudio Fava mi pare una Giusta Azione. Per essa ha pagato un altro durissimo prezzo: l’isolamento. Non riferirò le cattiverie gratuite di molti benpensanti, che nulla nella loro vita hanno rischiato se non qualche linea di febbre, e i loro giudizi approssimativi e ingenerosi su un ragazzo che chiedeva solo la verità: non la verità filosofica, sulla quale tutti siamo pronti a concionare, ma la verità semplice e terribile sulla morte del proprio padre. Massacrato lui, massacrata la sorella Elena, ragazza buona e intelligente, che era cresciuta nello stupore del mondo ed è finita per raccoglierne il dolore. Il libro che ho citato s’intitola Nel nome del padre che è il titolo del bellissimo film di Jim Sheridan uscito nel 1993 e accolto con grande favore dai critici e dal pubblico: Orso d’oro a Berlino e David di Donatello a Roma nel ’94. È la storia di un giovane irlandese, Jerry Conlon, che viene accusato ingiustamente di un attentato e condannato con prove prefabbricate. Il padre Giuseppe fa di tutto per dimostrare l’innocenza del figlio ma viene anche lui condannato per favoreggiamento. I bui, dolorosi, angoscianti anni di carcere vedono rinsaldarsi i rapporti tra padre e figlio e segnano la parte più alta e commovente del film. Quando il padre muore, per le dure condizioni carcerarie, Jerry ritrova la forza di continuare a lottare per l’innocenza del padre e quella propria. Alla fine, grazie a un’avvocatessa, ottiene giustizia e libertà. L’esempio di Jerry Conlon, che si batte come un leone per ridare onore al nome del padre Giuseppe (altra coincidenza), credo sia stato per Claudio Fava alimento e conforto per non arrendersi di fronte al muro di gomma e di sabbia d’una società assente e miope. La 304 vita ha strani percorsi che talvolta s’intrecciano col cinema, spesso in un rimando continuo di riflessi e di esperienze. Claudio Fava non poteva non intitolare l’omaggio al suo illustre e battagliero genitore come il film di Sheridan, Nel nome del padre, In the Name of the Father. Quella di Pippo Fava fu una battaglia giusta perché aprì scenari malavitosi fino a quel momento impensabili, perché rivoluzionò e contribuì a ripulire l’economia d’una città basata in rilevante misura sull’intrallazzo, su collusioni criminali, sul quieto vivere, sulla viltà. Fu una battaglia giusta perché ci svegliò dal letargo e ci mise di fronte alle nostre responsabilità. Spero che la terra gli sia leggera, per riprendere una celebre battuta di Erich Von Stroheim ne La grande illusione di Jean Renoir, il film che il presidente Roosevelt elogiò con queste parole: “Tutti i democratici del mondo devono vederlo”. “Que serà, serà/ whatever will be, will be/ the future’s not ours to see/ que serà, serà/ what will be, will be…” “Quel che sarà, sarà. Non ci è concesso di vedere il futuro. Quel che sarà, sarà”. La bellissima canzone, che magicamente, e misteriosamente, si collega a quanto appena detto, era il marchio di fabbrica di Doris Day. La cantava ne L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock, anno 1956. Non se la cavò male in quel film, anche se lo girò col pensiero costante che il regista l’avesse scelta come cantante e non come attrice e che al suo posto rimpiangesse Grace Kelly, appena diventata principessa di “sangue irreale”. Se Lana Turner era la donna del peccato, lei era la donna della redenzione. Antonia Bonomi ne fa un ritratto perfetto: “Bella ma non da turbare il sonno, moglie ideale per lui, modello per tante signorine di buona famiglia che si vedevano padrone di casa come lei, indaffarate e perfette, magari anche canterine e magari con un marito bello come i suoi splendidi partner”. Per anni il suo nome è stato garanzia di 305 successo, anche se le storie raccontate nei film erano più o meno le stesse e lei, al centro di vaporose scenografie e finti drammi, immancabilmente prometteva la propria virtù soltanto a chi l’avesse sposata. Quando le proposero la parte di Mrs. Robinson, l’amante del giovane “laureato” Dustin Hoffman, rifiutò scandalizzata: “Questo film offende i miei valori morali”. Aveva una bella voce, calda e romantica. La canzone Que serà, serà di Jay Livingston e Ray Evans vinse l’Oscar battendo quell’altro bellissimo motivo di Cole Porter, True love, cantanta da Bing Crosby e Grace Kelly in Alta società di Charles Walters. Tre anni prima, l’attrice aveva portato al successo dell’Oscar un’altra bella canzone, Secret love di Sammy Fain. Il film è Non sparare, baciami! di David Butler. Fu il marito manager, Marty Melcher, a amministrare i suoi beni e a impedirle di uscire dai consueti ruoli caramellosi che la rendevano sì una bambola di carne fin troppo perfetta per essere vera ma che le assicuravano alti profitti. Quando Marty morì, però, Doris si accorse che il marito le aveva dilapidato il patrimonio, stimato in parecchi milioni di dollari. Una volta soltanto, nel 1955, lasciò l’ampia gonna e i tacchi alti, i capelli freschi di parrucchiere e il sorriso stereotipato per entrare nella parte di una cantante degli anni Venti, fatale e volgare, che viene strapazzata dal gangster sciancato e crudele James Gagney. Il film, Amami o lasciami, era firmato da Charles Vidor e prese solo l’Oscar per la sceneggiatura. Alla cerimonia di premiazione c’era il piccolo e cagnesco James. Dal palco, Jerry Lewis, in veste di presentatore, lo vide e finse di rimproverarlo: “Con Joan Crawford si può fare, con Doris no”. Il pubblico si divertì molto. Strapazzare Doris Day era come strapazzare l’idea stessa della donna americana, perfetta in cucina e a letto, madre e moglie esemplare, cotonata e sorridente, irreprensibile e devota… anche quando il marito le mangia la dote e magari la tradisce. 306 C’era una ragazza a Catania che in qualche modo le assomigliava. Come Doris era bionda, come Doris portava gonne a campana e come Doris era molto corteggiata. Aveva una sorella più piccola e più alta, bruna e simpatica. Se debbo misurare quelle strepitose premesse con ciò che le accadde dopo debbo dire che il suo futuro fu assai modesto. Si sposò con una brava persona, credo, ma insignificante, si armò un negozietto di oggettistica al corso Italia e forse pensò che tutto sommato era stata fortunata. Poteva accadere che me la sognassi di notte, e poteva accadere che me la sognassi anche di giorno mentre viaggiavo con altri disperati alla volta dell’Etna innevato, mentre lei, nelle prime file, cantava con voce argentina: “Quel mazzolin di fiori…” e gli altri rispondevano in coro: “Che vien dalla montagna…” E poi, lei, sempre con la sua voce di zucchero filato, continuava: “E bada ben che non si bagna che lo voglio regalar.” Sorrideva a questo e a quello, soprattutto a quello, che era un ragazzo alto e scuro, con gli occhiali, che le faceva disperatamente la corte e disperatamente finì che le strappò un bacio e una promessa. È morto da un sacco di anni. Allora mi parve il ragazzo più fortunato del mondo. 307 QUATTORDICI Janet Leigh, Jeanne Crain, Anne Baxter Si può entrare nella storia in 45 secondi? Il 45 è un numero magico e terribile. Ci vogliono 45 secondi perché il sodio pentotal e il cloruro di potassio facciano il loro effetto sul corpo del condannato a morte. E 45 secondi furono calcolati perché l’Enola Gay, dopo avere scaricato la bomba atomica, avesse il tempo di allontanarsi dal campo della tragedia di Hiroshima. Di solito, i messaggi pubblicitari hanno bisogno di 45 secondi per raggiungere il loro effetto persuasivo. Vedi lo spot del Comune di Napoli contro le estorsioni (“Il racket è un cancro che ti soffoca”) o quello anti-pirateria rivolto soprattutto ai giovani (“Chi usa un dvd pirata è uno sfigato”). 45 secondi durava la scena della doccia nel film di Hitchcock, Psycho, con la quale Janet Leigh entrò nella storia del cinema. Ecco la risposta. E se appena rammento che la lavorazione della breve sequenza fu realizzata in sette giorni, entriamo nel mistero della cabala. Perché sette è il numero biblico della creazione, sette è la cadenza dei giorni della settimana, sette sono le grandi religioni e sette le meraviglie del mondo… insomma, in questo numero c’è come il moto circolare della perfezione. Realizzata dal 17 al 23 dicembre 1959, la sequenza dell’omicidio nel bagno consta di 70 inquadrature per le quali Janet, come ricorda Tullio Kezich, dovette restarsene a lungo sotto la doccia mentre i ponti dello studio rigurgitavano di guardoni. Ma l’attrice non era nuda. Indossava una tuta color carne con pezzi di fustagno nelle zone proibite e per le sequenze scabrose c’era una controfigura: la rossa ballerina Marli Renfro, pagata 500 dollari per il disturbo. La scansione incalzante del montaggio, il bianco e nero duro e realistico (Hitchcock lo preferì al colore per evitare che il rosso del sangue impressionasse troppo il pubblico), 308 le musiche di Bernard Hermann e l’urlo sconvolgente di Janet Leigh, che muore sotto le selvagge pugnalate di mamma Perkins, resero indimenticabile la scena. Il “suono” delle pugnalate fu ottenuto infilzando ripetutamente un’anguria. Dopo quei sette giorni di incubo, durante i quali il regista s’impegnò a spaventarla, perché entrasse meglio nella parte dell’assassinata, l’attrice non mise più piede in una doccia. Preferì la vasca da bagno. Il film fu un grande successo (costo: 800mila dollari, incasso: 13 milioni di dollari) ma fu anche un problema per la dolce e timida Janet perché fu tempestata di telefonate di sporcaccioni e maniaci che le promettevano di assassinarla nella doccia. Fu costretta a rivolgersi all’FBI. Anche Hitchcock ebbe la sua parte. Ricevette varie lettere di protesta. La più dura fu quella di un padre infuriato perché la propria figlia, come Janet, dopo avere visto il film si spaventava a farsi la doccia. Era un problema perché la ragazza da anni evitava anche di entrare nella vasca da bagno. Diceva di avere negli occhi un’altra scena agghiacciante: quella dell’affogato che emerge dall’acqua nel film I diabolici. Si racconta che il regista trovò il coraggio d’una risposta spiritosa: “Mandi sua figlia in una lavanderia a secco.” In Psycho, Janet è Marion Craine, una giovane donna che ruba i soldi al principale e nella fuga si ferma in uno sperduto motel, vicino a Phoenix, gestito da un giovane strano e gentile. Il tempo di sistemare il bagaglio, di entrare nella doccia… e di finire uccisa sotto i colpi forsennati d’una figura, che resterà sconosciuta fino al colpo di scena finale. In pratica, l’attrice entra nella pellicola e scompare quasi subito, eppure, per la scena della doccia, si merita una nomination all’Oscar che purtroppo le verrà soffiato da Shirley Jones per Il figlio di Giuda, quella stessa Jones che era stata scartata da Hitchcock per la parte di Marion Craine. Quarantacinque secondi, dunque, che misurano una carriera che pure non era stata banale. Ma il pubblico la ricorda anche per la dolcezza del suo sguardo azzurro: 309 lo sguardo di Meg in Piccole donne, il film di Mervyn Le Roy, del 1949, in cui recita accanto a Liz Taylor, June Allyson e Margaret O’Brien; lo sguardo di Aline de Gavrillac in Scaramouche di George Sidney del 1952; lo sguardo di Bess nel Mago Houdini di George Marshall del 1953, girato accanto al marito Tony Curtis. Un matrimonio durato undici anni e allietato dalla nascita di due figlie, che saranno d’arte: Kelly e Jamie Lee Curtis. Anche la seconda moglie, l’attrice austriaca Christine Kaufmann, darà a Curtis due figlie, mentre i due figli maschi, uno morto per overdose, li avrà da Leslie Allen. Poco prima di morire l’attore ha fatto parlare di sé per avere rivelato, in una ennesima biografia, che Marilyn Monroe, conosciuta e amata durante le riprese del film A qualcuno piace caldo, aspettava un figlio da lui e che il bambino sarebbe morto prima di venire alla luce. A naso, sembra una delle tante balle confezionate da Tony Curtis nella sua carriera che s’innestavano, con molta probabilità, su altre balle raccontate su molti suoi film. Di Tony Curtis ricordo un episodio. Festival di Taormina, 1986. Volevo intervistarlo per la Rai-Tv nazionale e concordammo col suo agente l’incontro al San Domenico, anziché nel caotico palazzo dei congressi. Ci mettemmo in macchina: lui e l’autista in quella fornitagli dagli organizzatori, io in quella dell’azienda. C’erano con me, se non ricordo male, l’operatore Giovanni Tomarchio e il suo specializzato di ripresa. Loro avanti, noi dietro. Ma per raggiungere l’albergo impiegammo non so quanto tempo perché l’attore non fece nulla per starsene buono in macchina ma da questa, anzi, continuamente si sbracciava e sorrideva col risultato che venne bloccato e festeggiato dalla gente a ogni svolta di strada. Indossava una giacca di lino bianca su una camicia di seta blu e un foulard marrone a mo’ di cravatta: un pezzo di Hollywood chiassoso e sonoro catapultato nelle viuzze taorminesi che pure avevano conosciuto ben altre stravaganze, 310 come quelle del pittore Ottone Géleng e del barone Wilhelm von Glöden che Taormina inventarono e resero famosa nel mondo. A un certo punto, si affacciò dalla portafinestra della propria abitazione una bella donna. Probabilmente voleva rendersi conto di quanto stava succedendo: si era, infatti, formata una lunga fila di auto festosamente strombazzanti in mezzo a nugoli di ragazzine che strillavano e chiedevano l’autografo. Vedendola, e soppesandola con occhio d’intenditore e di incallito play boy, fece fermare la macchina e andò a salutarla, con calore. La donna, naturalmente, non si sottrasse all’abbraccio e l’invitò a entrare. Solo un momento. E fu davvero un momento perché lo strepito dei clacson e il rumoreggiare delle persone stava trasformandosi in un problema di ordine pubblico. Fu cordiale e spiritoso, con quella sua faccia di eterno ragazzo, i capelli bianchi, l’espressione a un tempo divertita e perplessa che aveva caratterizzato molti suoi personaggi, a partire da Harry Houdini, il grande prestigiatore al quale Sarah Bernhardt chiese una volta se poteva farle ricrescere la gamba amputata e la cui fama, per giudizio di Bernard Shaw, era paragonabile a quella di Gesù Cristo. Donnamito, la vecchia Sarah, donna idolatrata da sterminate platee di fanatici e da un giovanissimo Oscar Wilde che quando la vide per la prima volta a Londra stese ai suoi piedi un tappeto di gigli bianchi. Janet Leigh sarebbe stata perfetta nella parte di Maddalena Fumaroli, la ragazza amata da Vincenzo Bellini quando studiava a Napoli. Un amore sfortunato: dapprima osteggiato dal padre di lei (“non do mia figlia a un suonatore di cembalo!”), poi declassato dallo stesso musicista a passatempo, dopo che era stato chiamato a più alti destini, infine spentosi dolorosamente con la morte della ragazza. Quando scrissi per il Teatro Stabile di Catania una commedia sulla vita di Vincenzo Bellini il ruolo di Maddalena fu interpretato da Mariella Lo Giudice, scelta per quel ruolo dal regista Sandro Sequi, 311 chiamato da Mario Giusti, allora direttore artistico, per mettere in scena la mia commedia. Mariella, che la morte troppo presto ha rapito, fu dolce, tenera, delicata. In una parola, bravissima. Il lavoro teatrale, rappresentato nel 1986, prima alla sala Musco e poi al Verga, sul finire della stagione, registrò successi di pubblico e di critica, anche se l’amico Domenico Danzuso sul giornale La Sicilia non sprecò gli aggettivi. Di certo, gli aggettivi li avrebbe sprecati il drammaturgo Pippo Fava, se mani assassine non ne avessero reciso la vita ribollente di generosità e passione. Di certo li sprecarono i critici del TG1 e del TG2, scesi appositamente per vedere lo spettacolo (ma lì giocavo in casa), e quelli de La Stampa e del Corriere della Sera. Un ottimo servizio realizzò anche il collega Salvatore Cusimano per il TG3 Sicilia. Dopo avere visto lo spettacolo confessò di essersi riletta la tesi di laurea per dimostrare a se stesso di possedere strumenti letterari adeguati. Qualche mese dopo Danzuso, sia detto a suo onore, rimediò con un ottimo articolo, corredato di foto di scena a colori, pubblicato sulla rivista della Scala di Milano. Per la parte di Bellini fu scelto un giovane attore, Massimo Popolizio, da poco diplomatosi all’accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico e che aveva lavorato con Luca Ronconi. La mia commedia gli portò fortuna, sia sul piano sentimentale, perché si legò a un’attrice del cast, Elisabetta Piccolomini, discendente dell’antica e nobile famiglia senese, sia su quello professionale perché da lì a qualche anno sarebbe diventato un attore di primo piano, in teatro e nel cinema. Ricordo su tutti lo spettacolo Copenaghen di Michael Frayn recitato accanto a Giuliana Lojodice e Umberto Orsini e che ho visto nel maggio del 2009 al Teatro Ambasciatori di Catania. Davvero perfetto, Popolizio, nel ruolo dello scienziato tedesco Werner Heisenberg che si rammarica, per vanità, di non essere arrivato per primo a scoprire la bomba atomica. Ma poi si consola pensando all’ipotesi, non tutta peregrina, che sarebbe potuta finire in mano ai 312 nazisti. Per il ruolo di Pacini fu scritturato Maurizio Gueli, un buon attore che per molti anni vivrà nel ricordo di quel ruolo, mentre per quello di Giuditta Cantù, l’altro grande amore del musicista, la scelta cadde su Luciana Negrini (il padre e la madre di lei furono interpretati da Enzo Tarascio e Anna Malvica). Elisabetta Piccolomini faceva due parti: la contessa Giuseppina Appiani e la principessa Cristina Trivulzio di Belgioioso. I motivi dominanti della commedia sono due: il destino d’emigrante del musicista, che deve lasciare Catania se vuole dare un senso al proprio talento, così come avrebbero fatto Verga, Brancati, Aniante; e il contrasto tra Bellini e Pacini, sulla falsariga di quello tra Mozart e Salieri.Ecco che cosa scrivevo nella prefazione al libro della commedia pubblicatomi dall’editore Giuseppe Maimone: “Il concetto dell’emigrante è uno dei fili sottili che s’intrecciano in questo Bellini in qualche modo apparentato all’Amadeus di Peter Schaffer che tanto successo ha ottenuto nei teatri e nei cinema di mezzo mondo. Un filo che lega, tra l’altro, il passato al presente e che resta un’incredibile costante della storia cittadina catanese”. In realtà, Catania, nonostante i secoli, è rimasta in fondo allo Stivale, fedele alla sua marginalità storica e sociale, ancorata al suo Ottocento borbonico e assistenzialistico. Che cosa offriva la città a un giovane di solide e romantiche speranze? Nel caso più fortunato, un posto di maestro di cappella e concerti nei salotti paesani della città. Sarebbe stato un vero peccato. Ma che cosa offre ancora oggi, qui come in tutto il Sud, a vocazione ormai colombiana, a chi ha talento da vendere e rifiuta di vendersi alla politica? Jeanne Crain, l’interprete di molte commedie romantiche negli anni Quaranta e Cinquanta, l’attrice che meglio d’ogni altra interpretò la figura della “ragazza della porta accanto”, sarebbe stata un’ottima Giuditta Cantù. La ricordo ne Il jolly è impazzito di 313 Charles Vidor, 1957, al fianco di Frank Sinatra. Il film racconta la storia, romanzata, di Joe E. Lewis, un cantante famoso in America negli anni Venti. Lei è Letty Page, grande amore di Joe, che finisce con lo sposare un altro quando il cantante, schiavo sempre più dell’alcol, la lascia per timore di rovinarle la vita. C’è una scena ad alta intensità drammatica. Lui è tornato dalla guerra, guarito e deciso a ricominciare, anche se la voce non è più la stessa. La sequenza si apre in un locale notturno con Joe che diverte il pubblico con battute come questa: “Io nego che i liquori siano dannosi. Mio zio ha bevuto un quarto di whisky al giorno per tutta la vita, e ha vissuto 28 anni”. Poi, comincia a cantare. All the way. Un motivo struggente, bellissimo, di Sammy Cahn e Johnny van Heusen. “When somebody loves you/ it’s no good unless he loves you – all the way/ happy to be near you/ when you need someone to cheer you – all the way…” Sulla frase “all the way” la voce si sgrana e lei, Letty Page, venuta a ascoltarlo col marito, trema di commozione. Lui la vede, si ferma smarrito, trova la forza di continuare… “Taller than the tallest treee is/ that’s…” ma non ce la fa, si blocca di nuovo. Lei con gli occhi pieni di lacrime non resiste, si alza e va via. E il pubblico del cinema Spadaro quella volta tirò fuori i fazzoletti. Nella particina di un faccendiere, obeso, calvo, ripugnante, c’è Jackie Coogan, il delizioso bambino che tirava sassi ai vetri ne Il monello di Charlie Chaplin, e che al grande Peppino Marotta avrebbe ispirato questa indimenticabile frase: “Vieni qui, Tempo, ho una rosa e una coltellata per te”. Undici anni prima Jeanne Crain era stata Margie, nell’omonimo film di Henry King. Interpretava due ruoli: quello della madre, che racconta alla figlia Joyce la propria giovinezza; e quello di lei ragazza ribelle, che perde sempre le mutandine (come negli spiritosi disegni delle pin-ups di Art Frahm) e s’innamora dell’insegnante di francese. Un personaggio fresco, allegro, in linea con la morale del tempo, grazie al quale 314 diventerà la fidanzatina ideale degli adolescenti americani. Le sono accanto Ann Todd, nella parte di Joyce, che il pubblico ricorderà nel film Intermezzo (era la piccola allieva di Ingrid Bergman, nonché figlia di Leslie Howard), e la bellissima Lynn Bari. Questa attrice, che si chiamava Margaret Schuyler Fisher, un giorno, durante la lavorazione del film Shock di Alfred Werkel, con Vincent Price, si vantò con la collega Anabel Shaw di discendere, per parte di madre, dal famoso eroe di guerra Alexander Hamilton. Al che Anabel, battuta per battuta, replicò che anche lei aveva un antenato famoso: Aaron Burr, l’uomo che uccise Hamilton in duello. I film migliori di Jeanne Crain sono antecedenti a Il jolly è impazzito. Nel 1949 gira tre film: Pinky, la negra bianca di Elia Kazan (una nomination), Il ventaglio di Otto Preminger e il delizioso Lettera a tre mogli di Joseph Mankiewicz che la dirigerà nel 1951 anche in La gente mormora. Tra un film e l’altro troverà il tempo di fare sette figli, quattro maschi e tre femmine, con Paul Brooks con quale stipulerà un accordo formale di “divorzio interlocutorio” in base al quale ciascuno dei due riconosceva di essere stato infedele. Undici anni dopo quel bizzarro contratto faranno pace, e resteranno insieme fino alla fine. Il primo e l’ultimo dei figli, Michael e Christopher, moriranno prima di loro. La commedia mi fruttò la Giara d’argento, che non volevo, ma l’organizzatore Alfio Di Maria si mise talmente a lima sorda che fui costretto ad accettare. Me la consegnò Pippo Baudo, nel corso d’una cerimonia in un albergo di Giardini Naxos. Fu molto carino ed io molto laconico. In quel momento il cervello mi stava fumando dalle orecchie e non capivo niente. Il 25 novembre del 2006, invitato a un convegno su Bellini, organizzato nel foyer del Teatro Massimo dall’assessorato alla cultura di Catania, ricordai il ritorno del musicista siciliano nella città natale avvenuto il 2 marzo del 1832, tre anni prima di morire. Se n’era 315 andato a diciotto anni, con una borsa di studio del Decurionato etneo, per iscriversi al reale collegio di musica San Sebastiano di Napoli e apprendere ciò che il nonno e il padre, musicisti anche loro, non potevano più insegnargli. Rientra dunque nella sua città dopo tredici anni, amato e ammirato in Italia e in Europa per avere scritto capolavori immortali come Il pirata, La sonnambula, Norma. Ed è un trionfo per ciò che la città riesce a accroccare nell’eterna limitatezza dei mezzi. Il soggiorno si protrae per oltre un mese e durante questo periodo i salotti cittadini se lo contendono per curiosità e orgoglio, per sentirsi idealmente vicini alla grandezza di un uomo che avevano visto crescere e magari ne avevano criticato la povertà ma che adesso innalzano senza sforzo sui loro modesti altari pensando che un poco di quella gloria appartenga anche a loro, quanto meno per diritto di cittadinanza. La città, al solito, è disorganizzata. Se a Messina il musicista è stato festeggiato con una dignitosa rappresentazione de Il pirata al teatro La Munizione, a Catania non si riesce a trovare una compagnia di canto che si faccia onore. La ragione è semplice: la stagione lirica, quell’anno, è stata annullata per mancanza di un direttore artistico. Quello che c’era, Pietro Antonio Coppola, se n’è andato, stanco della provincia e magari del facile applauso. Che cosa fa allora il comitato dei festeggiamenti? Prende una via traversa. Organizza al teatro comunale una rappresentazione di un dramma a forti tinte, Atreo, scritto da un avvocato, un certo Gioacchino Fernandez, con il recondito scopo di convincere Bellini a musicarlo. L’omaggio musicale è previsto di sguincio, tra un atto e l’altro. Lo storico di queste giornate belliniane che sanno di strapaese, il Menza, non lo dice, ma il musicista si sarà annoiato mortalmente e di certo si sarà fatto confortare dal ricordo della bella amante, Giuditta Cantù, lasciata a Napoli per l’occhio sociale. Giuditta era sposata e non poteva accompagnare lo scapolo musicista nella Catania del 1832. Per la verità, lei avrebbe voluto ma Bellini, 316 che già pensava alla madre e al padre, ai fratelli e agli amici, agli ambienti clericali, aristocratici e borghesi, che certo non brillavano per ampiezza di vedute, si oppose risolutamente. Alcuni giorni dopo, in municipio, le più alte autorità cittadine lo subissano di discorsi lunghi, appassionati e sconclusionati, più per mettere in mostra se stesse che per lodare l’ospite. L’unico discorso serio, a giudizio di Francesco Pastura, lo fa a nome dell’università il prof. Mario Musumeci che però ha l’imprudenza di preannunciare il conio d’una medaglia d’oro a ricordo della storica visita, da donare a Bellini. Il Decurionato se ne dimentica e il musicista ci rimane molto male. Nei salotti catanesi si parla di musica, ovviamente, di donne, di sovrani e di principi, ma si parla anche dell’isola Ferdinandea sorta come per incanto al largo del mare di Sciacca e sprofondata dopo appena cinque mesi, lasciando di stucco le tre grandi potenze (Francia, Inghilterra e Regno delle due Sicilie) che ne avevano conteso il dominio. L’isola, in realtà un piccolo vulcano in eruzione, che adesso giace spento a pochi metri sott’acqua, era emersa il 5 luglio dell’anno prima e si era inabissata in dicembre. Dunque, la notizia è ancora fresca e i particolari certo impressionano Bellini che è superstizioso. Lui, che si definisce “un isolano isolato”, vede come un sinistro presagio quell’isola che sorge e sprofonda, un’isola che non c’è più, un’isola (la Sicilia) che forse non tornerà più a rivedere. Noi che sappiamo la storia, per facile sapienza di posteri, possiamo dire che quel presagio si rivelò esatto e funesto. Bellini non è solo la sua musica. Certo, è soprattutto questo: melodia, canto, impegno, sapienza… per cui i catanesi doc ogni volta che ne parlano lo immortalano con questo concetto. “A chissu ci ’a ponu annacari” (non traduco, ma nella sua volgarità è un complimento). Tuttavia Bellini è anche la sua vita, la sua fine, le sue donne, le sue manie. Nel gilè teneva un corno di corallo che toccava continuamente. Lo tormentò, fino a non sentirlo più tra le dita, quando il poeta tedesco Heine per 317 cieca gelosia gli preannunciò una morte prematura. “I geni muoiono presto”, disse “e voi, non c’è dubbio, siete un genio!” Alcune settimane dopo il musicista si spegne in perfetta solitudine, sprofonda, è il caso di dirlo, in quella sorta di isola periferica che allora era Puteaux, un sobborgo di Parigi dove adesso sorge il moderno quartiere Défense. Sprofonda vicino alla Senna, come l’isola Ferdinandea: un pezzo di terra che s’inabissa nell’anonimia del mare, misterioso e fragile, quasi fosse un’apparizione, come in fondo era stata la vita di Vincenzo Bellini. Bellini tornò per sempre nella sua città natale quarantaquattro anni dopo, coi piedi in avanti e con tutte le sue opere, che includevano naturalmente Beatrice di Tenda e I puritani scritte tra il 1833 e il 1835 anno della morte. A leggere le cronache di Antonino Amore sulla traslazione del feretro del musicista dal cimitero Père Lachaise alla cattedrale di Catania si ha il segno preciso dell’idolatria del popolo catanese per Bellini. Ma le onoranze funebri furono grandiose non solo perché si dava finalmente degna sepoltura a un figlio illustre ma perché si rimediava a una sorta di rimorso collettivo. La notizia della morte del musicista era arrivata in città come una frustata. Incredibile, dolorosa, annichilente. La gente s’immaginava il suo Vincenzo tra le braccia delle sue dame, cosa che ai catanesi fa sempre piacere, lo credeva nell’applauso del pubblico europeo, nei salotti che contano, immerso nel lusso, nella ricchezza e nell’ammirazione. L’avere saputo che era spirato in perfetta solitudine, vegliato da un giardiniere, mentre i padroni di casa se n’erano fuggiti a rotta di collo, forse temendo un contagio di colera, li fece sentire di pezza. Come se avessero potuto ritessere il filo del suo destino, ancorarlo magari alla loro sana mediocrità per non vederlo spezzarsi. Ancora oggi se parlate con le persone minute, quelle che più lo amano, magari non conoscendo perfettamente le sue opere, vi diranno: “Povero figlio!” E povero figlio potrebbero dire i critici più esigenti 318 quando vedono le opere del maestro rappresentate quasi sempre da compagnie mediocri, a volte nemmeno dignitose, quando Bellini, nella sua città, meriterebbe il meglio del meglio. Il meglio mondiale, cioè, il meglio che offre la piazza. Ma si dice sempre che non ci sono soldi, che lo Stato è avaro, la Regione pure e il Comune anche. E non parliamo dei privati. Ben sapendo che si fa grandemente torto a un musicista che aveva una preoccupazione maniacale per l’esecuzione delle sue opere, pretendeva che venissero interpretate dai migliori artisti perché lui quei drammi li aveva scritti su alte e impegnative tonalità. Le opere di Bellini sono difficili perché si basano più sulla voce che sullo strumento, e se i cantanti non hanno ugole d’acciaio e morbidezza di colori è meglio non metterle in scena. Ora, considerato che i soldi sono sempre pochi, che pubblico e privato sono santi che non sudano, né probabilmente si può indurli a sudare, non sarebbe più onesto mettere in cartellone una sola opera belliniana e farne un evento mondiale, anziché vivere di rimessa, accontentarsi delle briciole, allestire stagioni altisonanti di nome e scarse di contenuto? Se proprio si vuole allestire un cartellone canonico, con le classiche opere di repertorio, qualche novità come Il sasso pagano (m’è rimasto in mente e non l’ho più scordato: una noia immortale)… se proprio si deve fare, se proprio dobbiamo accontentare i patiti del balletto, del “Vesti la giubba”, di “Quella pira”, di “Una furtiva lacrima”, del “Coro muto” e di “Un filo di fumo”, allora bisogna anche qui avere il coraggio di rompere col passato, con il finto impegno, con le scelte comode e senza rischio. Occorrerebbe cioè affidare le opere di repertorio ai