il Fronimo rivista di chitarra fondata da Ruggero Chiesa EDIZIONI Il Dialogo - MILANO n. 153 - anno trentanovesimo - gennaio/marzo 2011 - €. 12 DIRETTORE RESPONSABILE: LENA KOKKALIARI COLLABORATORI: MARCO RIBONI, FRANCESCO BIRAGHI ANTONIO BORRELLI, ELENA CASOLI GIORGIO FERRARIS, FRÉDÉRIC ZIGANTE a questo numero: ANDREA BISSOLI, MICHAEL EL KHOURI, DAVIDE FICCO DANILO PREFUMO, ALDO VIANELLO WEBMASTER: CLAUDIO TUMEO DIREZIONE, AMMINISTRAZIONE E PUBBLICITÀ: EDIZIONI IL DIALOGO Via Orti 14 - 20122 Milano tel. 0254120818; fax 0254125182 E-mail: [email protected] http://www.fronimo.it AUTORIZZAZIONE: TRIBUNALE DI MILANO N. 741 DEL 26 NOVEMBRE 1999 TUTTI I DIRITTI RISERVATI - ALL RIGHTS RESERVED UN NUMERO: ITALIA - PRINTED IN ITALY ESTERO EURO 12 ABBONAMENTO ANNUO: ITALIA EURO 40 ABBONAMENTO SOSTENITORE: - - ITALIA - ESTERO EURO 60 ESTERO EURO 90 MEDIANTE VERSAMENTO IN CONTO CORRENTE POSTALE CCP 13711205 MEDIANTE CARTA DI CREDITO NUMERI ARRETRATI DISPONIBILI: ITALIA - ESTERO: EURO 12 MANOSCRITTI E FOTOGRAFIE ANCHE SE NON PUBBLICATI NON VERRANNO RESTITUITI SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE 45% - MILANO FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GENNAIO 2011 CON I TIPI DELLA INGRAF INDUSTRIA GRAFICA SRL - MILANO sommario Editoriale.............................................................5 Editorial .............................................................5 Incontri Intervista a Sigrun Richter e Nico van der Waals di Aldo Vianello .................................................7 Encounters Interview with Sigrun Richter and Nico van der Waals by Aldo Vianello ................................................7 Ricerche e approfondimenti Bruno Bettinelli: una modernità non dogmatica di Davide Ficco (parte prima) .........................12 Studies and research Bruno Bettinelli: a non-dogmatic modernism by Davide Ficco (first part)..............................12 Heitor Villa-Lobos: le opere perdute. Speculazioni e considerazioni di Andrea Bissoli .............................................26 Heitor Villa-Lobos: the lost works. Speculations and considerations by Andrea Bissoli ...........................................26 Lo stile classico. La forma sonata e i chitarristi dell’Ottocento di Marco Riboni (parte prima) ........................34 The classical style. The sonata form and 19th century guitarists by Marco Riboni (first part).............................34 Idee a confronto ...........................................51 Exchange of Ideas and Opinions ..............51 Recensioni Dischi ................................................................53 Libri ...................................................................57 Musiche .............................................................59 Reviews Recordings ........................................................53 Books ................................................................57 Music .................................................................59 Corsi e concorsi ............................................61 Master classes and competitions ..............61 La bottega della chitarra .............................64 Guitar Shop ....................................................64 editoriale D Dallapiccola e quella più giovane di Maderna, Berio, Donatoni, Clementi, ecc.), sia analizzando approfonditamente le peculiarità stilistiche dei vari brani, quasi una sorta di guida all’ascolto. Segue il contributo di Andrea Bissoli che ci propone alcune ipotesi e riflessioni sulle opere giovanili di Villa-Lobos con un particolare riferimento alla riscoperta di un breve frammento manoscritto, una Valsa di poche righe per chitarra sola. Non si tratta di un saggio che ha la pretesa di dare risposte inoppugnabili o proporre verità scientificamente dimostrabili: il suo obiettivo è semplicemente quello di porci davanti ad alcuni interrogativi e, fantasticando sulle possibili risposte, farci conoscere alcuni aspetti meno noti del compositore brasiliano. Confessiamo che, dopo la pubblicazione nel numero scorso dell’articolo di Alfredo Escande sulla vita di Segovia a Montevideo, ci ha fatto ora sorridere l’aver scoperto che i due musicisti dalla personalità decisamente forte e ingombrante (e che, con ogni probabilità, non si sopportavano proprio perché per certi aspetti erano molto simili) avevano un altro punto in comune: entrambi bistrattarono due donne, eccellenti pianiste e musiciste – e che, almeno in quei momenti, godevano di una notorietà pari alla loro – che li avevano amati e sostenuti nei momenti di difficoltà. Il terzo articolo è di Marco Riboni, il quale affronta le varie tematiche legate allo stile classico – ossia il linguaggio musicale dominante dell’epoca compresa all’incirca fra il 1770 e il 1830, cioè dall’esperienza di Gluck e Mozart sino a Beethoven – rapportandole e confrontandole con le composizioni dei chitarristi dell’epoca. Il punto nodale di riferimento è la Sonata opo un anno di intervallo, con il 2011 torniamo a fare l’omaggio di un CD ai nostri abbonati. È vero che prima di inviarlo non abbiamo aspettato l’arrivo del rinnovo di tutti, ma speriamo che la nostra fiducia sarà premiata e che potremo contare ancora sul vostro sostegno. Si tratta di un CD dedicato alle opere per chitarra sola di Bruno Bettinelli: un progetto discografico che siamo orgogliosi di aver aiutato a venire alla luce. Come abbiamo accennato nei numeri scorsi, diverse case discografiche stanno adottando la politica di distribuire i loro prodotti solo tramite