una breve riflessione sulla filosofia del diritto - Digilander

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S. Pietropaoli, Una breve riflessione sulla filosofia del diritto
Stefano Pietropaoli
UNA BREVE RIFLESSIONE SULLA FILOSOFIA DEL DIRITTO
“Il cercare una qualsiasi definizione di filosofia del diritto è un’inutile perdita di tempo”. Con questa perentoria affermazione Norberto Bobbio apriva un suo celebre saggio dedicato alla natura e alla funzione della filosofia del diritto (cfr. Giusnaturalismo
e positivismo giuridico, 1965).
La posizione di Bobbio è sicuramente condivisibile. Sin dalla sua comparsa, il
termine “filosofia del diritto” ha indicato ambiti di ricerca tanto eterogenei da impedirne la definizione all’interno di una disciplina unitaria. L’espressione “filosofia del
diritto” (nelle versioni tedesche del termine, Rechtsphilosophie e Philosophie des
Rechts) è stata coniata a fine Settecento, come dimostrano i titoli delle opere di Friedrich Bouterwek (Abriß akademischer Vorlesungen über die Rechtsphilosophie,
1798) e Gustav Hugo (Lehrbuch des Naturrechts, als einer Philosophie des positiven
Rechts, 1798). Ma la fortuna del termine si deve soprattutto alle Grundlinien der Philosophie des Rechts di Hegel (1821). E vale la pena ricordare che a determinare il
successo del termine in Italia ha contribuito la Filosofia del diritto di Antonio Rosmini (due voll., 1841 e 1845).
L’espressione “filosofia del diritto” contiene una tensione concettuale — filosofia/diritto — che ha generato e genera ancor oggi aspri dibattiti tra i sostenitori della “filosofia del diritto dei filosofi” e i fautori della “filosofia del diritto dei giuristi”.
In altri termini: la filosofia del diritto è materia filosofica oppure giuridica? Già Kant,
in un celebre passo della Metafisica dei costumi (Metaphysik der Sitten, 1797), aveva
in un certo senso posto il problema, sostenendo che si possono formulare due domande fondamentali riguardo al diritto. La prima domanda è “Was ist Rechtens?”, ovvero, “Che cosa è diritto?” (oppure, se si preferisce la traduzione proposta da Flavio
Lopez de Oñate: “Che cosa è di diritto?”. La seconda domanda è “Was ist Recht?”,
“Che cos’è il diritto?”. Ebbene, mentre la prima domanda (“Quid juris?”), secondo
Kant, richiede la risposta di un giurista, alla seconda questione (“Quid jus?”) è chiamato a rispondere il filosofo.
Da un punto di vista storiografico, dunque, come si è accennato, è legittimo
parlare tanto di una “filosofia del diritto dei filosofi”, quanto di una “filosofia del diritto dei giuristi”. Sul piano teorico, però, è possibile svolgere alcuni rilievi critici. Se
intendiamo la filosofia del diritto come una filosofia ‘particolare’, ovvero come una
“filosofia applicata”, è pressoché inevitabile che i problemi specifici del diritto vengano studiati partendo non dall’esperienza giuridica, ma dai massimi sistemi in cui la
filosofia del diritto si inserisce. Si sono avute, così, filosofie del diritto idealistiche,
neo-kantiane, neo-tomistiche oppure esistenzialistiche: filosofie diversissime tra loro,
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ma accomunate dalla scarsa considerazione riservata loro dai giuristi, per i quali esse
non potevano essere altro che ipostatizzazioni estranee all’esperienza quotidiana del
diritto. Questa grave controindicazione ha fatto sì che, da ormai un secolo, si sia largamente affermata l’interpretazione della filosofia del diritto come materia dei giuristi piuttosto che dei filosofi, ed è in tale prospettiva che sotto il nome di filosofia del
diritto sono state sviluppate discipline come la teoria generale del diritto, la sociologia del diritto e la metodologia giuridica. Ciò, è bene sottolinearlo, non significa che
chi si occupa di filosofia del diritto sia solo giurista e non anche filosofo. Ma significa invece che, per usare l’espressione di Norberto Bobbio, essi sono giuristi-filosofi e
non filosofi-giuristi. In questo senso, la filosofia del diritto è disciplina autonoma rispetto alla filosofia generale (non è ancilla philosphiae): essa ha una propria grammatica, conosce proprie distinzioni e proprie problematiche.