giovani, a quelli ancora freschi di studio, andare in giro per i conservatori di mezzo mondo e scritturare le voci più promettenti, allestire un cartellone soltanto per loro. Qualcuno prenderà una stecca o non avrà il fiato sufficiente? Pazienza. Sono giovani. Lo sappiamo. E lo diciamo. Ma investiamo su di loro, non sui finti professionisti, non su quelli che sembrano e non sono. 319 Anziché mettere in scena una Traviata che ci trafigge il cuore all’acuto del solito soprano di serie C, che con mestiere cerca di mascherare la propria incapacità, lasciamo che sia la giovane esordiente a farci sorridere, e magari potrebbe accadere che l’applauso di incoraggiamento si trasformi in ovazione. E invece no. Le novità che si imbastiscono sono goliardiche più che culturali. Durante il carnevale del 2008 il sovrintendente di fresca nomina, Antonio Fiumefreddo, trasformò il teatro in sala da ballo per il divertimento di alcune centinaia di sfaccendati. Catania stava affondando nei debiti, strade e piazze erano al buio, la disoccupazione si mangiava le cronache locali e l’avvocato Fiumefreddo, messo a quel posto perché da ragazzo suo padre lo portava ad assistere agli spettacoli lirici, si fece venire la bella pensata di organizzare un ballo in maschera per rincuorare la città. Un anno dopo, stanco (con qualche motivo) degli storici ostruzionismi in seno al teatro, minacciò di dimettersi, più volte. Alla fine, visto che nulla cambiava e con un rosso di bilancio preoccupante, trasformò le dimissioni “revocabili”, in verità piuttosto comiche per il loro imbarazzante numero, in dimissioni “irrevocabili”. Per pentirsene, però, subito dopo. Il sindaco Stancanelli, irritato e indispettito per quella mancanza di serietà, mise fine alla telenovela. Cambiò le chiavi dell’ufficio e proibì all’ex sovrintendente di avvicinarsi. Storia finita si dirà. Macché. Fiumefreddo, politicamente sostenuto in un primo momento dal dominus Lombardo, ricorse al Tar che gli diede ragione rimettendolo in sella ma con ciò provocando l’ira degli orchestrali, tacciati di “mafiosità”, che hanno protestato e reso impossibile la vita del teatro. Alla fine, Fiumefreddo s’è convinto a lasciare. La provincia è la nostra dimensione, la provincia dove tutto è semplice e senza rischi, dove le porte si aprono con qualche pubblicità ben piazzata e nessun critico si azzarda a parlare o scrivere male di uno spettacolo. E siamo al concetto di prima. Tutto è bello e 320 magnifico. Perché siamo tutti amici, perché più o meno direttamente ci guadagniamo qualcosa, perché ci dispiace, perché la provincia ci opprime con le sue leggi sociali. Noi ce la cantiamo e noi ce la suoniamo. A volte, sembriamo tanti bambini che si mettono di fronte allo specchio e si dicono le bugie per non affrontare la realtà. Catania assomiglia a una città di orecchianti e di lamentatori. Nessuno che stia al posto giusto, nessuno che faccia il lavoro per il quale abbia le competenze. Siamo una città di vanagloriosi e di pettegoli. Non rispettiamo i figli che abbiamo ma solo quelli che trovano rispetto altrove. Beninteso, sempre che questo non costi nulla, non costi cioè più dei sorrisi e delle belle parole, non costi nulla alla politica e ai suoi maneggi. Il 1876 non è solo l’anno della traslazione del corpo di Bellini è anche l’anno dell’inchiesta sulla Sicilia di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino. Erano trascorsi appena quindici anni dall’unità d’Italia e i due inviati del governo videro una terra bellissima, di fiori e di frutti, ma anche una terra di mistero. Nel momento del massimo orgoglio cittadino, proprio quando l’isola festeggiava il rientro dell’amato artista nella città natale, la miseria, il degrado sociale, la delinquenza, la corruzione costituivano il reale sostrato della società, al di là delle sue feste e delle sue luminarie. Forse da quel tempo lontano la Sicilia è diventata metafora dell’isola Ferdinandea, l’isola che sorge e sprofonda, l’isola che non c’è più. Isole che sorgono e scompaiono, dunque, isole che si legano tra di loro, isole vicine e lontane. ISOLE. Nell’estate del 1925 il futuro premio Nobel della letteratura, Halldòr Kiljan Laxness, venne in vacanza a Taormina. Aveva ventitre anni e un acuto desiderio di conoscere l’altra faccia dell’Islanda, la faccia assolata e povera della Sicilia, l’isola del sole, l’isola che dalla sua fredda patria egli vedeva come la terra del mito, la terra di Ulisse e del ciclope Polifemo, di Aci e Galatea, di 321 Aretusa e della Fata Morgana. Scese alla pensione Riis, a due passi da corso Umberto, e misurò l’orizzonte del caldo mare di Naxos con quello del Nord Atlantico, al confine del Circolo polare artico. E pensò che non ci fosse poi tanta differenza. In fondo: due isole, due difficoltà, forse un destino comune. Il pensiero gli si radicò nella mente quando entrò in contatto con la cultura siciliana, quando, con ogni probabilità, conobbe i romanzi di Giovanni Verga, da poco scomparso, che aveva raccontato il dolore del mondo facendone un’epica immortale. E il giovane Laxness, che voleva diventare un grande romanziere anche lui, in poco meno di un anno imparò, cantando, la lingua italiana ed entrò in sintonia con gli uomini di mare e quelli di terra dello scrittore verista siciliano. Quella gente era maledettamente simile alla sua: uguale la miseria, uguali le privazioni e le speranze, l’orgoglio e la cocciutaggine, la volontà indomita di sopravvivere alle avversità. Quando tornò in patria definì il suo destino di scrittore. Scrisse Salka Valka, che può essere avvicinato a I Malavoglia, alla vita oscura e miserabile dei pescatori di Trezza; e scrisse Gente indipendente il cui protagonista, il contadino Bjartur di Sumarhús, ha la stessa cieca ostinazione di Mastro-don Gesualdo. Questa idea mi ha accompagnato fino a Reykjavik, la capitale d’Islanda, dove nel maggio del 2007 sono andato a raccogliere un antico sogno, il sogno bambino di vedere le balene e gli uomini aggrappati a quello scoglio ancora più lontano dell’immaginazione, di camminare sul ghiacciaio più grande d’Europa e di ammirare i fiumi che scorrono moltiplicati all’infinito, di tuffarmi nelle calde acque della Laguna Blu e da lì godermi la visione del freddo. Ma tutte queste cose non ho visto e non ho fatto. Eppure, ho attraversato lo stesso la mia infanzia. L’Islanda è come l’Etna alle alte quote. La sabbia nera che si distende nelle periferie della capitale è la sabbia dei vulcani spenti di Nicolosi e di Linguaglossa, le fumarole di Strokkur sono come i nostri hornitos che sprigionano vapore e zolfo alla base 322 del cratere centrale, la vegetazione stenta assomiglia ai licheni di quota duemila, e il vento, il vento ossessivo che pettina la neve eterna di Vatnajökull e penetra nelle ossa, è il vento che flagella la nostra inquieta Montagna. E la gente? Com’è la gente di quest’isola di ghiaccio? È come ce la descrive Laxness? Forse sì, a patto che prendiamo per buone della nostra gente anche le descrizioni di Verga. Due popoli forti, senza dubbio, temprati lassù dal gelo e dal mare in burrasca e quaggiù dal sole che spacca le pietre e dallo scirocco che non redime. Lassù una volta c’erano le famiglie povere di Oseyri, nel fiordo nebbioso di Axlar, e quelle della brughiera di Gunnvör; quaggiù c’erano le famiglie dei pescatori di Trezza, sferzate dalla miseria e dalla sfortuna, e quelle delle campagne di Vizzini, condannate al duro lavoro dei campi, senza speranza di migliorare, senza speranza comunque. Eppure, se dovessimo paragonare il cammino di quelle famiglie, distribuite in paralleli così distanti, affacciarci all’oggi, ai pronipoti, diremmo che no, non siamo proprio uguali. Siamo partiti dalla stessa povertà è vero ma siamo approdati su lidi diversi. Come se il freddo lassù avesse tracciato, come dire?, la linea del tulipano e qui, da noi, fossimo rimasti inchiodati alla linea irredimibile della palma, secondo la definizione di Leonardo Sciascia. Tutto ciò che vive al di là di quel fiore olandese s’innerva di solitudine e di freddo, ma esprime una ricchezza e una civiltà che noi del Sud profondo certo invidiamo, forse perché la Sicilia ha conosciuto la complessità del barocco e l’Islanda la semplicità delle lamiere di ferro ondulato che ricoprono le sue case di legno. Noi, per approdare a una faticosa modernità, abbiamo impiegato secoli di dottrina; loro sono piombati nel benessere in cinquant’anni, grazie alla geotermia e al fatto che tutti insieme non raggiungono la popolazione di Catania. Alla domanda se nell’isola non facesse troppo freddo per vivere felici, una volta lo scrittore Thor Vilhjalmsson rispose: “Noi islandesi abbiamo la fortuna di camminare con i piedi al caldo: 323 sotto la terra scorre il fuoco… mentre la corrente del golfo addolcisce il clima”. A girarla, l’Islanda, ti serra il cuore per la luce accanita che in primavera s’attarda fino alle soglie della notte che non è mai notte, solo un chiarore stanco, e per il vento che s’alza dal mare e dalla terra e non ha scrupoli di un povero siciliano che s’incammina per le stradine colorate della capitale imbacuccato come nel film Totò, Peppino e la malafemmina mentre i ragazzi girano in maglietta. Ti serra il cuore e ti ammalia quando scendi fino a Selfoss e visiti il villaggio di Stokkseyri dove agli inizi dell’Ottocento visse Thurídur Einarsdottír, una donna che per tutta la vita lavorò nei pescherecci e fu processata perché indossava abiti maschili, allora proibiti. Ed è a questa donna ribelle che Laxnesss’ispirò per il magnifico personaggio di Salka Valka. E la immaginò scrutare la burrasca dal piccolo molo insicuro come le donne dei pescatori di Trezza, le donne de La terra trema di Visconti, e le diede una casa angusta, come la casa del Nespolo, e le diede anche un sogno, il sogno di padre ‘Ntoni che s’azzardò a ribellarsi al destino e finì col perdere la barca e un figlio. Se appena t’inoltri nei campi di lava, fin sotto i ghiacciai, nella brughiera, dove ora sorgono efficienti solitarie fattorie, vedi nel fumetto che ti sei disegnato nella mente leggendo Gente indipendente i contadini di Laxness, la gente che nasce e muore mangiando pesce di scarto, allevando pecore in cambio di un’assurda idea di speranza, come i contadini di Verga, mentre la piccola borghesia si arricchisce scremando quella squallida miseria. E mai come in questa somiglianza di dolore vedi un solido legame tra le due isole. Ma la vera anima dell’Islanda, l’anima vichinga che la possiede, si trova nel parco nazionale di Þingvellir, nella parte più fantastica e terribile dell’isola, al confine tra la zolla europea e quella nordamericana. Lì nel lontanissimo 930, quando l’Europa era in preda all’intolleranza più cieca, sorse l’Alþing, l’assemblea nazionale islandese, considerata dagli storici il primo 324 parlamento al mondo. Un’assemblea all’aperto dove si varavano le leggi, si componevano le dispute legali e si facevano affari. Questa era, questa è, l’Islanda del merluzzo e delle balene, delle aringhe e dei pulcinella di mare, l’isola della discussione e dell’orgoglio, l’isola che non c’è per tutti i paralleli dove si producono più discariche illegali che idee. Il ricordo che ti porti lasciando questo Paese straordinario, pulito come l’aria che vi si respira, più caldo del suo clima, meno austero di quanto farebbero supporre i suoi panorami terribili e profondi, è una sorta di rinnovamento, e ritrovamento, dello spirito. Un ricordo e due immagini che si saldano alla nostra storia siciliana, anch’essa magnifica e antica: l’immagine di un pescatore, nella cui faccia puoi leggere la fatica e la bellezza della vita, e l’immagine di un contadino-pastore che a schiena curva conduce il suo gregge alla capanna. In simboli come questi ho ritrovato la mia cara, amata, anche se talvolta intollerabile, Sicilia. Terra impareggiabile la giudicò Halldòr Laxness che dal suo alberghetto taorminese poteva tranquillamente ammirare la maestà dell’Etna, le sue nevi e il suo lento ribollire, e affermare che quello spettacolo era anche un pezzo della sua patria lontana. Ma è tempo di tornare alle mie dive. Dicevo poco fa della Giara d’argento che mi fu consegnata a Giardini. In quella cittadina, una quindicina d’anni prima, avevo condotto per il mio giornale un’inchiesta sullo scempio edilizio portato avanti da una giunta comunale corrotta e meschina. Mi ricordo che in una notte furono approvate oltre 500 licenze edilizie, nemmeno il tempo di dare una scorsa ai documenti. Il litorale di Naxos, l’antico insediamento greco, un posto di una bellezza incomparabile, fu deturpato orribilmente: decine di condomìni vennero costruiti sul demanio e le strade tracciate secondo criteri nemmeno borbonici. Niente fognature, niente spazi verdi, niente di niente. Pura speculazione, puro vergognoso arricchimento. L’articolo fece scalpore. 325 Qualche giorno dopo, mentre mi trovavo in un ristorante del golfo di Giardini, assieme al corrispondente locale, Giuseppe Di Bernardo, oggi purtroppo scomparso, fui avvicinato dall’ex sindaco della città, tra i responsabili dello scempio. Dapprima fu cortese poi se ne uscì con questa frase: “Ma a lei nessuno mai ha promesso una bella legnata?” Per la verità disse: “‘Na bedda sugghiata di vastunati”. Avrei potuto denunciarlo. Ma mi fece pena. La cosa che non mi aveva perdonato non era tanto l’accusa di avere contribuito a rovinare un intero litorale quanto quella di avere scritto che i libri della sua biblioteca erano più o meno chiusi nel cellophane, e quindi non letti. Passava per l’intellettuale del paese. Quell’orrendo grumo di palazzi, ville e alberghi diventerà una sorta di Los Angeles dei poveri, secondo il giudizio dell’amico Vittorio Corona, allora direttore di Moda e King, morto qualche anno fa a Milano. Di lui ci restano il talento, un’urna cineraria e il dolore della moglie e dei tre figli maschi che lui definiva “i miei moschettieri”. Orrendo grumo urbanistico, dunque. Se il grande architetto americano Frank Lloyd Wright l’avesse visto lo avrebbe definito un immondezzaio. L’architettura ideale di Wright, detta “organica”, era tagliata su misura per l’uomo, pratica ed essenziale; doveva essere disegnata per l’individuo e crescere attorno a lui come se fosse il suo corpo. A Giardini Naxos di “organico” c’erano solo i rifiuti urbani che trovavano allegramente la via del mare, nell’ampia distesa marina dove i proprietari dei nuovi condomini di sabbia andavano tranquillamente a fare il bagno. Frank Lloyd Wright, forse il più grande architetto del Novecento, era il nonno di Anne Baxter, l’attrice che il critico Andrew Sarris giudicò una di quelle donne che brillano d’una luce speciale dalla mezzanotte alle cinque del mattino. Se dovessi definirla con un’espressione siciliana direi che Anne Baxter, con quel suo viso angelico e con quei suoi occhi freddi era la tipica donna che allunga la gamba per far ruzzolare l’avversario dalle 326 scale e prontamente la ritira; poi magari si precipita a soccorrere la vittima. Del resto, in Eva contro Eva di Joseph Mankiewicz, del 1950, è ciò che fa a Bette Davis. Allunga la gamba per mettere fuori combattimento la grande diva che pure l’ha accolta con fiducia e lanciata nel mondo del teatro. Grande attrice, Anne Baxter. È grande in Il filo del rasoio di Edmund Goulding (1946), col quale ottiene il suo primo Oscar come attrice non protagonista; è grande in L’orgoglio degli Amberson di Orson Welles (1942); è grande in Io confesso di Hitchcock (1953)… fino a quando non se ne va col secondo marito, Randolph Galt, ad allevare bestiame in una landa desolata dell’Australia. Poi torna. Qualche film, qualche lavoro in TV, una vita di madre, una vita noiosa, una vita da reduce del cinema. Ha avuto tre figlie: la prima, Katrina, dal primo marito, l’attore John Hodiak; le altre due, Melissa e Marginel, da Galt. Katrina, dopo qualche esperienza nel cinema, si è ritirata e vive felicemente col marito e i figli. Melissa sta ad Atlanta e fa la disegnatrice di interni, l’unica che in qualche modo ha cercato di seguire le orme del bisnonno. Marginel è una suora cattolica e vive a Roma. Anne Baxter è morta nel 1985 a New York per aneurisma cerebrale. Aveva sessantadue anni. Quale ruolo avrebbe potuto ricoprire Anne Baxter nella mia commedia? Continuando il gioco, avrebbe potuto essere madame Olivier, che sulla scena siciliana ebbe il volto e la parola di Berta Ceglie. Madame Olivier era la compagna del faccendiere ebreo Lewis nella cui casa d’affitto Bellini trascorse gli ultimi mesi di vita. Una coppia d’imbroglioni, madame e mister Lewis, che misero nel sacco il povero musicista fregandogli i soldi e lasciandolo morire come un disperato. Nessun rimorso ebbe madame Olivier, che pure tante volte era scivolata nel suo letto, ad abbandonarlo quando immaginò che stesse morendo di colera. Anne Baxter avrebbe dato alla signora Olivier, dal passato poco rispettabile, un diverso e più profondo spessore, oltre all’ambiguità e all’insospettabile 327 ipocrisia che l’attrice aveva magnificamente sperimentato nel ruolo di Eva Harrington nel già citato film di Mankiewicz. Fu un momento magico quello del mio debutto teatrale. Per circa il mese e mezzo di rappresentazioni vissi una felice stagione di autostima, che fino allora non conoscevo, e che raramente avrei provato in seguito. Mio padre ne sarebbe stato felice. Avrebbe avuto finalmente la prova provata che suo figlio era ciò che lui pensava, un figlio speciale, un figlio di cui andare fieri. In verità, ero solo un figlio attento, un figlio che ha preso la vita sul serio, senza concedersi un momento di trasgressione, di follia. Uno cheha lavorato, insomma, e che forse avrebbe dovuto impegnarsi ancora di più. Di certo, mio padre sarebbe stato contento del mio trasferimento al TG1, nel telegiornale più visto e autorevole del Paese, e si sarebbe commosso nel vedere i miei servizi, nell’ascoltare la mia voce che tanto gli assomigliava. Avrebbe pensato alla sua solitaria esperienza romana alla Icar Leo, una grossa industria farmaceutica di proprietà del conte Auletta Armenise, e ai suoi vagabondaggi nelle chiese di Roma e nelle redazioni dei giornali per fare leggere ai critici letterari le mie poesie. Fu lui ad aprirmi le porte del giornalismo. Un suo vecchio amico e collaboratore, Andrea Avondo, conosceva il caporedattore de La Sicilia, Piero Corigliano. Un giorno di febbraio del 1963 andarono a parlargli e mio padre si portò appresso un paio di poesie. Corigliano le lesse, le giudicò degne di pubblicazione e mi mise alla prova, come critico televisivo. Era una figura professionale nuova, quella, che cominciava a fare capolino nei giornali nazionali. Dopo tre mesi di “compiti” pubblicò il mio primo articolo. Ogni tanto vado a trovarlo il vecchio Piero. Ha 94 anni ed è lucido come un tempo. Una memoria d’elefante. Parliamo del giornale, parliamo di mio padre e del suo amico, prematuramente scomparso, Andrea, che era un pezzo d’uomo alto un metro e 96 e per spostarsi in città usava una Fiat Cinquecento. Quando 328 apriva lo sportello e faticosamente usciva dall’abitacolo la gente si fermava a guardarlo e gli domandava immancabilmente: “Nisciu tuttu?” Piero Corigliano talvolta l’ospitava a casa sua ma era costretto a allungargli il letto con uno strapuntino. Povero caro papà. Fu un uomo intelligente e onesto, un genitore amorevole e nobile, comprensivo e moderno. Se avesse potuto mi avrebbe mandato a studiare in Inghilterra (oltre quarant’anni fa!) dove hanno studiato i miei nipoti, Francesco (medicina) e Giuseppe (scienze politiche, alla London School of Economics), figli d’una sorella di mia moglie, Rosanna, che dal febbraio 2006 al maggio 2010 ha diretto l’ambasciata italiana a Oslo. Spesso mi trovo a passeggiare per le strade di Catania con gli occhi e i passi di mio padre. E se c’è il sole mi ricordo le sue parole: “Fuori è una bella giornata”. Me lo diceva la mattina, verso le dieci, portandomi il caffè a letto. Prima di quell’ora la casa si autosospendeva d’ogni attività e rumore. Di solito, rientravo dal giornale a notte fonda. Trovavo la cena pronta e, se c’era da scaldare la minestra, i fiammiferi sopra il coperchio della pentola: amorevole suggerimento e sprone per la mia lagnusia. Anche la frutta trovavo sbucciata. Talvolta lui si alzava, dava una scorsa al giornale, che portavo fresco di stampa, scambiavamo qualche parola e se ne tornava a dormire. Ricordando questi particolari inesprimibile oggi è la commozione. A mio padre ho dedicato Il vulcano spento, una storia d’amore ambientata nella Catania del dopoguerra. A mio padre e alla mia famiglia. Doverosamente e amorevolmente anche a mia moglie. Direi che quel romanzo è una sorta di “assaggio” di questo libro. Scrivendone su La Sicilia, Sergio Sciacca mi ha definito “giornalista di rango e scrittore di stile”. Ma, di là degli elogi, Sciacca mostra di avere colto il significato del romanzo laddove mette a confronto l’ieri con l’oggi. “Cosa manca a questi nostri anni”, si domanda il recensore “che c’era nei poverissimi anni ’50 e nei 329 poveri ma belli anni ’60? La consapevolezza dei ruoli. Allora c’erano i padri che sapevano agire e parlare con i figli. Erano la loro guida ideale. I ragazzi vedevano nei padri chi sapeva intervenire nella vita. Oggi i padri sono esitanti e sanno di esserlo”. Perfetto. E perfette, e profetiche per ciò che scrivo in questo Orologio di celluloide, sono state le parole di Salvatore Scalia sullo stesso giornale: “Il racconto risente fortemente della passione di Isgrò per il cinema e i personaggi cinematografici, che sono un filtro attraverso cui egli è abituato a osservare il mondo e le marionette che in esso agiscono, in un’osmosi che va dalla strada allo schermo e viceversa”. Di recente Il vulcano spento è stato ripubblicato da un’altra casa editrice, l’Arkadia, con un diverso titolo, La bambina francese, e l’aggiunta d’una quarta parte. È un libro che amo molto e che nella nuova versione e veste editoriale ha trovato un migliore equilibrio. 330 QUINDICI Grace Kelly, Audrey Hepburn Nella tarda serata del 25 luglio 1956 Gastone Biffoli, giovane ventenne in viaggio verso il sogno americano, bussò alla cabina di una gentile dama, che aveva conosciuto e corteggiato durante la traversata da Genova a New York. La mattina dopo sarebbe arrivato a destinazione e dunque quello era il momento giusto, se voleva dare un senso a quell’amore sbocciato all’improvviso nel lusso e nella noia della crociera. La porta si aprì e Gastone diede fondo al suo desiderio o, almeno, immagino che lo fece, dal momento che sul particolare egli signorilmente sorvola, così pure sul nome della donna. Raccontando l’episodio, dopo mezzo secolo, ci fa sapere che all’improvviso gli oggetti del comodino si diedero appuntamento sul pavimento e la cabina cominciò a oscillare. Nella foga dell’amplesso non avevano sentito, lui e la graziosa signora o signorina, il grande botto all’origine del parapiglia, come “un gran colpo di piatti fracassati”, secondo la testimonianza del direttore d’orchestra Dino Messina che poco prima della collisione stava suonando Arrivederci Roma. La nave si inclinò di 30 gradi per scomparire in fondo all’oceano Atlantico, nei pressi dell’ isola di Nantucket, dopo 11 ore di agonia. Finiva così, al 51mo viaggio, il sogno dell’Andrea Doria, orgoglio della Marina mercantile italiana, transatlantico arredato oltre ogni superflua misura e costruito, forse, un pochino al risparmio, come sostennero gli svedesi che attribuirono l’affondamento a un difetto strutturale. La prua a doppio rinforzo d’acciaio della motonave svedese Stockholm squarciò la fiancata anteriore destra della nave italiana demolendo parzialmente i ponti passeggeri A, B, C e distruggendo le cabine dal numero 202 al numero 238 del ponte A e le cabine dal numero 424 al numero 432 del ponte B. Oltre al garage della 331 nave. Persero la vita 46 persone sull’Andrea Doria, su un totale di 1088 passeggeri; e 5 sulla Stockholm. Mentre il capitano Piero Calamai lanciava l’SOS, e non si capacitava come la nebbia avesse potuto avere ragione del suo gioiello, Gastone Biffoli, Dino Messina e altri giovani volenterosi cominciarono a bussare a ogni cabina e a chiedere “Nobody in? Nobody in?” Tra i passeggeri c’era l’attrice Ruth Roman e sua figlia Dickie Hall, tre anni appena (diventata grande, e ricordando quel dramma, dirà della madre: “Sembrava che stesse andando a un picnic”). Mentre tutti scappavano come pazzi, alla ricerca d’una scialuppa, lei fece tutto con calma. Lei e la collega Betsy Drake, moglie di Cary Grant. Probabilmente, per farsi coraggio avevano immaginato che quello fosse il set di un film. Finirono, con gli altri, nelle braccia dei marinai francesi dell’Île de France prontamente accorsa sul luogo del naufragio. Ricordo ancora la prima pagina del Corriere della Sera con la foto della nave inclinata sul fianco, sul punto di affondare. Ricordo la commozione della mia famiglia e l’indifferenza dei miei compagni di gioco che stavano organizzando una partita a tamburelli, sulla sabbia del lido Arcobaleno, e non avevano testa che per quella. Anch’io mi tuffai nell’agone sportivo senza eccessivi rimorsi, a fronte bassa, coi miei quattordici anni di cristallo pronti a spezzarsi alla prima indifferenza della ragazzina che assomigliava ad Alessandra Panaro e che della giovane interprete di Poveri ma belli aveva il biondo dei capelli e l’azzurro degli occhi. Ma forse gli occhi non erano azzurri, forse azzurri sono i miei ricordi, questi ricordi: le rincorse sull’arenile prima di inzuccare le onde e nuotare verso il largo, alzarsi all’alba e assistere alla tirata delle reti e all’apertura della sacca coi pesci guizzanti, raccogliere telline scavando nella sabbia bagnata, vagare nelle campagne a ridosso dei lidi immaginando di trovare il misterioso tesoro del capitano Kidd, mangiare uva acerba e pinoli, arrampicarsi sui pini resinosi, graffiarsi, 332 incidere sul tronco, con un coltellino, le iniziali del proprio sogno. La Plaia era un grande mistero, uno spazio sconfinato in cui mettere in scena le avventure di Salgari, vestire i panni dei pirati della Malesia, di Sandokan e Tremal-Naik. La strada arrivava poco più oltre il Faro Biscari e il glorioso Lido Spampinato. Accanto c’era il Lido del cavaliere Casabianca il cui il figlio, Angelo, avrei conosciuto al giornale. Angelo giocava benissimo a tamburelli. Doveva inchinarsi solo alla classe di Puccio Maimone, davvero imbattibile in coppia con Benenati, di Nuccio Pellegrino e Nino Borina, di Saretto Spampinato e Salvo Arnaud, di Massimo e Siro Sardo. Lavorava allo sport, accanto a Luigi Prestinenza, Candido Cannavò e Giuseppe Garozzo. Si occupava dei risultati e delle classifiche nonché dei collegamenti con i collaboratori sportivi delle province. Un lavoro ingrato ma prezioso, che svolgeva con scrupolo. Uno di questi collaboratori della domenica era l’ex presidente della provincia di Catania e deputato europeo Nello Musumeci, allora studente. Veniva da Militello Val di Catania, il paese natale di Pippo Baudo. Era un giovane serio e brillante. Mai avrei sospettato che avesse simpatie per il Movimento Sociale. I missini, al giornale, erano i benvenuti, non i beceri e i picchiatori ma i missini alla Nino Buttafuoco, zio dell’astro nascente del giornalismo nazionale Pietrangelo Buttafuoco autore di un romanzo, Le uova del drago, pubblicato dalla Mondadori e che ha avuto un ottimo successo. Poi ne ha scritto un altro, L’ultima del diavolo, non all’altezza del primo, e altri due senza storia. Con la nomina a presidente del Teatro Stabile di Catania, Pietrangelo, intellettuale ribelle della destra italiana, si è alquanto ammansito. Quando la città, sommersa dai debiti e non in grado di pagare l’Enel, è rimasta per mesi al buio, lui, a quanto raccontano i giornali, se n’è uscito con una frase talmente ironica e raffinata che nessuno l’ha capita, anzi, i responsabili del 333 disastro l’hanno presa per una sorta di consolatoria assoluzione. Ma che cosa aveva detto di tanto memorabile da incuriosire i salotti cittadini? Aveva detto che il buio dava alle strade un romantico “effetto abat-jour”. Forse il suo segreto sta nel dire una cosa pensandone un’altra, pensandola però di sghimbescio, in maniera di stare a mezzo. Così facendo dice cose inverosimili che in apparenza sembrano vere ma che in realtà sono false. Quando il sindaco di Catania, Stancanelli, gli ha consegnato la Candelora d’oro non ha avuto dubbi. Ha detto: “È come ricevere l’Ambrogino d’oro. Con una differenza, però. Catania è più chic di Milano”. Catania più chic di Milano è come dire che il princisbecco è meglio dell’oro ma il giudizio, che non sta né in cielo né in terra, è stato preso per buono. Nessuno resiste alle lusinghe. Ora è proprio in questo margine ambiguo che si inserisce la scaltrezza di Buttafuoco. Da narcisista e intellettuale di rango egli può sempre dire ai provveduti e agli scettici: stavo scherzando. Nino Buttafuoco era allegro e scoppiettante, amico dei giornalisti e dotato di senso dell’umorismo. Durante un comizio in piazza Università, siamo negli anni Cinquanta, un collega missino, brava persona ma retorico e teatrale, descrisse in termini patetici la storia di una madre che aveva mandato al figlio emigrato in Belgio una maglia affinché lo riparasse dal freddo. La vicenda, raccontata con tutti gli accenti del vittimismo meridionale, finiva col grido di dolore del collega deputato che non si dava pace, per la povera madre e per il figlio di lei assiderato, perché il dono non era arrivato a destinazione. “Camerati, amici cari! grande fu il dolore di quella povera donna, di quella povera madre nell’apprendere che la maglia, con tanto amore lavorata ai ferri, non avrebbe difeso dal freddo straniero le gracili membra del figlio!” E dicendolo, il deputato missino aveva fatto finta di asciugarsi una lacrima. Qualche tempo dopo, incontrandolo, Nino Buttafuoco, al quale avevano raccontato la storia, lo tranquillizzò: “Non ti 334 preoccupare, la maglia l’hanno trovata!” Poiché dalle sue parti aveva una torrefazione, la Bu.Ni Caffè, raramente si presentava a mani vuote. Essendo io giovane e ultima nobile ruota del carro mi toccavano i suoi entusiasmanti sorrisi che però non sapevano di torrefazione. Aveva un cuore di fanciullo, come scrisse Gaetano La Terza, un fanciullo “che serba negli occhi la pungente nostalgia dell’aquilone smarrito nel gorgo del vento”. La strada della Plaia fu allungata oltre il Faro Biscari di circa un chilometro quando sorsero il lido Azzurro (che poi si sdoppiò dando vita al lido La Pineta), l’Arcobaleno, il Trinacria e il lido dei ferrovieri che chiudeva la fila. Lì si arrestava la strada, con uno slargo per dare modo agli autobus e ai filobus di girare. Più oltre, c’era il lido dell’Aeronautica. Quell’anno mio fratello, attraversando il confine, ben protetto dal filo spinato, col lido balneare vicino, si rigò a sangue la schiena. Lo portammo al pronto soccorso dove lo medicarono e gli fecero l’antitetanica. Mio padre minacciò di denunciare i proprietari dei