il download da Internet, a meno che non ne venga garantita la vendita (o l’acquisto, dipende dai punti di vista) di una cospicua quantità. Noi questa garanzia ci siamo sentiti di darla, convinti del fatto che le opere per chitarra di Bruno Bettinelli meritino di essere conosciute, divulgate ed eseguite. L’interpretazione di Davide Ficco è convincente, rispettosa e coerente: speriamo che l’ascolto faccia apprezzare questa musica a chi non la conosce e che le permetta di rientrare nel repertorio corrente. E ora uno sguardo al contenuto della rivista. L’intervista ci riporta nell’affascinante mondo della musica antica grazie all’incontro con la liutista Sigrun Richter e con il liutaio Nico van der Waals, pioniere nella costruzione di strumenti antichi con più di quarant’anni di esperienza alle spalle. Per quanto riguarda gli articoli, l’apertura è firmata da Davide Ficco che presenta le opere eseguite nel CD, sia delineando i tratti biografici e artistici di Bruno Bettinelli (ricordiamolo: figura di grande importanza della musica italiana del ‘900 a cavallo fra la generazione di Petrassi e 5 una minuscola terzina (copia) l’ultimo e posizione tradizionale. La terzina sembrava addirittura dotata di amplificazione incorporata: impressionante! Il concerto è stato interessante non solo per il programma, ma anche per la possibilità di mettere a confronto due maniere diverse di affrontare la scena e il repertorio. Tre personaggi disinvolti, spiritosi e perfettamente a proprio agio hanno superato egregiamente la prova. In fondo, strumento e posizione non contano, conta la musica. La vera sorpresa della nostra spedizione a Pordenone è stata, però, il concerto finale dello stage “Musica insieme 2010”. Più di cinquanta bambini provenienti da diverse scuole di musica del circondario (e qualcuna anche fuori confine) dopo aver studiato le parti con i propri maestri hanno “montato” i brani con l’orchestra durante i tre giorni precedenti il concerto sotto la guida di Angela Tagliariol. Non siamo mai stati grandi fautori delle orchestre chitarristiche, ma questa volta abbiamo dovuto ricrederci. Il risultato è stato impeccabile, il legato musicale non è mai venuto a mancare (cosa che spesso succede nelle orchestre di chitarre) e i bambini hanno dimostrato professionalità e compostezza esemplari. Uno sforzo organizzativo che ha dato ottimi frutti dal punto di vista musicale e sociale. Congratulazioni! classica o, meglio, la forma-sonata impiegata nella scrittura del primo movimento della Sonata stessa. Si inizia in questa puntata dalla tradizione chitarristica viennese (Molitor e Matiegka) per poi proseguire nella prossima con l’altro viennese, Diabelli, e il contributo del chitarrismo francese. Seguirà l’analisi delle sonate spagnole (Sor) e infine verrà esaminato l’apporto dei chitarristi italiani. Insomma, una serie di articoli che ci accompagnerà per tutto l’anno e ci darà l’occasione di continuare con l’iniziativa degli inserti musicali che, come ci avete fatto sapere, è stata molto apprezzata. Per quanto riguarda l’attualità, vorremmo potervi raccontare tante belle notizie, ma purtroppo non ci sono grandi novità. Essendo rimasti digiuni da appuntamenti chitarristici a Milano, ci siamo spinti fino a Pordenone dove, all’interno dell’annuale Festival Chitarristico del Friuli Venezia Giulia – giunto ormai alla 15a edizione – ci ha attirati la prospettiva di un appuntamento con tutti e tre i Concerti per chitarra e orchestra di Giuliani. Protagonisti il duo Pugliese -Maccari (che in questa occasione hanno dimostrato di esistere anche autonomamente), rispettivamente per i Concerti opp. 30 e 36, e Pablo Márquez per l’op. 70. Chitarre Guadagnini originali i primi e la scelta di suonare in piedi, il Fronimo Campagna abbonamenti 2011 I prezzi rimangono invariati Abbonamento semplice € 40 Abbonamento estero € 60 Abbonamento sostenitore € 90 L’abbonamento quest’anno comprende il CD: Bruno Bettinelli: Complete works for guitar. Chitarrista Davide Ficco Inserti musicali con due dei prossimi numeri 6 incontri SIGRUN INTERVISTA RICHTER E NICO A VAN DER WAALS di Aldo Vianello I no e la sua costruzione. In questo senso non bisogna parlare di liuto o di chitarra ma di liuti e di chitarre. La parola liuto racchiude una serie di forme e possibilità di immaginazione di suono molto diverse, così come la parola chitarra. Il plurale serve oggi a determinare l’esistenza di famiglie di strumenti che si sono evolute e trasformate nei secoli: le parole singole chitarra e liuto rimangono ormai troppo povere. Per me gli strumenti di Nico hanno un grande fascino perché lui mi mette a disposizione la voce giusta per parlare la lingua musicale di quel periodo o quello stile. Così io, potendo parlare tramite la loro voce, mi sento in grado di esprimere tutto ciò che voglio. Per questo i diversi strumenti sono e diventano un attrezzo ideale per un musicista. Certo, ci vuole una tecnica sviluppata e meccaniche adeguate per far parlare agli strumenti tante lingue differenti. n occasione della master class “Prassi interpretativa della musica antica” tenuta dalla liutista di Francoforte Sigrun Richter e dedicata ai liutisti e ai chitarristi che hanno partecipato alle “Vacanze Chitarristiche 2010” abbiamo incontrato ed intervistato Sigrun e suo marito, il liutaio Nico van der Waals. A. V.: Ciao Sigrun, ciao Nico, è molto bello intervistare una coppia come voi dove, se posso dire, l’amore è cullato anche nelle musica attraverso le vostre professioni di liutista e di liutaio. Hai ragione Aldo. È