Anche dalle scarne premesse appena svolte, è facile comprendere come la filosofia del diritto affronti un ventaglio di problemi estremamente ampio, e che a tali
problemi abbia offerto (e offra) risposte profondamente diverse. La ragione di una tale eterogeneità di soluzioni dipende in primo luogo dalla opzione teorica di ciascun
interlocutore. Ciò in quanto, com’è evidente, esistono più modi di “fare filosofia”.
Solo per fare un esempio, è ovvio che gli autori che propendono per una teoria oggettivistica e razionalistica, secondo la quale fare filosofia significa sostenere con argomenti generali che la ragione e l’esperienza consentono di conoscere il mondo nella
sua oggettiva realtà, giungano a soluzioni radicalmente diverse rispetto a quelle formulate da autori che abbracciano una filosofia relativistica e scettica, per i quali invece “fare filosofia” significa riflettere sulle ragioni soggettive (e quindi storicamente
relative) che ci inducono a costruire determinate immagini del mondo, ad usare un
determinato linguaggio, a credere nel valore di certe regole socialmente convenute e
ad ispirare ad esse la nostra vita.
Nonostante ogni possibile divergenza metodologica o propriamente filosofica,
è tuttavia possibile indicare alcune costanti che caratterizzano l’atteggiamento intellettuale di chi “fa filosofia”, e dunque anche di chi fa “filosofia del diritto”. In primo
luogo, il filosofo assume di solito un atteggiamento radicale sia dal punto di vista
cognitivo sia da quello morale. Atteggiamento che è radicale come radicali sono i
problemi di cui si occupa, riguardino questi l’immortalità dell’anima, il significato e
il fine della storia, o la funzione del diritto. Ed è proprio a causa della loro radicalità
che a tali problemi la filosofia, e non anche le cosiddette “discipline scientifiche”,
cerca di dare risposte. Inoltre, si può individuare un’altra costante del “fare filosofia”
nell’atteggiamento non dogmatico del filosofo. In questo senso, la filosofia (il dubbio) si distingue dalla teologia (la fede), che pure affronta problemi generali e radicali, ma con un atteggiamento, appunto dogmatico. Il filosofo riconosce che è impossibile avviare una riflessione qualsiasi senza partire da un inizio che non sia in qualche
modo ‘pregiudicato’. È, infatti, impossibile avanzare una proposta teorica senza
muovere da qualche assunzione che gli interlocutori condividono o che sono comunque disposti ad accettare. Infine, una terza caratteristica del “fare filosofia” è la libertà
della riflessione filosofica. Nonostante i vincoli culturali ai quali, come chiunque, de2
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ve sottostare a causa della sua stessa appartenenza ad una civiltà storicamente determinata, il filosofo ha la possibilità di sperimentare la libertà di pensiero.
Svolti questi brevissimi cenni sul senso del “fare filosofia”, resta da chiarire in
che cosa consista “fare filosofia del diritto”. Per delineare il profilo teorico della filosofia del diritto è indispensabile formulare una definizione minima di diritto, senza la
pretesa di fornire qualcosa di più di un elementare e approssimativo strumento di orientamento. In tal senso, il diritto può essere definito come “la tecnica della coesistenza umana” (N. Abbagnano, Dizionario di filosofia), ovvero come la tecnica, concretatesi in un insieme di regole, diretta a regolamentare i rapporti fondamentali per
la convivenza e la sopravvivenza di un gruppo sociale (N. Bobbio, Dizionario di politica). Ma, oltre ad essere una tecnica, il diritto è variamente definibile come un sapere, un’istituzione, o un linguaggio (G. Preterossi, Enc. del pensiero giuridico). Nel significato più strettamente connesso con la teoria giuridica, il diritto è inteso come
“ordinamento normativo”, ovvero come complesso di norme, costituenti una unità,
che prescrivono certi comportamenti, ne vietano altri, e ne permettono altri ancora.