lidi che avevano alzato quella sorta di cortina di ferro. Era illegale, infatti, recintare le zone demaniali e impedire ai bagnanti di passeggiare lungo gli arenili che sono di proprietà dello Stato. Addirittura i reticolati, per bloccare gli sconfinamenti, venivano allungati per un buon tratto di mare, fin dove non si toccava. Assurdo e criminale. Oltretutto, il ferro al contatto con l’acqua arrugginisce e diventa ancora più pericoloso. Eppure, quegli abusi erano accettati come fossero legali. Questa, purtroppo, era la mentalità in quel tempo acerbo di diritti e florido di più o meno sottili prepotenze, quel tempo che ha scandito la mia infanzia e la mia giovinezza senza farmi troppo capire, imprigionandomi anzi nella sua dolce prepotenza. Ma ciò era il meno rispetto agli anni che sarebbero venuti dopo, anni di piombo speciali, nemmeno nobilitati da folli ideologie ma intrisi di mafia, subdola e spietata, che provocava 335 cento morti l’anno. Il 1956 è anche l’anno di un sogno che finisce e di uno che sta per cominciare, l’anno de Il cigno di Charles Vidor, penultimo film di Grace Kelly (l’ultimo, sempre di quell’anno, sarà Alta società di Charles Walters) prima di salire sul trono di cartapesta del Principato di Monaco. Film profetico, in verità, poiché la futura moglie del principe Ranieri III vi interpreta il ruolo di una bella ragazza che sta per diventare regina. Ranieri la conosce sul set di Caccia al ladro di Alfred Hitchcock, col quale l’attrice aveva girato in precedenza altri due splendidi film: Delitto perfetto e La finestra sul cortile. Per lei dimentica l’attrice francese Gisèle Pascal, con la quale è stato fidanzato per sei anni e che comunque non avrebbe potuto sposare, visto che la ragazza, dopo un’accurata visita ginecologica, era risultata sterile. Non avere eredi significava cedere alla Francia, come da storici accordi, quel Principato da operetta che Somerset Maugham descriveva come “un posto pieno di sole per personaggi pieni di ombra”. Operetta o non operetta fruttava un bel po’ di quattrini con le case da gioco e il turismo d’alto bordo. Forte del suo nome, che per la verità era un poco snobbato dalle vere teste coronate d’Europa, Ranieri III vola a Filadelfia, nel regno laico dei Kelly, e chiede la mano della bellissima e altera Grace Kelly. Prima di indossare per sempre le vesti della principessa reale, Grace era definita dai partner, coi quali aveva lavorato e con i quali era stata puntualmente a letto, “ghiaccio bollente”. Era il suo algido sex appeal a intrigare maggiormente Hitchcock. Nella famosa e già citata intervista concessa a Truffaut, il mago del brivido confessò di preferire le donne bionde e sofisticate, tipo Grace, alle donne latine, francesi o italiane, perché a letto diventano puttane. E per far capire meglio il concetto del sesso gelido fece un esempio: “La povera Marilyn Monroe aveva il sesso stampato su ogni angolo del viso, come Brigitte Bardot, e questo non è molto 336 fine. Il sesso non deve farsi notare. Una ragazza inglese, per esempio, con la sua aria da maestrina è capace di salire su un taxi con lei e, con sua grande sorpresa, di aprirle i pantaloni”. La comitiva degli amanti di miss Kelly, più o meno occasionali e più o meno maturi, era stata numerosa: Clark Gable, Ray Milland, Cary Grant, Bing Crosby, Gary Cooper, William Holden, Jean-Pierre Aumont, Oleg Cassini. Di quest’ultimo s’era incapricciata e l’aveva presentato ai genitori, così come aveva fatto, inutilmente, con William Holden che per la verità era sposato con Brenda Marchall dalla quale divorzierà nel 1971 dopo 30 anni di matrimonio. Ma i genitori, ricchi e cattolici, si opposero al pur brillante Oleg perché anche lui sposato, sebbene papà Jack, che prima di diventare milionario aveva fatto il muratore, tradiva la moglie senza battere ciglio, più e più volte, e la domenica si lavava la coscienza andando regolarmente in chiesa. Insomma, come tutti i puttanieri rispettava il matrimonio – perché era un sacramento! – ma nella pratica se lo metteva sotto i piedi. Lui e la moglie, una tedesca dal carattere di ferro che aveva trasmesso alla figlia la straordinaria bellezza, dissero invece di sì a quel giovane principe pacioccone e belloccio che si portava appresso una corona di latta ma pur sempre una corona. Le nozze furono celebrate col rito civile il 18 aprile del 1956 e il giorno dopo col rito religioso, nella cattedrale di San Nicola, sullo sperone più caro e affollato del Principato. Furono definite le nozze del secolo, al pari di quelle tra Carlo Magno ed Ermengarda oppure tra Napoleone Bonaparte e Maria Luisa d’Austria. Ma nessuna delle altezze reali ci andò, forse per timore di confondersi con le “bassezze reali” frequentate da miss Kelly negli Stati Uniti. Enzo Grimaldi, principe di Nixima, che vantava per altro un’indefinita parentela con lo sposo, era talmente sicuro di essere invitato che non badò a spese pur di fare bella figura con gli altolocati parenti (che forse non erano 337 nemmeno a conoscenza della sua esistenza). Direttamente dalla fabbrica di Detroit si fece spedire a Catania una Chevrolet nera Bel Air: costosa, ingombrante auto di lusso che le ragazze sbavavano al solo vederla passare per via Etnea. Pensava di mostrarla, e di mostrarsi, al regale consesso. Ma nessun invito, né per posta né per telefono, giunse mai al suo indirizzo. Di recente, quella meraviglia di archeologia industriale è stata vista, inerme e pietosa, nel capannone di uno sfasciacarrozze in via Ventimiglia a Catania. Al loro posto le teste coronate d’Europa mandarono i maggiordomi, per così dire, che si confusero con i miliardari e i divi di Hollywood. Ma lei, Sua Altezza Serenissima Gracia Patrizia di Monaco, fece la sua bella figura. Trenta milioni di persone seguirono le nozze per televisione, un numero impressionante per quei tempi. Lei indossava un vestito bianco realizzato con 23 metri di taffettà e 92 di rete di seta. “Ghiaccio bollente” espulse dal soprannome l’aggettivo, mortificò l’ossimoro e divenne una delle mogli più irreprensibili della storia dell’aristocrazia europea, tanto che padre Pietro Pintus, monegasco, parroco della chiesa di Santa Maria in Lucina, a Roma, propose alla sua morte di innalzarla all’onore degli altari. Ma poi in Vaticano si ricordarono di un certo James Spada, che aveva scritto sull’ex attrice un’imbarazzante biografia, e la proposta fu lasciata cadere. Non ero mai stato a Montecarlo. Ci andai con mia moglie e una coppia di amici (Domenico Tempio e sua moglie Francesca) a metà degli anni Ottanta proprio per visitare la tomba di Grace Kelly. Fu un lungo viaggio in macchina. Avevo da poco acquistato di seconda mano una Porsche Targa color visone. Quella macchina m’era rimasta nel cuore. La prima l’avevo comperata nel 1972, bianca, fiammante, bellissima. Quattro milioni e 900 mila lire. Due milioni me li regalò mio padre. Era l’invidia di tutti, dei miei colleghi soprattutto che cominciarono a chiamarmi “il maoista in Porsche”. Non 338 che fossi realmente “maoista” ma le carogne dei miei colleghi presero gusto a sottolineare, ed esasperare, le mie giovanili contraddizioni. Dicevano di non capacitarsi come uno che votava socialista, e prendeva spesso posizioni distanti dalla linea liberale del giornale, potesse viaggiare a bordo di quella meraviglia sportiva. La diedi via per l’anticipo della casa e il soprannome cessò di colpo. Ovviamente, non alloggiammo nel Principato, perché ci avrebbero spennati, ma a Diano Marina, sulla Riviera di Ponente, dove ci aspettavano Nino De Agrò, direttore amministrativo del giornale, e sua moglie. Un posto di mare che d’estate diventa peggio della Plaia o della spiaggia di Casablanca. Arrivati davanti al Palazzo del Casinò posteggiai l’auto dell’orgoglio accanto a un paio di Rolls-Royce e mi sentii un pezzente. Nel vicino Café de Paris suonavano romantiche canzoni francesi mentre gli ospiti sorseggiavano champagne e a bocca stretta mangiavano pasticcini. Pareva un pezzo di Belle Époque congelato nel tempo. Gli uomini indossavano lo smoking e fumavano sigarette con nonchalance, il fumo saliva in volute leggere nell’aria morbida della sera e le donne portavano guanti di pizzo e sorridevano con grazia. Una pagina di letteratura, anche. Rubata alla fantasia di Colette, la scrittrice bisessuale che André Obey definì “un grand’uomo”. Raggiungemmo l’interno della casa da gioco e ci facemmo passare la collera con le slot machine. Per la visita alla cattedrale era tardi. Non puntammo alla roulette come quella volta a Malta, settembre 1976, quando il giornale mi inviò per le elezioni generali, vinte poi dal laburista Dom Mintoff. Quella volta mia moglie puntò decisa sul numero 6, il giorno del nostro matrimonio, e fu l’en plein. Puntammo su altri numeri, sul bianco e sul nero, sul cavallo e su altre combinazioni. Fummo saggi e ci alzammo con una piccola vincita. Una simpatica esperienza, a parte lo scarafaggio che trovai nel consommé. Il maître dell’hotel Verdala a cinque stelle, appena inaugurato, si profuse in mille scuse e mi portò un nuovo passato di 339 verdure, stesso colore stessa intensità, che mi guardai bene dall’assaggiare. Il sospetto che fosse la pietanza di prima, deprivata dell’insetto, fu troppo forte. Il giorno dopo salimmo al castello. La tomba di Grace si trova nella navata laterale sinistra, poco lontana dall’abside, nella cattedrale di San Nicola. Una semplice lastra di marmo avorio sistemata sul pavimento. Quel giorno era coperta di fiori bianchi. L’usanza di seppellire le proprie glorie sotto i pavimenti delle chiese significa non volersene distaccare, ritenerle ancora vive, presenti, come accadeva nell’ottavo millennio avanti Cristo, a Gerico: le famiglie seppellivano i morti in casa non perché mancasse lo spazio ma perché così facendo continuavano a coabitare con loro. Gli esperti dicono che l’uomo neolitico si comportava in quel modo perché non percepiva la morte come separazione dalla vita bensì come cambiamento di forma. Inarrivabile saggezza, idea pre-religiosa di assoluta modernità. Tanto è vero che fino all’Ottocento i morti venivano tumulati nelle chiese. Ma se i fedeli ne calpestavano le lapidi ecco pronta la spiegazione freudiana: conflittualità emotiva verso i defunti. In altre parole, il calpestare e il pregare rappresentano un equilibrio tra pulsione aggressiva e pulsione affettuosa. Mah! Meglio l’idea neolitica. Una preghiera laica, fatta per lo più di ricordi cinematografici, e giù nelle stradine profumate di fiori che si aprono a reticolo davanti al Palazzo del Principe in cui regnava la Principessa per eccellenza, la donna che mise in ginocchio Maria Callas e sfrattò il troppo ingombrante Aristotile Onassis. Nelle curve del ritorno, lungo la Moyenne Corniche, seguimmo il ricordo della tragedia. Un ictus, mentre era alla guida della sua Rover, una fuga oltre il gomito d’asfalto che si apriva nell’orizzonte privo di nubi, uno schianto poco più sotto, e la Principessa volò nell’azzurro del cielo. 14 settembre 1982. Addio alla sua carriera, che in coda a quell’ultima stagione aveva conosciuto una timida ripresa, addio al regno, al marito, ai figli: Carolina, 340 Alberto e Stefania che le stava accanto e che se la cavò per miracolo. Al confine, ci restavano negli occhi le curve assassine, la tomba, le slot machine, gli ospiti del Café de Paris, e il ricordo di Sidonie-Gabrielle Colette, il mito francese, l’attrice a petto nudo in palcoscenico e modella conturbante negli studi fotografici alla moda, colei che amò uomini e donne con lo stesso slancio e diede ai posteri una cinquantina di libri dimenticati. Tra questi, Gigi, il suo capolavoro, scritto, come gli altri, su carta celeste, con una batteria di penne stilografiche sottomano e alla luce d’una lampada velata d’azzurro. Dopo la guerra la Francia le alzò un monumento di medaglie e diplomi. Morì che pesava 90 chili. Era il 3 agosto 1954. Fu proprio Colette, nel 1951, a notare Audrey Hepburn. La famosa scrittrice stava cercando l’interprete ideale di Gigi, trascritta per il palcoscenico da Anita Loos. Le piacque subito quella ragazza filiforme che si muoveva come una regina. Audrey, che allora aveva 21 anni, si chiamava Edda Kathleen Van Heemstra Hepburn-Ruston, ed era figlia di un banchiere inglese e di una baronessa olandese. Ma dopo un’infanzia dorata le si aprì la voragine della miseria. La madre divorziò e se ne tornò coi figli in Olanda dove, allo scoppio della guerra, i nazisti le confiscarono ogni cosa. Audrey soffriva d’asma e anemia. A tre settimane dalla nascita ebbe un attacco di pertosse che stava portandola all’altro mondo se la baronessa Van Heemstra non l’avesse sculacciata a dovere facendole tornare il colorito. Mentre la piccola Anna Frank stava nascosta a Amsterdam, e scriveva il suo diario; Audrey, che aveva la stessa età, si trovava a un’ottantina di chilometri dalla capitale, ad Arnhem. Trascorreva il tempo a leggere, sdraiata a letto, per non sentire i morsi della fame. Ogni tanto, spostandosi in bicicletta, consegnava ai partigiani messaggi segreti che nascondeva nella suola delle scarpe. Non fu mai realmente in pericolo, però. Forse la 341 proteggeva la fama del padre, arrestato a Londra per simpatie nazifasciste. Per anni mangiò coi fratelli e la madre biscotti per cani e pane fatto con farina di piselli. Il 2 settembre del 1944, quando Anna Frank fu arrestata coi genitori e la sorella Margot, nel nascondiglio ricavato sopra il laboratorio di spezie della Opekta, al numero 263 della Prinsengracht, e avviata al campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove morirà di tifo sei mesi dopo, Audrey Hepburn continuava a leggere e a consegnare messaggi. Ma gli Alleati erano già alle porte. Nell’ottobre del 1998 la Walt Disney mi invitò alla prima mondiale del cartoon Mulan che si teneva ad Amsterdam. Il film era tratto da una fiaba cinese che ha per protagonista una giovane donna che si traveste da uomo, prende il posto del padre malato nelle armate dell’imperatore e combatte valorosamente il nemico. Avevo letto anni prima il diario di Anna Frank, e mi ero profondamente commosso, senza sapere che c’erano alcune parti censurate dal padre di lei, Otto, laddove la giovanissima ragazza manifestava una qualche timida tendenza omosessuale. Avevo anche visto il film, che ne raccontava la storia, di George Stevens del 1959, bellissimo, ed ero perciò curioso di entrare nel mistero di quel rifugio, respirare il chiuso delle sue stanzette, guardare oltre la finestra, sul retro, il castagno più volte citato dalla piccola scrittrice, immaginare la vita sepolta della ragazzina mentre l’acerbo della sua vita andava lentamente maturando, e spegnendosi, il giorno in cui fu brutalmente presa e mandata a morire per il solo fatto di essere ebrea. L’Olanda mi regalò una mattinata di sole, dopo due giorni di freddo accanito, e me ne andai alla scoperta della casa dell’angoscia, della speranza e della morte. Dal 1960 è diventata museo ed ogni anno è visitata da un numero impressionante di turisti. Non mi ricordo i personaggi ma sulla parete dov’è il lettino di Anna Frank sono attaccati piccoli ritagli di giornale con foto e notizie di attori dello schermo. Erano i suoi 342 minuscoli poster del desiderio. Aggirandoti per quegli spazi angusti non puoi non provare un’infinita pena, e dolore, per la sorte ingiusta toccata a una ragazzina di quindici anni che sognava di diventare scrittrice. E non puoi nemmeno impedirti di provare un brivido, all’uscita dell’ultima stanza, di fronte alla gigantografia del signor Otto Frank, unico sopravvissuto, che sembra salutarti e ringraziarti per la visita e nella cui espressione cogli uno smarrimento indicibile. Audrey Hepburn aveva la stessa altezza di mia sorella, gli stessi zigomi alti, i capelli tagliati corti con la frangetta o raccolti dietro con l’elastico, la stessa taglia e lo stesso peso, credo, e undici anni di più. L’una poteva essere la controfigura dell’altra. Andare a vedere i suoi film era quasi un obbligo di famiglia, come recarsi al Metropolitan per il saggio di fine anno in cui mia sorella si alzava sulle punte e giganteggiava, per grazia e bravura, sulle altre allieve. Nelle vene di Audrey scorreva il sangue blu dell’aristocrazia e quello rosso della sofferenza. Il primo sfolgorante successo lo coglie, da principessa, nelle strade di Roma, seduta sul sellino della Vespa guidata da Gregoy Peck. Il suo personaggio, in fuga dalla corte e in giro turistico per la città eterna, è delizioso. Vacanze romane di William Wyler, è questo il film, anno 1953, le fa guadagnare l’Oscar come migliore attrice protagonista. Gregory Peck era stato buon profeta quando pretese che il nome della giovane partner figurasse nei titoli di testa accanto al suo: “Sono abbastanza intelligente da capire che questa ragazza vincerà l’Oscar con questo suo primo film”. L’anno dopo è Sabrina nell’omonimo film di Billy Wilder. Fa la parte della figlia di un autista che ha tutti i numeri, di grazia e intelligenza, per mettere al guinzaglio l’asfittica nobiltà del denaro rappresentata da Humphrey Bogart e William Holden. Del giovane e aitante William s’innamora anche nella realtà, ma poi lo lascia quando viene a sapere che non può avere figli. Per lei diventare 343 madre veniva prima di tutto. Si consola con Mel Ferrer, presentatole dallo stesso Holden. Si sposano a Buoche, in Svizzera, e l’attrice aspetta quasi subito un figlio, che tuttavia perde a causa di un aborto spontaneo. Nel 1957, dopo una serie di successi, come Guerra e pace di King Vidor e Arianna di Billy Wilder, resta di nuovo incinta. Stessa storia di prima. Nel 1959, mentre lavora con Burt Lancaster nel western Gli inesorabili di John Huston, scopre di essere incinta per la terza volta, ma una caduta da cavallo provoca l’ennesimo aborto. Nel film, nella parte della madre, le è accanto la diva del cinema muto, Lillian Gish, che ho ricordato prima, superba e splendente attrice, morta nel 1993 all’età di cento anni. A quel punto, Audrey capisce che se vuole avere veramente un figlio deve annullare ogni impegno, starsene buona, serena e aspettare. E così fa. Si ritira nel suo chalet alpino di Burgenstock e finalmente porta a compimento la quarta gravidanza. Nasce il primogenito Sean. Padrino d’eccezione è lo scrittore A. J. Cronin. Nel 1965 il quarto aborto. Martoriata nel corpo e nello spirito, entra in depressione, così pure il matrimonio con Mel Ferrer. I due si separano nel 1968. L’anno successivo Audrey conosce a una festa un giovane psichiatra romano, Andrea Dotti, più giovane di dieci anni, se ne innamora e ci fa subito un figlio, Luca, che nasce con le modalità del primo: in Svizzera e nel più assoluto riposo. Abbandonato il cinema, e ottenuto il divorzio dallo psichiatra italiano (che l’aveva più volte cornificata e che morirà nell’ottobre del 2007 dopo un banale intervento chirurgico), si lega a Robert Wolders, da poco vedovo di Merle Oberon. Con lui comincia a girare il mondo dedicandosi, come ambasciatrice speciale per l’Unicef, a migliorare le condizioni dei bambini bisognosi e delle loro famiglie nei Paesi del Terzo Mondo. Compito che assolve alla grande grazie alla conoscenza delle lingue. Oltre all’inglese parlava correntemente il francese, l’italiano, l’olandese e lo 344 spagnolo. Va in Vietnam, in India, in Africa. Finché al ritorno da un terribile viaggio in Somalia le viene diagnosticato un cancro al colon. Troppo tardi perché l’operazione, in una delle migliori cliniche di Los Angeles, abbia buon esito. L’amico di sempre, Hubert de Givenchy, che aveva disegnato i suoi costumi per il film Colazione da Tiffany, le mette a disposizionel’aereo personale perché possa chiudere gli occhi tra le montagne dell’amata Svizzera. Muore il 20 gennaio 1993. Sul TG1 il suo ricordo portava la mia firma. “Moon river, wilder than a mile,/ I’m crossing you in style someday,/ oh, dream maker, you heartbreaker,/ wherever you’re going,/ I’m goin’ your way…” Le parole sono di Johnny Mercer, la musica è di Henry Mancini. La canzone, che è parte importante del film Colazione da Tiffany di Blake Edwards, vinse un Oscar nel 1961. Non potevo non utilizzarla, come dolce sottofondo, nel servizio che chiuse il telegiornale e che fu visto da dieci milioni di telespettatori. Il pubblico amava Audrey Hepburn, e l’ama ancora oggi. Un recente sondaggio della rivista inglese The New Magazine Woman la piazza al primo posto tra le cento donne più belle di tutti i tempi. In seconda posizione, Grace Kelly, per magnifica e misteriosa coincidenza. Due bellezze senza tempo, alte, magre, dolcissime e rasserenanti. 345 SEDICI Marilyn Monroe La scrittrice Anna Colombo, classe 1909, presentando il libro della sua vita, Gli ebrei hanno sei dita, ha raccontato un aneddoto che spiega lo strano titolo: “Quand’ero in quinta ginnasiale, ad Alessandria, una mia compagna, avendo saputo che ero ebrea, mi disse che non ci credeva perché la mia mano aveva solo cinque dita”. La superstizione della ragazza nasceva dalla diffusa convinzione che gli ebrei non fossero persone come le altre ma appartenessero a una razza particolare e per questo dotate di una fisicità mostruosa che ne sottolineava la diversità. Nella religione, l’esadattilia simboleggia il diavolo, che il Tiepolo dipinge proprio con sei dita. Naturalmente le cose, metaforicamente espresse, sono più complicate e meno nette di quanto sembri. In una chiesetta di Pontechianale, vicino Cuneo, c’è un singolare ciclo di affreschi del Seicento in cui i piedi e le mani dei santi sono raffigurati con sei dita. L’anomalia, a quanto pare, veniva usata per fini apotropaici. Il santo con sei dita, cioè, avvicinandosi fisicamente al Maligno, poteva contrastarne meglio l’influsso negativo. Del resto, anche alcune divinità sumere sono esadattili. Da questa commistione nasce una confusione simbolica che si estende anche ai personaggi del nostro tempo. In un francobollo commemorativo Franklin Delano Roosevelt, il presidente del New Deal e della ripresa economica americana dopo il tracollo del 1929, è disegnato con sei dita, e la divina Marilyn Monroe, in alcune foto di Joseph Jasgur, pubblicate nel 1946, mostra la stessa diversità. Insomma, tutto ciò che è eccessivo, fuori misura, singolare, improprio, a volte distingue e accomuna il Bene e il Male. Le religioni pagane erano piene di idoli fisicamente mostruosi, buoni o cattivi che fossero: Diana ha molti seni, Kalì molte 346 braccia, Bes, il dio egizio della fecondità, è rappresentato come un quadro di Picasso: la testa e gli occhi nel petto, il cuore e il cervello in un comune sistema cardiocircolatorio, e alcuni gatti di Hemingway, che stavano nella villa del grande scrittore a Key West, avevano sei dita. Marilyn era un’anomalia vivente. Se Aristotele l’avesse conosciuta avrebbe di certo rivisto il capitolo quinto dell’Etica Nicomachea: in medio stat virtus. La virtù dell’attrice era proprio quella di non stare nel mezzo e nemmeno da una parte, ma essere al di sopra, riassumere come una dea vivente l’eccesso e il difetto del mondo. Per questo non poté diventare la sposa del principe Ranieri III di Monaco, che le preferì Grace Kelly, simbolo perfetto dell’ipocrisia di Hollywood e della medietà aristotelica. Chissà che cosa avrebbe combinato a corte, la scombinata Marilyn! Meglio non rischiare. Non a caso, l’attrice, a vent’anni, vinse il concorso di bellezza per Miss Carciofo. Lo stesso Billy Wilder, che pur ne ammirava il talento, dopo averla diretta nel film Quando la moglie è in vacanza, del 1955, disse: “Ha un seno di granito e un cervello di groviera”. Forse fu per questo che Marilyn, nella celebre sequenza della gonna sollevata dall’aria calda della metropolitana, su consiglio del marito Joe Di Maggio, indossò due paia di slip bianchi per impedire al regista di ammirare e rimirare la scena in sede di montaggio. La celebre sequenza, la più imitata nella storia del cinema, fu girata il 14 settembre del 1954 e paralizzò il traffico a New York, in Lexington Avenue, di fronte al Lux Theatre. Benché fosse passata la mezzanotte la folla non volle perdersi lo spettacolo. Il film obbedisce a uno stereotipo di successo. Modugno scriverà una canzone sui mariti in città e le mogli al mare, le mogli che talvolta si consolano coi bagnini e i mariti con le cameriere. Ma nessuno, ovviamente, potrà mai sperare di trovare, mentre la moglie è in vacanza, una vicina di casa come Marilyn Monroe che si presenta alla porta in abito scollato, un 347 ventilatore in mano e la richiesta di aiuto perché il filo le si è impigliato. Potrà solo sognare. Potrà desiderare di mettersi nei panni di Billy Wilder quando prima di un ciak suggerì all’attrice di togliersi il reggiseno sotto la camicia da notte. Al che Marilyn, afferrando la mano del regista e portandosela al petto, rispose: “Quale reggiseno?”. Marilyn Monroe entra nell’immaginario siciliano nella prima metà degli anni Cinquanta. A Catania circolano le prime Vespe e molti ragazzini dei quartieri popolari camminano ancora a piedi scalzi. Il Paese cerca di dimenticare le sofferenze e la fame della guerra sognando l’abbondanza. E il cinema italiano ne riflette lo spirito lanciando le cosiddette maggiorate fisiche, cresciute a forza di farinacei e legumi. Ma quando sugli schermi compare la bionda Marilyn le nostre dive ridiventano pallide ombre. Sono tre i film che avvolgono lo spettatore in una nuvola di desiderio: Niagara di Henry Hathaway, Gli uomini preferiscono le bionde di Howard Hawks, Come sposare un milionario di Jean Negulesco, l’eccentrico regista che aveva un guardaroba degno di un re: ottocento vestiti, tremila cravatte, novecento paia di scarpe, cento panciotti. I tre film erano stati girati nel 1953. Un anno davvero speciale. In Niagara, il glamour dell’attrice sta nella camminata orizzontale, una sorta di ancheggiamento al rallentatore pressoché inimitabile, che assieme al vestito rosso attillato fanno la cifra del film e suggeriscono al regista di inserire nella sceneggiatura la fulminante battuta raccolta durante le riprese: “Ce l’avranno qui un estintore?” Marilyn diventa un modello in tutto: nella risucchiata della pancia per tenere alto il petto, nel modo di truccarsi e di vestirsi, nel modo di parlare e di cantare, nel modo di essere altra da sé, sciocca e giuliva, pur tenendo diari appassionati e covando arditi pensieri. Via Etnea cambia colore, il bruno fa posto al biondo ossigenato mentre i ragazzi mettono nei portafogli di 348 plastica, con lo specchietto e il pettinino, una foto della diva, dolce e burrosa, senza complicazioni intellettuali, spiritosa e vaneggiante. La mettono nel portafogli e nelle discussioni, come i vitelloni di Fellini. “Ma tu, se venisse adesso Jane Russell e ti dicesse: dài, pianta tutto e vieni con me, ci andresti? Ostia se ci andrei!”Più vicini al loro gergo, i catanesi avrebbero sostituito Jane con Marilyn e al posto dell’ostia avrebbero utilizzato l’immortale definitoria espressione: minchia! I giovani catanesi di allora, a parte l’inguaribile orgoglio di sentirsi diversi e comunque più “sperti” dei giovani che vivono al di là della cinta daziaria, definiti zaurdi o zampirri, in realtà sono come tutti gli altri: spacconi, provinciali, ignoranti. Solo la linea gotica segna un modo diverso di esprimersi, di abbigliarsi, di sognare e di sperare. Oggi invece l’appiattimento ha varcato i confini nazionali. L’omologazione è totale. Roma riflette in maniera precisa, quasi fotografica, le capitali europee, e non solo. Per le vie del centro scorre la stessa variopinta umanità che vediamo a Berlino, a Londra, a Bruxelles, a Vienna, a Parigi. Stessi tic, piercing, risate, stessa solitudine camuffata. Tanto vale, ti chiedi, startene in riva al tuo mare, sotto il tuo sole e le tue stelle, e magari leggere un libro su quelle capitali che ami da prospettive lontane, perché a osservarle da vicino la delusione è fatale. La Tv, internet, google, facebook, twitter, myspace, youtube, i cellulari, gli sms, le e-mail, tutto questo mondo tecnologico, affascinante e ingannevole, ha distrutto il Reale, ha polverizzato l’identità delle persone, ha frullato le loro anime e creato una realtà parallela, virtuale, dove tutto è uguale e indefinito. Si arriva al paradosso di perdere il gusto del viaggiare, la curiosità di vedere altri posti, sognare altri orizzonti, perché il mondo ce l’hai già in casa, sullo schermo, magnifico e astratto come un paradiso ritoccato con sapienza. Insomma, meglio la copia che l’opaco originale, meglio il non-luogo che il luogo. Per conseguenza, ciò che muove l’interesse non è più la diversità e la bellezza, ormai inafferrabili in sé, ciò che 349 intriga, dopo avere visto di sfuggita l’ennesimo monumento ed essersi annoiati a guardare l’ennesimo quadro di scuola italiana o fiamminga, è correre al ristorante vicino, possibilmente italiano, e finalmente rilassarsi, ritrovare il gusto della propria mediocrità. Ma allora perché mai questa umanità, che non legge, che non sa raccontare ciò che ha visto, che si ubriaca di comode astrattezze, che riesce al massimo a esprimere concetti generici di ammirazione, va in posti così lontani per essere poi così vicini al proprio quartiere? Lo fa per vanità, per noia, per mostrarsi agli altri, per dire cose che ha capito solo attraverso i documentari e le riviste patinate. Che cosa occorre, dunque, per rompere il cerchio dei mirabolanti teoremi da cortile mediatico? Niente. Svenarsi di solitudine. Armarsi di libri, di guide, di film veri e non calligrafici per capire che le pietre non sempre sono semplici pietre e che le immagini, a prima “scansione” piatte e deludenti, nascondono particolari interessanti, come la foto del delitto in Blow up. In ogni caso, mai mettere a sipario le proprie glorie patriottiche, mai confrontare il loro con il nostro ma accostarsi con animo puro e disinteressato alle diverse patrie che sembrano le stesse ma non lo sono. E quando si entra nei musei non bisognerebbe correre ma camminare, lento pede, ammirare i capolavori senza pensare alla pizzeria o al kish kebab, e farsi spiegare perché un dipinto è così importante, perché la ronda di notte di Rembrandt è tra le cose più belle di Amsterdam, perché uno degli autoritratti del ribelle Van Gogh manca di un orecchio e perché migliaia di critici d’arte non sanno compiutamente spiegare il sorriso della Gioconda. In verità, l’unico modo per capire è discendere nell’Ade, nelle biblioteche e nelle cineteche d’essai, nel regno delle ombre, parlare ai morti che però sono vivi perché è lì che trovi, accanto al passato nobile e immortale, l’anima di un popolo, la sua diversità. Marilyn Monroe, Betty Grable, Lauren Bacall. Un formidabile trio di arrampicatrici sociali che nel film 350 Come sposare un milionario tentano di accalappiare un tycoon e finiscono tra le braccia di bravi e spiantati giovanotti. Il mito di Cenerentola si rinnova a ogni generazione. Le ragazze dei bassi o dei piani rialzati, con la testa nei romanzi rosa di Liala, Delly e Barbara Cartland, cercano di colmare il divario sociale valorizzando tette e