la musica e lo spirito della musica che ci ha portato insieme. Lo scambio di idee, di vedute, di emozioni ed espressioni musicali influenza ed ha influenzato reciprocamente in modo positivo la nostra creatività, sia nell’ambito musicale che in quello della costruzione degli strumenti. Tutto questo si moltiplica nella vita di coppia che comunque si sostiene nello scambio di energie positive. Nico, tu sei famoso in tutto il mondo per i tuoi liuti, hai particolari preferenze nel realizzare uno strumento barocco o rinascimentale? Sigrun, tu suoni con strumenti costruiti da tuo marito Nico van der Waals: ho notato che esiste un entusiasmo comune tra voi nell’immaginare e progettare un programma musicale che prevede la ricerca dello strumento ideale, adatto al repertorio che verrà proposto. NvdW: Non ho proprio delle preferenze. Quando costruisco uno strumento sono sempre profondamente dentro la materia; ogni strumento per me è un mondo, completo ed affascinante nella potenza delle sue possibilità. Sono sempre alla ricerca del suono ottimale per ogni tipo di strumento. S. R.: Ogni stile di musica, ogni epoca vuole e necessita dello strumento o degli strumenti adatti ed adeguati per esprimere al meglio la musica prodotta in quel periodo. Il liuto dal ‘400 fino al ‘700 ha attraversato tanti cambiamenti concernenti l’estetica del suo- Ultimamente hai costruito una chitarra da concerto che abbiamo ed ho trovato particolarmente affascinante: pensi che l’esperienza sugli strumenti antichi possa aiutare un liutaio nella 7 portanti come, per esempio, Michele Hartung di Padova. In seguito, insieme al liutista Michael Schaeffer, ho visitato il Museo di Bruxelles dove ho misurato e studiato i modelli originali con molta cura, specialmente i liuti barocchi di Martin e Johann Christian Hoffmann. Basandomi su queste esperienze ho formato le mie convinzioni e ho costruito liuti barocchi per Michael Schaeffer e altri suoi colleghi. Quindi oltre lo studio dei trattati e degli scritti è molto importante osservare con particolare attenzione gli strumenti originali antichi conservati nei musei. Negli ultimi anni, durante la collaborazione con Sigrun, ho sviluppato molto la qualità del suono non solo dei liuti barocchi ma anche dei liuti rinascimentali a 6, 7, 8 e 10 ordini, arciliuti e chitarroni. Recentemente, grazie alla richiesta di Sigrun, ho costruito un chitarrone a 14 ordini per corde di ottone (come il clavicembalo) e un liuto a plettro, un modello del tardo ‘400 secondo il famoso affresco di Francesco Cossa che si trova nel Palazzo Schifanoia a Ferrara. messa a punto di strumenti moderni oppure i due campi non sono commensurabili? L’esperienza sugli strumenti antichi, specialmente nel campo del restauro di strumenti originali, sviluppa l’orecchio e porta avanti la ricerca del suono. Questo costruisce negli anni una esperienza che sicuramente può essere un valore aggiunto. Costruisci liuti dagli anni Settanta: come si è evoluto il tuo lavoro in questi quarant’anni? Ho iniziato l’esperienza di liutaio nel 1964 aprendo un laboratorio ad Amsterdam dove costruivo chitarre, quindi il mio viaggio è iniziato con la chitarra; non tutti i liutai però seguono lo stesso percorso. Ho sperimentato molto sulla costruzione della chitarra, per esempio il manico libero dal 12° al 19° tasto. Ho sempre usato legni di prima classe: abete per la tavola armonica, acero o palissandro per la cassa, mogano o cedro per il manico, ebano per la tastiera. Questa era la mia prima preoccupazione e ancora oggi sono convinto dell’importanza di scegliere con grande cura il materiale. Il dialogo con musicisti come Julian Bream, Pepe Romero, Narciso Yepes, Andrés Segovia, Presti-Lagoya e tanti altri ha rinforzato le mie idee che sono in continua evoluzione e mi ha permesso di elaborare nuove strategie nel rispetto della tradizione o, meglio, delle tradizioni. Il mio scopo era ed è costruire chitarre che possano rispondere velocemente, che reagiscano in tutti i registri e i colori e che abbiano un suono che viaggi leggero arrivando lontano. Negli ultimi dieci anni credo di essermi avvicinato molto a questo mio ideale. Ad esempio, la chitarra che ho costruito per te nella primavera 2010 mi ha dato grande soddisfazione. Credo di aver capito come la tua arte sia frutto dello studio costante dei materiali che direttamente provengono dal mondo antico (non solo strumenti ma anche quadri, affreschi e altro) e del confronto continuo con gli interpreti che devono dar voce all’anima dei tuoi strumenti. Si certo è così. Quali cambiamenti importanti hai notato nel mondo del liuto in questo periodo? Sono cambiate le richieste dei liutisti? In caso affermativo come si sono adeguati i costruttori alle nuove richieste? Negli ultimi anni i liutisti hanno scoperto il liuto come strumento di ensemble. Suonano molto più il basso continuo e meno come solisti. Perciò sono più richiesti i chitarroni e, in genere, gli strumenti funzionali per praticare il continuo. Certo non è un male e io costruisco volentieri tutti i tipi e i modelli di liuti. Penso comunque che il repertorio del liuto solista sia di grande valore e di indiscussa importanza musicale oltre ad essere molto vasto. Mi auguro che le nuove generazioni non dimentichino di suonarlo. Anche a me. Raccontaci ora come ti sei avvicinato al liuto. Ho iniziato ad interessarmi al liuto dal 1968 circa. In principio sono stato influenzato dai tanti articoli di Friedemann Hellwig sulla storia del liuto e della liuteria e ho seguito i suoi seminari presso il “Germanisches