Rispetto ad altri ordinamenti normativi (come la morale, ad esempio) il diritto
si distingue in quanto disciplina esclusivamente alcuni (non tutti) comportamenti individuali ‘esterni’, in altre parole che hanno effetti sulle aspettative di altri soggetti
(intersoggettività o socialità del diritto). Tale caratteristica non è sufficiente però a
differenziare il diritto da altri ordinamenti normativi come gli usi, i costumi, oppure i
giochi. Carattere specifico del diritto può essere invece inteso (seppur declinabile in
modi diversissimi) il suo rapporto con l’uso della forza fisica. In tale direzione, la teoria giuridica prevalente indica il diritto come ordinamento normativo coattivo. E,
sempre in tale prospettiva, è comune la distinzione tra “norme primarie”, che tipizzano i comportamenti da disciplinare, e “norme secondarie”, che prevedono determinate conseguenze a carico dei destinatari delle norme primarie, con l’obbiettivo di dissuadere i soggetti dal violare le prescrizioni o, simmetricamente, di incentivarli ad ottemperarle sanzionando la disobbedienza o premiando l’obbedienza.
Quanto al rapporto tra diritto e forza, può essere utile confrontare almeno due
impostazioni del problema. Secondo le teorie della coazione di stampo positivista,
quali sono, ad esempio, le dottrine elaborate da John Austin e da Rudolf von Jhering,
il ruolo disciplinante del diritto si esplica esclusivamente nelle manifestazioni della
forza coercitiva dello Stato, e cioè della organizzazione sociale che possiede tale forza in modo esclusivo entro un determinato territorio. In tale prospettiva viene dunque
esclusa qualsiasi capacità regolativa del diritto al di fuori dell’ambito della sovranità
statale. Inoltre, si può osservare che le teorie positivistiche della coazione interpretano la forza come mezzo del diritto, e non come suo oggetto. La coazione è infatti lo
strumento attraverso il quale le norme vengono fatte valere, e dunque il diritto altro
non è che un complesso di norme fatte valere coercitivamente.
In un’altra direzione vanno invece sia la teoria di stampo normativistico di
Hans Kelsen sia quella giusrealista di Alf Ross. Tanto Kelsen quanto Ross hanno
considerato la coercizione non un mezzo, ma l’oggetto del diritto. In tale prospettiva,
dunque, il diritto è un complesso di norme che regolano l’uso della forza. Se, dunque,
ogni ordinamento normativo prevede sanzioni a tutela delle “norme primarie”, il di3
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ritto (e solo il diritto) stabilisce che la violazione di tali disposizioni possa essere sanzionata, ove necessario, con l’uso della forza fisica (ciò non significa,ovviamente, che
tutte le sanzioni comportino in prima istanza l’uso della forza). A tal proposito si può
sostenere che il diritto determina quando, come e per quali finalità la forza può essere
esercitata legittimamente.
Se si accoglie l’ipotesi ricostruttiva che è stata appena delineata, è legittimo affermare, come ha autorevolmente sostenuto Norberto Bobbio, che si possono distinguere tre grandi aree tematiche della filosofia del diritto: un’area ontologica, incentrata sullo studio di ciò che il diritto è, ovvero del concetto di diritto; un’area deontologica, la cui questione fondamentale è ciò che il diritto deve essere, e in cui pertanto è
affrontato il tema del rapporto tra diritto e morale; un’area fenomenologica, in cui il
diritto viene indagato come fenomeno sociale. Ad ognuna di queste tre aree tematiche
corrisponde un concetto fondamentale: quello di validità del diritto (prospettiva ontologica); quello di giustizia (prospettiva deontologica); e quello di efficacia del diritto
(prospettiva fenomenologica).
A questa tripartizione se ne può, seppur con grande cautela, affiancare un’altra.
Tradizionalmente, ad ognuno dei concetti fondamentali appena menzionati si accosta
un particolare orientamento teorico-giuridico. In questo senso, si parla di giusnaturalismo per indicare la congerie di teorie che ha come fulcro tematico il problema della
giustizia; di positivismo giuridico per le dottrine incentrate sulla validità del diritto; e
di realismo giuridico (ma anche, in altra prospettiva, di sociologia del diritto) per gli
approcci che privilegiano l’interpretazione del diritto come fenomeno sociale.
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