deretani mentre la gran parte dei ragazzi, eterni appiedati e sfasolati freschi, non potendo aspirare al mito della favola, essendo al più principi poveri, tentano di rimediare nelle ultime file dei cinematografi. Per solito, rimediano racchie o disperate. Le migliori se le spupazzano i figli di papà, i principi veri, accessoriati con macchine e denaro sonante, anche se a cervello, per giudizio degli appiedati, stanno messi male. Di solito, questi giovanotti high cost provengono da accessoriate famiglie che hanno due di tutto: una casa in città e una in campagna, un doppio conto in banca, un doppio visone lei, un doppio cappotto lui, due bagni, due camere da pranzo, due auto, due cani, senza contare il doppio mento e l’odio per le tasse e i comunisti. Rosina Anselmi, che in una commedia di Martoglio si vantava di avere a casa sua “uno di tutto”, era una poveraccia. Nell’anno del boom, in piccola parte, le cose cambiano. Le Fiat Cinquecento diventano veri e propri boudoir viaggianti. Molti cominciano col petting, in modo che i fiati appannino i vetri; altri però, più meticolosi e pazienti, tappezzano prima l’abitacolo con fogli di giornale fissati con lo scotch e quando hanno finito, sudati e stremati, tentano l’affondo. Ma le vittorie sono poche, sofferte e stressanti. Basti pensare alla manopola del cambio, piantato sul pianale, che t’impedisce ogni onesto peccato. Per non dire del tutore dell’ordine (morale) che talvolta bussa al finestrino e, tra l’imbarazzo del cavaliere e la vergogna della dama, chiede i documenti, non si sa per quale reato dal momento che su quelle strade solitarie e in quell’ora di lupi non passeggiano nemmeno i lupi. Ma, si sa, la legge è legge, anche se a farla rispettare è qualche 351 sporcaccione vestito da questurino. Marilyn era anche un’attrice spiritosa. Davvero fantastico il numero della guardarobiera in Follie dell’anno. L’attrice, che vuole fare l’attrice, cerca di esprimersi con tutti i verbi e gli aggettivi a posto, ma rovina in una specie di parlata martogliana irresistibile. Le ragazze degli anni Cinquanta, le nostre ragazze, la imitavano benissimo. Quando a scuola o in società parlavano in italiano, perché a casa la lingua ufficiale era ancora il dialetto, raddoppiavano o scambiavano le consonanti. Erano utili tentativi di promozione sociale ma certo rappresentavano rovinosi esercizi di fonetica. In quegli anni la lingua italiana, il parlare corretto, rappresentava un modo per farsi accettare a un livello sociale più alto. Chi parlava in dialetto era figlio di poveri, chi invece si esprimeva in italiano era figlio di ricchi. Prima di girare Orchidea bionda, del 1948, Marilyn ha dovuto essere gentile con una quantità impressionante di uomini: giornalisti, produttori, attori, registi, mitomani, sfruttatori, malavitosi. Molti fotografi confessavano che, non appena posavano la macchina fotografica, l’attrice, per riconoscenza, guardava verso la superficie orizzontale più vicina come a una conclusione logica del lavoro. In Il sofà del produttore i giornalisti inglesi Alan Selwyn e Derek Ford dedicano all’attrice un capitolo, dopo avere spettegolato su tutta la crème delle dive di Hollywood. Louise Brooks, per esempio, attrice degli anni Venti, un giorno andò da un produttore per avere una parte in un film, ma questi senza mezzi termini le domandò: “Che cosa le fa pensare di avere le qualità necessarie per diventare un’attrice cinematografica?” Al che Louise, che intanto si era spogliata, rispose adagiandosi con eleganza sul sofà: “Va bene così, tanto per cominciare?” Louise era una flapper, una maschietta come Clara Gordon Bow, l’attrice lanciata dalla scrittrice Elinor Glyn e che il pubblico amò per quel suo “certo non so che”, l’attrice 352 dal viso d’angelo nata da una madre schizofrenica e da un padre che abusava di lei. In quel periodo Marilyn aveva subito una dozzina di aborti. E in questo chemin de fer cercava di perfezionarsi: recitazione, dizione, ginnastica, letture. Non era molto alta, un metro e 66, né possedeva forme strepitose, ma aveva un sex appeal irresistibile. Nel 1949 il chirurgo estetico più quotato di Beverly Hills le ritoccò il naso, le mascelle e i denti. Il risultato fu esplosivo. La magnifica preda fu l’unico western girato da Marilyn, ma l’attrice lo reputò un film di “serie zeta”. Forse non perdonò al regista, Otto Preminger, che non fece un buon lavoro, la feroce battuta: “Dirigere Marilyn Monroe è come dirigere Lassie, occorrono troppi ciak prima di ottenere che abbai nel modo giusto”. Nel film, lei è Kay Weston, una cantante di saloon; lui, Robert Mitchum, è Matt Calder, un agricoltore rozzo ma coraggioso, che alla fine la conquista. La scena finale è una di quelle che sono entrate nella leggenda del cinema: Kay si toglie le scarpette rosse da artista del varietà e le getta nella polvere mentre il carro di Matt la conduce verso una nuova vita. I due attori si erano conosciuti una decina d’anni prima, quando lavoravano come operai in uno stabilimento che fabbricava paracaute per conto dell’aviazione. Non meno suggestiva la sequenza che precede il lancio delle scarpette: Marilyn, seduta tra i rudi lavoratori delle miniere d’argento dell’Idaho, che canta la bellissima Il fiume del non ritorno. “There is a river called The river of no return/ sometimes it’s peaceful and sometimes wild and free!…” Alla fine della canzone uno pensa: adesso mi getto ai suoi piedi e faccio come il professor Unrath. Il film arrivò nelle sale cinematografiche catanesi nel 1955 e molte ragazze, immedesimandosi nel ruolo della bella e desiderabile Kay, rispolverarono l’antico segno di disponibilità al matrimonio allungando la sottana di 353 qualche centimetro. Era un tecnica che s’usava nel popolino. Le ragazze, non ancora maritate o fidanzate, utilizzavano quella civetteria per catturare le “prede”. Una volta messe nel sacco, badavano a nascondere le sottane. Guai se le avessero lasciate occhieggiare dagli orli, sarebbero state definite “tappinare”, donne allegre cioè, donne disponibili all’avventura, donne che stanno per lo più in casa, in vestaglia e con le tappine, le pantofole, pronte all’uso… dell’amore. Le donne sposate, invece, le donne che tenevano alla reputazione, prima di uscire di casa controllavano che i merletti non spuntassero sfacciatamente dalle gonne. La vita di Marilyn Monroe non stabilisce un confine tra pubblico e privato, la vita dell’attrice è un copione drammatico e misterioso. Come la sua fine. Molti scrittori e giornalisti hanno provato a raccontare la sua storia, la storia di un’infanzia infelice, la storia di una starlet che riesce a separare con suprema innocenza il corpo dall’anima, la storia di una diva esplosiva e di un’attrice formidabile, la storia di una morte “utile”. Tutti sono riusciti a cogliere uno o più aspetti della sua personalità, ma tutti o quasi si sono arenati di fronte alla sua fine: suicidio, fatalità oppure omicidio? Era nata nella città degli angeli il primo giugno 1926. Si chiamava Norma Jean Mortensen. Sua madre montava i negativi in un’industria cinematografica ed era psichicamente instabile. Il padre se n’era andato prima che lei nascesse. Passò l’infanzia tra orfanotrofi e famiglie adottive fino a quando trovò il suo passaporto in Jim Dougherty, un bravo ragazzo che la sposò nel 1942. Scrivono Selwyn e Ford. “Goffa e grassoccia rallegrava se stessa e il suo giovane sposo aspettando che tornasse a casa, la sera, distesa, nuda, sul pavimento dell’anticamera”. Quella vita domestica finì quando suo marito partì per la guerra e lei si impiegò nella fabbrica di paracadute. Cominciò allora a posare per alcuni fotografi e a tradire il combattente Jim. Quando il combattente Jim tornò pieno di gloria e di speranza 354 Norma Jean aveva già fatto le valigie per il successo: una serie di calendari e un paio di comparsate (Giungla d’asfalto ed Eva contro Eva). Nel 1954 sposa Joe Di Maggio, il re del baseball, che ha appena smesso di giocare ma che è ancora una leggenda. Il matrimonio dura poco. L’italo-americano è geloso. “Non è divertente”, dice “essere sposato con una luce elettrica”. Si lasciano con dolore. Ma restano amici. Per anni l’attrice si rivolgerà al suo campione nei momenti di difficoltà. Specie dopo il divorzio dal terzo marito, Arthur Miller, il popolare commediografo nella cui ombra tentò di vivere e di nascondersi. Ma Miller era un grand’uomo alla rovescia, meschino e crudele. Combatté ogni sopruso e ingiustizia, si fece paladino dei perseguitati dal maccartismo, fu simbolo di democrazia e rigore, ma quando dalla terza moglie, Inge Morath, ebbe un figlio down, Daniel, lo cancellò dalla sua esistenza. E su questo povero figlio infelice imperversò anche dopo la morte. Quando capì che non c’era più niente da fare, che la Vecchia Signora aspettava da un pezzo sull’uscio, il Grand’Uomo diede ordine ai parenti e agli amici più stretti che il figlio Daniel non partecipasse ai funerali. Sarebbe stata una vergogna, per lui che pensava di sopravvivere alla morte! Con le sue opere di cartapesta non poteva, infatti, permettersi uno scandalo. Vecchio cinico pazzo, artista sopravvalutato, marito incapace di capire, uomo a mezzo servizio, ipocrita e piccolo borghese. La congiura del silenzio fu mantenuta. Solo di recente Vanity Fair e The New York Times hanno scoperto gli altarini e capito perché la vena di Miller dopo quel drammatico evento si fosse improvvisamente inaridita. Forse il rimorso aveva bussato con successo alla sua porta e gli aveva tolto la capacità di pensare e di esprimersi. Forse. La vita di Marilyn nasce e muore come un fotoromanzo: bianco e nero, candore e malizia, luce e tenebra. Una ghiotta preda per i settimanali rosa, che le donne italiane divorano senza complessi. L’Italia registra primati europei in questo genere di letture. Gli 355 uomini invece leggono poco, al più quotidiani sportivi. E sognano la donna, come faceva Vitaliano Brancati, la sognano al cinema e se la portano in tasca, profumata, sensuale, distribuita in calendario dai barbieri. In Fermata d’autobus è Cherie, un personaggio da tre soldi. Ma Marilyn riesce a renderlo intenso e credibile. Al confronto, gli altri attori scompaiono, a cominciare da Don Murray al suo esordio cinematografico, legnoso ed eccessivo. Anche questo film registra i ritardi e i capricci dell’attrice. Con il regista, Joshua Logan, Marilyn aprì le ostilità cominciando a esigere che Hope Lange non avesse i capelli biondi come i suoi. La verità era che l’attrice aveva bisogno costantemente di essere rassicurata. Era insicura, testarda, capricciosa. Tutto serviva a farle rimandare il momento in cui avrebbe dovuto affrontare il mondo come Marilyn Monroe. Lo schermo la spaventava, il set la spaventava. In Fermata d’autobus non riuscì a completare una scena con Hope Lange. Si confondeva e ripeteva gli stessi errori al punto che Logan fu costretto a risolvere il problema in sede di montaggio, giuntando abilmente gli spezzoni del dialogo. Pressappoco a quell’epoca Marilyn cominciò a frequentare i sexy-parties organizzati da Peter Lawford, cognato di John Kennedy, per avere sposato una sorella di lui, e che Joyce Carol Oates nel suo monumentale Blonde definisce il ruffiano del presidente. Nel già citato libro, Selwyn e Ford scrivono: “Marilyn cominciò a avere paura di vivere, paura di addormentarsi e paura di svegliarsi. Si abituò ai sonniferi e all’alcol e diventò sempre più inquieta”. Lasciò il set per due anni, tentando, inutilmente, di diventare madre, la sua indomita aspirazione. Ma i numerosi aborti, ai quali si era sottoposta quando era una starlet, e si dava via per una foto o due righe su un giornale, oppure s’inginocchiava sulla moquette davanti ai produttori, avevano minato il suo fisico, anche se non irrimediabilmente, come vedremo. Riprese a lavorare. A qualcuno piace caldo riuscì a girarlo grazie alla tenacia 356 di Billy Wilder. Ma l’attrice andava sempre più spesso fuori di testa. Ritardi mostruosi, scene rifatte infinite volte. La sequenza del bacio con Tony Curtis sullo yacht fu ripetuta 47 volte. Alla fine, l’attore commentò sfinito: “È stato come baciare Hitler”. Al termine della lavorazione lo stesso Wilder disse: “Ho ripreso a mangiare, non ho più il mal di schiena e guardo mia moglie senza volerla picchiare per il semplice fatto che è una donna”. Solo il successo di cassetta del film riuscì a salvare la carriera di Marilyn. Ma ormai il sipario stava calando rapidamente sulla sua vita. L’incontro con Yves Montand sul set di Facciamo l’amore determinò il crollo. Si era innamorata del bel francese, ma Yves il seduttore, dopo essersela spassata, preferì restare accanto alla moglie di ferro Simone Signoret. Fu allora che l’attrice, come raccontano Selwyn e Ford, “cominciò a comportarsi come se, per disperazione, volesse dimostrare a tutti i costi di essere amata e desiderata. Invitava nel suo letto chiunque le mostrasse un minimo interesse, fattorini, operai che lavoravano nella casa che aveva appena comprato, attori che incontrava alle serate in casa di Peter Lawford”. Al confronto, Jane Digby, l’aristocratica dama inglese che vantava una lista di amanti lunga quanto l’Almanacco Gotha, era una dilettante. Come prima più di prima, dunque. Una rovinosa caduta negli inferi della depressione, e forse della pazzia. Quando il presidente Kennedy, a una di quelle feste, notò Marilyn e chiese al cognato di portargliela “nel capanno laggiù”, Peter Lawford tracciò della diva un ritratto terrificante: “Quella là, ha avuto decine di aborti, tira cocaina, si spara in vena Benzedrina e Luminal e ha tentato numerose volte il suicidio. Non credo che ti convenga”. Nel 1960 gira nel deserto del Nevada, accanto a Clark Gable, Montgomery Clift ed Eli Wallach, il suo film più complesso e difficile, Gli spostati, scritto dal marito, Arthur Miller, e diretto da John Huston. L’attrice qui è grande perché grande è la sua infelicità. Il film è la metafora della sua vita: una donna sola che 357 ha paura di vivere nel deserto dell’esistenza e che cerca, disperatamente, di salvarsi. Il film successivo, Something’s Got to Give, non riuscirà a finirlo. Eppure, fisicamente, era tornata quella di prima. C’è una sequenza, quella del bagno in piscina, che la mostra nel suo antico splendore, dolce e desiderabile, e con un seno all’altezza della situazione. Purtroppo, era la testa che non funzionava più. E siamo al grande mistero della morte. Marilyn fu trovata esanime, nuda nel suo letto, la notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962. Secondo la versione ufficiale la causa del decesso fu dovuta a un’overdose di Nembutal, lo psicofarmaco che l’attrice prendeva abitualmente. Ma anche se è giusto il referto dell’autopsia restano aperte le tre ipotesi: errore, suicidio, omicidio. La seconda congettura è la più accreditata ma molti preferiscono l’ipotesi di Alan Selwyn e Derek Ford ne Il sofà del produttore. Due mesi prima di morire, Marilyn fu prelevata da casa e portata in volo in Messico per essere sottoposta, contro la sua volontà, a un aborto. Il bambino era di Robert Kennedy al quale il grande fratello John aveva “passato” l’attrice. Marilyn voleva quel bambino ma la famiglia Kennedy temeva che l’attrice, se il piccolo fosse nato, avrebbe svelato prima o poi la paternità di quel figlio. Da qui la decisione di uccidere il bambino. Furono due mesi di pianti e disperazione. Marilyn diventò un fantasma. Sul set non si presentava, accampava scuse, era depressa, beveva e si drogava. Ora se quella notte, tra il 4 e il 5 agosto, l’attrice decise di farla finita oppure se i Kennedy, timorosi di uno scandalo sempre possibile, l’avessero fatta ammazzare con un’iniezione di Nembutal liquido, come sostiene la scrittrice Carol Oates, non sembra più importante. Marilyn Monroe era stata uccisa moralmente due mesi prima e poi spinta a morire a causa di quell’infame aborto. Il regista e sceneggiatore Donald Wolfe nella biografia dedicata all’attrice dice qualcosa di più. Sostiene che Marilyn fu uccisa alla presenza di Bob 358 Kennedy, arrivato in tutta segretezza nell’ abitazione dell’amante, con una dose di barbiturici sufficiente a uccidere quindici persone. Poi la casa fu messa sottosopra alla ricerca di documenti, foto, diari che potessero rovinare la già traballante reputazione dei Kennedy. Una settimana prima Marilyn era stata imbarcata nell’aereo personale di Frank Sinatra e condotta nel più assoluto riserbo a Lake Tahore, tra le montagne dell’Alta Sierra, a trecento chilometri da San Francisco, e ospitata al Cal-Neva Lodge, l’albergo che Sinatra possedeva col mafioso Sam Giancana. Qui la diva fu drogata, costretta a avere rapporti con più uomini e fotografata. Evidentemente quelle foto non furono sufficienti a mettere al riparo Bob e John dalla “pazzia” della Monroe. La tesi dell’omicidio fu per altro sostenuta anche da Norman Mayler in un’altra biografia al vetriolo messa sotto tutela dall’FBI. Per accreditare la loro tesi, Selwyn e Ford raccontano un fatto forse decisivo. Ventidue anni dopo la morte dell’attrice i due scrittori, che lavoravano come sceneggiatori e produttori a Hollywood, su incarico di una casa cinematografica italiana, andarono a trovare Peter Lawford, ormai vecchio e dimenticato, per fargli una proposta di lavoro. Lawford naturalmente accettò di corsa ma quando cominciarono a spiegargli la trama del film impallidì. Si trattava della storia di una donna che si vendica di un uomo molto potente. E più i due giornalisti scendevano nei particolari più l’anziano attore impallidiva. “Nel momento in cui si accorge che aspetta un bambino”, raccontarono Selwyn e Ford “la donna minaccia di farlo sapere a tutti, e minaccia di dimostrarlo con l’analisi del sangue del bambino, quando sarà nato, che è proprio figlio dell’uomo potente. Lui allora la fa rapire e la costringe a un aborto, perché non ci siano prove”. Lawford a quel punto si alzò di scatto, tremante, era fuori di sé. “Voi siete pazzi!” esclamò “Qui ci ammazzano tutti”. Era molto strano che un attore ormai dimenticato e ridotto quasi alla carità rifiutasse un’offerta di lavoro e se ne uscisse 359 con quella tremenda frase. Povera Marilyn. Al compleanno di John Kennedy indossò un vestito vertiginoso che aveva pagato con i soldi che non aveva. Ma per il suo presidente voleva fare bella figura, mostrarsi all’altezza di quel grand’uomo che non era. Felice compleanno Mister President. E auguri Mister Fratello. Diciannove maggio 1962. Due settimane più tardi l’aborto in Messico, poi la morte nella sua casa in stile messicano di Brentwood, California. Sette anni prima, il 30 marzo 1955, Marilyn, a una festa di beneficenza, organizzata dal Circo delle celebrità al Madison Square Garden di New York, si presentò in groppa a un elefante dipinto di rosa e per oltre 20 minuti rimase nell’arena salutata dalla folla in delirio. C’è però da aggiungere che la diva fu costretta a sorridere suo malgrado, durante quegli eterni minuti, perché aveva uno spillo conficcato in un gluteo. Distrazione imperdonabile della sarta. Alla fine, questa è stata la vita vera di Marilyn Monroe: uno stupido spillo dimenticato tra perline e voile di un costume di scena. E tuttavia la sua immagine, per dirla con Jean Cocteau a proposito di Proust, continua a vivere come gli orologi al polso dei soldati morti. Continua a vivere nell’immaginario collettivo d’America se è vero che una signora di Beverly Hills qualche anno fa ha messo all’asta la tomba del marito, che sovrasta quella dell’attrice, con questo slogan: “Trascorrere l’eternità direttamente sopra Marilyn”. Come scrive Oriana Fallaci, sempre ne I sette peccati di Hollywood, il ricordo della morte è bandito dal cimitero di Forestlawn. “Bella ragazza, non ti piacerebbe dormire nei secoli accanto a Bing Crosby? Ho un posticino che va proprio bene per te”. 360 DICIASSETTE Elizabeth Taylor La storia di Hollywood sarebbe incompleta senza i bambini prodigio, i gifted, molti dei quali si sono persi per strada. Shirley Temple, soprannominata “riccioli d’oro”, fu una miniera per i genitori. C’era un che di finto e di irritante nella sua recitazione ma il pubblico, sempre avido di storie edificanti e di figli assennati, correva a vederla. Divenuta adulta lasciò saggiamente il cinema, si sposò con un uomo d’affari californiano, Charles Black, che le aveva candidamente confessato di non averla mai vista recitare, e si buttò in politica. Prima di lei c’era stata Mary Pickford, la ragazzina ingenua e spiritosa, anche lei coi capelli biondi inanellati, che cominciò a recitare in teatro a quattro anni accanto alla madre prima di approdare al cinema con ruoli di derelitta e diventare la “fidanzatina d’America”. Era una donna spregiudicata che seppe imporsi con abilità e astuzia nel mondo artistico così come in quello degli affari. Baby Peggy, invece, cominciò a recitare a diciannove mesi. A tre anni era già apparsa in 150 film a due rulli. Continuò ad affascinare il pubblico, nei lungometraggi, fino alla fine degli anni Venti, poi subì il destino inevitabile delle artiste bambine: diventò adulta. Dean Stockwell, “il ragazzo dai capelli verdi” scoperto da Losey, continuò a recitare anche da grande ma senza smalto; così pure Freddie Bartholomew, eccellente interprete di Capitani coraggiosi di Victor Fleming, accanto a Spencer Tracy. In tempi recenti, tra i divi bambini che hanno oltrepassato senza danni la linea d’ombra c’è da ricordare Jodie Foster, la più popolare, la più brava. Cominciò a tre anni con la reclame della crema abbronzante Coppertone (famoso il manifesto di lei col cane che le scopre mezzo sederino) per poi approdare al ruolo della giovanissima prostituta, redenta da Robert 361 De Niro, in Taxi driver. E poi c’è Drew Barrymore, pronipote di Lionel Barrymore che con il fratello John e la sorella Ethel diede vita negli anni Trenta e Quaranta alla cosiddetta Famiglia reale di Hollywood. Anche lei diventò famosa con uno spot pubblicitario, addirittura a undici mesi, prima di impersonare il ruolo della piccola Gertie in E.T. di Steven Spielberg. A nove anni era una stella di prima grandezza e a dieci aveva sperimentato la dipendenza dall’alcol e dalla droga. Storia vera, purtroppo, non come quella che la giovane e spregiudicata giornalista Janet Cooke del Washington Post che nel 1981 s’inventò di sana pianta sul bambino di otto anni assuefatto all’eroina: per quella bufala vinse il Premio Pulitzer. Nikka Costa, quando aveva ancora i boccoli, accompagnata con la chitarra dal padre, il celebre musicista Don Costa, incantò il pubblico con la canzone On my own. In tempi recenti, Laura Esquivel, la quindicenne brasiliana, protagonista di una popolare telenovela, Il mondo di Patty, è stata eletta loro paladina dai teenagers di mezzo mondo. E lei, Patito Feo, il brutto anatroccolo come da titolo originale, mostra un’insospettabile saggezza: “I genitori devono aiutare i loro figli a comprendere che la vera bellezza è ciò che hai nel cuore”. I bambini prodigio, nel cinema come nella realtà, sono terrificanti. Ma ancora più terrificanti sono i loro genitori. Justin era un ragazzo americano piuttosto sveglio per la sua età ma la madre non dormiva la notte, dunque ancora più sveglia di lui, per farlo riconoscere come un bambino eccezionale. Per raggiungere lo scopo si rivolge a istituti specializzati nell’istruzione di bambini prodigio, e li informa, via Internet, che il figlio, a soli tre anni, ha superato i test d’intelligenza per adulti. Una volta ammesso ai corsi, Justin, sempre via Internet, a cinque anni finisce le medie, a sei si diploma al liceo Cambridge Accademy e a sette si iscrive all’università di Rochester, nello Stato di New York. La madre, come ci informa Ugo Bosetti nella rivista dell’Associazione Prodigio Onlus di Trento, apre anche 362 un sito Internet intitolato: “Benvenuti nella casa del bambino più intelligente del mondo”. La fama del piccolo genio dilaga, Justin diventa ricco con le donazioni e le offerte di istituti specializzati, finché la genialità del ragazzino viene messa a dura prova dal confronto con studenti e professori veri. Dopo le prime lezioni universitarie, Justin non segue i corsi, vaneggia, si nasconde sotto i banchi, scoppia in pianti e urli, prende a calci i muri e i tavoli, rifiuta di mangiare, vomita in classe. Visitato da uno psichiatra, ne viene fuori una diagnosi terribile: Justin è un bambino sconvolto, terrorizzato, quasi psicotico. Se non verrà sottratto subito alla madre diventerà clinicamente pazzo. E allora, tutti quei test, quei diplomi e attestati? Truffe, semplicemente truffe! La madre aveva sostenuto per lui gli esami, approfittando dell’anonimato di Internet e della credulità delle scuole. Quando le prove erano diventate troppo difficili anche per lei, aveva scaricato via computer i test fatti dai più brillanti studenti del Paese, li aveva riprodotti, manipolati e attribuiti al suo Justin. Nella mia scuola cattolica c’erano ragazzi lenti, addummisciuti, e ragazzi svegli, come in tutte le scuole della Repubblica. I ragazzi addormentati avevano la testa tra le nuvole, forse perché un poco stupidi forse perché un poco immaturi o romantici, mentre i ragazzi svegli avevano i piedi a terra, forse perché più intelligenti o convenzionali. I ragazzi svegli prendevano buoni voti e alcuni di loro ottimi. Ricordo che ce n’erano due, bravi ragazzi in verità, che passavano uno per “latinista” e l’altro per “grecista”. Personalmente li ammiravo e cercavo di misurarmi con loro pur nella ristrettezza dei miei mezzi culturali. Anni e anni dopo, venni a sapere, da uno degli stessi protagonisti, una verità sconcertante. Il professore di latino e greco, che a me pareva intransigente e incorruttibile, gli dava lezioni private. Per i miei genitori era impensabile mandare i figli a ripetizione, impensabile pagare due volte un 363 servizio già costoso, impensabile che un docente si prestasse a simili scorrettezze. Evidentemente, a quel docente sfuggiva un elementare ragionamento: se un alunno non sta al passo con gli altri tu insegnante hai il dovere di rimetterlo in carreggiata, se non sei in grao di farlo, cambia mestiere; ma non puoi sfruttare la svogliatezza del ragazzo (o la sua limitatezza) per arrotondare lo stipendio. Il tempio dell’educazione è uno. Se poi i ragazzi messi a ripetizione diventano i più bravi della classe il discorso si fa ancora più odioso, perché l’eccellenza va assicurata a tutti. Non può essere considerata un extra a pagamento. Ma era così poco seria la scuola allora! Bastava che il padre di un alunno possedesse una bella automobile, e ogni tanto la prestasse all’istituto, perché all’alunno, magari scecco, magari svogliato, venissero assicurati buoni voti. Elizabeth Rosemond Taylor era una bambina prodigio. Spaventosamente bella e sfortunata. Molti critici aggiungono: inquietante, sensuale, tenebrosa. La sua vita è stata a dir poco turbolenta, segnata da sette mariti e otto matrimoni (con Richard Burton si è sposata due volte), tossicodipendenza, bulimia, malattie, capricci. Insomma, alla diva è mancata una stagione, è mancata la primavera. È stata lanciata direttamente nell’estate, nell’abbaglio della frivolezza e delle insonnie, per declinare verso l’autunno e infine approdare nell’inverno più freddo… “dolcissima la foglia s’abbandona al puro gelo” (Montale). Nel 1945, a soli tredici anni, gira Torna a casa Lassie di Fred Wilcox. Ed è un successo mondiale. La storia del cane, che dopo varie peripezie ritorna dalla padroncina, commuove grandi e piccini. L’anno dopo si aggiunge un altro successo importante, Gran premio, in cui interpreta una ragazzina che si allena con impegno per portare alla vittoria il cavallo vinto a una lotteria. Le è accanto Michey Rooney, il “lascerei perdere” ex marito di Ava Gardner. La leggenda vuole che il regista non volesse affidarle il ruolo perché troppo piccola di 364 statura. Ma in tre mesi, a forza di cibo, vitamine ed esercizi, riuscirà a crescere di otto centimetri e ad avere la parte. Una sorta di pollo in batteria, insomma, ingozzato con mangimi renforcé e pronto per essere servito a un pubblico affamato di novità. A quindici anni è la figlia modello in Vita col padre di Michael Curtiz, ed è famosa in tutto il mondo, guadagna mille dollari la settimana e per far fronte ai numerosi impegni è costretta a lasciare la scuola. Come la catanese Melissa P. che abbandona il liceo e si trasferisce a Roma dal fidanzato per promozionare il super letto Cento colpi di spazzola e scrivere un secondo romanzetto ancora più inutile del primo. Il titolo del trasgressivo (o porno?) primo romanzo sembra copiato da una frase di Fleur Jaeggy (I beati anni del castigo) e da un’altra di Hemingway (Avere e non avere) laddove un minore personaggio dell’Avere dà “ai capelli i primi colpi di spazzola dei cento regolamentari” prima di andare a letto, prendere il luminal e addormentarsi avendo cura di non dormire “con la faccia sul cuscino” per non sciuparla. La stessa abitudine aveva la giovane Nancy Clutter prima di essere uccisa a sangue freddo con tutta la famiglia nella fattoria di Holcomb nel Kansas occidentale. Spazzolare i capelli serve a ossigenarli e serve anche a pensare, a interrogarsi, a riassumere la giornata trascorsa, a tentare di programmare quella che viene, come mi padre faccia la lolita siciliana nel suo unico momento serio della giornata. A diciotto anni, ricca viziata ignorante, dopo fidanzamenti vari, Elizabeth si sposa per la prima volta: il prescelto è Conrad Nicholas Hilton, figlio del presidente dell’omonima catena di alberghi di lusso. “Il cuore sa quando incontri l’uomo giusto”, dice l’attrice. Ma dopo otto mesi burrascosi lo lascia. Anni dopo rivelerà di avere perso un figlio per le botte ricevute. L’anno del divorzio è l’anno dell’immortale Un posto al sole di George Stevens. Il film racconta la storia di un piccolo impiegato di provincia che s’innamora 365 perdutamente di una deliziosa ragazza dell’alta società e per sposarla pensa di sbarazzarsi della fidanzata, che pure aspetta un figlio da lui. Per quel pensiero, che si traduce in un tragico incidente, verrà condannato a morte. Poche attrici, di quelle che hanno attraversato idealmente la vita di molti ragazzi di allora, hanno avuto una così intensa, quasi spietata, influenza. Perché lei in quel film è bellissima, fragile, elegante, appassionata. Perché riassume magnificamente le eroine dei romanzi di Jane Austen e delle sorelle Brontë. Perché lei è insieme Marianne Dashwood ed Elizabeth Bennett, Jane Eyre e Catherine Earnshaw. Perché è la storia di un amore impossibile. Perché lei lo amerà per sempre, e lui scomparirà per sempre. Perché si piange e ci si dispera, come nei grandi drammi d’amore, come nell’altro romantico film Lord Brummel di Curtis Bernhardt, 1954, con la solita strepitosa Liz e uno Stewart Granger, manierato e dolente, nella parte di Beau Brummel, colui che insegnò agli inglesi e al mondo a curare l’igiene personale e a vestirsi con eleganza. Assolutamente magica in questo film la scena di lui che prende le distanze dal suo protettore, il principe di Galles, mentre lei, che gli era stata ostile perché lo riteneva un opportunista, si scioglie d’amore. E tu, ragazzo di vetro, non potevi non coltivare quella storia e quella bellezza dentro di te, dentro i tuoi anni acerbi, non potevi non coltivare quella giustizia amorosa che trionfava sulle convenzioni sociali, sulle rigidità di classe e di denaro. Quel sentimento trovò lacrime e magoni in un altro film immortale, L’ultima volta che vidi Parigi, di Richard Brooks,1954, in cui Liz, bella da togliere il fiato, recita accanto a un bravissimo Van Johnson, che assomigliava spiccicato a un mio vecchio collega della Rai, Orazio Ferrara. L’attore, rosso di capelli e di fronte ampia, interprete di molti film di successo, tra cui L’ammutinamento del Caine e 23 passi dal delitto, è morto alla fine del 2008 all’età di 92 anni. La notizia è stata ignorata da molti giornali. Il Corriere gli ha dato l’evidenza che si dà alle notizie a fascio, cinque righe. 