Nationalmuseum” di Norimberga. In quel museo sono conservati tanti liuti originali di costruttori famosi e im8 mento dal 25 aprile fino al 30 ottobre. La nostra esposizione permette al visitatore di fare esperienza diretta della tradizione antica degli strumenti a pizzico osservandoli ed ascoltandoli. Nello stesso ambiente tengo il mio Corso di Liuto e di Musica Antica (nel 2011 dal 25 al 30 aprile). Anche tu Aldo hai suonato la scorsa estate a Monterone con il tuo mandolino barocco G. Battista Fabbricatore e hai potuto notare come il tempo depositato nelle pietre e nel legno delle case antiche aiuti e predisponga all’ascolto. Voi avete una casa a Monterone, vicino a Sestino in Toscana in provincia di Arezzo e vivete da diversi anni e per lunghi periodi in Italia. Come mai avete scelto questo luogo denominato ora per volere della amministrazione comunale “Borgo del Liuto”? S. R.: Durante i miei viaggi in Italia per fare ricerca sulla musica rinascimentale e barocca mi era venuta l’idea di trovare una casa come punto d’appoggio. Attraversando l’Alpe della Luna nell’Appenino centrale tra Toscana, Marche e Romagna ho conosciuto casualmente il borgo medioevale di Monterone. Sono rimasta estremamente affascinata dalla casa nel centro del paese che deriva dall’epoca di Cristoforo Colombo, 1495. Le nostre attività (corsi di liuto e di musica antica, concerti e mostre), che sono iniziate nel 2003 e che continuano a pieno ritmo tutt’oggi, hanno dato la spinta all’amministrazione comunale di denominare Monterone “Castello del Liuto”. Ogni estate a Monterone, presso la nostra Casa del Liuto, mettiamo in esposizione un grande assortimento di liuti – tutti i modelli dal rinascimento al barocco – e chitarre barocche e classiche. La mostra nell’anno 2011 sarà in allesti- Sì, certo sono molto invidioso della vostra casa del Liuto a Monterone! Anche noi siamo invidiosi di te che puoi guardare il mare e passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia d’estate e d’inverno... e puoi pensare ogni giorno a quale accordo il colore del mare ci inclina... Sigrun, tu oltre che un’affermata concertista svolgi un’intensa attività didattica: insegni Liuto e Pratica della interpretazione storica al Dr. Hochs Conservatorium di Francoforte sul Meno e Liuto e Stilistica del Seicento per cantanti alla Hochschule für Musik und Theater di Saarbrucken; vorresti Nico van der Waals e Sigrun Richter 9 parlarci dell’organizzazione degli studi musicali professionali in Germania? È una domanda difficile; tocchiamo un argomento molto importante e scottante. Bisogna cercare di realizzare una programmazione con regole e percorsi determinati che però non irrigidiscano la creatività dell’allievo. Ogni programma e ogni percorso didattico necessita di una certa flessibilità: è come camminare sul filo del rasoio e spesso sono la responsabilità, l’intuizione e la passione del docente a far sì che nessuno si tagli, né allievo né insegnante. Non è facile trovare l’equilibrio. Cosa pensi dei programmi dei Conservatori italiani? Per quello che ho conosciuto e per quello che posso dire esistono gli stessi problemi presenti in Germania. Mi sembra inoltre che gli studi siano ancora più regolarizzati e rigidi e, soprattutto, che durino troppo a lungo. Sigrun Richter e Aldo Vianello gere per i giovani musicisti, ma non possono sostituire la lettura delle fonti originali che ci portano informazioni importanti e spesso più dettagliate per l’interpretazione della musica. Inoltre molto spesso le fonti da Internet sono piene di errori e solo una conoscenza approfondita delle stampe originali ci salvaguarda dalla confusione. Per questo è necessario il confronto con l’originale che sarà sempre insostituibile anche nel futuro. Non bisogna mai perdere il gusto e l’emozione di entrare in una biblioteca e cominciare una ricerca... anche casualmente, anche per gioco. Secondo voi è importante oggi per un giovane chitarrista che si prepara alla carriera di musicista conoscere gli strumenti a pizzico antichi e studiare la prassi interpretativa dell’epoca? Oggi per un musicista sembra inevitabile conoscere la prassi interpretativa storica e il linguaggio caratteristico di ogni epoca. Sigrun, tu nei tuoi corsi accetti di far lezione anche a chitarristi che si presentano con strumenti moderni? Durante un corso “misto” di liutisti e chitarristi, il chitarrista impara molto sullo stile e sulle tecniche storiche; però fa bene anche ai liutisti avere la mente aperta alla musica della chitarra moderna. Come sei arrivata al liuto e perché? Mentre studiavo la chitarra classica mi sono chiesta il perché di tutti gli arrangiamenti della musica di Bach, Weiss, Dowland, etc. Ero curiosa di vedere l’originale. Prendendo un liuto in mano ho trovato la mia strada… Che rapporto hai con la “rete” (Internet)? È possibile secondo la tua esperienza che le fonti disponibili in Internet possano aiutare la crescita di una competenza seria sulla musica antica? È importante la pratica della musica da camera e la collaborazione con gli altri musicisti? Le fonti che mette a disposizione Internet possono essere di prima utilità e facili da raggiun- Sì, certo, indiscutibilmente. Il liuto poi dispone di un ricchissimo repertorio di musica da ca10 luzione dal liuto rinascimentale al liuto barocco francese. In questa maniera continuerei anche la serie di CD Les Accords Nouveaux che contiene per il momento due dischi: le opere di Pierre Gaultier e il libro di Ballard del 1632. A Monterone mi piacerebbe continuare a realizzare corsi