366 Lo stesso giorno, sulla stessa pagina, campeggiava la morte di Bettie Page, la regina delle pin-up. Ricordando il film di Brooks, personalmente avrei rovesciato l’importanza del lutto. La storia di L’ultima volta che vidi Parigi s’ispira a un racconto di Francis Scott Fitzgerald. Lo scrittore ne realizzò anche la sceneggiatura per un film finanziato dal produttore indipendente Lester Cowan. Ma non se ne fece niente, come del resto era avvenuto per quasi tutti gli script del grande autore americano che non riuscì mai a sfondare a Hollywood, troppo fatua, perversa e superficiale per il suo talento. L’ennesimo rifiuto fu però il colpo di grazia. Scott abbandonò la carriera di sceneggiatore e tornò al romanzo ma da lì a poco, il 21 dicembre del 1940, dopo avere lavorato a un articolo sulla squadra di football di Princeton, a un tratto si alzò dalla sedia, si aggrappò per un attimo alla mensola del caminetto e cadde a terra morto. Tra i pochi amici venuti a rendergli l’ultimo saluto ci fu Dorothy Parker che era tutto: pianista, poetessa, scrittrice, giornalista. Si raccolse in silenzio e prima di lasciarlo lo salutò con queste parole: “Povero bastardo”. Le stesse parole pronunciate ai funerali del grande Gatsby. Quattordici anni dopo, la sceneggiatura, rimaneggiata da Budd Schulberg, approderà sul grande schermo con gli attori appena ricordati. Il vecchio Scott aveva creduto, secondo il giudizio di Cinzia Suglia, di poter vivere per sempre sotto le luci della ribalta, a ritmo di jazz. Morirà a 44 anni, quasi caduto nell’oblio. Davvero drammatica la sorte degli scrittori di talento che hanno lavorato per il cinema. Raymond Chandler, che di queste cose s’intendeva, definì la produzione hollywoodiana di assoluto rigore commerciale e sommamente lucrativa. Molti di quei film, secondo il giudizio del grande scrittore di pulp fiction, erano veicolo esclusivo “per esibire qualche bel tocco di figliola con due battute e diciotto cambi d’abito, oppure l’idolo maschile di qualche milione di beceri in doposbronza permanente con il fisico di un bagnino e la 367 mentalità di un ammazza galline”. E tuttavia perché molti scrittori di talento si piegarono alla logica mercantile, perché accettarono rapporti di lavoro umilianti? Pier Vittorio Tondelli non aveva dubbi: “Una villa con piscina a Bel Air, una moglie in visone, stuoli di domestici e tanti dollari”. Dicevo di Un posto al sole. Liz e Monty torneranno a recitare insieme nel 1959 in un film di Joseph Mankiewicz tratto da un dramma di Tennessee Williams, Improvvisamente l’estate scorsa. Niente di che. Williams lo conobbi nell’estate del 1982, a Taormina, nella casa dell’antiquario Carlo Panarello. Parlava un italiano stento ma comprensibile. Era allegro, cordiale, simpatico con quella faccia da contadino del Deep South. Lo accompagnava il pittore Henry Faulkner, omosessuale come lui e amico inseparabile. La prima volta che arrivò in Sicilia, nel 1948, fu per le riprese di La terra trema di Luchino Visconti. Lo aveva invitato Franco Zeffirelli che del film, tratto dal capolavoro di Giovanni Verga, era l’aiuto regista. Zeffirelli nella sua autobiografia racconta lo stato penoso in cui lo scrittore giunse dopo il viaggio in aereo. Per tutta la durata del volo, per paura, s’era ubriacato, aveva gridato e se l’era fatta addosso. Ma fu a Roma, come ricorda Ranieri Polese sul Corriere della Sera, che Williams trovò il suo paradiso: “una festa di Priapo” con due ragazzi incontrati qualche giorno prima. Il paradiso, probabilmente, lo trovò anche a Taormina, visto che vi soggiornava spesso. Nel 1958 accompagnò Anna Magnani, premiata col David di Donatello, dando vita ai soliti eccessi, come arrivare in ritardo, ubriacarsi e vantarsi di avere scritto La divina commedia. Un giornalista di Paese Sera gli dedicò un articolo al vetriolo nel quale, al limite del buon gusto, scrisse che Williams aveva le mani unte e pelose come chi “è abituato a frugare tra la biancheria maschile sporca”. Lo scrittore non sporse querela. “Il fatto che sia uscito su un giornale comunista”, disse “diminuisce 368 l’efficacia del danno, e poi è così tanto cattivo da essere ridicolo”. Gli feci tante domande alle quali rispose con garbo e intelligenza. Gli chiesi che valore avesse per lui la provocazione. Mi rispose che la provocazione era l’unica strada per arrivare alla verità. Poi mi disse che amava gli italiani del Sud per il loro calore… “perché dopo la morte si ha tutto il tempo per essere freddi”. Quando gli domandai chi fosse il più grande drammaturgo americano, naturalmente dopo di lui, mi allargò un sorriso senza risposta. Provai a incalzarlo. Eugene O’Neill? Per altro, premio Nobel nel 1936. Lui mi fissò con i suoi occhi azzurri, che avevano la profondità e la tristezza del vecchio Mississippi, si guardò in giro, tornò a fissarmi e disse abbassando la voce: “Eugene O’Neill non sapeva scrivere!” Poi scoppiò in una fragorosa risata. E allora chi è il più grande? Diventò serio. “Harold Pinter è il più grande drammaturgo vivente”. Un lusinghiero, e condivisibile, giudizio su Pinter è stato di recente espresso dal premio Nobel per la letteratura sir V.S. Naipaul, che per la verità ha demolito molti scrittori di talento, a partire da Jane Austen e finire a Hemingway e Dickens. Forse un po’ più di rispetto per quegli autori, che hanno affascinato intere generazioni e l’hanno piegate alla riflessione e alla comprensione dell’invisibile che sta sotto gli occhi, avrebbe accresciuto il suo prestigio di romanziere non ancora sancito dalla storia. Quando il conservatore e aristocratico Naipaul sarà in grado di scrivere un romanzo come Addio alle armi allora soltanto, forse, potrà dire di Hemingway che “era così occupato ad essere americano che non sapeva nemmeno dove stava”. Ferma restando l’insopportabilità della battuta. Hemingway l’ho amato per la sua scrittura di apparente semplicità, per la forza dei suoi personaggi, per la sua vita ribelle, perché ha ispirato film immortali come Addio alle armi (nelle due versioni), Per chi suona la campana, Le nevi del Kilimangiaro, Il sole 369 sorgerà ancora, Il vecchio e il mare, perché ha amato Venezia e il suo mistero, i cocktail del Caffè Florian, sotto i portici di piazza San Marco, e i piatti straordinari dell’Harry’s Bar di Cipriani (la cui figlia, bella e altezzosa ma con qualche numero professionale, fu per breve tempo mia collega al TG1) e perché lì, nella Laguna tra Caorle e Bibione, Hemingway ha trovato uno dei suoi grandi amori, la figlia del barone Raimondo Nanuk Franchetti, che diventerà l’eroina del romanzo Al di là del fiume e tra gli alberi. Al festival di Taormina del 1967, tre mesi prima che partissi per il servizio militare, furono invitati per la “notte delle stelle” al teatro antico Elizabeth Taylor e Richard Burton, allora la coppia più famosa del cinema internazionale. Erano innamoratissimi, si tenevano per mano, si scambiavano sorrisi e tenerezze, ma litigavano dalla mattina alla sera. Lei lo chiamava “sporco gallese ubriacone” (Burton, che negli ultimi anni beveva due bottiglie di whisky e una di gin al giorno, morirà di cirrosi epatica), lui replicava con epiteti non meno ingiuriosi: “palla di lardo”, “bambola senz’anima”. Si erano conosciuti in Italia, nel 1963, sul set di Cleopatra, il kolossal di Joseph Mankievicz che porterà alla rovina la Fox. Lei era sposata con Eddie Fisher, letteralmente rubato all’amica Debbie Reynolds, lui era sposato con Sybil Williams. Creò scandalo quello scippo d’amore. Debbie Reynolds era un’attrice di piccole aspirazioni e di grande garbo. La ricordo in Tammy, fiore selvaggio, una storiella agreste, diretta da Joseph Pevney nel 1957, il cui dolce leit-motiv è interpretato dall’attrice con romantica freschezza e che valse agli autori, Ray Evans e Jay Livingston, una nomination all’Oscar. Restò per mesi nella classifica dei dischi più venduti e ascoltati negli Stati Uniti. La maggiore vittima del divorzio Fischer-Reynolds fu la figlia Carrie, futura principessa Leila in Guerre stellari. Di recente, l’attrice, notevolmente ingrassata e con due matrimoni falliti alle spalle, s’è definita come 370 “il tragico prodotto dell’incestuosità hollywoodiana”. Per dire che fuori del set tutto si combina e si definisce nell’assoluto disprezzo dei sentimenti, delle regole valoriali, dell’amore per i più deboli e indifesi. Tammy, fiore selvaggio la cantavo con mia sorella affidando il rigore del testo alle prime battute… “Tammy… Tammy… Tammy’s in love…” il resto era il solito nanà, na-nà, na-nà che accomodava la nostra ignoranza anche su altre bellissime canzoni come Wonderful, wonderful day interpretata da Jane Powell in Sette spose per sette fratelli, True love di Cole Porter avendo in mente la versione di Bing Crosby e Grace Kelly in Alta società, San Francisco trillata da Jeanette MacDonald nell’omonimo film, Be my love che Mario Lanza cantava con la superba Kathryn Grayson, Somewhere over the rainbow che amavamo attraverso le voci di Judy Garland e Rosemary Clooney, zia di George, e così via cantando e fantasticando. L’amore tra Liz e Richard divampò con grave scandalo del Vaticano che vide maturare l’unione infedele sotto le proprie mura. Ottenuti i rispettivi divorzi, si sposarono l’anno dopo e per dieci anni si amarono e se le diedero di santa ragione. Ma non potevano fare a meno l’una dell’altro. “Se mi lasci mi uccido”, le scrisse una volta Richard. “Non vivo senza di te”. Prima di morire le mandò un’ultima lettera, contraddittoria e confusa, ma l’ultima frase fu questa: “Ti amo e ti amerò per sempre”. Entrarono nel salone del San Domenico come due regnanti senza corona. La folla non li faceva respirare. Mi passarono accanto e fu una delusione. Avevo nel pensiero Angela Vickers ed Helen Ellswirth, le protagoniste di Un posto al Sole e L’ultima volta che vidi Parigi. Mi trovai davanti una donna piccola di statura, un po’ in carne e bamboleggiante. Più simpatico lui, l’ubriacone, dodicesimo figlio di un minatore del Galles, attore shakespeariano per eccellenza, sorriso aperto, carisma indiscusso. Furono accolti da un’orchestrina a plettro composta di simpatici vecchietti. L’atmosfera era quella 371 giusta: musiche siciliane, long drink, bourbon per Richard, limonata per Liz, very well, ammirazione per il mare, il sole e il folclore siciliano dei tamburelli e delle coppole di velluto. Poi ancora folla di curiosi, latin lover e aspiranti starlet, autografi, noia, fili di sguardi annodati e sciolti… finché Liz si alzò di scatto dalla poltrona, nella quale forse intendeva appartarsi, strappò di mano la chitarra a uno degli orchestrali e la fracassò in testa al marito, reo di fissare troppo una biondona non indifferente al suo fascino. Alcuni anni prima Richard il tenebroso le aveva regalato un diamante a forma di pera di circa 70 carati. Partii per il militare il giorno del mio compleanno. Mio padre e mia madre mi accompagnarono alla stazione. Avevo il cuore piccolo, ma una speranza: la parola di Mario Ciancio che al mio ritorno sarei stato assunto e messo in regola. Cosa che avvenne puntualmente. Il mio posto, alla terza pagina e agli spettacoli, fu provvisoriamente occupato da Saretto Magrì, un collega di Espresso Sera, che per un anno e mezzo fece la malavita che io avevo fatto per un mese. Fu bravo e leale. Qualche anno dopo passò in modo definitivo a La Sicilia. Allora tutti i redattori del giornale del pomeriggio aspiravano al quotidiano del mattino, più prestigioso ed economicamente sicuro. A La Sicilia non sarebbe mai avvenuto che i giornalisti venissero pagati in ritardo o con surrogati come accadde ai dipendenti del monarchico e ormai asfittico Giornale dell’Isola del duca di Misterbianco che una volta ricevettero a mo’ di acconto una tessera d’ingresso al Lido dei Ciclopi di proprietà dell’editore. Purtroppo i due giornali erano costretti a subire l’imperio della SPI, la società che procurava la pubblicità e quindi buona parte dei loro introiti. Ciò significava che gli articoli non potevano contenere nomi di aziende, titoli di film, marchi di fabbrica e tutto ciò che poteva essere sfruttato in modo pubblicitario. Insomma, i giornalisti dovevano contraddire se stessi, 372 essere cioè generici, impersonali, servili alla SPI e alla Proprietà. Come ricorda Melo Timpanaro nel suo bel libro “Senza titolo”, nel quale ripercorre la sua straordinaria avventura umana, non si potè più scrivere “Gli scioperanti si radunarono in via Etnea davanti all’Eden Bar” ma semplicemente “si radunarono in via Etnea davanti a un bar”. Di fronte a queste censure preventive, talvolta comiche talvolta imbarazzanti, l’unica strada era svicolare, inventare, ricostruire, darsi alla letteratura. Una volta il collega Annibale Giordani del Corriere di Sicilia affrontando un fatto di cronaca scrisse: “Aiutai il soccorritore a tirare il cadavere dalla scarpata. Presolo per le spalle, il morto girò il capo dall’altra parte: forse non gli era piaciuta la mia cravatta rossa a palline gialle”. Dashiell Hammett non avrebbe saputo dire meglio. Mia madre tirò fuori il fazzoletto, mio padre serrò le mascelle, ma in fondo era contento che suo figlio andasse a fare il militare. I colleghi della mia generazione, e anche di quella precedente, si evitarono la seccatura con raccomandazioni e imbrogli. Un collega si fece passare per pazzo perché alla visita di leva mostrò di avere bisogno di lavarsi continuamente le mani. Ovviamente, i “militi esenti” glorificavano le virtù del coraggio, della fiamma tricolore, dell’agonismo, del rugby… e alcuni di loro menavano vanto di non avere mai letto un libro in vita loro. Dopo un mese e mezzo di Car, Centro addestramento reclute, alla caserma Scianna di Palermo, fui trasferito all’Ufficio Propaganda e Documentazione dell’Esercito di via XX Settembre a Roma. Una pacchia, a parte l’alzata alle cinque del mattino col termometro che scendeva sotto lo zero. Fu un inverno terribile quello. Andavo a letto col pigiama di felpa e il pullover. Le coperte le mettevo in doppio e vi aggiungevo il cappotto. La mia branda era vicina alla finestra, le cui imposte erano sconnesse e non furono mai aggiustate nonostante le mie rispettose proteste. Mi tenni gli spifferi gelidi della notte e il disappunto. I soldati 373 dovevano soffrire. Solo così, dicevano gli alti comandi e la retorica militare, la vita nelle caserme aveva un senso. Comunque, rose e fiori rispetto a certi film sull’addestramento militare americano. Penso a Ufficiale e gentiluomo di Taylor Hackford del 1982 con uno strepitoso Richard Gere e un’altrettanto strepitosa Debra Winger, penso a Storia di un soldato di Norman Jewison del 1984 e al terribile Full metal jacket di Stanley Kubrick. Al confronto, la vita nelle caserme italiane era una passeggiata. Al più potevi misurarti, se ne avevi la personalità, col nonnismo degli anziani i quali, per la verità, di fronte a un aggettivo ben piazzato restavano a bocca aperta. Più volte, ricordando quel tempo “ordinato”, mi sono venute in mente le parole di Sándor Márai quando nell’autobiografia Confessioni di un borghese mette a confronto l’ordine tedesco con l’ordine francese: “Mi ci vollero anni per rendermi conto di che cosa fosse veramente l’‘ordine’, per comprendere che nelle menti dei francesi, anche se da loro la polvere la si faceva scomparire sotto gli armadi, regnavano un ordine splendente e una chiarezza immacolata”. Il mio lavoro consisteva nel leggere i giornali, ritagliare gli articoli che riguardavano l’esercito, riunirli e mettere in evidenza i più importanti. Alle undici del mattino, con altri due commilitoni, avevo finito. Mi restava il tempo per avvilirmi e pensare alla mia terra. Il sabato sera mi mettevo in borghese e con un mio caro amico, Emanuele Pluchino, che lavorava alla Banca d’Italia, me ne andavo a ballare. Tornai a Catania alcuni mesi dopo. Caserma Sommaruga. Battaglione II/5. Avevo trovato una strada. Uno dei colonnelli di stanza al Presidio collaborava al giornale. La telefonata gliela fece Vittorio Consoli, allora vice-capocronista. La mattina lavoravo in amministrazione (l’ufficio era retto da un maresciallo di Noto, grasso, simpatico e pasticcione) e talvolta chiacchieravo con un altro carissimo amico, Peppino Siracusa, che stava al reparto 374 Genio e che era stato mio compagno di banco alle elementari e alle medie, ora è professore universitario di chimica. Il pomeriggio facevo un salto al giornale a dare una mano, a respirare l’aria della redazione che sapeva di carta, inchiostro e intramontabile goliardia. Era il mio mondo. Con pazienza sopportavo lo sfottò dei colleghi, per lo più riformati e che del servizio militare avevano un’idea cinematografica. Eppure, del linguaggio da caserma erano appassionati cultori, come tutti gli orecchianti, come tutti quelli che amano la disciplina nelle case d’altri e mai nelle proprie. Il 1968, l’anno del terremoto del Belice e del terremoto sociale in Italia e in Europa, lo passai incolonnando cifre e preparando gli stipendi agli ufficiali. La mia dècimala regalavo a un soldato che non aveva nemmeno il sale della saliera. Le turbolenze della città mi arrivavano filtrate. Non potevo affacciarmi su quel mondo in presa diretta. Avevo la divisa e la toglievo di nascosto solo per andare in redazione. Ma gli anziani, che assieme agli studenti occuparono l’università, li conoscevo più o meno tutti. Ricorda Tino Vittorio: “Sbattemmo la porta in faccia ai fascisti, fracassando la caviglia a un compagno che non aveva fatto in tempo a ritrarre il piede, incastrato tra il battente e il portone del Palazzo Centrale”. Una scena addirittura comica, perché il comico si affaccia sempre nei risvolti del dramma. Sennonché quel ragazzo, qualche anno dopo, “in seguito e forse a causa di quel trauma osseo”, morì nella totale indifferenza. “L’unica vittima del ’68 a Catania”. Chi se ne ricorda? Perché da noi la tragedia talvolta scolora nella farsa o nell’eroismo di maniera, superficiale e inconcludente, scolora nello slogan, nella passione che parte sparata e arriva boccheggiante al traguardo, semmai ci arriva, perché noi figli di papà ci stanchiamo presto, perché dopo un atto straordinario pensiamo subito alla mamma e cerchiamo di nasconderci per evitare altre tensioni e responsabilità: la rivoluzione va bene ma a piccole dosi, tra un cappuccino e l’altro, e con le assemblee è meglio 375 non esagerare, meglio affiggere un cartello, “Torniamo subito!” e andare a passeggio o a dormire. Chissà quante risate per quel ragazzo, occhialuto e fragile, protagonista, a loro vedere, di una gag più che di un dramma. Questo moto collettivo, ora pulsante ora assente, me lo sono perso, impegnato com’ero a rifarmi ogni sera e ogni mattina il “cubo”, a dire “signorsì” e a pensare che la vita, tolte le mostrine, sarebbe stata bella. Il 1968 è anche l’anno di due film di Liz Taylor girati con il grande regista inglese Joseph Losey: La scogliera dei desideri, ignorato dal pubblico e dalla critica nonostante la superba interpretazione dell’attrice, e Cerimonia segreta, altro film difficile e comunque estraneo alla luminescente vetrina tayloriana. Se il 1968 fu il colpo di rasoio che divise il Novecento dall’Ottocento, per la diva dagli occhi viola fu il confine tra la giovinezza e la maturità, il limite oltre il quale finisce l’ascesa e comincia il declino. Prima erano i tempi di Piccole donne, Il padre della sposa, Ivanhoe, La pista degli elefanti, L’albero della vita, Venere in visone… alcuni artisticamente mediocri ma indimenticabili per la smagliante bellezza dell’attrice, per il suo temperamento drammatico, per la sua capacità di stregare milioni di spettatori, di farli sognare, renderli vibranti di commozione e amore. Dopo saranno i tempi di Mercoledì delle ceneri, A un’ora della notte, Il giardino della felicità… dimenticare, dimenticare, dimenticare. La cadenza del verbo mi ricorda un lungo viaggio in treno: da Catania a Kiel, la città tedesca del Baltico, testimone di una storica malacomparsa siciliana. Due giorni e mezzo assieme agli orchestrali, al coro e alla dirigenza del Teatro Massimo Bellini in tournée in Germania. Due giorni e mezzo di sofferenze, anche perché dividevo lo scompartimento con un anziano collega al quale puzzavano i piedi. Alla fine, l’approdo nella fredda cittadina tedesca di vento e di mare. È il 27 376 settembre 1970. Il borgomastro della città riceve il sindaco di Catania, venuto comodamente in aereo, riceve i rappresentanti della stampa, i cantanti, l’orchestra e il suo direttore. Il giorno dopo, nel teatro comunale, sarà rappresentato il capolavoro di Vincenzo Bellini, Norma, sotto la direzione del vecchio maestro Oliviero De Fabritiis e l’interpretazione principale del soprano greco Elena Suliotis, definita l’erede della Callas. Veniamo ricevuti in pompa magna. Siamo allegri e disinvolti. A un certo punto una signora, che il sindaco di Catania ha presentato al borgomastro come la moglie, mi vede, mi viene incontro e mi abbraccia. È una ragazza che talvolta incontravo allo Yachting club (bionda, carina, sciocchina) e che mi era stata raccomandata da una collega della Rai siciliana, Bianca Cordaro, all’epoca una bellissima ragazza. “Che ci fai qui?” mi domanda con l’aria di portare vasi a Samo. “Faccio il mio lavoro” rispondo. “E tu?” “Sto col sindaco”. Il sindaco assiste da lontano alla scena, si avvicina, mi prende sottobraccio e si raccomanda alla mia discrezione. Mantenni l’impegno ma per non mentire evitai di citarlo nelle corrispondenze. La notizia tuttavia filtrò e fu data in pasto all’opinione pubblica perché un mio collega da buon giornalista fece esplodere lo scandalo sul Tempo, di cui era corrispondente. Il sindaco rischiò il posto e non mi perdonò mai. Lo scandalo tedesco segnò la fine della sua carriera politica. È passato alla storia per avere assetato il Pigno, un quartiere abusivo a sud della città: “Il Pigno ha sete e Micale se ne fotte”. L’anno dopo, alle elezioni amministrative, Catania voltò le spalle a quel sindaco democristiano che in lista figurava col numero 36. I cittadini che l’avevano sullo stomaco fecero affiggere sui muri della città un altro manifesto: “Siccome me ne fotto voto 38”. Anche la DC prese una sonora batosta. La città preferì mettersi in testa il cappello nero dei missini, lutto o rigore che fosse, e cominciò a guardare indietro. Ho concluso questa modesta biografia, scandita 377 dall’orologio di celluloide, con Elizabeth Taylor perché è stata l’ultima diva dei nostri cuori acerbi, l’ultima diva che ha attraversato il regno delle ombre. Ai suoi funerali c’erano i quattro figli, gli otto nipoti e i quattro pronipoti. Pare che avesse disposto di arrivare in chiesa con quindici minuti di ritardo. Una piccola leggenda, come le tante che hanno assediato la sua vita tumultuosa. Mi fermo sul suo stesso crinale. Dopo saranno altri anni, altri incontri, altre esperienze, altri sogni e delusioni. Mi fermo alle proiezioni del Dopolavoro ferroviario e dello Spadaro, i miei cinema Paradiso, i luoghi dove sono cresciuto accanto ai libri, dove ho imparato a raccontare le storie e le avventure della mia vita, dove ho costruito la persona che sono oggi, la persona che si è felicemente sposata, che non ha avuto figli e che ha maturato dentro di sé il dolore degli altri. C’è una bellissima scena nel film di Giuseppe Tornatore. Il protagonista, dopo avere ricordato la sua vita di ragazzo trascorsa nella cabina di proiezione del cinema Paradiso, accanto ai racconti del vecchio amico operatore Philippe Noiret, scopre che questi prima di morire gli ha lasciato un regalo: una bobina con le rapide sequenze dei baci censurati. Se volessi ripetere quel finale potrei mettere in sequenza alcune scene memorabili. Comincerei dalla regina Greta Garbo sulla prua della nave che la porta in esilio; proseguirei con Marlene Dietrich, seduta su una botte, che canta Ich bin von Kopf bis Fuss auf Liebe eingestellt; con Vivien Leigh, in lacrime, dopo avere pronunciato la celeberrima frase “Domani è un altro giorno”; con Rita Hayworth, che si sfila il lungo guanto di raso nero. Poi passerei a Ingrid Bergman (“Suona la nostra canzone, Sam”), a Grace Kelly (sui tornanti di Montecarlo in Caccia al ladro), a Audrey Hepburn che in Vacanze romane si sfila una scarpa mentre viene presentata al corpo diplomatico. In una foto-ricordo, scattata durante una pausa della lavorazione di quest’ultimo film e pubblicata nel 1954 dal settimanale “Oggi”, accanto all’attrice stanno due 378 autentiche nobildonne romane: Virginia Ruspoli e Flaminia Torlonia. Al confronto sembrano due signore, piuttosto anzianotte, che il regista ha preso direttamente dalla strada, le ha agghindate a festa e le ha messe al fianco della principessa di celluloide Audrey nel cui sangue, per altro, scorreva lo stesso sangue blu delle sue smarrite dame di compagnia. Non potrei scordare Janet Leigh (nella scena della doccia mortale) e Marilyn Monroe (nel saloon, mentre canta The river of no return). Chiuderei con Elizabeth Taylor, nel momento in cui va a trovare Montgomery Clift in prigione, prima di essere giustiziato. La vita e la morte, lo splendore e l’abisso sono colti in quell’ultima scena non nella separazione che li renderebbe convenzionali, come in un cartellone pubblicitario, ma insieme mescolati drammaticamente. 379 Finale di partita Moltissime cose non ho raccontato della mia vita, un po’ per autocensura e un po’ perché non erano funzionali al discorso o semplicemente perché non me le sono ricordate. Spero soltanto d’essere riuscito a trasformare gli episodi trascurabili della mia esistenza in una rappresentazione, seppur minima, della mia generazione che era vestita di grigio, che amava il cinema e la sua illusione. All’alba del Duemila, o giù di lì, è cominciato l’autunno. Il dormiveglia della giovinezza, “quello stato di innocenza e suscettibilità”, come lo definisce Márai, è morto e sepolto. Anche se talvolta mi sorprendo a scoprirlo come un’insospettabile lontana risonanza. Non mi pento di avere lasciato anzitempo il Tg1. Non c’era futuro in quel telegiornale di raccomandati, d’intrecci politici, di uomini mediocri e ambigui. Ne ricordo uno, in particolare, che ha fatto un’ottima carriera. Oltre i suoi meriti. Disprezzava i poveri. Se Dio non li avesse voluti – diceva – non li avrebbe creati. Ed era, fino agli anni Cinquanta e Sessanta, il ragionamento dei bianchi d’America sulla popolazione nera: il Signore ha fatto i niggers, con quel colore disgustoso, per essere servi dei bianchi. Ogni sera questo distinto signore wops, rigorosamente cattolico, batteva a macchina, e non al computer, per non lasciare tracce immagino, una specie di documento informativo, non saprei a chi diretto. A quel tempo, radio fante diceva che aveva rapporti con i servizi segreti. Spesso, a tarda sera, veniva a trovarlo un misterioso amico, un certo Roberto se ben ricordo. Forse quelle note erano a lui destinate. Alla luce delle vicende che hanno posto al disonore della cronaca il direttore di Libero, Renato Farina, adesso deputato del PdL, che collaborava col Sismi, quel lontano sospetto può avere qualche fondamento… o forse è tutta una storia di apparenze. E poi m’ero stancato di fare il 380 pendolare. Il cielo di Catania, che mi piangevo quand’ero triste e solo nell’azzurro trasteverino (come nella bellissima canzone, Napoletana), m’è venuto incontro un pomeriggio di primavera, tenebroso e foriero di pioggia, senza profondità e colore. Il cielo di sempre, il cielo privo d’illusione. Negli anni Settanta c’era un detto che circolava nel capoluogo siciliano, come ricorda Matteo Collura: “Quando Dio vuole fregare qualcuno lo fa nascere a Palermo”. In realtà, nascere in Sicilia è stata sempre una fregatura, sin dai tempi della civiltà araba che ci insegnò la poesia e il modo di coltivare la terra ma costrinse i nativi a portare segni distintivi per evitare che si confondessero coi dominatori, come avrebbero fatto dieci secoli dopo i nazisti con gli ebrei. Una fregatura, per altro, sottolineata in molte commedie all’italiana nelle quali il dialetto siciliano diventa sinonimo di arretratezza culturale se non di stupidità. Memorabile, ne I soliti ignoti di Monicelli, la figura di Tiberio Murgia che per gelosia tiene sotto chiave la bella sorella Claudia Cardinale oppure la battuta del figlio soldato di Peppino De Filippo, nel film Arrangiatevi! di Bolognini, che per protesta contro la famiglia pensa di farsi trasferire in un luogo sperduto, lontano, “a Catania!” In fondo, ho scritto questo libro per delusione e per bisogno. La delusione di una città ritrovata diversa, o forse dovrei dire “giudicata” diversa, mi ha spinto a recuperare la memoria del tempo perduto, il tempo dove si colloca lo spazio immortale della giovinezza, Il giardino dei Finzi-Contini di Bassani. Per dire. E così ho cominciato a scrivere. Per pensare meglio, recuperare il passato e allontanare la morte, la sua angoscia. Insomma, ho cercato di vivere la vita acerba perché la vita matura, come dice un poeta del Trecento, Cecco d’Ascoli, si raggiunge nell’aldilà. A riflettere, la “vita matura” è un mito, una rappresentazione (consolatoria) di ciò che non possiamo raggiungere perché a noi è dato percorrere e raccontare solo la vita 381 che non si definisce, la vita che non culmina nella perfezione, nel suo completamento, perché noi stessi siamo imperfetti. Se la vita appare necessariamente immatura nell’infanzia e nella giovinezza, perché l’esperienza del mondo è ancora limitata, e comunque di là da venire, non è però vero che con gli anni essa raggiunga la pienezza. La vita è fatta di segmenti, ciascuno dei quali è per forza di cose incompleto, ma la somma dei segmenti non compone una linea definitiva, non stabilisce una “maturità” completa, assoluta. Al termine del percorso c’è sempre un altro segmento che potrebbe rischiararci ulteriormente il cammino, darci la misura totale della retta. Ma se ciò non accade è perché sopraggiunge la morte. Da qui l’intuizione di Cecco d’Ascoli. E si capisce meglio la battuta di Raymond Chandler: “Alla fine sapeva veramente tutto, ma solo