ed incontri per liutisti, concerti e mostre. Nella nostra Casa del Liuto esponiamo un grande assortimento di liuti, chitarre barocche e classiche. La mostra nell’anno 2011 sarà in allestimento dal 25 aprile fino al 30 ottobre. La nostra esposizione permette al visitatore di entrare direttamente in contatto con la tradizione antica degli strumenti a pizzico osservandoli ed ascoltandoli. Nello stesso ambiente terrò il mio corso di Liuto e Musica Antica dal 25 al 30 aprile. Nico si sente aperto a tutte le richieste, sia di liuti che di chitarre. Il suo scopo sarà sempre quello di realizzare il tipo di strumento a pizzico preciso per ottenere il suono ideale adatto a ciascuna epoca e a ciascun tipo di musica. mera. Pensiamo innanzitutto quanto possiamo suonare realizzando il basso continuo: è una quantità enorme di musica! Non basta una vita per suonare tutto. Abbiamo particolarmente apprezzato il recital che hai tenuto in ottobre presso il Corte Coriano Teatro a Coriano: il programma era incentrato sulla figura di John Dowland e oltre a suonare hai proiettato immagini e letto testi del Seicento. Nei miei concerti seguo sempre un percorso storico, stilistico o di genere. Trovo sempre stimolante stabilire il programma seguendo un filo rosso tematico. Potrebbe essere un personaggio: il compositore, oppure anche un tema storico o filosofico. Quali sono i vostri progetti per il futuro? Il prossimo programma solistico sarà dedicato al personaggio di François Dufaut e all’evo- 11 ricerche e approfondimenti BRUNO BETTINELLI: UNA MODERNITÀ NON DOGMATICA. di Davide Ficco Prima parte B runo Bettinelli (Milano 1913-ivi 2004), compìto gentiluomo milanese – figlio del pittore Mario Bettinelli (1880-1953) e nipote del compositore e pianista Angelo Bettinelli (1878-1953) – è una delle figure di prima grandezza del secondo Novecento italiano, sia come compositore che come didatta. Dedicatosi anche alla critica e alla musicologia, si è formato presso il Conservatorio “G. Verdi” di Milano (sotto la guida di Giulio Cesare Paribeni e Renzo Bossi), dove ha in seguito ricevuto la cattedra di Composizione. Tra i suoi allievi figurano nomi di grande rilievo quali Claudio Abbado, Bruno Canino, Aldo Ceccato, Riccardo Chailly, Azio Corghi, Armando Gentilucci, Riccardo Muti, Maurizio Pollini, Uto Ughi e, nell’ambito della musica extracolta, la cantautrice Gianna Nannini. Il prezioso messaggio che ha infuso come didatta si riflette in toto nel suo stesso cammino di compositore, improntato al continuo migliorarsi e rimettere in discussione i propri risultati e anche le presunte certezze acquisite: complessi che costituiscono l’essenza stessa della musica.”1 Vincitore di concorsi internazionali di composizione, Bettinelli ha ricevuto negli anni Quaranta, tra gli altri, il premio dell’Accademia di Santa Cecilia in Roma (dove è stato poi eletto Accademico), divenendo in seguito membro dell’Accademia Luigi Cherubini di Firenze. Partito da una giovanile vicinanza a un neoclassicismo molto contrappuntistico (arricchito anche dall’utilizzo di frammenti gregoriani o di forme quali la fuga, l’invenzione e il ricercare) con influenze di Bartók, Hindemith e Stravinskij, il suo percorso si è poi avvicinato all’atonalità, a una dodecafonia non stretta, all’aleatorietà controllata e alle tecniche strumentali non tradizionali (multifonici, armonici e altri effetti specifici) per sfociare in un linguaggio cromatico libero e in una ricerca timbrica sempre più peculiare. Certamente il ricco universo sonoro che emerge dalla musica per chitarra di Bettinelli, fatto di instancabile fantasia ritmica e di attenta ricerca intervallare e dinamica, non può essere ricondotto per un qualche senso di similitudine alle tante pagine genericamente atonali (per dirla come Schoenberg non avrebbe voluto) che caratterizzano parte della musica del ‘900; tantomeno può assimilarsi all’eredità di pagine alea- “Badate – diceva agli allievi – che di anno in anno si possono cambiare e rivedere molte opinioni in fatto di gusto e di valutazione. Ogni dieci anni, poi, considerando in prospettiva il tempo trascorso e le relative esperienze accumulate, si verifica in noi, immancabilmente, una strana e imbarazzante sensazione: una voce interiore, nostro malgrado, sembra sussurrarci: «...si vede che allora non eri ancora abbastanza maturo per capire certe cose...». È così per tutta la vita, perché in realtà non si finisce mai di scoprire, di progredire e di assimilare il coacervo di problemi inesauribili e 1. ELISABETTA GABELLICH (a cura di), Linguaggio musicale di Bruno Bettinelli, G. Miano, Milano, 1995, 2a ed. aggiornata, p. 15. 12 dell’Ottanta in Italia e con Stravinskij, Bartók e Hindemith in Europa; esempi ai quali Bettinelli guardò nella sua formazione con vivo interesse, passando per le opportunità offerte dalla dodecafonia in generale. E l’intero e sostanzioso corpus delle opere per chitarra proprio così risulta: un lavoro omogeneo di libero utilizzo dei legami seriali (come utensile preso e lasciato, non vincolante) e, soprattutto, del totale cromatico, resi vividi da sapienti elaborazioni delle cellule tematiche, da ceselli contrappuntistici e giochi ritmici e accentuativi, oltre che da un melodiare ricercato, in un contesto armonico cangiante e caleidoscopico, non sempre lontano da fugaci suggestioni tonali, a volte del tutto negate, altre volte amabilmente evocate. Ecco come sintetizzava le proprie idee lo stesso Bettinelli: Bruno Bettinelli con Riccardo Muti, Teatro alla Scala, Milano, 1972 Fabio Di Gerolamo: Come si pone nei confronti della atonalità o della dodecafonia? B.B.: Sono un po’ anarchico, nel senso che non amo la serialità, perchè è una palla al piede. Devo essere libero di condurre un discorso dove voglio, senza le regole che mi impone la serie. [...]3 torie o dogmaticamente regolate, filosoficamente connotate, del periodo post-weberniano: nella musica di Bettinelli si manifestano una volontà precisa di allontanamento – non assoluto – dalle rive tonali e uno stile, sin dalle prime opere, personale e coerente. Il mezzo riconduce prevalentemente alla serialità, sebbene blandamente condotta, ma ad emergere è un chiaro gusto per la libera elaborazione melodico-intervallare, con una spontanea germinazione delle idee e una loro continua variazione. Nato a cavallo tra le prime due fondamentali personalità del musica moderna italiana del ‘900, Petrassi e Dallapiccola, e la generazione degli anni Venti (Maderna, Nono, Berio, Donatoni, Clementi, etc.), Bettinelli ha mantenuto una strada propria e poco ortodossa, dove la scelta espressiva risulta preminente nel contesto della gestione delle dodici note. L’essenzialità antiretorica e la ricerca di una sostanza prettamente strumentale (“non melodrammatica”),2 informano tutta la sua musica, prosieguo ideale di quella ricerca del nuovo e, insieme, della conoscenza-riconoscenza nei confronti della musica pre-romantica che era iniziata già con la Generazione Ruggero Chiesa: Riferendosi al procedimento dodecafonico, Lei crede che si possa ancora impiegare? B.B.: Io penso di sì, per quanto attualmente esso venga snobbato. Una delle cose più tragiche del nostro tempo è che da un anno all’altro tutto si brucia. [...] Non ci si è ancora fermati su un modo di esprimersi veramente sincero, quindi non vedo perchè la tecnica dodecafonica non potrebbe dare buoni risultati, così come quella strutturale o qualsiasi altra. Non preoccupiamoci di sapere quale sarà la musica dell’avvenire, se ancora non conosciamo come potrà essere la sensibilità dei nostri figli e nipoti. R.C.: Dopo la lunga esperienza dell’avanguardia, sembra che oggi si stia assistendo a un riflusso verso posizioni meno dogmatiche. Secondo Lei c’è del nuovo o si sta ritornando al passato? 2. http://www.ricordi.it/catalogo/archivio-compositori/bruno-bettinelli 3. FABIO DE GIROLAMO, Colloquio con Bruno Bettinelli (estratto dalla tesi di laurea La letteratura chitarristica italiana del Novecento), da “Sei corde per sei compositori: Bettinelli, Castelnuovo Tedesco, Chiereghin, Margola, Mosso e Rosetta”, in “Seicorde”, n. 48, novembre-dicembre 1994, p. 16 13 le e dal peso specifico rilevante. A conferma di ciò, ad aver reso così originali le opere chitarristiche del Nostro sono proprio la chiara e libera personalità, e quella padronanza di stili e tecniche che ne ha informato la scrittura, in una volontà di autonomia non troppo incline a proposte di rimaneggiamento o adattamento ad idiomi esecutivi stereotipati o comunque “più chitarristici” da parte degli esecutori. B.B.: Ritornare al passato è semplicemente impossibile, ma, come dicevo, materiale da sfruttare ne abbiamo moltissimo [...] Queste esperienze (le sperimentazioni di Cage, n.d.r.) forse hanno avuto un valore di rottura, di polemica, per superare certe posizioni, ma ora, pur senza rivolgersi al passato, penso sia il momento di un equilibrio che contemperi gli eccessi di un’avanguardia estrema dove si è raggiunto l’assurdo e il cliché. [...] Bisogna tornare su posizioni di ricerca autentica, sincera, con se stessi [...] anche se mi si può accusare di un discorso borghese, la via giusta sta nel mezzo.4 Ruggero Chiesa: Quali sono le caratteristiche della chitarra che Lei preferisce? B.B.: Direi prima di tutto il colore, poi le risorse tecniche, che non sono poche, e la duttilità dinamica, che permette di passare da un’atmosfera dolcemente cantabile all’aggressività. Negli Studi ho cercato proprio di dimostrare tutti questi elementi. R.C.: Vorrei ora chiederLe se c’è, secondo Lei, uno stile musicale che meglio si adatta alla natura della chitarra, oppure se essa sia flessibile ad ogni tipo di linguaggio. B.B.: Penso che non vi sia nessun limite: tutto dipende dalla capacità del compositore. Circa il linguaggio, io dico sempre ai miei allievi che con la grammatica musicale di cui disponiamo possiamo ancora scrivere musica per cento anni.” [...]6 Renzo Cresti: Della attuale situazione in cui versa la composizione, Bettinelli non è contento, perché vede un disorientamento, causato dall’esaurirsi dello sperimentalismo, un esaurimento per altro positivo, ma che ha lasciato campo libero a un certo qualunquismo, ma “ciò che conta” – dice Bettinelli – “è il saper rendersi conto nel dovuto modo che in musica tutto è permesso, niente è permesso. Ai velleitari si addice il silenzio.”5 Nella chitarra, Bettinelli ha trovato alcune caratteristiche sonore alle quali rispondere con un lessico specifico e con un fruttuoso adattamento allo strumento, in cui cercare, scavare e giocare con libertà per esaltarne la consistenza; l’impresa, avvincente, è stata fino alla fine del XIX secolo appannaggio esclusivo dei chitarristi (i soli a scrivere per il proprio strumento), ma nel ‘900 sono numerose le prove di quanto l’apertura al contributo dei compositori non chitarristi fosse gravida di importanti novità. Infatti, mentre fu da sempre fatto usuale che talune peculiari tecniche esecutive si trasformassero in un nuovo mezzo espressivo attraverso le mani degli strumentisti, l’inventiva musicale, la padronanza di