quello”. Che cosa, allora, rende seducente il passato? Che cosa spinge l’uomo a tuffarsi in quel gorgo impreciso? Andando indietro negli anni, sempre più indietro, fino alla radice, la ricerca della felicità o della sua illusione si trasforma in ricerca del sacro, ricerca di un ricongiungimento con la parola nel suo formarsi, con i concetti primordiali, con l’universo intuito nel ventre materno e mai afferrato. Un’illusione, indubbiamente. Come un muoversi d’ombre su un grande telone bianco. Ha proprio ragione Oscar Wilde: “Essere immaturi significa essere perfetti. Anzi, innocenti. Come bambini appena nati”. L’innocenza paga sempre. È rimasta nelle battute di corso Umberto, ad Acireale, dove un tempo il marciapiede di destra era riservato agli uomini e quello di sinistra alle donne, l’ingegnosa trovata di un candidato alle elezioni municipali, un certo Giuseppe Nicolosi, detto Pippo Gel, di Alleanza nazionale, che aveva fatto tappezzare i muri di manifesti con la foto di lui bambino di tre mesi, l’espressione imbronciata, gli occhi spalancati, le dita grassottelle, un amore di bimbo insomma. Sopra, la scritta: “Un’idea che viene da lontano”. Pippo Gel, come la gran parte dei suoi 382 colleghi, non potendo garantire altro esibiva l’unica innocenza possibile, quella dell’infanzia. Nessuno gli fece osservare che un bebé appena nato non può avere idee. Di recente, nel blog di uno studente, ho letto questa riflessione: “Io amo Catania. Non la cambierei con nessun’altra città. Eppure in questi ultimi tempi non sembra più la città accogliente, festosa, romantica che era una volta. E provo un’immensa nostalgia. Adesso è cambiata, è sporca, immersa nel caos, pullula di delinquenti e prostitute. Ovunque. Vorrei che tornasse come quella che descrive la canzone di Castiglia. Vorrei che tornasse a splendere il sole a Catania…” La canzone di Giuseppe Castiglia, quello che racconta barzellette nelle televisioni locali, immagino, è intitolata Catania, figghiozza do Patri Eternu. Il verso finale fa così: “Catania da guerra, Catania urricata,/ distrutta e pi setti voti rinata/ non c’éntrunu i sordi, non c’entra ’a furtuna/ Catania ’ndo munnu ci n’è sulu una”. Ma se i problemi della città fossero solo caos, delinquenti e prostitute diremmo solo una parte di verità, la più semplice, la più visibile. Ci sono ben altri problemi, sotterranei, che contraddistinguono non solo Catania ma un po’ tutte le città meridionali. Problemi che attengono ai poteri forti, nascosti, legati alle massonerie, alle zone d’ombra che rendono confuse legalità e illegalità. Altro che prostituzione! Tutto questo ha spinto molta gente in gamba a lasciare, andare via. Perché la città, come dice Antonio Di Grado, “solitamente immemore, è avvezza a divorare i suoi figli migliori (nel migliore dei casi, a espellerli) che non ad onorarne la grandezza o, quanto meno, a sfruttarne le competenze”. Eppure, Catania nella prima metà del secolo scorso e subito dopo la guerra, pur scontando l’arretratezza politica e sociale che ha riguardato il Mezzogiorno nel suo complesso, aveva conosciuto modelli culturali e imprenditoriali che l’avevano resa diversa dal resto dell’isola e in qualche modo avvicinata al Nord. Lo stesso giornale in cui sono cresciuto aveva come stella 383 polare il Corriere della Sera e sin dalla fondazione si era legato all’unità del Paese non alla sua dissoluzione. Memorabili furono le battaglie contro il movimento indipendentista che voleva scorporare la Sicilia per farne una stella americana. Oggi, ci siamo tristemente omologati verso il basso, verso le pulsioni meno nobili e più vili della società. Un’omologazione distruttiva in cui la parola ha perduto la sua efficacia, in cui la ricerca di senso del vivente non coglie alcuna verità. È come se l’uomo (a Catania come altrove naturalmente) si trovasse di fronte non a uno spazio aperto in cui collocare il suo confine, sempre mobile, ma davanti a uno specchio che lo riflette senza possibilità di alternative o di altre profondità. Non molto tempo fa la “vocazione” indipendentista siciliana ha conosciuto rigurgiti, e risvolti, comici. A Palazzo Madama, dove si celebravano i duecento anni della nascita di Garibaldi, l’ineffabile senatore Calderoli (quello che ha definito “una porcata” la legge elettorale che portava la sua firma) ha detto: “Lui (Garibaldi) e i Savoia hanno fatto il male della Padania e del Mezzogiorno”. La polemica ha raggiunto toni epici con il presidente dell’Assemblea siciliana, Gianfranco Miccichè, che ha detto: “È giunto il momento che anche questa falsità storica cessi di occupare i libri sui quali studiano i nostri figli. Cominciamo a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di intitolare più piazze a Federico II che a Garibaldi”. Federico II? Che cosa c’entra con Garibaldi? Tra i due personaggi corrono sei secoli di storia non tutti precisamente limpidi. In mezzo ci sono gli Angioini, gli Spagnoli e i Borboni che hanno reso la Sicilia una colonia che più colonia non si può. Garibaldi mise in crisi il regno borbonico mica quello illuminato di Federico II, detto Stupor mundi. Tutta questa storia puzza di borbonismo e di furbizia; così come l’attacco al movimento partigiano di qualche anno fa puzzava di fascismo: mentre i partigiani da tutti eroi passavano a tutti delinquenti Mussolini veniva in qualche misura 384 rivalutato. Confesso che, a una prima lettura, l’assurdità dell’implicito paragone mi aveva fatto traballare gli occhi: anziché Federico II avevo letto Ferdinando II che, a rigore di logica, si collega meglio a Garibaldi. E m’era venuto facilissimo contestare il presunto assunto dell’on. Miccichè, ricordando innanzitutto le vicende di Ferdinando I che mangiava i maccheroni al sugo con le mani, sconcicava le contadinotte durante la caccia e lasciava la politica alla moglie, perché lui aveva cose più serie da fare. M’era venuto facile ricordare anche Re Bomba, che si mise sotto i piedi i siciliani, e suo figlio Franceschiello che il padre chiamava Lasagna per via dello smodato amore per il cibo. Invece no. L’on. Miccichè non è uno sprovveduto. Sa che la razza dei Ferdinando e dei Francesco è impresentabile e così ha tirato fuori dal cilindro il nome presentabile, anzi presentabilissimo, di Federico II. Che scoperta! Solo che con Garibaldi non c’azzecca per niente, come direbbe Di Pietro. Sarebbe come contestare Vittorio Emanuele II mettendolo a confronto con Giulio Cesare. Senza capire, in definitiva, o forse capendolo perfettamente, che criticando Garibaldi, e annoverandolo nella categoria dei delinquenti, rivaluta implicitamente la monarchia borbonica che ancora oggi trova convinti estimatori. Forse gli antigaribaldini farebbero un migliore servizio alla verità guardando meglio in casa propria, alla fallimentare politica autonomistica di Palazzo d’Orléans, ai parlamentari siciliani, autostipendiati di lusso, che qualche anno fa furono “costretti” a prolungare le ferie di Natale fino al carnevale per mancanza di leggi da approvare. Chiamare in causa Garibaldi, addossandogli ogni nefandezza politica e persino militare, prendendo per buone le diffamazioni dei servizi segreti borbonici durante la campagna di Sicilia, per giustificare le colpe non tanto della Repubblica italiana (che sono scontate) ma quelle (incommensurabili) della “repubblica” siciliana è operazione miope e truffaldina. Purtroppo, è il giudizio di Giorgio Bocca, “il ritorno dilagante delle 385 retoriche, delle menzogne sta oscurando il cielo”. Come diceva il mio professore di storia e filosofia al liceo, la storia non si fa coi se, come pretenderebbero leghisti e autonomisti siciliani. La storia ha il suo corso immodificabile e ogni ipotesi contraria acquisterebbe il sapore di un paradosso: se Napoleone non fosse stato sconfitto a Waterloo, se i soldati italiani non avessero ricacciato gli austriaci oltre il Piave, se Garibaldi fosse stato ucciso nelle campagne di Salemi… a quest’ora noi siciliani vivremmo nel paese di Bengodi dove, come scrive Boccaccio, le vigne si legano con le salsicce e nei fiumi al posto dell’acqua scorre il vino; un Paese senza mafia e senza disoccupati, insomma, ricco e felice. Ma mi faccia il piacere! Avrebbe detto Totò. L’orologio di celluloide spesso si ferma. Mi dimentico di dargli la corda. Ogni tanto incontro per strada persone sconosciute che mi riconoscono per via d’una rubrica domenicale che ho tenuto per sei anni su Telecolor-Video3. Mi fermano, mi chiedono scusa, si rammaricano del mio silenzio. Ma il mio silenzio è stata una scelta dolorosa e necessaria dopo che Nino Milazzo, allora direttore di Telecolor-Video3 fu costretto alle dimissioni. Nino, che è un vecchio e valoroso collega, mi dava ampia libertà e nemmeno leggeva i miei pezzi per scomodi che fossero. Andato via lui non potevo sottostare alla direzione di un altro. E di quale calibro professionale fosse l’altro si vide qualche mese dopo. Né Mario Ciancio mi invitò a restare né raccolse alternative possibili e naturali. Un giorno uno di quegli “ammiratori” mi disse: “Non si preoccupi, se c’è da difenderla noi la difenderemo”. Quelle parole avevano un senso morale alto ma indefinito, come ogni testimonianza di solidarietà. Ne fui contento e confortato. Ora che i miei sermoni domenicali non segnano più alcun appuntamento mi convinco che niente è più illusorio della stima. La stima è come un sorriso a lungo manifestato: dopo un po’ fa male alle mascelle e occorre tornare a chiudere la bocca. Comunque, non mi sembra di essere solo. C’è una 386 pattuglia di uomini in grigio alle mie spalle, ci sono amici che stimo. L’altro giorno ne ho sentito uno al telefono. Mi ha detto: “Ti voglio bene. Te lo dico anche se ciò ti annoia”. Mi sono commosso. Ho pensato a molte delle persone che hanno attraversato la mia vita, nella gioia e nel dolore. Alcune non ci sono più, sepolte dalla vita o dalla morte. Molte sono andate via, molte sono rimaste, per viltà o per scelta, come ne La camera verde di Truffaut in cui il protagonista resta in provincia a custodire le memorie dei suoi morti… come in un campo lungo alla fine di un film. Immagino Henry Fonda che si allontana al galoppo da Cathy Downs sulla scia musicale di My darling Clementine. L’identica scena rivedo ne Il cavaliere della valle solitaria con Alan Ladd, magnifico Shane, che lascia, dopo averla difesa, una famiglia di coloni del Wyoming per continuare ad errare nelle praterie della sua solitudine. Viceversa, vedo Glenn Ford, ne La pistola sepolta, che sceglie di restare nella cittadina dove ha trovato amore e serenità accanto alla dolce Jeanne Crain. Allo stesso modo si comporta Horst Buchholz ne I magnifici sette: dopo la sanguinosa battaglia, per liberare un villaggio messicano dalle scorrerie del bandito Calvera, abbandona la colt per gli occhi e il sorriso d’una ragazza del luogo. Del resto, la vita di ciascuno di noi, modesta o superba che sia, può entrare in un film; non solo perché i film s’ispirano alla realtà ma perché questa realtà i film ce la rimandano con un contorno di piccola leggenda o di piccolo mito che serve a consolarci e a non farci smarrire, a cullarci in realtà, ad addormentarci quando la disillusione è troppo forte. Ma anche quando ti arriva come un pugno nello stomaco e non ti permette di respirare ti consente almeno di riflettere. Penso a Nino Milazzo, che porta con sé il pudore della provincia e l’amarezza d’una lontana vita privata non precisamente felice. Era il collega che sollecitava i miei articoli in prima pagina al posto di altri che giudicava mediocri. Un uomo elegante, schivo, colto, complesso, mai pago dei successi ottenuti. Di recente ha 387 pubblicato un libro autobiografico, Un italiano di Sicilia, che aveva fatto stampare in poche copie per gli amici più intimi. Nella prefazione, Francesco Merlo lo definisce perfettamente, e con lui tutti quelli apparentati dal tormento: “Ragazzi dotati di una luce particolare, sono diventati diversi e fragili questi nostri giovani Holden etnei che possono approdare a nulla o alla letteratura, al comunismo o alla malinconia, alla musica, alla religione, alla normalità delle professioni liberali o al più alto codice del giornalismo come è accaduto a Nino. Ma sempre quel rodìo dentro li renderà pronti a una nuova fuga, a un nuovo ritorno”. Penso ad Aldo Motta, vecchio gentiluomo di provincia, conservatore illuminato, scrittore ed editore, anagraficamente ricco di ben quattro nomi, “alcuni bellissimi”, confessa “eppure mia madre mi chiamava sempre Disgraziato”. Anni fa venne in possesso di vecchie foto della famiglia dell’imprenditore inglese Robert Trewella, arrivato in Sicilia con la massoneria e che alla fine dell’Ottocento costruì per il governo le ferrovie a scartamento ridotto, compresa la Circumetnea. Trewella aveva una bellissima moglie, Margriet, che per anni tenne salotto in una delle splendide ville del viale Regina Margherita, a Catania, frequentata da artisti e scrittori tra cui Martoglio, Rapisardi, Capuana, Verga, De Roberto. Affascinato da questa signora d’altri tempi, colta e spiritosa, Aldo pensò di inventarne la storia utilizzando la tecnica del diario. Maturò l’idea per mesi poi un giorno si decise a mettere nero su bianco. Per entrare meglio nella psicologia della protagonista si vestì da donna con un abito prestatogli dalla sorella, “ad eccezione delle scarpe che non mi entravano”. Cinque giorni di lavoro alla scrivania con pochissime interruzioni. La mattina del primo giorno, tuttavia, il portiere, che nulla sapeva, suonò per la posta. Aldo gli aprì senza imbarazzo e l’uomo non poté trattenersi dal commentare: “Prufissuri, macari lei?” Uno dei bersagli preferiti di Margriet era il precettore dei figli, giudicato moralista e parruccone. 388 Ecco un saggio della prosa immaginifica di Aldo: “Sono certa che non godo di sua stima perché penza che io ho tanti amanti, e non può essere che così perché esco sola, guido auto, fumo sigarette e bevo the corretto con alcool. E ho sempre Andrea a canto anche cuando non ci è il mio sposo. E io faccio a posta e dico a Andrea: metti tua mano su spalla mia cuando viene il rompicoglioni”. Aldo Motta è una miniera di aneddoti. Ha frequentato fino all’ultimo la libreria “La Cultura” di Carmelo Volpe dove spesso lo incontravo. L’ultima volta mi ha raccontato del matrimonio del padre che spostò la data della cerimonia perché il mandolinista Gioviale, artista di fama mondiale, si trovava in quel momento all’estero e quindi non avrebbe potuto eseguire l’Ave Maria di Schubert. Rientrato, suonò in modo talmente divino che “anche i santi si misero a piangere”. Penso a Giacomo Alessi, il ceramista più raffinato della Sicilia. Quando ho visto le sue creazioni, e le ho confrontate con le porcellane alla moda che troneggiavano orgogliose sui cassettoni e le consolle di casa mia, ho capito quanto mi fossi allontanato da me stesso, dal piccolo mondo antico dei miei nonni e dei miei genitori, dal mio essere siciliano meticcio, come tutti, come quelli che abitano una terra violentata dalle dominazioni straniere, solare e infelice, eppure salda nel suo essere zattera del mare Nostrum. Così ho infranto la lastra di ghiaccio che mi divideva dalla fanciullezza e sono entrato in maniera irreversibile nella caverna di Alì Babà, che è il laboratorio di Alessi, nel luogo magico dove prendono forma e vita le cose che non contano più pur contando moltissimo. Ho così rivisto, tangibilmente, gli oggetti del mio passato, le lucerne antropomorfe, per esempio, che i miei nonni portarono in dote come cimeli preziosi di anni ancora più lontani. Erano state acquistate alla fine dell’Ottocento a Caltagirone, la “città dei cantri” come la definivano i catanesi che, di rimando, subivano la giusta reazione dei calatini: “Catanisi che corna tisi”. Mia madre, quando il buio 389 perdurava, accendeva quelle lucerne parlanti piene d’olio, piene di sentimento e di splendore. Ed era come un tuffo nelle crinoline, nei valzer e nei ventagli, nei baciamano e negli sguardi senza sguardo. Mai lucerne sono state a un passo dal trasformarsi anch’esse, come in un film di Walt Disney, in oggetti petulanti e danzanti, così come i candelabri a tre o a cinque bracci appoggiati sui comò, oppure i lampadari di legno o di cristallo che una volta, al posto delle lampadine, avevano le candele, destinate, se non si stava attenti, a sgocciolare sul pavimento. Penso a Puccio Corona e a Mario Petrina, colleghi a La Sicilia e poi alla Rai. Quando decisi di lasciare il TG1, Puccio mi pregò di non farlo. Era sinceramente dispiaciuto. Mario mi seguì da lì a poco e utilizzò la liquidazione per aiutare un fratello in cattive acque e il genero allora disoccupato. Penso a Gaetano Caprino, avvocato con studi a Catania, Milano e Roma. Dividevamo le spese di un “pensatoio” attaccato alla timpa di Acireale. Vi partecipava anche Vittorio Corona. Penso a Bruno Vespa che perfezionò il trasferimento e mi diede anche la promozione: un arco perfetto che partiva da sinistra e arrivava al centro e a destra. Ma fu solo una irripetibile congiuntura perché in seguito patii sulla pelle la dura legge della lottizzazione. Non avendo una forte connotazione politica (leggasi un decisivo appoggio di partito, di curia o di salotto) fui sistematicamente escluso d’ogni avanzamento di carriera e aumento di merito. Quando c’era la destra al comando mi consideravano di sinistra e quando al potere saliva la sinistra mi gettavano tra le braccia della destra, dei perdenti di turno. Demetrio Volcic, già corrispondente da Mosca, fu un direttore autorevole, colto, professionale, con una vita piena di esperienze e storie da raccontare ma anche lui aveva il piombo nelle ali e non riuscì a superare i muri ardui della politica. Si complimentava per i miei servizi, apprezzandone la misura e (bontà sua) l’eleganza, per come organizzavo il lavoro, ma altri erano i nomi che 390 gli venivano suggeriti dalle segreterie di partito. Allo stesso modo, sul versante opposto, si comportò Carlo Rossella, che lo sostituì. Vestiti di buon taglio, scarpe a suola alta, cravatte Marinella, vanesio, furbo, fece di tutto per essere all’altezza del predecessore. Se ne distinse sdoganando Bruno Vespa che era stato cacciato via dal direttore generale con l’aiuto di buona parte della redazione. Ricordo che a una riunione di sommario, alla proposta di un collega di affidare a Vespa il commento di una notizia importante, Volcic rispose che non era il caso perché la presenza dell’ex direttore, che tante polemiche aveva suscitato, avrebbe compromesso, cito a memoria, l’immagine stessa del TG1. Giudizio che mi colpì e che mi parve eccessivo. Fu benzina sul fuoco del risentimento di Vespa. Durante le riunioni, Carlo Rossella spesso si faceva passare le telefonate dall’estero e faceva sfoggio del suo inglese. Forse, come le avrebbe definite Angelo Musco, erano telefonate “senza lastra”, senza pellicola cioè, fasulle, senza interlocutore all’altro capo del filo, eppure l’effetto era magnifico. Il suo era un giornalismo frou frou, da rivista patinata, non da quotidiano ruvido e coraggioso. Sarebbe stato un ottimo direttore di riviste femminili e di pettegolezzo. Quando al TG1 diede una “sterzata rosa” fu soprannominato Rossella O’Hara. Particolarmente odioso fu il comportamento di Giulio Borrelli. Eravamo amici. Per qualche anno avevamo lavorato in cronaca. Buon professionista, aveva una buona capacità di organizzare strategie demolitorie contro i direttori “nemici”, in odore cioè di sacrestia, e fu lui uno dei capi della rivolta anti-Vespa. Nominato direttore si comportò con un cinismo degno del KGB. Ed io fui costretto a lasciare il TG1 e a riprendere la via del ritorno che assomigliava a un altro esilio. Come direttore ebbe l’abilità di farsi fuori da sé. Era ammalato di cesarismo. Deludente, in quell’occasione, fu anche Lamberto Sposini col quale avevo un buon rapporto. La sua prima preoccupazione fu quella di fare il consigliere del principe e non capì il 391 disagio dei colleghi senza patria, dei colleghi come me che lavoravano in trincea, attenti a non farsi colpire dal fuoco amico. Adesso, dopo che un ictus, poco prima di “andare in scena”, l’ha spezzato come una marionetta, cerca di trovare un senso alla sua menomazione. Questo mi addolora molto. Di altri non mette conto parlare. Mediocri, opportunisti, marinai, professionisti del nulla insomma. Per dirla con Francesco Alberoni, più erano agitatori e ribelli più pensavano alla carriera. Duro ma esemplare il giudizio di Francesco Merlo espresso nel suo sulfureo e graffiante pamphlet Faq Italia: “La Rai è gestita da funzionari e direttori di telegiornali che sono sempre e comunque emissari governativi travestiti da giornalisti, ‘camerati’ e ‘camerlenghi’ – quasi sempre bravi, per carità! – che hanno l’invidiatissimo privilegio di entrare nella camera del re e di pulirgli il sedere”. Mi restano buoni ricordi di Giuseppe De Carli (ahimè scomparso anzitempo), Cesare Pucci, Marco Varvello, Lilli Gruber, Laura Cason, Francesco Giorgino, Dino Cerri, Carlo Pilieci, Tiziana Ferrario, Marco Frittella, Maria Rosaria Gianni (una calabrese tosta e, naturalmente, cocciuta). E abbiamo finito. Anzi, no. Affettuoso fu il comportamento del personale non giornalistico. Dopo il mio rientro a Catania alcuni colleghi sono morti improvvisamente. Rispetto a altri, che restano incistati nei loro privilegi di soldi e di potere, hanno pagato un prezzo che andrebbe imputato al Cielo se la giustizia divina non seguisse imperscrutabili sentieri di salvezza e dannazione. I loro volti talvolta li metto a fuoco, talvolta non ne ricordo i nomi. Allora mi sembravano invincibili, e forse lo erano, come Paolo Frajese, cronista dal carattere impossibile, democristiano di destra che per farsi mandare a Parigi come corrispondente si fece raccomandare dalla sinistra; come Willy Molco, che teneva il cellulare acceso anche di notte nel caso il direttore Borrelli avesse avuto bisogno di lui; come Federico Scianò, cattolico di sinistra, punto di riferimento di molti colleghi coi quali s’incontrava nel 392 chiuso della sua stanzetta e parlava parlava; come Bruno Palmieri, segretario di redazione, intimo amico di Nuccio Fava, elegante, aria di padreterno, morbidamente cinico, sostanzialmente superfluo; come Paolo Giuntella, anche lui cattolico di sinistra ed esponente di spicco del comitato di redazione, amava andare al lavoro in scooter, alla maniera di Nanni Moretti, e vestire come un intellettuale impegnato: diventato presbite e fremendo per farsi vedere con gli occhiali se li mise anche per focalizzare da lontano, e si rovinò anzitempo la vista. A Gregorio Zappi voglio rendere onore estraendolo dal mazzo del cordoglio comune. Lavorava con me, fianco a fianco, nella redazione cultura. Era un grande competente di musica classica, lirica e sinfonica, e di musica leggera. Era mezzo scombinato, allegro, sciupafemmine, a volte inaffidabile… ma che persona! Non portava rancore a nessuno, nemmeno al suo caporedattore che lo bistrattava spesso e volentieri; era generoso, buono, irriverente, mai servile, sempre a schiena dritta. È morto così. Non so bene come. Ero lontano. È morto forse perché la sua molla, sempre tesa e rimbalzante, s’è d’improvviso spezzata. Aveva gravi problemi familiari che confidava solo a me e che teneva rigidamente separati dal lavoro. Roma spesso mi manca. Gregorio Zappi sempre mi manca. Paragonato agli altri era un gigante. Non amava il compromesso, non amava la politica, non amava i mestatori, non amava niente di niente di ciò che oggi fa piccola e ancor più governativa la Rai. I miei dieci anni romani, pur difficili, non sono stati perduti; sono stati anni di crescita, di distacco dalla provincia, come abitudine e mentalità, di consapevolezza dei problemi della società nazionale. Sono stati utili per superare “la mentalità da isola”, che Hitchcock rimproverava agli inglesi, una mentalità che molto spesso stringe i siciliani in un cappio ossessivo di inconcludente superbia. Tornando al ricordo degli amici, penso a Giovanni 393 D’Angelo, magistrato di Cassazione, che come me ama il cinema e i libri. Presentando Il vulcano spento è riuscito a cogliere, come pochi, il senso del romanzo, la sua “leggerezza francese”, il linguaggio che risuona a volte dell’antica parlata siciliana, granitica ed espressiva, che purtroppo va scomparendo per essere sostituita da una sorta di argot tecnologico, improprio e meschino. Penso a Silvia Ventimiglia, ultima arrivata tra gli amici ma già così presente e spiazzante. Un vero caterpillar. Lavora come giornalista in una radio locale e le sue interviste sono amabilmente graffianti, ti spolpa vivo e alla fine la ringrazi pure. È la sorella piccola di un mio compagno di classe al Leonardo, Mario, bravissimo e attento. La domenica mattina indossava una magnifica tunica rossa con cotta liturgica bianca e serviva messa scampanellando ch’era un piacere (talvolta lo affiancava Filippo Cosentino). E noi compagni, ridotti allo stato laicale, gli facevamo piovere sul capo fulminanti invidie, per pentircene alla consacrazione: mani giunte, testa al petto, confuse richieste di perdono mentre il sacerdote ostentava l’ostia ai fedeli. I Ventimiglia abitavano di fronte alla scuola, al primo piano di un palazzo ingrigito dagli anni. Mario aveva vari fratelli che con gli anni sarebbero diventati sette. Ma aveva soprattutto due sorelle più grandi che ci facevano girare tecnicamente la testa. Loro passavano e noi, incrociandole, senza osare di guardarle o minimamente salutarle, davamo loro un tempo ragionevole per allontanarsi e poi ci giravamo di scatto. Qualche anno fa Silvia per fare contenti alcuni nipoti, che volevano un cucciolo di razza non comune, prese il volo per Venezia, nelle cui vicinanze c’era un allevamento di Corgi Pemproke, meglio conosciuti come i cani della regina, noleggiò un’auto e se ne tornò col cagnolino, avendo cura di pagare un secondo biglietto per non farlo stare nella stiva dell’aereo. Giunta a Catania i nipotini, come tutti i nipotini d’oggi che hanno il sederino pieno, come diceva mia madre, 394 squadrarono la magnificenza canina e spararono l’odioso commento: “Meglio il Jack Russell”. Penso a Emanuele Milano, addetto al montaggio dei servizi televisivi Rai a Catania. Il più bravo, il più fantasioso, il più rompiballe. Era sposato con una brava ragazza, aveva tre splendidi figli, era felice. Un giorno se la pensò, abbandonò la famiglia, lasciandole però in vitalizio quasi tutto lo stipendio, e partì per un posto lontano. Vive a Lima, in Perù. Ha una nuova compagna, ha lo stesso orizzonte del mare dove brilla inquieto il silenzio. La parentesi del dolore è ancora più lunga, la mia personale Spoon River. Penso a Candido Cannavò, alla sua saggezza e al suo coraggio, all’amore per la madre, alla tormentata infanzia, agli alti traguardi raggiunti con forza e determinazione, e che ha avuto la cortesia di citarmi nella sua autobiografia, Una vita in rosa. È morto tra le braccia del figlio Alessandro e l’Italia sportiva, e non solo, l’ha pianto a lacrime calde. Candido era un vincente. Lo diventò una mattina d’estate in cui caddero le prime bombe a Catania. Si salvò per miracolo, lui e la madre. Avendo visto la morte con gli occhi, promise a se stesso di afferrare la vita, non di sfiorarla o di starle semplicemente accanto, e di guidarla verso i pascoli fioriti dell’impegno, della lotta, del sacrificio, della lealtà e alla fine del successo. A lui vanno affiancati altri amici e colleghi che hanno inciso nella mia vita. Penso a padre Corsaro, poeta vicino ai simbolisti francesi e all’ermetismo, che pubblicò i miei primi versi sulla rivista Incidenza e che abitava all’ultimo piano di un palazzo senza ascensore ma pieno di luce e di libri. Nella stanza grande, che fungeva da biblioteca e salotto, non c’erano crocifissi alle pareti. Si respirava religiosità non fanatismo. Le pareti, allattate di bianco, appena spolverate dal grigio degli anni, rispecchiavano un Ottocento letterario, intimamente siciliano, come i pavimenti di cemento colorati e intrecciati a mo’ di tappeto che correvano per l’abitazione, come l’odore di 395 carta e d’inchiostro, come il senso del passato che voleva dialogare col presente, come la solitudine nascosta come un fantasma col quale è doveroso confrontarsi. La solitudine del sacerdote, aggiungerei, che alla fine di una giornata operosa di parole e di insegnamento vuole tornare a discutere col mistero e l’invisibile. E magari il solitario poeta talvolta tornava a affacciarsi, in una tiepida sera d’estate, dal suo balcone incantato pensando ai versi che quella pace gli suggeriva. “Perduto nella notte stellata, rapito dalle fiamme aeree/ guardo i fiori celesti/ guardo un Dio che splende, rapito in un bosco d’oro,/ perduto tra le foglie,/ nella notte piena d’occhi, nel cupo mare di perle, guardo/ un Dio acclamato”. Uomo di Chiesa, uomo del passato liturgico ma non del suo cerimoniale, uomo antico ma anche moderno, persino anticonformista. Aveva un vezzo padre Corsaro. Portava i capelli lunghi. Non era uno scherzo per quei tempi. Non solo la Diocesi ma anche i benpensanti, e ce n’erano tanti, lo guardavano con sospetto ed avevano forti dubbi sulla sua ortodossia di parrino. Ma lui se ne fregava, forte della sua indomita coscienza. Se ne fregava anche a dispetto dell’estetica. Verso gli anni Ottanta, quei capelli grigi volti al bianco, lo facevano assomigliare a una vecchia signora. Al suo ottantesimo compleanno gli chiesi che cosa significasse essere poeti. “Essere poeti”, rispose “significa essere chiamati a una follia e a una saggezza incredibile, spesso indecifrabile”. Penso a Nino Minissale per oltre 50 anni sacerdote. Aveva studiato esegesi biblica all’università gregoriana di Roma, all’università ebraica di Gerusalemme, alle facoltà di teologia evangelica di Gottinga e Heidelberg e alla facolta di teologia cattolica di Münster. A lui si devono gli studi più importanti sul Siracide, uno dei libri del Vecchio Testamento, tradotto e commentato dall’aramaico. Lo conobbi a Praga, un anno dopo l’invasione delle truppe del patto di Varsavia. Era lì con altri giovani a ricordare la primavera politica, timidamente democratica, di quel grande e nobile Paese, 396 soffocata nel sangue. Mi ricordo il giorno, 20 luglio 1969. Me lo ricordo perché in quelle ore l’equipaggio dell’Apollo 11 stava rapidamente avvicinandosi alla Luna dove il comandante Armstrong, seguito dal collega Aldrin, avrebbe lasciato la propria impronta alle 2 e 56, ora di Greenwich. Eravamo rimasti amici. Dopo avere girato mezzo mondo per i suoi studi, e con un cursus honorum invidiabile, aveva scelto di vivere nella sua Catania. Intelligente, timido, di fulminante ironia, amava definirsi “una capra”, l’animale che la storia ha consegnato all’ignoranza ma che ha dimenticato di annoverarne le doti di ostinazione e curiosità. È morto nel sonno, tra le braccia del Dio sconosciuto che aveva tanto studiato. Penso a Gerardo Farkas, capo delle province, uomo del silenzio e dal carattere ombroso ma dotato di fulminante ironia. Talvolta andavo a trovarlo nella sua redazione, che teneva pressoché al buio per mantenere la concentrazione sul lavoro, e parlavamo di cinema e di arte. Imponeva la sua autorità col semplice sguardo e la voce cavernosa e imperiosa. Penso a Giuseppe Catalano, capo della redazione Interni-Esteri. Un signore. Scriveva le corrispondenze per Il Giorno con una calligrafia larga e per me illeggibile: un concetto ogni pagina. Come Orio Vergani. Penso a Salvatore Nicolosi, capocronista, detto Turi Nick, uomo dal carattere spigoloso e difficile ma intelligente e colto. Ai giovani che gli portavano i comunicati stampa del Comune e di altri enti pubblici o privati raccomandava sempre: “Il comunicato si manda prima, poi, se c’è il morto, si telefona”. Parlava a raffica e raccontava storie magnifiche. È morto in solitudine, confortato dall’affetto dei suoi, della figlia Miranda soprattutto. Ai funerali c’erano pochissime persone: qualche vecchio collega e nessuno dei potenti che in vita lo avevano temuto e blandito. Penso a Giuliano Consoli, collega brillante, assolutamente déraciné dalla famiglia e da se stesso, gaudente, sottaniere e sfasolato fresco. Quand’era in 397 trasferta alloggiava in alberghetti di terza categoria portandosi appresso una valigia di cartone con dentro vecchi giornali. La mattina presto, per non pagare il conto, fuggiva dalla finestra lasciando, come pegno beffardo, il vecchio bagaglio che la sera prima, non avendo presentato la carta d’identità, gli era servito per rassicurare il locandiere. Analoga fuga, da comica finale, la fece una volta in compagnia di Mario Giusti che in quel campo non gli era secondo. Della stessa pasta era fatto Totò Musumeci, tipografo, suonatore di violino al Teatro Massimo, strepitoso barzellettiere e uomo di assoluta simpatia. Aveva trovato il modo per non pagare al cinema. Entrava con cipiglio e durezza d’espressione e alla maschera, toccandosi il bavero della giacca, diceva: “Forza”. E quella lo faceva entrare senza obiezioni. Una volta il proprietario del locale, avendo assistito per caso alla curiosa scenetta, chiese chiarimenti. “Un pezzo grosso della forza pubblica”. Non convinto della spiegazione dell’impiegato, aspettò la fine della proiezione e quando lo vide uscire, trottorellante e felice, gli chiese i documenti. “Ma quale polizia!”, esclamò Totò Musumeci. “Dico sempre ai suoi ragazzi Forza nel senso di farsi coraggio perché la serata è lunga”. Una variante era il pacco dei giornali che affidava alla maschera. “Mi raccomando, tienilo d’occhio. Lo riprendo all’uscita”. Lo scopo era quello di confondere l’impiegato facendolo concentrare sui giornali anziché sul biglietto. Siamo in piena commedia all’italiana, a Totò e Peppino, a Sordi e Tognazzi, a Gassman e Manfredi, con uno spolverio di teatro dialettale, muschiano e martogliano, che fa la cifra dei catanesi di un tempo, quei catanesi che non abitavano nelle loro case di pietra con gli ammezzati ma direttamente nelle piazze e nelle strade cittadine, nell’agorà simbolica di una città che non s’era fatta ancora sopraffare dalla mafia e dalla volgarità. Erano tanti i personaggi di allora, assimilabili in qualche modo a Chaplin e ai comici della Keystone di Mack Sennett: litigiosi, irriverenti, coraggiosi e vili allo 398 stesso tempo. Ne ricordo uno che consigliava agli amici di calzare scarpe di una misura più piccola per assaporare il piacere a fine giornata di togliersele e massaggiarsi i piedi con voluttà dopo tanto supplizio. Il consiglio lo estendeva, rovesciandolo, ai vestiti: scegliere due taglie più grandi per farsi poi dire quanto s’era dimagriti. E a non parlare degli scherzi che popolavano le fantasie acerbe di quei ragazzi, muscolosi e beffardi, come il muro costruito nottetempo davanti al portone di casa di una delle tante vittime ritenute “soggette” (a Catania un “tipo soggetto” è uno che è facile mettere in soggezione, alla berlina; senza cattiveria, però, solamente per il gusto della derisione, dello sberleffo goliardico, della violenza infantile e cialtronesca). E quello, il “soggetto”, ch’era stato in vacanza, di fronte al muro improvviso, a non capacitarsi e a cercare altre strade, altri sbocchi e numeri civici per individuare la propria abitazione. Penso a Luigi Arcidiacono, già preside della facoltà di legge, ai suoi sogni giovanili, a come li ha compiutamente realizzati, pur nelle difficoltà della vita e a Roberto Morrione, autentico guerriero del giornalismo televisivo, che mi accolse con stima e amicizia nella redazione cronaca del TG1. Un male incurabile li ha trascinati entrambi nel regno delle ombre. Penso a Stefano Paternò, ragazzo pieno di vita, bravo nello studio e nello sport, ucciso da una fulminante leucemia alle soglie della maturità classica. Sono passati cinquant’anni. Gli anni che non ha vissuto, gli anni che lo tengono, per mistero divino, nella terra fredda e negra di carducciana memoria. Penso a Nuccio Saitta, un compagno di scuola, bravissimo in italiano, che non prese nemmeno la maturità e finì con l’impiegarsi come contabile nella ditta Costanzo e che un giorno andò a contemplare il mare in tempesta, alla Scogliera, e si buttò giù, come Martin Eden, lasciandosi annegare. Penso a Stefano Giunta, perseguitato dal sogno di un amore impossibile, nato tra i banchi del Cutelli, e morto d’infarto dopo che la moglie, qualche anno prima, era 399 volata giù dal balcone di casa. Penso ad Alfio Sapienza, esagerato in tutto, nel cuore e nella bocca, anche lui ucciso da un infarto. Amava la vita, le donne, le carte, il cinema. Penso a don Antonino, il contadino che veniva di tanto in tanto a curare il giardino di casa mia e che una volta, parlando di fede e di credenze religiose, mi disse: “Quand’ero piccolo e avevo una fame che mi sarei mangiato anche le pietre il Signore non l’ho mai incontrato”. Anche lui un giorno se ne andò a fare una passeggiata lungo il molo di Santa Maria La Scala e si buttò in mare. Quando lo ripescarono aveva gli occhi aperti e uno strano sorriso. Penso a Nino Marchese, proprietario assieme al fratello della trattoria Don Saro di viale Libertà, una volta ritrovo di attori, vip e sfaccendati. Si è accasciato al suolo, una mattina d’autunno, davanti all’edicola dove aveva appena comperato il giornale. È morto senza un lamento, in mezzo alla gente, alla sua gente che gli voleva bene. Penso a un compagno di studi all’università, ragazzo acuto e brillante. Colpito da ictus cerebrale, fu lasciato dalla moglie, proprio quando aveva più bisogno di lei, come un sacco vuoto. E allora lui,incapace di reagire e di farsi una ragione del suo male e dell’abbandono, trovò la forza e il coraggio di uccidersi buttandosi dalla finestra. Con questo mio compagno, diventato funzionario della Dogana al porto di Catania, nei momenti di pausa dallo studio, parlavamo di ragazze, di lavoro, di matrimonio, di figli. E questo futuro immaginato si disegnava nei suoi occhi brillanti e speranzosi. Anche lui sognava il grande amore, senza poter immaginare che questo si sarebbe polverizzato su mezze parole sciancate, su passi disarticolati, su occhi imploranti. Si può essere così crudeli? Penso a Marcello Zingales, compagno di classe al Leonardo, intelligente, serio, ottima carriera amministrativa al Senato, lunga e penosa malattia. Se pongo mente agli anni del ginnasio, agli scherzi già ricordati, mi viene un magone che mi precipita nello smarrimento. Penso a Saro Pogliese, morto sul lettino 400 per un difficile trapianto di polmoni. Suonava la chitarra ed aveva una madre che sapeva leggere nel cuore delle persone. Una volta, mentre noi ragazzi ammiravamo l’auto nuova di un ex compagno di classe, mi disse: “Arriverà il tuo tempo”. Non avevo detto o manifestato alcunché ma lei aveva letto nel mio pensiero. Il tempo sarebbe arrivato ed io qui voglio ricordare l’acume e la bontà di questa donna che amava teneramente il figlio e gli amici del figlio. Penso a Lello Giardina, appassionato di vela, lavoratore instancabile: un infarto gli ha spaccato il cuore. Pochi secondi per rendersi conto che lasciava una moglie innamorata e due figli ancora giovani. Penso a Pippo Costa e a Vito Di Marco, l’uno farmacista l’altro medico, amici inseparabili. Nella vita, e nella morte. Penso a Manoli Rimini, nipote del pittore Roberto, tra i pochissimi costruttori che non si sono mai arricchiti. Solo alla fine della professione riuscì a comperarsi una casa. Penso a Rino Nicolosi, per sette anni presidente della Regione siciliana, finito nei guai con la giustizia ma che aveva un’intelligenza politica di prim’ordine. Si dissero tante cose sul suo conto: che possedeva palazzi a Parigi e tenute in Canada e in Brasile. Una volta, incontrandomi in aeroporto, mi confessò: “Tu non ci crederai, ma ho seri problemi economici”. Circolarono anche strane voci sulla sua malattia che lo avrebbe portato alla morte prematura. Forse raccogliendo queste voci, la commissione antimafia andò a trovarlo a casa per verificare. Si trovò di fronte un uomo che era l’ombra di se stesso e che a stento si reggeva in piedi. Erano i suoi ultimi mesi di vita. Uscendo dalla sua abitazione, Ottaviano Del Turco disse: “È stato uno sbaglio”. Penso a Angelo Arcidiacono, ragazzo di luce, bello come il sole, sciabola d’oro ai Giochi olimpici di Los Angeles, che ho conosciuto ad Acitrezza nel fulgore degli anni e che è morto mentre stava per dare un senso compiuto alla sua vita. Era rimasto orfano a dodici anni e sperava che i suoi figli non avrebbero dovuto mai patire la privazione del padre. Ho pensato a mio padre e 401 a mio nipote “così pieno di vita e di energia da essere in continuo pericolo di esaurire le proprie forze” (riadatto le parole che Mark Twain usò per la morte della figlia Jean). Penso a mio suocero, Francesco Coniglio, ex presidente della Regione siciliana, tra i pochissimi politici italiani, e forse europei, che con la politica si sono impoveriti. È morto invocando “Gesù mio”. Di lui, nel suo I vice vicerè, Gaetano La Terza scrisse: “Nelle cronache parlamentari il suo nome resta consacrato a una rettitudine che può indicarsi a non comune esempio. Discutilo, se credi: ma rispettalo. Egli si impone al tuo intelletto e alla tua coscienza”. La vita a volte corre più veloce delle lancette. Quando mi fermo a osservarne il moto mi sorprende il più banale dei luoghi comuni: gli anni sono volati via e non me ne sono accorto. Ma non attribuisco al mio stato ragioni metafisiche, né ricerco più l’assoluto. Più realisticamente, penso che la vita, come dice ne L’età forte Simone de Beauvoir, “racchiuda due verità tra le quali non si può scegliere e che bisogna affrontare insieme: la gioia di esistere e l’orrore di finire”. Penso a Ennio Romano, medico di valore, combattente nella Decima Mas della Regia Marina italiana, uomo di destra, come ben si può immaginare, ma onesto e leale. Per un lungo periodo si trasferì con la moglie in California dove fece amicizia con molti reduci della seconda guerra mondiale che ad Anzio avevano combattuto contro di lui. Eppure, lo accolsero senza pregiudizi e una volta lo fecero sfilare accanto a loro durante la festa nazionale del quattro luglio. Era un ex nemico, senza ombra di dubbio, ma era un soldato che aveva lottato per la sua patria e la sua bandiera e quindi era degno di onore e di rispetto. Non oso immaginare che cosa sarebbe accaduto in Italia. Penso a Emanuele Cardiel, farmacista colto e perbene, intelligente e acuto, amante del cinema e delle buone letture. Un giorno andò a Milano per farsi curare una sorta di sciatica e non tornò più. La moglie, ancora 402 oggi, non sa darsi pace. S’è chiusa in un mutismo assoluto perché, come scrive Varlam Šalamov ne I racconti della Kolyma “un dolore non è veramente acuto né profondo se lo si può condividere con degli amici”. Ogni volta che lo penso ne ascolto con intima commozione la voce che sale dal mare di Acicastello nei cui fondali riposano le sue ceneri. Penso a Dino D’Amico che visse nel ricordo e nel prestigio del padre, celebre avvocato e politico liberale. Ma lui, figlio devoto e riconoscente, ne era massimamente all’altezza. Amava la sua Catania, la Civita, i quartieri antichi e popolari, amava la gente, la loro storia, la loro arguzia. Viveva un tempo passato più che presente. Ed aveva coraggio, molto coraggio. Quando un male irreversibile lo colpi nella sua forza vitale non si perse d’animo e diede agli amici ciò che non poteva più avere, la speranza. Qualche tempo fa Pietro Barcellona, già titolare della cattedra di filosofia del diritto all’università di Catania, annotava su La Sicilia un’esemplare riflessione: “Nell’uomo la vita è diventata sapere della vita, vita che pensa se stessa e che di fronte all’abisso del nulla sa costruire piramidi e poemi, storie e religioni, sa pronunciare parole che vincono il silenzio del tempo”. Nelle storie e nei poemi, vorrei aggiungere, merita il suo spazio specifico il cinema, memoria visionaria, luogo della parola e dell’immagine, di ciò che contrasta mirabilmente il silenzio del tempo. E forse non a caso il mio ricordo dei vivi e dei morti, degli amici che mi hanno accompagnato nel cammino della vita e lo hanno reso ricco di storie minime e grandiose, ma pur sempre storie che rompono (o ingannano) il silenzio del tempo, ha a che fare in qualche modo col cinema, col suo eterno presente che si nutre di passato e di futuro, con la magia delle immagini in movimento che si fanno racconto, ricordo, suggestione, testimonianza. Alla fine di questo discorso che s’apparenta alla malinconia e alla delusione, s’impone il problema della “coscienza infelice”, rilanciato da Pietro Barcellona nel 403 saggio Il suicidio dell’Europa. Questa coscienza che genera infelicità, e che Hegel identificava nel servo che acquista la libertà ma che in bocca ha ancora il sapore della schiavitù, lo studioso catanese l’aggiorna al mondo d’oggi. Non più dialettica tra servo e padrone bensì tra le grandi verità delle eminenze grigie e le piccole questioni dell’uomo comune. Se capisco bene il senso, oggi la coscienza infelice nasce dallo scontro tra l’astrattezza, in cui spesso si nascondono la menzogna e il privilegio, e la concretezza; tra la vita esteriore e la vita interiore; tra un sapere fagocitato sempre più dalla tecnica e l’ignoranza, come dire?, tecnologica. Ma la scienza non è sempre e comunque una buona cosa, una frontiera di progresso e di libertà, la scienza nasconde anche molte mostruosità che possono distruggere l’uomo. E quindi il problema si supera agganciando l’efficienza del nuovo sapere alla sua efficacia. Solo in tal modo, avverte Barcellona, la tecnica può essere governata. Non basta costruire un’auto a sei ruote se prima non si dimostra che le due ruote in più servono a migliorare il veicolo. Io dico che la coscienza infelice non può essere del tutto sconfitta perché è parte inscindibile dell’uomo, della sua imperfezione, del suo egoismo, della sua vanità. Si può solo alleviarla, con la parola, l’amicizia, il coraggio, la dirittura morale… con la musica e coi libri, col teatro, la televisione, il cinema. Il cinema è stato la grande favola della mia generazione, un lungo racconto scritto a più mani. Di questi sapienti tessitori del sogno voglio ricordare Frank Capra, John Ford, William Wyler, Mark Sandrich, Billy Wilder, Aldred Hitchcock… Anche se l’infatuazione varcò l’età della giovinezza, per assestarsi su una linea mediana di critica accettazione, c’è da dire che il cinema in sé, con le sue storie più o meno vere o improbabili, con i suoi divi fatti per essere imitati e amati, rimase nel nostro cuore a irretirci. Ben sapendo che il cinema è rappresentazione e finzione della realtà, naturalmente, e che i suoi divi sono maschere. La mia “ossessione” per i poemi di celluloide 404 s’apparenta, in senso letterario e simbolico, all’ossessione donchisciottesca per i poemi cavallereschi, le insane letture “cortesi” che portano l’eroe di Cervantes alla pazzia, a scindersi tra coscienza e vita. In gioventù anch’io, partendo dal consumo accanito di film e vicende d’eroi, finii talvolta per naufragare nel magma informe della favola e dell’invenzione diventando in definitiva “pazzo”, amante del cuore più che del cervello. Eppure, come sostiene Pascal, “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Tutto serve, tutto confluisce nella verità: la storia e il romanzo, la realtà e la possibilità. Diceva Sciascia che per capire nel profondo la sconfitta di Napoleone a Mosca è più utile leggere Guerra e pace che dieci trattati di storia. Del resto, è una tesi che viaggia sin dalla Poetica di Aristotele. Jean Chapelain alla fine del 1646 scriveva che dalle narrazioni di finzione si possono trarre testimonianze sfuggenti ma preziose. Le cronache, precisava, ci dicono soltanto che un principe è nato, che un principe è morto; elencano gli eventi più importanti dei loro regni, e tutto finisce lì. Attraverso un romanzo (un film) invece diventiamo amici intimi di quei personaggi fino a cogliere l’essenza stessa delle loro anime. In verità, come argomenta Lionello Sozzi in Il paese delle chimere, volontà e intelligenza, ragione e immaginazione hanno bisogno le une delle altre: la ragione presa in assoluto uccide, mentre l’immaginazione dona la vita. In ultimo, storici del calibro di François Furet e Jacques Le Goff sostengono che la storia stessa si basa al 50 per cento sui fatti e per l’altro 50 per cento sull’intuizione. C’è di più. Mario Vargas Llosa nelle Lettere a un aspirante romanziere avverte che il gioco della letteratura, il gioco dell’invenzione, non è mai innocuo: “Colui che attraverso la letteratura vive una grande finzione torna alla vita reale con una sensibilità molto più vigile di fronte ai suoi limiti e alle sue imperfezioni”, e una volta capito che “il mondo reale, la vita vissuta, sono infinitamente più mediocri della vita 405 inventata dai romanzieri”, diventa inquieto fino ad assumere un atteggiamento di ribellione nei confronti dell’autorità e delle istituzioni. La finzione letteraria, quindi, acquista una verità metastorica essenziale. Per spostare l’attenzione al tema cinematografico, utilizzando gli stessi strumenti logici, appare indubbio che anche il gioco del cinema produce nei suoi appassionati fruitori una sensibilità che li porta più degli altri a assumere atteggiamenti critici nei confronti della realtà, del potere. “Sotto un’apparenza inoffensiva”, scrive ancora Llosa “inventare finzioni è un modo di esercitare la libertà e di porsi contro coloro – religiosi o laici – che vorrebbero abolirla. Non avessi fatto il giornalista, non avessi cioè “calmierato” l’ingannevole nobiltà del sogno cinematografico con la ragionevole umiltà della vita, sarei stato un magnifico uomo d’ombra e un pessimo uomo di luce. Ma quel sogno m’è servito a calibrare la durezza dell’esistere con l’illusione dell’immaginare. È come se il cinema avesse mantenuto il mio spirito in uno stato di grazia permanente. Una specie di suggestione autoprotettiva, un chiudere gli occhi quando la realtà diventa sgradevole. Solo per un momento, naturalmente, solo per il tempo necessario di fare un salto nell’archivio della memoria, frugarvi, prendere il giusto film, lo spirito migliore e tornare a lottare. La migliore medicina per continuare a stupirsi… e per non essere solo “un resto di speranza perduto tra la gente”, come nella bella canzone di Roberto Carlos. 406 INDICE DEI NOMI Abbas Abu, p. 252 Acacia Paride, pp. 140, 141, 220 Addinsell Richard, p. 193 Addamo Sebastiano, p. 31 Adjani Isabelle, p. 240 Adolfi John, p. 198 Adorée Renée, p. 33 Adorno Theodor, p. 216 Agata santa, pp. 23, 94, 143-144 Agnelli Edoardo, p. 154 Agnelli Gianni, pp. 20, 63, 151-153 Agnelli Giovannino, p. 154 Agnelli Susanna, p. 153 Agnelli Umberto, p. 154 Aguglia Mimì, p. 126 Allasio Marisa, p. 166 Alberoni Francesco, p. 392 Alberto di Monaco, p. 341 Albertazzi Giorgio, p. 44 Alcott Louisa May, p. 265 Aldrich Robert, p. 135 Aldrich Thomas Bailey, p. 136 Aldrin Buzz, p. 397 Alessi Giacomo, p. 389 Alfieri Eduardo, p. 165 Allen Gracie, p. 209 Allen Leslie, p. 310 Allen Lewis, p. 297 Allen Woody, p. 89 Allyson June, pp. 254, 264, 266, 310 Almirante Giorgio, pp. 168, 180 Almodóvar Pedro, p. 61 Amato Giuliano, p. 145 Ameche Don, pp. 72, 231 Amore Antonino, p. 318 Anastasia Albert, p. 298 Andersen Christopher, pp. 126, 128 407 Andersen Lale, pp. 48-49 Anderson Maxwell James, p. 176 Andreotti Giulio, p. 21 Angelini Cinico, pp. 167, 194-195 Anka Paul, p. 114 Aniante Antonio, pp. 31, 313 Anselmi Rosina, p. 351 Antheil George, p. 91 Antoine, p. 194 Antonino signore, p. 400 Appelius Mario, p. 36 Appiani Giuseppina, p. 313 Arafat Yasser, p. 154 Arbasino Alberto, p. 151 Arcidiacono Angelo, pp. 169, 401 Arcidiacono Luigi, p. 299 Aristotele, pp. 94, 347 Armenise Auletta, p. 328 Armstrong Neil, p. 397 Armstrong Rolf, p. 236 Arnaud Salvo, p. 333 Arnold Edward, p. 77 Arthur Jean, p. 75 Asciolla Enzo, p. 113 Askrow David, p. 267 Astaire Adele, p. 202 Astaire Fred, pp. 116, 202-203, 205-209, 265, 297 Atatürk Mustafa Kemal, p. 128 August Joseph, p. 110 Aumont Jean-Pierre, pp. 122, 337 Aumont Tina, p. 122 Austen Jane, pp. 225, 366, 369 Avola Maurizio, pp. 299, 303 Avondo Andrea, p. 328 Bacall Lauren, pp. 9, 158, 174-177, 189, 350 Baccarini Carlo, p. 57 Bacigalupo Valerio, p. 260 Balbo Italo, p. 81 Baldini Silvio, p.148 Ball Lucille, p. 136 Ballarin Aldo, p. 260 Balzac Honoré de, pp. 141, 190 Bancroft Anne, p. 131-132 408 Bankhea Tallulah, pp. 51, 232 Barbato Nancy, p. 280 Barcellona Pietro, pp. 403-404 Bardot Brigitte, p. 337 Bari Lynn, p. 315 Baricco Alessandro, p. 244 Barillari Rino, p. 270 Barker Jess, p. 287 Barker Lex, pp. 295-296 Barlesi Tony, p. 193 Bartali Gino, p. 194 Bartholomew Freddie, pp. 248, 361 Bartolomei Franca, p. 131 Barrymore Drew, p. 362 Barrymore Ethel, pp. 110, 362 Barrymore John, p. 127, 133, 135, 362 Barrymore Lionel, pp. 133, 362 Barzizza Pippo, pp. 82, 164, 194 Bassani Giorgio, p. 381 Bassetti Franco, p. 57 Battiato Franco, p. 146 Baudo Pippo, pp. 148, 195, 202, 315, 333 Baxter Ann, pp. 126, 308, 326-327 Bearzot Enzo, p. 57 Beatty Warren, pp. 115, 240 Beckett Samuel, pp. 248 Beery Wallace, pp. 71, 133 Beethoven Ludwig van, pp. 36, 148, 156 Belfiore signore, p. 205 Bellini Vincenzo, pp. 311-313, 315-319, 321, 327, 377 Benenati signore, p. 333 Bennett Tony, p. 115 Bentivegna Warner, p. 59 Bergman Ingrid, pp. 9, 28, 79, 96, 100-103, 114, 128, 190, 239, 241, 250, 315, 378 Bergstroms Olaf, p. 39 Berlin Irving, pp. 202-204, 206 Berlusconi Silvio, pp. 67, 142, 151, 177, 189, 279-280, 282 Bern Paul, p. 72 Bernabei Ettore, p. 275 Bernage Berta, pp. 258-259 Bernardini Piero, p. 263 Bernhardt Curtis, pp. 295, 366 409 Bernhardt Sarah, pp. 40, 311 Bersani Lello, p. 162 Berselli Edmondo, pp. 63, 195, 210, Berti Marina, p. 34 Berti Orietta, p. 197 Bianciardi Luciano, p. 83 Biagi Enzo, pp. 182-183, 277-279 Bianchi Pietro, p. 193 Biel Jessica, p. 89 Biffoli Gastone, pp. 331-332 Bignardi Daria, p. 124 Bixio, p. 202 Black Charles, p. 361 Blair Charles, p. 246 Blandini Arcangelo, p. 31 Blyth Ann, p. 134 Bobbio Norberto, p. 153 Bocca Giorgio, p. 385 Boccaccio Giovanni, p. 386 Boemi Laura, p. 142 Bogart Humphrey, pp. 75, 100-101, 136, 174-175, 177, 189, 209, 343 Bogart Stephen, pp. 177 Bohr Niels, p. 42 Bolognini Mauro, p. 381 Bonaccorsi Giancarlo, pp. 99, 192 Bonaccorsi Santino, pp. 64, 68 Bonaparte Napoleone, pp. 337, 386, 405 Bongiorno Mike, pp. 82-83 Boni Carla, p. 164 Bonino Ernesto, p. 263 Bonino Eugenia, pp. 285-286 Bonomi Antonia, pp. 159, 305 Boone Pat, p. 114 Borina Nino, p. 333 Borrelli Giulio, pp. 391-392 Bosè Lucia, pp. 272, 284, 288 Bosetti Ugo, p. 362 Bosio Gastone, p. 82 Botero Fernando, p. 196 Bourcet Marguerite, pp. 258-259 Bovio Giovanni, p. 170 Boyle Danny, p. 264 410 Bow Gordon Clara, p. 352 Brady Alice, p. 33 Bragaglia Carlo L., p. 241 Branca Michele, p. 139 Branca Orlando, p. 139 Brancati Corrado, p. 256 Brancati Vitaliano, pp. 11, 30-31, 35, 72, 248, 256, 313, 356 Brancoli Rodolfo, pp. 18-19 Brando Marlon, pp. 238-239, 250, 256 Bravetti Varo, p. 57 Brazzi Rossano, p 45 Brecht Bertolt, pp. 68, 216 Breen Joseph E., p. 249 Brent George, p. 248 Brönte Emily, p. 185 Brönte sorelle, p. 366 Brooks Louise, pp. 36, 352 Brooks Paul, p. 315 Brooks Richard, pp. 255, 366-367 Brown Clarence, p. 39 Brown George H., p. 366 Brummel Beau, p. 423 Brunetti Argentina, p. 126 Bruni Norma, p. 263 Bruno padre, p. 242 Brynner Yul, pp. 43, 250 Bucholz Horst, p. 387 Bugliari Anna M., p. 288 Buñuel Luis, p. 109 Buonadonna Sergio, p. 196 Burgnich Tarcisio, p. 207 Burns Robert, p. 86 Burr Aaaron, p. 315 Burton Isabel, p. 43 Burton Richard, pp. 282, 364, 370 Buscaglione Fred, p. 204 Buscetta Tommaso, p. 156 Bush George pp. 154, 204 Bush George W., pp. 81, 176-177 Buti Carlo, pp. 263, 277 Butler David, p. 306 Buttafuoco Nino, pp. 333-335 Buttafuoco Pietrangelo, pp. 333 411 Button Benjamin, p. 113 Buzzati Dino, pp. 169, 260 Caffarra Carlo, p. 183 Cagney James, pp. 79, 209 Cahn Sammy, p. 314 Cain James M., pp. 212, 295 Čajkovskij, Pëtr, p. 112 Calabrese Christian, p. 274 Calamai Clara, p. 34 Calamai Piero, p. 332 Calavetta Rosetta, p. 284 Calderoli Roberto, p. 384 Callas Maria, pp. 340, 377 Camerini Mario, pp. 34, 124 Camilleri Andrea, p. 25 Cameron Kate, p. 161 Campanella Miriam, p. 65 Campione Vittorio, p. 65 Camus Albert, p. 289 Canale Gianna M., p. 288 Cannavò Alessandro, p. 395 Cannavò Candido, pp. 64, 70, 142, 333, 395, Cantarini John, p. 241 Cantù Giuditta, pp. 313, 316 Capone Al, p. 298 Caporlingua Massimo, p. 192 Capra Frank, pp. 73, 76-78, 114, 126, 198, 218, 404 Caprino Gaetano, p. 390 Capuana Luigi, p. 388 Caracciolo Marella, p. 154 Caramella Santino, p. 291 Carbone Fabrizio, p. 275 Cardiel Emanuele, p. 402 Cardinale Claudia, pp. 255, 381 Carducci Giosuè, p. 117 Carlo Magno, p. 337 Carlo II, p. 237 Carlos Roberto, p. 406 Carolina di Monaco, p. 341 Caron Leslie, pp. 120, 240 Carter Stephen, p. 119 Cartesio, p. 141 Cartland Barbara, p. 351 412 Caruso Alfio, pp. 53, 142, 150, 282, 382 Caruso Giuseppe, p. 142 Casabianca Angelo, p. 333 Casabianca cavaliere, p. 333 Caselli Caterina, p. 197 Cason Laura, p. 392 Cassat Mary, p. 262 Cassini Daria, p. 230 Cassini Oleg, pp. 229-230, 232, 337 Castiglia Giuseppe, p. 383 Castigliano Eusebio, p. 260 Castro Fidel, p. 154 Castronovo Valerio, p. 153 Catalano Giuseppe, p. 397 Catalany Miryam, p. 258 Catena Maria, p. 201 Cavalieri Maria A., p. 258 Cavour Camillo B., pp. 263, 291 Cecco d’Ascoli, pp. 381-382 Ceglie Berta, p. 327 Celentano Ariano, p. 197 Centorbi Giovanni, p. 30 Cerri Dino, p. 392 Cervantes Miguel de, pp. 139, 405 Cervi Gino, p. 181 Chandler Charlotte, p. 190 Chandler Raymond, pp. 176, 178, 212, 367, 382 Chapelain Jean, p. 405 Chaplin Charles, pp. 314, 398 Charisse Cyd, p. 265 Che Guevara, p. 146 Cherubini, p. 202 Chiari Walter, pp. 272-273, 284 Chirac Jacques, p. 154 Chiostri Carlo, p. 263 Chopin Fryderyk, p. 157 Christian-Jaque, p. 162 Christie Julie, p. 240 Churchill Winston, pp. 174, 226 Ciancio Mario, pp. 303, 372 Ciavola Pippo, p. 92 Cinquetti Gigliola, p. 197 Ciotti Sandro, p. 58 413 Cipolla Carlo M., p. 279 Cirrone Silvana, p. 65 Cisnetto Enrico, p. 66 Cisnetto Iole, p. 66 Clair René, p. 189 Clements Stanley, p. 215 Clift Montgomery, pp. 239, 249, 357, 379 Clinton famiglia, p. 154 Clooney George, p. 371 Clooney Rosemary, p. 371 Clyde Fitch William, p. 211 Coen Joel ed Ethan, p. 54 Cocteau Jean, p. 360 Cohen Michey, pp. 296, 298 Colbert Claudette, pp. 9, 28, 51, 56, 73, 88 Colette, pp. 339, 341 Collura Matteo, p. 381 Colman Ronald, pp. 75, 77 Colombo Anna, p. 346 Columba Nenè, p. 70 Como Perry, p. 115 Coniglio Francesco, p. 402 Connery Sean, pp. 108, 297 Consoli Carmen, p. 196 Consoli Giuliano, p. 397 Consoli Vittorio, p. 374 Conway Jack, p. 72 Coogan Jackie, p. 314 Cooke Janet, p. 362 Cooper Gary, pp. 52, 77, 100, 209, 286, 337 Coppi Fausto, p. 194 Coppola Pietro A., p. 316 Cordaro Bianca, p. 377 Cordero di Montezemolo Luca, pp. 152, 155 Corigliano Piero, pp. 196, 328-329 Corona Fabrizio, pp. 271-272 Corona Puccio, p. 390 Corona Vittorio, pp. 326, 390 Corsaro Antonio, don, pp. 31-32, 257, 395-396 Corvaja Egle, p. 169 Cosentino Filippo, p. 394 Cossiga Francesco, p. 21 Costa Don, p. 362 414 Costa Nikka, p. 362 Costa Nuccio, pp. 195-196 Costa Pippo, p. 401 Costello Dolores, p. 33 Costello Frank, p 281 Cotten Joseph, p. 108 Cowan Lester, p. 367 Crain Jeanne, pp. 120, 308, 313-315, 387 Crane Cheryl, pp. 295-296 Crane Steve, p. 295 Crawford Christine, p. 133 Crawford Joan, pp. 9, 33, 41, 124-125, 128, 132-137, 212, 237, 249, 306 Crawford Martha, p. 241 Craxi Bettino, pp. 21, 252 Cristiani Dhia, p. 234 Crocco Benedetta, p. 273 Crocco Virgilio, pp. 273-274 Cronin Archibald J., p. 344 Cronkite Walter, p. 21 Crosby Bing, pp. 115, 164, 306, 337, 360, 371 Cruise Tom, p. 177 Crystal Billy, p. 84 Cukor George, pp. 41, 124, 127, 130, 135, 249, 284 Cunningham Michael, p. 88 Curtis Jamie L., p. 310 Curtis Kelly, p. 310 Curtis Tony, pp. 310, 357 Curtiz Michael, pp. 101, 134, 175, 194, 209, 255, 365 Cusimano Salvatore, p. 312 Cusumano Stefano, p. 149 D’Agata Mario, p. 57 D’Agata Roberto, p. 100 D’Agostino Roberto, p. 220 D’Angelo Daniela, p. 87 D’Angelo Giovanni, p. 394 D’Anza Silvio, p. 202 D’Annunzio Gabriele, p. 40 D’Ascanio Corradino, p. 75 D’Augusta Giuseppe, p. 57 Dalida, p. 113 Dalla Lucio, p. 100 D’Amico Dino, p. 403 415 Damigella Girolamo, p. 300 Damita Lili, p. 51 Damone Vic, p. 163 Dante Ronald, p. 295 Danzuso Domenico, p. 312 Darnell Linda, pp. 235-238 Das Gupta Sonali, p. 103 Daudet Alphonse, p. 206 Davanzati Forges, p. 36 Daves Delmer, pp. 176, 255 Davis Bette, pp. 9, 41, 124, 128, 135, 137, 225, 327 Day Doris, pp. 120, 285, 294, 305-306 De Acosta Hennie, p. 51 De Acosta Mercedes, p. 51 De Alba Aurora, p. 282 De Amicis Edmondo, pp. 32, 80, 117, 263-264 De Agrò Nino, p. 339 De Beauvoir Simone, pp. 141, 402 De Carli Giuseppe, p. 392 De Carnac Miryam, p. 258 De Fabritiis Oliviero, p. 377 De Felice Giuseppe, p. 229 De Filippo Eduardo, p. 96 De Filippo Peppino, p. 381 De Gasperi Alcide, pp. 180, 182 De Gaulle Charles, p. 154 De Givenchy Hubert, p. 345 De Gregori Francesco, p. 297 De Havilland Olivia, pp. 84, 166-167, 249 De la Reynière Grimond, p. 94 De Mille Cecil B., pp. 90, 126, 237 De Niro Robert, pp. 118, 362 De Palma Jula, p. 274 De Poligny Serge, p. 162 De Roberto Federico, pp. 34, 292, 388 De Sanctis Alfredo, p. 39 De Sica Vittorio, pp. 34, 97, 124, De Toth André, p. 190 De Toth Diana, p. 190 De Toth Michael, p. 190 Dean James, pp. 163, 239, 250 Debussy Claude, p. 157 Defoe Daniel, p. 146 416 Del Rio Dolores, p. 51 Del Turco Ottaviano, p. 401 Deledda Grazia, p. 28 Dell’Aglio Claudia, p. 164 Delli Ponti Sandro, pp. 103, 196 Delly, p. 351 Dennis Patrick, p. 50 Depp Johnny, p. 20 Detlie Elaine, p. 206 Detlie John Stewart, p. 190 Detlie William, p. 190 Di Bernardo Giuseppe, p. 326 Di Domenico Piero, p. 284 Dieterle William, pp. 108, 246 Di Giovanni Nino, p. 142 Di Grado Antonio, p. 383 Di Maggio Joe, pp. 347, 355 Di Marco Vito, p. 401 Di Maria Alfio, p. 315 Di Pietro Antonio, p. 385 Di Stefano Gioacchino, p. 113 Di