forma e di procedimenti e l’utilizzo ragionato (e non gravato dal facile richiamo di automatismi esecutivi) di efficaci tecniche specifiche hanno permesso ai compositori non chitarristi di poter dare spesso un contributo origina- Le opere per chitarra sola di Bettinelli, composte in un arco di tempo che va dal 1970 al 1994, sono uno dei lasciti più importanti tra quelli dedicati a questo strumento da compositori contemporanei di musica colta. Fondamentale fu la sollecitazione e la fattiva collaborazione di Angelo Gilardino e Ruggero Chiesa, quest’ultimo suo collega e concittadino, che spinsero il Compositore a concretizzare un interesse verso la chitarra che fino a quegli anni era sì stato espresso, ma senza prendere forma. In questi trenta brani troviamo un clima a volte diverso rispetto a varie sue pagine extra-chitarristiche, dove l’impiego di altre peculiarità e impasti strumentali ha consentito a spesse armonie, clusters, 4. RUGGERO CHIESA, Intervista a Bruno Bettinelli, 13-111980, “Il Fronimo”, n. 34, gennaio 1981, pp. 3-4. 5. R ENZO C RESTI , Bruno Bettinelli, Il Signore del Contrappunto in “Angeli e Poeti” n. 4, Milano 2000, ovvero in “Piano time”, n. 97, Roma, Aprile 1991. 6. RUGGERO CHIESA, op. cit., p. 4. 14 note sospese e tenute (viene in mente l’atmosfera del Ricercare per due pianoforti del 1976), grandi dinamiche e ricche sedimentazioni timbriche (Sinfonie e Concerti per Orchestra / opere corali) di veicolare con voce più varia e forte i contenuti musicali. Nel contesto delle opere per chitarra ogni elemento musicale (in primis la melodia, esplicita o sottesa, frammentata, ritorta o lineare che sia) deve incontrare la condivisione, la partecipe interpretazione dell’esecutore che, non ingannato dall’algidità apparente dell’ambientazione e dai toni talvolta spigolosi e inospitali di alcune sequenze intervallari, deve saperne restituire la poesia e la vibrazione interna. Questa musica è introspettiva, estatica, volitiva, esplicita ed energica, pur rimanendo se stessa; la forma è ogni volta costruita a misura del singolo pezzo e attorno ad essa si inerpicano disegni melodici e armonie in un equilibrio di espressività e compostezza, irruenza e misura; un contesto sobrio, ma mai privo di emozione. B.B.: Ho sempre sentito una grande attrazione per le infinite possibilità timbriche dell’orchestra e del coro [...] mi ha aiutato la fortuna di sentire dentro di me, senza che nessuno me lo abbia mai spiegato, il colore, gli impasti sonori, il peso, il timbro degli strumenti, le proporzioni e gli equilibri nella distribuzione delle varie sezioni. Da tale sensibilità timbrica deriva la mia predilezione per il genere sinfonico e per l’ampiezza del respiro, per l’infinita gamma di colori che offre la possibilità di concepire alla grande e in piena libertà formale.7 B.B. La mia musica ha sempre un’articolazione discorsiva. Il pulsare ritmico e la sottile inquietudine armonica sono i fattori costanti che, da sempre, caratterizzano la mia produzione. Costituiscono un’ossatura che consente di portare avanti un discorso coerente, strutturato sulla base di un continuo variare degli elementi proposti all’inizio e, successivamente, scomposti, rielaborati [...] rovesciati, riesposti nelle figurazioni cellulari più svariate che, derivate dalla speculazione contrappuntistica dei fiamminghi, costituiscono anche la complessa elaborazione della tecnica seriale ortodossa. Una tecnica che io, dopo alcuni esperimenti, ho abbandonato, Ma scopriamo che, in qualche misura, l’orchestra, il pianoforte o il coro trovano nelle pagine per chitarra una parziale eco, filtrata, ridotta; come se uno spazio ridotto potesse contenere il tutto, rimasto autentico – dalla sfumatura al gesto di stizza – ma solo un poco più piccolo... È pur vero che la speculazione timbrica dell’autore rende ogni suo pezzo un unicum e che le opere di più ampia concezione, soprattutto quelle orchestrali e/o vocali, si nutrono di una tavolozza timbrica e dinamica che non può essere trasferita sulla chitarra se non in termini di pura suggestione: ad esempio, la rapida decadenza del suono dopo l’attacco, come è naturale, impone ad ascoltatori ed esecutori un declinare astratto di quanto sarebbe offerto da strumenti a suono tenuto come archi, a fiato o dalle voci. Bettinelli, soprattutto nei lavori solistici, cerca quindi del singolo strumento la natura profonda, in qualche modo a sè stante, da assecondare ed esaltare, pur nella coerenza del proprio linguaggio. B.B. [...] La mia preoccupazione è sempre stata quella di penetrare a fondo lo spirito e non solo l’ambito tecnico degli strumenti.”[...]8 7. RENZO CRESTI, op. cit. 8. RUGGERO CHIESA, op. cit., p. 3. Bruno Bettinelli, 2002 15 B.B.: Non voglio fare descrittivismi di sorta. Ho vissuto i momenti più drammatici di questo secolo; queste tensioni si trovano nella mia musica, ma senza precisi programmi. Nella mia musica c’è il senso drammatico e poetico dell’esistenza.11 perché troppo vincolante. Ho preferito quindi attenermi al solo totale cromatico, più libero e ricco di risultati altrettanto coerenti, ma, al tempo stesso, più spontanei.9 Fabio De Girolamo: Nella Sua musica c’è sempre un’alternanza tra momenti in cui il ritmo è molto libero e altri in cui è ripetitivo e uniforme. B.B. Sì, ci sono momenti di stasi e di aggressività. Dopo momenti poetici, che creano un’atmosfera tranquilla sognante, improvvisamente arriva la frustata, entra una sezione ritmica e aggressiva. Tutto questo, però, lo sento istintivamente, non è mai un partito preso.10 