Stefano Marina, p. 100 Di Stefano Renzo, pp. 99-100, 168-169, 277 Dickens Charles, pp. 254, 264, 369 Dietrich Marlene, pp. 9, 28-29, 41-44, 46-51, 53, 71-72, 159, 212, 267, 286, 378 Digby Jane, p. 357 Disney Walt, pp. 342, 390 Dolliver Luciana, p. 263 Dominguin Luis Miguel, p. 284 Dorsey Tommy, p. 275 Dotti Andrea, p. 344 Dougherty Jim, p. 354 Douglas Kirk, pp. 85, 163, 241, 255 Douglas Melvyn, p. 193 Downs Cathy, p. 387 Drake Betsy, p. 382 Du Maurier Daphne, p. 172 Duca d’Alba, p. 51 Dunaway Faye, p. 133 Dunne Irene, p. 225 Dupont Carla, p. 86 Durbin Deanna, p. 194 417 Duse Eleonora, p. 40 Duvivier Julien, p. 39 Dylan Bob, p. 101 Eastwood Clint, p. 71 Eaton Robert, p. 295 Eco Umberto, pp. 83, 102 Edoardo III, p. 126, 215 Edwards Blake, p. 345 Einarsdottír Thurídur, p. 324 Einaudi Giulio, p. 154 Einaudi Luigi, p. 180 Einstein Albert, p. 219 Ekberg Anita, p. 272 Ellis Anita, p. 161 Eliodoro, p. 23 Elisabetta II, p. 144 Elkann John, p. 151 Ellen Vera, p. 128 Ellroy James, p. 282 Elvgren Gil, pp. 234, 236, 295 Endrigo Sergio, pp. 119, 197 Epstein Julius, p. 101 Ercolano Aldo, pp. 299, 303 Ermengarda regina, p. 337 Esmond Jill, p. 85 Esquivel Laura, p. 362 Etna Giacomo, p. 31 Euripide, p. 109 Evanier David, p. 281 Evans Ray, pp. 306, 370 Evola Julius, p. 168 Faeti Antonio, p. 214 Fain Sammy, pp. 49, 112, 306 Fairbanks Douglas, pp. 33, 132 Fairbanks Douglas jr, pp. 132-133 Fallaci Oriana, pp. 163, 230-231, 360 Fallica famiglia, p. 202 Fanfani Amintore, p. 180 Faorzi Fiorenzo, p. 259 Farina Renato, p. 380 Farinon Gabriella, pp. 103, 196 Farkas Gerardo, p. 397 Farouk I, p. 270 418 Faulkner Henry, p. 368 Faulkner William, pp. 44, 175 Faure Renée, p. 162 Fava Claudio, pp. 303-305 Fava Elena, p. 304 Fava Giuseppe, pp. 273, 299-300, 305, 312 Fava Nuccio, pp. 21-22, 393 Faville Victor, p. 234 Fay Dion, p. 211 Fay Frank, p. 211 Faye Alice, p. 115 Federico Barbarossa, p. 233 Federico II, pp. 384-385 Fellini Federico, pp. 102, 153, 270, 349 Fellini Riccardo, p. 286 Feltri Vittorio, pp. 67, 231 Ferdinando I, p. 385 Ferdinando II, p. 385 Ferida Luisa, p. 34 Fernandel, p. 181 Fernandez Gioacchino, p. 316 Ferragamo Salvatore, p. 104 Ferrara Orazio, p. 366 Ferrari Enzo, p. 183 Ferrario Tiziana, p. 392 Ferrata Giansiro, p. 27 Ferrer Mel, p. 344 Ferrer Nino, p. 197 Ferrer Sean, p. 344 Fichte Johann G., p. 68 Fiducia Saverio, pp. 222-223 Field Betty, p. 119 Filogamo Nunzio, p. 195 Fischer Carrie, p. 370 Fischer Eddie, pp. 251 Fitzgerald Barry, p. 248 Fiumefreddo Antonio, p. 320 Fleming Rhonda, pp. 235, 240-241 Fleming Victor, pp. 138, 361 Florit Ermenegildo, p. 210 Flynn Errol, pp. 51, 137, 166, 239 Fogelson Elijah, p. 226 Folli Stefano, p. 278 419 Fonda Henry, p. 387 Fonda Jane, p. 240 Fontaine Joan, pp. 120, 158, 172-174, 209 Ford Derek, pp. 352, 354, 356-359 Ford Gerald, p. 154 Ford Glenn, pp. 126, 162, 215, 387 Ford John, pp. 17, 91, 125, 129, 198, 243, 246-247, 281, 404 Forlani Arnaldo, p. 21 Fort Rina, p. 134 Foster Jodie, p. 361 Frahm Art, pp. 236, 314 Frajese Paolo, p. 22, 392 Francesco Giuseppe, pp. 113 Franchetti Leopoldo, p. 321 Franchetti Raimondo N., p. 370 Franchi Paolo, p. 89 Francica Nava Giuseppe, p. 192 Francica Nava Orazio, pp. 191-192 Franciosa Anthony, p. 270 Franco Francisco, p. 299 Frank Anna, pp. 341-342 Frank Margot, p. 342 Frank Otto, p. 343 Franzelli Marco, p. 155 Frayn Michael, p. 312 Friedan Betty, p. 210 Fritsch Willy, p. 49 Frittella Marco, p. 392 Fromm Erich, p. 216 Fuerstemberg Ira, p. 196 Fumaroli Maddalena, p. 311 Furet François, p. 405 Furnari Gaetano, p. 201 Fusco Maria Pia, p. 272 Gaber Giorgio, p. 182 Gabetto Guglielmo, p. 260 Gabin Jean, pp. 52, 150, 256, 229 Gable Clark, pp. 71, 73, 75, 84, 90, 133, 199, 281, 337, 357 Gábor Zsa Zsa, p. 267 Gagney James, p. 306 Galante Garrone Alessandro, p. 153 Gallo Larry, p. 281 Galt Marginel, p. 327 420 Galt Melissa, p. 327 Galt Randolph, p. 327 Gambino Carlo, pp. 281, 298 Garbo Greta, pp. 9, 28-29, 33, 35, 37, 39-41, 43-47, 50-51, 71, 97, 104, 133, 135, 159, 225, 378 Gardner Ava, pp. 269-270, 272, 275, 280, 282, 284- 285, 364 Garduzio Pina, p. 164 Garibaldi Giuseppe, pp. 263, 384- 386 Garland Judy, pp. 128, 194, 265, 371 Garnett Tay, pp. 71, 295 Garozzo Giuseppe, p. 333 Garson Greer, pp. 41, 218, 224-226 Gassman Vittorio, p. 328 Gates Bill, p. 69 Gawronski Jas, p. 155 Géleng Ottone, p. 311 Gennaro Giuseppe, p. 141 Genovese Vito, p. 298 Gere Richard, p. 374 Germi Pietro, p. 38 Gershwin George, pp. 202, 206, 209 Giancana Sam, p. 359 Gianni Maria R., p. 392 Giardina Lello, p. 401 Giarrizzo Giuseppe, p. 409 Gielgud John, p. 85 Giffey René, p. 258 Gilbert John, pp. 29, 46 Ginsberg Allen, p. 274 Giolitti Giovanni, pp. 261, 291 Giordani Annibale, p. 373 Giordano Paolo, p. 26 Giorgino Francesco, p. 392 Giorgio principe, p. 132 Gioviale Giovanni, p. 389 Girotti Massimo, p. 130 Girotti Mario, p. 286 Gish Lillian, pp. 109, 245, 344 Giulio Cesare, p. 385 Giunta Stefano, p. 399 Giuntella Paolo, p. 393 Giussani Angela, p. 214 Giussani Luciana, p. 214 421 Giusti Mario, pp. 312, 398 Giusto Antonietta, p. 242 Glaney Edna, pp. 225, 229 Glyn Elinor, p. 352 Gnocchi Gene, p. 182 Gobetti Piero, p. 154 Goddard Paulette, p. 52 Godden Rumer, p. 254 Goebbels Paul Joseph, pp. 48, 226 Goldwyn Samuel, p. 136 Goodman Benny, p. 275 Gorbaciov Michail, p. 154 Gorgone Ciccio, p. 36 Gotti John, pp. 281, 298 Goulding Edmund, pp. 133, 327 Grable Betty, pp. 208, 350 Graham Barbara, p. 289 Graham Sheilah, p. 239 Grahame Gloria, pp. 126, 202, 215 Gramsci Antonio, p. 154 Granger Stewart, pp. 255, 366 Grant Cary, pp. 75, 114, 124, 156, 172-173, 193, 251, 295, 332, 337 Grasso Aldo, p. 145 Grasso Angelo, p. 129 Grasso Giovanni, p. 126 Gray Dolores, p. 121 Grayson Kathryn, p. 371 Greco Emilio, p 130 Greco Juliette, p. 49 Green Alfred, p. 137 Greenfield Luke, p. 266 Greer Jane, p. 241 Grezar Giuseppe, p. 260 Griffith David W., pp. 97, 126, 245 Griffith H. Edward, p. 209 Grignetti Francesco, p. 269 Grimaldi Enzo, p. 337 Grimm fratelli, p. 260 Gruber Lilli, pp. 155, 392 Guareschi Giovannino, pp. 180-183 Guccini Francesco, pp. 210, 274 Gueli Maurizio, p. 313 422 Guglielmino Francesco, pp. 31, 291-293 Guinness Alec, p. 254 Guitry Sasha, p. 137 Hackford Taylor, p. 374 Haley Bill, p. 115 Hall Dickie, p. 332 Hall Jon, p. 121 Hall Porter, p. 213 Hammett Dashiell, pp. 178, 373 Hamsun Knut, p. 111 Harlow Jean, pp. 9, 56, 71-72, 198 Harrison Lietta, p. 200 Harvey Laurence, p. 250 Hathaway Henry, p. 348 Hauser Gayelord, pp. 45-46 Havilland de Olivia, pp. 84, 166-167, 249 Hawks Howard, pp. 174-175, 209, 348 Hayward Susan, pp. 250, 269, 286-288 Hayworth Rita, pp. 9, 26, 41, 99, 126, 158-159, 161-163, 239, 266, 378 Haze Dolores, p. 237 Hefner Hugh, p. 266 Hegel Georg W.F., pp. 68, 404 Heine Heinrich, p. 317 Heisenberg Werner, p. 312 Hemingway Ernest, pp. 44, 52, 162, 174-176, 275, 347, 365, 369-370 Hepburn Audrey, pp. 249, 331, 341-343, 345, 378 Hepburn Katharine, pp. 9, 28, 45, 124-131, 136, 289 Hepburn Tom, p. 126 Hepburn James, p. 125 Hermann Bernard, p. 309 Heston Charlton, p. 287 Hilton Conrad N., p. 365 Hitchcock Alfred, pp. 172-173, 241, 305, 308-309, 327, 336, 393, 404 Hitler Adolf, pp. 42, 47, 357 Hodiak John, p. 327 Hodiak Katrina, p. 327 Høeg Peter, p. 228 Hoffman Dustin, p. 306 Holden William, pp. 211, 337, 343-344, 388 Holiday Billie, pp. 115, 120 423 Holman Leigh, p. 85 Hopper Hedda, p. 329 Horton Edward Everett, p. 208 Hosseini Khaled, p. 61 Houdini Harry, p. 311 Howard Leslie, pp. 84, 174, 315 Hubbard Ron, p. 177 Hudson Rock, p. 128 Hugo Victor, pp. 32, 79 Hughes Howard, pp. 284, 295 Huston John, pp. 84, 176, 250, 254, 344, 357 Hutton Betty, p. 237 Hyams Elena, p. 33 Iannuso Angelo, p. 242 Ibsen Henrik, pp. 40, 232 Identici Anna, p. 197 Ingham Charles, p. 42 Insanguine Nino, pp. 11, 130 Isozaki Arata, p. 47 Jackson Glenda, Jacobs George, p. 250 Jaeggy Fleur, p. 365 Jahn Helmut, p. 47 James Henry, p. 59 Jasgur Joseph, p. 346 Jewison Norman, p. 374 Johansson Scarlett, p. 200 Johnson Nunnally, p. 250 Jintao Hu, p. 69 Johnson Van, pp. 240, 366 Jones Jennifer, pp. 28, 100, 105, 108, 111, 289 Jones Shirley, p. 309 Jordan Neil, p. 99 Jourdan Louis, p. 173 Joyce James, p. 248 Juan Carlos, p. 154 Justin, pp. 362-363 Katz Otto, p. 50 Kalatozov Mikhail, p. 39 Karzai Hamid, p. 129 Kaufmann Christine, p. 310 Kavanagh Julie, p. 208 Kaye Danny, p. 234 424 Kazan Elia, pp. 115, 315 Keaton Diane, p. 240 Keats John, p. 108 Kelly Grace, pp. 9, 128, 281, 305-306, 310, 331, 336-338, 345, 347, 371, 378 Kennedy famiglia, pp. 154, 358-359 Kennedy Jackie, p. 208 Kennedy Joe, p. 52 Kennedy John F., pp. 232, 356-357, 360 Kennedy Robert, pp. 358-359 Kern Jerome, pp. 202-203, 207 Kerr Deborah, pp. 235, 248-249, 251-253 Ketty Rina, p. 53 Keyes Evelyn, p. 84 Kezich Tullio, p. 308 Khan Alì, pp. 154, 162, 232 Kidman Nicole, p. 177 Kinnel Murray, p. 136 King Henry, pp. 100, 112, 246, 284, 314 King mister, p. 278 Kissinger Henry, p. 154 Kleeves John, pp. 215-216 Klinghoffer Leòn, p. 252 Knightley Keira, p. 225 Kohlbecker Christoph, p. 47 Korda Alexander, pp. 82, 186 Körmendi Ferenc, p. 31 Koscina Sylva, p. 272 Koster Henry, p. 255 Kramer Stanley, p. 267 Kruscev Nikita, p. 154 Kubrick Stanley, pp. 71, 255, 374 La Cavera Mimì, p. 36 La Ferlita sindaco, p. 285 La Marr Barbara, p. 90 La Spina Emma, p. 229 La Terza Gaetano, pp. 335, 402 Labaki Naine, p. 165 Ladd Alan, pp. 189, 266, 387 Laganà Roberto, p. 67 Lagerlöf Selma, p. 37 Lake Veronica, pp. 179, 189-190, 285 Lamarr Hedy, pp. 79, 89-91, 232, 237 425 Lamas Fernando, pp. 295-296 Lancaster Burt, pp. 85, 233, 238, 249, 267-268, 344 Lane Lola, p. 194 Lane Priscilla, p. 194 Lane Rosemary, p. 194 Lang Fritz , pp. 47, 215-216, 230 Lang Walter, p. 249 Lange Hope, p. 356 Langham Rhea, p. 199 Lansing Joi, p. 286 Lanza Mario, p. 371 Lario Veronica, pp. 67, 189 Las Casas Antonio, p. 169 Las Casas Barbaro, p. 169 Las Casas Giovanni, p. 169 Lattanzi Tina, p. 41 Latilla Gino, p. 195 Laughton Charles, pp. 133, 244 Lawford Peter, pp. 356-357, 359 Laxness Halldòr K., pp. 321-325 Lazzaro Danzuso Giuseppe, pp. 298-299 Lazzaro M.M., p. 31 Le Goff Jacques, p. 405 Lean David, pp. 45, 254 Lee Howard, p. 232 Lee Peggy, p. 135 Lee Tamara, p. 241 Lehàr Franz, p. 113 Leigh Janet, pp. 265, 308-309, 311 Leigh Vivien, pp. 9, 28, 39, 79, 82, 84-85, 85, 88-89, 120, 186, 225, 378-379 Lemmon Jack, p. 266 Leo Gaetano, p. 65 Leone santo, p. 23 Leone Sergio, p. 118 Leopardi Giacomo, pp. 181, 292 Leotta Piero, p. 65 Lerman Leo, p. 54 LeRoy Mervyn, pp. 85, 225, 265, 294 Leslie Joan, p. 209 Letizia Noemi, p. 67 Lewin Albert, p. 284 Lewis Jerry, p. 306 426 Lewis Joe E., p. 314 Lewis Judy, p. 216 Lewis signore, p. 327 Lewis Sinclair, p. 84 Lewis Thomas, p. 199 Li Destri Francesco, p. 60 Liala, p. 351 Librando Vito, pp. 64-66 Lincoln Abraham, p. 93 Litvak Anatole, p. 250 Livingston Jay, pp. 306, 370 Lloyd Frank, p. 133 Lloyd Wright Frank, pp. 126, 326 Lo Giudice Mariella, p. 311 Lodi Delia, p. 263 Logan Joshua, pp. 211, 356 Loik Ezio, p. 260 Lojacono Corrado, p. 196 Lojodice Giuliana, p. 312 Lollobrigida Gina, p. 288 Lombard Carol, p. 199 Lombardo Antonio, pp. 64, 168 Lombardo Antonio B., p. 168 Lombardo Matteo, p. 29, 56 Lombardo Nino, p. 204 Lombardo Silvana, p. 169 Longanesi Leo, p. 189 Loos Anita, p. 341 Loren Sofia, pp. 89, 288 Losey Joseph, pp. 361, 376 Louv Richard, p. 80 Loy Myrna, pp. 41, 179, 193 Lowe Bessie, p. 33 Lubin Arthur, p. 121 Lubitsch Ernst, pp. 167, 230 Luciano Lucky, pp. 282, 298 Lucy Geoffrey, p. 219 Ludwig I, p. 121 Lukas Paul, p. 100 Lumière fratelli, p. 428 Lupi Roldano, pp. 34, 241 Lussu Emilio, p. 66 Luzi Mario, p. 32 427 Lya Franca, p. 124 Lynn Vera, pp. 49, 120 Macathy Gustav, p. 90 Maccari Mino, p. 189 MacDonald Jeanette, p. 371 MacLaine Shirley, pp. 131, 240, 251 MacMurray Fred, pp. 212-214 Madeo Alfonso, pp. 179, 302 Madonna, pp. 19, 240 Mafalda di Savoia, p.179 Magnani Anna, pp. 102, 237, 239, 250, 289, 368 Magrì Enzo, p. 70 Magrì Saretto, p. 372 Magris Claudio, pp. 95 Mahler Gustav, p. 49 Maimone Giuseppe, pp. 141, 313, 333 Maiorana Giuseppe, p. 93 Mal, p. 197 Malerba Franco, p. 62 Malvica Anna, p. 313 Mamoulian Rouben, p. 29 Man Igor, p. 31 Mancini Henry, p. 345 Mandl Fritz, p. 90 Manenti Michele, p. 57 Manfredi Nino, pp. 166, 398 Mangano Silvana, p. 288 Mankiewicz Joseph, pp. 232, 315, 327-328, 368 Mann Daniel, pp. 250, 287, 289 Mann Delbert, p. 250 Mann Thomas, pp. 216, 273 Mannino Arturo, p. 169 Mannino Francesco, pp. 65-67 Mannino Lucia, p. 66 Mannoia Fiorella, p. 248 Manzella Titomanlio, p. 31 Manzella Frontini Gesualdo, p. 31 Márai Sándor, pp. 11, 374, 380 Marceau Sophie, pp. 39, 114 Marcellini Siro, p. 286 Marchese Nino, p. 400 Marcuse Herbert, pp. 68-69, 216 Marf, p. 97 428 Marill Alvin, p. 127 Marchesi Concetto, p. 31 Maria Luisa d’Austria, p. 337 Maria Stuarda, p. 125 Marini Valeria, p. 44 Maroso Virgilio, p. 260 Marotta Bice, p. 65 Marotta Giuseppe, pp. 295, 314 Márquez Gabriel G., pp. 40, 45, 104 Marchal Georges, p. 162 Marchall Brenda, p. 337 Marshall George, p. 310 Martelli Augusto, p. 274 Martinez Enzo, p. 252 Martino Bruno, pp. 116-117 Martorana Lidia, p. 164 Martoglio Nino, pp. 33, 126, 292, 351, 388 Marvin Lee, p. 215 Marx Groucho, p. 91 Marx Zeppo, p. 294 Mascheroni Vittorio, pp. 97, 164 Mason James, pp. 30, 124, 273, 285 Matisse Henri, p. 169 Mattina sorelle, p. 169 Mature Victor, pp. 90, 295 Maxwell Elsa, p. 239 Maxwell Glenn, p. 267 May Fred, p. 295 Mayer Louis B., pp. 90, 224 Mayler Norman, p. 359 Mayo Virginia, pp. 218, 233-234 Mazzanti Enrico, p. 263 Mazzel Massimiliano, p. 160 Mazzi Gilberto, p. 82 Mazzi Renzo don, p. 210 Mazzini Giuseppe, p. 291 Mazzola Valentino, p. 260 McCarthy Corman, p. 54 McCourt Frank, pp. 77, 170 McDaniel Attie, p. 84 McEwan Ian, p. 24 McGivern William P., p. 215 McGovern Elizabeth, p. 118 429 McKay Ellin, p. 204 McLaglen Victor, pp. 244 McQueen Steve, p. 239 Melcher Marty, p. 306 Melissa P., p. 365 Melnati Umberto, p. 82 Menjou Adolphe, p. 286 Mentana Enrico, p. 19 Menti Romeo, p. 260 Mercer Johnny, p. 345 Mercury Freddie, p. 208 Merivale John, p. 85 Merlin Lina, p. 97 Merlo Francesco, pp. 143, 150, 278, 388, 392 Mernissi Fatema, pp. 106, 122 Merola Mario, p. 15 Messina Dino, pp. 331-332 Messina Livio, p. 86 Messina Sebastiano, p. 25 Miccichè Gianfranco, pp. 384-385 Michelangelo Buonarroti, p. 233 Micheloni Bruno p. 57 Mignemi Giuseppe, p. 179 Mihaileanu Rau, p. 112 Mila Massimo, p. 153 Milano Emanuele, p. 395 Milazzo Nino, pp. 66, 70, 99, 258, 277-278, 386-387 Milland Ray, p. 337 Miller Arthur, p. 355, 357 Miller Daniel, p. 355 Miller Glenn, p. 275 Miller Henry, p. 258 Milne Tom, p. 209 Mina, pp. 272-274 Mineo Sal, p. 239 Minissale Nino, p. 396 Mintoff Dom, p. 339 Miranda Isa, p. 34 Mirabella Santino, p. 64 Misterbianco duca, p. 372 Misterbianco duchessa, p. 205 Mitchell Margaret, pp. 82-83 Mitchell Thomas, p. 84 430 Mitchum Robert, pp. 241, 249, 250, 353 Modesti Dore, p. 103 Modesti Barbara, p. 103 Modica fratelli, p. 169 Modugno Domenico, pp. 114, 195, 347 Molco Willy, p. 392 Molina Alfonso, p. 35 Mollica Vicenzo, p. 20 Molnar Ferencz, p. 259 Moncalvo Gigi, pp. 66-67 Monicelli Mario, p. 381 Monroe Marilyn, pp. 9, 89, 146, 237, 285, 310, 336, 346-348, 350, 353-354, 356, 358-360, 379 Montagna Ugo, pp.269-270 Montalban Ricardo, p. 241 Montalto professore, p. 131 Montand Yves, p. 357 Montanelli Indro, pp. 98, 169, 260 Montesi Wilma, pp. 269-270 Montessori Maria, p. 126 Montez Lola, pp. 121-122 Montez María, pp. 105, 120-122 Montgomery Bernard Law, p. 49 Moore Owen, pp. 132, 163 Moran Dolores, p. 174 Moran Earl, p. 236 Morandini Morando, pp. 109, 176 Morante Elsa, p. 257 Morath Inge, p. 355 Moravia Alberto, p. 256 Morbelli Enrico, p. 81 Morbelli Riccardo, p. 81 Morelli Rina, p. 41 Moretti Nanni, p. 393 Moretti Willy, p. 281 Mori Claudia, p. 197 Morin Henry, p. 258 Morisot Berthe, p. 262 Moro Aldo, p. 223 Morrione Roberto, p. 399 Motta Aldo, pp. 388-389 Motta famiglia, p. 202 Mozart Wolfgang A., pp. 156, 313 431 Muccino Gabriele, p. 271 Mughini Giampiero, pp. 60, 62, 65-67, 258 Munn Michael, p. 217 Murray Don, p. 356 Muscetta Carlo, pp. 32, 65 Musco Angelo, pp. 18, 72, 391 Musolino Vincenzo, p. 286 Mussino Attilio, p. 263 Mussolini Benito, pp. 18, 30, 32-33, 90, 179-180, 288, 384 Musumeci Mario, p. 317 Musumeci Nello, p. 333 Musumeci Totò, p. 398 Muti Ornella, p. 200 Muti Riccardo, p. 147 Nabokov Vladimir, p. 294 Nada, p. 197 Nagel Conrad, p. 33 Naipaul Vidiahar S., p. 369 Napoli Rosario, p. 79 Nasreen Talisma, p. 105 Natalino fratello, p. 60 Navoux Nicole, p. 68 Nazimova Alla, p. 51 Nazzari Amedeo, pp. 34, 241 Neame Roland, p. 254 Negrini Luciana, p. 313 Negulesco Jean, p. 348 Nerone imperatore, p. 185 Neruda Pablo, p. 220 Neufeld Max, p. 82 Newbury Richard, pp. 46-47 Newman Paul, pp. 140, 234, 239 Ney Richard, p. 226 Nico, p. 196 Nicolosi Giuseppe, p. 382 Nicolosi Miranda, p. 397 Nicolosi Rino, p. 401 Nicolosi Salvatore, pp. 31, 99, 134, 397 Nicolosi Vito Mar, p. 31 Nigro Silvano, p. 65 Niven David, p. 250 Noiret Philippe, p. 378 Nomadi, p. 274 432 Noris Assia, p. 34 Norton Simon, p. 112 Novak Kim, pp. 211, 285 Novarro Ramon, p. 33 Nugent Elliott, p. 119 Nureyev Rudolf, pp. 207-208 O’Brien Margaret, pp. 265, 310 O’Hara Maureen, pp. 235, 243, 246-247 O’Neill Eugene, p. 369 O’Shea Mary C., p. 233 O’Shea Michael, p. 233 O’Sullivan Maureen, p. 248 O’Toole Peter, p. 248 Oates Joyce C., pp. 356, 358 Oberon Merle, pp. 179, 185-187, 344 Obey André, p. 339 Occhini Ilaria, p. 170 Oliver Edna May, p. 135 Olivier Laurence, pp. 82, 111, 172, 185-187, 217, 225, 254 Olivier madame, p. 327 Olivieri Dino, p. 52 Onassis Aristotile, p. 340 Ophüls Max, p. 173 Orsini Umberto, p. 312 Orwell George, p. 231 Ossola Franco, p. 260 Otto Natalino, p. 57 Otto Walter, p. 236 Ouspenskaya Maria, p. 238 Pacini Giovanni, p. 313 Padoa Schioppa Tommaso, p. 220 Page Bettie, p. 367 Page Gale, p. 194 Page Giorgio N., p. 210 Page Letty, p. 314 Pagnani Andreina, p. 41 Pagnano Giuseppe, p. 67 Pallavicini Sandro, p.233 Palmas Giuseppe, p. 270 Palmieri Bruno, p. 393 Pampanini Silvana, p. 272 Pamuk Orhan, p. 227 Pan Hermes, p. 209 433 Panarello Carlo, p. 368 Panaro Alessandra, p. 332 Pani Corrado, p. 274 Pani Massimiliano, p. 274 Paolo VI, pp. 200, 275 Papini Giovanni, pp. 169-170, 260 Pappalardo Franca, p. 134 Paris Barry, p. 41 Parker Dorothy, p. 367 Parker Eleanor, p. 289 Parsons Louella, pp. 239-240 Pascal Blaise, p. 405 Pascal Gisèle, p. 336 Pascoli Giovanni, p. 117 Pasolini Pier P., pp. 220, 222, 257 Pasquarelli Giacomo, p. 21 Pastura Francesco, p. 317 Patanè Giuseppe, p. 31 Paterniti Carlo, p. 141 Paternò Castello Elena, p. 113 Paternò Gigliola, p. 169 Paternò Stefano, p. 399 Patti Ercole, pp. 30-31, 150 Pattini Giano, p. 57 Pavese Cesare, p. 49 Peck Gregory, pp. 130, 140, 234, 237, 241, 282, 343 Pelè, p. 207 Pellegrino Nuccio, p. 333 Peres Shimon, p. 154 Perkins Anthony, pp. 239, 309 Perrault Charles, p. 260 Pessina Aldo F., p. 259 Petacci Claretta, p. 90 Peters Jean, p. 286 Petrina Mario, p. 390 Petringa Santi, p. 70 Pevney Jospeh, p. 370 Philippe Gérard, pp. 52, 68 Piano Renzo, p. 47 Piazza famiglia, p. 202 Picasso Pablo, pp. 284, 347 Piccioni Piero, pp. 269-270 Pickford Mary, pp. 33, 36, 132-133, 163, 194, 361 434 Piccolomini Elisabetta, pp. 312-313 Pidgeon Walter, pp. 90, 225 Pierangeli Anna Maria, p. 163 Pietrangeli Antonio, p. 97 Pilieci Carlo, p. 392 Pinketts Andrea G., p. 220 Pinter Harold, p. 369 Pintus Pietro, p. 338 Pio X, p. 126 Pio XI, p. 160 Piovene Guido, pp. 169, 260 Pirandello Luigi, pp. 33, 213, 248 Pirola Araldo, p. 57 Pisano Gigi, p. 165 Pizzi Nilla, pp. 194-195 Platone, p. 94 Pluchino Emanuele, p. 374 Pogliese Saro, p. 400 Polese Ranieri, p. 368 Pontecorvo Gillo, p. 264 Pontecorvo Marco, p. 264 Popolizio Massimo, p. 312 Porri Maurizio, p. 255 Porter Cole, pp. 164, 202, 208, 306, 371 Porter Darwin, p. 239 Porto Rosario, p. 223 Poterat Louis, p. 53 Potter Henry C., pp. 193, 225 Pound Ezra, p. 30 Powell Dick, pp. 266-267, 287 Powell Dick jr., p. 267 Powell Jane, p. 371 Powell Michael, p. 254 Powell Pamela, p. 267 Powell William, pp. 72, 174, 193 Power Tyrone, pp. 228, 232, 239, 246, 295 Preminger Otto, pp. 237, 315, 353 Presley Elvis, pp. 115, 217 Pressburger Emeric, p. 254 Prestinenza Antonio, pp. 31, 100, 113, 167, 223 Prestinenza Luigi, pp. 99-100, 333 Price Vincent, p. 315 Price Will, p. 246 435 Prisco Michele, p. 93 Proclemer Anna, p. 256 Prodi Romano, pp. 149-151, 220, 280 Profeta Ottavio, p. 31 Proust Marcel, pp. 27, 31, 69, 170, 360 Pucci Cesare, p. 392 Puccini Gianni, pp. 52, 166 Quasimodo Salvatore, p. 32 Quattrini Paola, p. 272 Quoiani Alessandro, p. 57 Rabagliati Alberto, p. 263 Raciti Filippo, pp. 143-145 Raffaello Sanzio, p. 59 Raffin Ferdinand, p. 258 Rainer Luise, p. 224 Rangeri Norma, p. 270 Ranieri III, pp. 154, 336, 347 Ranieri Massimo, p. 273 Rapisardi Mario, pp. 32-33, 293, 388 Rasario Giovanna, p. 169 Rastelli Nino, p. 52 Ratoff Gregory, p. 237 Ravera Lidia, p. 297 Ray Nicholas, pp. 135, 215 Reagan Ronald, p. 154 Recca cavaliere, p. 301 Recupero Antonino, pp. 23, 25, 64-65, 67 Reed Donna, pp. 114, 249 Reiner Rob, p. 87 Reinhardt Max, p. 46 Reitano fratelli, p. 169 Remarque Erich M., p. 52 Rembrandt H. Van Rijn, p. 350 Renfro Marli, p. 308 Renoir Jean, p. 305 Reynolds Debbie, pp. 251, 370 Richard Little, p. 115 Ricciardi Antoniuccio, p. 134 Ricciardi Giuseppe, p. 134 Ricciardi Giovanni, p. 134 Ricciardi Pinuccia, p. 134 Richard Jeff, p. 266 Rigamonti Mario, p. 260 436 Rigotti Francesca, p. 171 Rilke Rainer M., p. 30 Rimini Manoli, p. 401 Rimini Roberto, p. 66, 401 Rizzo professoressa, p. 131 Roberts Allan, p. 161 Robinson Edward G., pp. 212-213 Robson Mark, p. 272 Robson May, p. 77 Rocca Daniela, p. 38 Rogers Ginger, pp. 35, 116, 202, 206-209, 265 Rogers Richard, p. 47 Roman Ruth, p. 332 Romano Ennio, p. 402 Romano Lalla, p. 27 Rommel Erwin, p. 49 Ron, p. 197 Ronchey Alberto, p. 219 Ronconi Luca, p. 312 Ronsisvalle Vanni, p. 257 Rooney Mickey, pp. 275, 364 Roosevelt Franklin D., pp. 127, 174-175, 226, 305, 346 Roselli Jimmy, p. 281 Ross Herbert, p. 131 Ross Nina, p. 226 Rossella Carlo, p. 391 Rossellini Isabella, pp. 100-101 Rossellini Roberto, pp. 102-103, 190 Rossi Tino, p. 53 Rossi Drago Eleonora, pp. 36, 288 Rossini Gioacchino, p. 157 Roth Joseph, pp. 139, 173 Roth Philip, p. 218 Rothschild Olga de, p. 46 Rowland Roy, p. 241 Rubino Antonio, p. 262 Ruggeri Enrico, p. 20 Ruspoli Virginia, p. 379 Russel Gail, p. 128 Russel Jane, pp. 237, 349 Russel Rosalind, p. 71 Russo Gioacchino, p. 35 Russo Giuni, p. 196 437 Ryan Meg, p. 87 Sablon Jean, p. 53 Sada Carlo, p. 14 Saglimbeni Gaetano, pp. 45-46, 52 Saitta Giuseppe, 161 Saitta Nuccio, p. 399 Šalamov Varlam, pp. 142, 403 Salazar António de Oliveira, p. 127 Salerno Enrico Maria, p. 196 Salgari Emilio, pp. 146, 333 Salieri Antonio, p. 313 Salvatori Dario, p. 280 Samojlova Tatjana, p. 39 Sanders George, p. 85 Sandrich Mark, pp. 203, 206, 208, 404 Sanfilippo Domenico, pp. 167, 300 Sanger Margaret, p. 125 Sanguineti Tatti, p. 273 Santamaria Ferruccio, p. 57 Santapaola-Ercolano famiglia, p. 144 Santapaola Nitto, pp. 65, 299, 303 Sapienza Alfio, p. 400 Sapienza Goliarda, pp. 98, 221, 229 Sardo Massimo, p. 333 Sardo Siro, p. 333 Sarris Andrew, p. 326 Sartre Jean Paul, p. 110 Savinio Alberto, pp. 169, 260 Scalfari Eugenio, pp. 149-150 Scalia Salvatore, p. 113 Scalia Turi, pp. 113, 330 Scaramella Mario, p. 58 Scelba Mario, p. 181 Schaffer Peter, p. 313 Schell Maximilian, p. 68 Schinkel Karl F., p. 414 Schneider Romy, p. 87 Schubert Franz, pp. 147-148, 389 Schulberg Budd, p. 367 Schultz Dutch, p. 298 Schumacher Michael, p. 155 Sciacca Sergio, p. 329 Scianò Federico, p. 392 438 Sciascia Leonardo, pp. 248, 292, 323, 405 Scimone Chico, pp. 281-283 Scimone Egisto, p. 282 Scott Fitzgerald Francis, p. 239, 367 Scott Forester Cecil, p. 234 Scott Randolph, p. 247 Secchiaroli Tazio, pp. 270, 272 Selig William, p. 126 Selwyn Alan, pp. 352, 354, 356-359 Selznick Danny, pp. 103 Selznick David O., p. 112 Selznick Mary Jennifer, p. 112 Sennett Mack, p. 398 Sequi Sandro, p. 311 Serpotta Enzo, p. 142 Sestini Massimo, p. 270 Seveso Antonio, p. 57 Sgalambro Mario, p. 31 Sgarallino Cynthia, p. 154 Shakespeare William, p. 254 Shaw Anabel, p. 315 Shaw Artie, pp. 84, 275, 295 Shaw Bernard G., pp. 247, 311 Shearer Norma, p. 33 Sheridan Jim, pp. 304-305 Shirer William, p. 267 Shostakovich Dmitri, p. 87 Sicari Giuseppe, p. 279 Siclari Ciccio, p. 99 Sidney George, pp. 255, 310 Sieber Maria E., p. 60 Sieber Rudolph, p. 50 Siegel Bugsy, p. 298 Siegel Don, p. 71 Signoret Simone, p. 357 Silone Ignazio, p. 76 Silver Charles, p. 247 Simili famiglia, p. 300 Simmons Jean, pp. 254-256, 264 Simoneschi Lidia, p. 41 Simpson Wallis, p. 42 Sinatra Frank, pp. 114, 164, 176, 239, 249-250, 280-281, 295, 314, 359 439 Sinatra Nancy, p. 281 Siracusa Peppino, pp. 17, 374 Sirk Douglas, p. 116 Smith Kate, p. 203 Snelson Alec, p. 226 Sofri Ariano, p. 17 Soldati Mario, p. 49 Solidor Suzy, p. 53 Solinas Donghi Beatrice, p. 259 Solo Bobby, p. 197 Solulié Frédéric, p. 171 Somerset Maugham William, p. 336 Sondergaard Gale, p. 232 Sonnino Sidney, p. 321 Sorbello Nuccio, p. 93 Sordi Alberto, pp. 75, 130, 398 Sorgi Marcello, pp. 20, 154 Sotgiu Giuseppe, p. 270 Sozzi Lionello, p. 405 Spada James, p. 338 Spampinato Saretto, pp. 95, 333 Sparre Ebba, p. 29 Speranza Francesco, p. 200 Speranza Mimmo, p. 201 Spielberg Steven, p. 362 Spinazzola Vittorio, p. 28 Sposini Lamberto, p. 391 Spoto Donald, p. 186 Springsteen Robert, p. 238 Stalin Josip, pp. 182, 243 Stancanelli sindaco, pp. 320, 334 Stanwyck Barbara, pp. 202, 211-215 Stanwyck Jane, p. 211 Statler Brothers, p. 246 Steel Alfred, p. 133 Stefania di Monaco, p. 341 Sterlini Giulio, p. 58 Sterlini famiglia, p. 59 Sterlini signora, p. 202 Sternberg von Josef, pp. 43, 50 Stevens Betty, p. 36 Stevens George, pp. 75, 206, 209, 342, 365 Stevens Harold, p. 36 440 Stevenson Robert L., pp. 110, 146 Stevenson Robert, p. 284 Stewart James, pp. 77, 114, 125, 167, 190 Sthal John M., p. 232 Stiller Mauritz, pp. 35, 46 Stockwell Dean, p. 361 Stompanato Johnny, pp. 296-297 Stowe Harriet Beecher, p. 138 Strano Nino, pp. 149-150 Strauss Johann, p. 87 Stresa Nino, p. 286 Suglia Cinzia, p. 367 Suliotis Elena, p. 377 Sullavan Margareth, p. 167 Summers Dirk W., p. 267 Swanson Gloria, pp. 33, 297 Swift Jonathan, pp. 146, 247 Tajoli Luciano, p. 197 Takita Yojiro, p. 235 Talmadge Norma, pp. 33, 36 Talmadge sorelle, p. 36 Tamiroff Akim, p. 71 Tarascio Enzo, p. 313 Tarrant Percy, p. 135 Taylor Elizabeth, pp. 9, 250-251, 265, 282, 310, 361, 364, 370, 376, 378, 379 Taylor Robert, pp. 87, 90, 211-212, 225, 295 Tempio Domenico, pp. 302, 338 Tempio Domenico poeta, p. 292 Tempio Francesca, p. 338 Temple Shirley, pp. 194, 266, 361 Termini Lina, p. 49 Terry Philip. P. 133 Tertulliano, p. 232 Tessuto Mario, p. 197 Testa Orazio, p. 93 The Platters, p. 115 Thoma Mimi, p. 49 Thompson Jim, p. 71 Tiepolo Giambattista, p. 336 Tierney Gene, pp. 120, 218, 229, 231-232 Timpanaro Melo, p. 373 Tito, p. 154 441 Todd Ann, p. 315 Todd Richard, p. 248 Tofano Sergio, p. 262 Togliani Achille, p. 114 Tognazzi Ugo, p. 398 Toland Gregg, p. 186 Tolstoj Lev N., p. 39 Tomarchio Giovanni, p. 310 Tomasi di Lampedusa Giuseppe, p. 111 Tommaso santo, p. 242 Tondelli Pier V., p. 368 Tone Franchot, p. 133 Tonelli Anna, p. 160 Topping Henry J. jr., p. 295 Tornatore Giuseppe, pp. 247, 378 Torrisi Fiore, pp. 31-32 Torlonia Flaminia, p. 379 Tortora Enzo, p. 196 Totò, pp. 92, 177, 386, 398 Tourneur Jacques, pp. 233, 241 Tracy Spencer, pp. 90, 128-129, 138, 267-268, 361 Trantino Enzo, pp. 139-141, 180, 192 Trevor Claire, p. 254 Trewella Margriet, p. 388 Trewella Robert, p. 388 Trio Lescano, pp. 52, 164, 278 Trivulzio Cristina, p. 313 Truffaut François, pp. 173, 336, 387 Trovato Gerardina, p. 196 Tucholsky Kurt, p. 26 Turnaturi Francesco, p. 196 Turner Lana, pp. 9, 126, 237, 240, 250, 266, 275, 284, 294295, 297, 305 Tutle Frank, p. 190 Twain Jean, p. 402 Twain Mark, pp. 136, 218, 231, 402 Umberto I, p. 291 Umberto II, p. 49 Ungaretti Giuseppe, p. 32 Urzì Nino, p. 64 Ustinov Peter, pp. 185, 282 Valenti Osvaldo, pp. 34, 82 Vallée Rudy, pp. 101, 105 442 Valli Alida, pp. 35, 82, 270 Van Gogh Vincent, p. 350 Van Heemstra baronessa, p. 341 Van Heusen Johnny, p. 314 Vargas Llosa Mario, pp. 405-406 Varvello Marco, p. 392 Velez Lupe, p. 33 Venditti Antonello, p. 181 Ventimiglia Mario, p. 394 Ventimiglia Silvia, p. 394 Verdi Giuseppe, p. 113 Verga Giovanni, pp. 29, 223, 248, 292, 313, 322-324, 368, 388 Vergani Orio, pp. 169, 260, 288, 397 Verne Jules, pp. 146, 183 Vespa Bruno, pp. 21-22, 390-391 Videtti Giuseppe, p. 282 Vidor Charles, pp. 158, 306, 314, 336 Vidor King, pp. 111, 344 Vigneri Giorgio, p. 33 Vigneri Paolo, p. 33 Vigneri Riccardo, p. 33 Villa Claudio, pp. 15, 114, 197, 204, 274 Villaggio Paolo, p. 62 Villani Carmen, 197 Villaroel Giuseppe, p. 31 Vilhjalmsson Thor, p. 323 Viola Franca, p. 200 Visconti Luchino, pp. 237, 324, 368 Vittorini Elio, p. 15 Vittorio Emanuele II, pp. 291, 385 Vittorio Emanuele III, p. 291 Vittorio Tino, pp. 26, 63, 298-299, 301, 375 Volcic Demetrio, pp. 390-391 Volpe Carmelo, pp. 257-258, 389 Von Glöden Wilhelm, p. 311 Von Stroheim Erich, p. 305 Wagner Robert, pp. 116, 239 Waldoff Claire, p. 43 Walken Christopher, p. 116 Walker Robert, p. 112 Wallach Eli, p. 357 Wallis Hal, p. 101 443 Walsh Raoul, pp. 209, 234 Walters Charles, pp. 306, 336 Warner David, p. 136 Waterbury Ruth, p. 161 Wayne John, pp. 66, 162, 216, 243-244, 246-247, 287 Webster Paul Francis, p. 112 Weigel Helen, p. 68 Weissmuller John, p. 248, 295 Welles Orson, pp. 159, 162, 327 Werkel Alfred, p. 315 Whelan Tim, p. 186 White Frances, p. 211 Wicks Ren, p. 234 Widmarck Richard, p. 287 Wilcox Fred, p. 364 Wilde Oscar, pp. 45, 128, 146, 215, 247-248, 311, 382 Wilder Billy, pp. 25, 212, 216, 251, 343-344, 347-348, 357, 404 Williams Ester, pp. 247, 296 Williams Robert, p. 198 Williams Sybil, p. 370 Williams Tennessee, pp. 279, 368 Willis Bruce, p. 108 Wilson Sloan, pp. 9, 24 Winchell Walter, p. 297 Winchester Sarah, p. 247 Winchester William W., p. 247 Winger Debra, p. 374 Wise Robert, pp. 250, 289 Withers Grant, p. 198 Wodehouse Pelham G., p. 209 Wolders Robert, p. 344 Wolfe Donald, p. 358 Wood Natalie, p. 115 Wood Sam, pp. 100, 225, 292 Woodcock Henry J., p. 271 Woodward Joanne, p. 250 Wordsworth William, p. 115 Wright Frank Lloyd, pp. 126, 326 Wyler William, pp. 111, 137, 185-186, 225, 234, 249, 343, 404 Yeats William B., p. 247 Young Loretta, pp. 128, 179, 198-199 444 Young Victor, p. 135 Zafón Ruiz Carlos, p. 79 Zammataro Marcello, pp. 68, 92-93 Zampa Fabrizio, p. 273 Zampa Luigi, p. 273 Zanuck Darryl F., p. 230 Zappi Gregorio, p. 393 Zappoli Lucio, p. 74 Zeffirelli Franco, p. 368 Zermo Carlotta, p. 70 Zermo Tony, pp. 70, 99, 193, 300 Zimacki A.L., p. 203 Zingales Marcello, p. 400 Zinnemann Fred, pp. 249-250 Zuckerman Nathan, p. 62 Zweig Stefan, p. 173 445 INDICE 9 Introduzione 11 Città di visioni e di scena 29 Uno 56 Due 79 Tre 105 Quattro 124 Cinque 158 Sei 179 Sette 202 Otto 218 Nove 235 Dieci 254 Undici 269 Dodici 294 Tredici 308 Quattordici 331 Quindici 346 Sedici 361 Diciassette 380 Finale di partita 407 Indice dei nomi Pubblicato nel febbraio 2013 da LibertàEdizioni