Nell’affrontare questo repertorio l’esecutore è chiamato a integrare sforzi necessari in varie direzioni: l’esattezza della lettura (poiché la scrittura del Nostro è accurata, senza essere pedante, ed è talvolta complessa, specialmente nel rispetto della polifonìa e delle accentazioni), la precisione esecutiva e l’articolazione del discorso musicale. Le linee melodiche e le armonie chiedono attenzione sul contenuto di ogni intervallo che le compone, affinchè lo stesso non sia banalizzato e ridotto a singola presenza in un insieme di suoni: diversamente, e vale per la grande parte della musica moderna, non potrebbe essere in un contesto dove le sequenze intervallari non rientrano più volutamente nei cliché strutturati e pienamente assimilati della melodia tradizionale, le distanze interne devono assumere particolare importanza e ricevere una ancor più attenta considerazione. Nelle sezioni di “sviluppo”, dove trova espressione non solo la sapienza contrappuntistica di Bettinelli, ma più in generale una vasta sedimentazione di spunti musicali, non devono esser lasciati cadere i numerosi riferimenti, sempre variati, al materiale tematico; e infine la forma, da rilevare riconoscendo l’importanza delle proporzioni, la sequenzialità strutturata del discorso musicale e, come si è detto, i ritorni del materiale esposto precedentemente, quand’anche fossero soli accenni; tutti elementi che rappresentano il mai casuale frame su cui ogni pezzo è costruito. Le indicazioni timbriche, agogiche, dinamiche e articolative sono puntuali, ma mai pretestuose e inapplicabili. Una certa libertà è stata lasciata all’esecutore nello Studio n. 7 (Intervalli spezzati / Allegro, a piacere), dove è lo stesso Autore a specificare che i “I coloriti sono lasciati alla libera scelta dell’esecutore. (...)” e dove la presenza di sette corone offre una ulteriore opportunità di personalizzazione interpretativa: una scelta sicuramente pedagogico-esemplificativa, oltre che musicale. Le opere solistiche per chitarra sono state composte nel seguente ordine cronologico: E diventano così parte non casuale del discorso il silenzio e l’attesa tra un evento sonoro e l’altro: elementi pregnanti, misteriosi e attivi del lessico bettinelliano, soprattutto nelle pagine più rarefatte, dove il fluire del discorso sembra nascere proprio dal silenzio, che non è più solo occasione di riposo, di respiro, ma che pare un contenitore “in negativo” dal quale attingere suoni, timbri e ritmi. Figure e colori che emergono dall’ombra come nelle tele del Caravaggio, dove l’assenza di luce imprime alle figure che vi si distagliano un’aura di profonda e intensa vividità. Questo geste bettinelliano di libero recupero nella memoria, dal silenzio all’articolazione di un discorso musicale, ci piace in qualche misura affiancarlo allo spirito compositivo del più giovane Carlo Mosso (1931-1995), altro “signore del contrappunto”, anche se nell’altrettanto antiretorico artigianato del Maestro franco-piemontese l’essenzialità assume talvolta misure più asciutte ed estemporanee che in Bettinelli, con proposizioni quasi icastiche: amaro, ironico, distaccato parlare musicale senza causa o effetto. In Bettinelli, a parere dello scrivente, non v’è invece traccia di pulsioni nichiliste, quanto piuttosto di una narratività dialogica nel suo costrutto. Fabio De Girolamo: La fonte di ispirazione dei Suoi pezzi è più di carattere musicale o esistenziale? 9. RENZO CRESTI, op. cit. 10. FABIO DE GIROLAMO, op. cit. 11. Ibidem. 16 Lettera di Bruno Bettinelli a Davide Ficco. Purtroppo il compositore non ha potuto vedere la realizzazione del progetto discografico dedicato alla sue opere per chitarra Improvvisazione (1970) Cinque Preludi (1971), dedica a Ruggero Chiesa Quattro Pezzi (1972), dedica ad Angelo Gilardino Sonata Breve (1976), dedica ad Aldo Minella 12 Studi (1977) Come una Cadenza (1983) Notturno (1985), dedica a Guido Margaria Mutazioni su Tre Temi Noti (1994) Montrucchio-Preda, Due Liriche (1977) per voce e chitarra e il Concerto per orchestra d’archi con vibrafono (1980), dove il compositore dà una personale risposta al problema dell’equilibrio tra il solista e l’orchestra. Ruggero Chiesa: C’è qualcosa che vorrebbe ancora scrivere per chitarra, di genere diverso? B.B.: Non sarei alieno dall’idea di un Concerto per chitarra e archi. Bisogna però pensare che la chitarra è uno strumento delicato [...]. Dovrei quindi comportarmi come ho fatto nel Divertimento per clavicembalo e orchestra, dove ho agito sulle alternanze e dove il clavicembalo era impiegato insieme a pochissimi strumenti, come il vibrafono e la percussione.12 Ad esse dobbiamo aggiungere: Divertimento a Due (1982) per duo di chitarre, Musica a due (1982) per flauto e chitarra con dedica al Duo 12. RUGGERO CHIESA, op. cit., p. 4. 17 LE OPERE PER CHITARRA SOLA Con l’Improvvisazione Bettinelli, nel 1970, si presenta al mondo della chitarra con un modello di composizione già ben delineato e che verrà poi ripreso in Come una Cadenza e in Notturno, ad esempio: la concatenazione di episodi, spesso contrastanti e indicati da cambi di tempo (cfr. Tavola 1 qui sotto), che rappresenta l’architettu- ra stessa del brano. Ulteriormente colorata da elasticità agogiche, la varietà del materiale esposto arricchisce così tanto il discorso, qui sostanzialmente monodico, da allontanare nell’ascoltatore eventuali necessità di maggiori sedimentazioni sonore. Questo tratto, comune a molti altri dei suoi brani chitarristici, appare già chiaro nell’esordio. 1. a) 1. b) 1. d) 1. c) 1. e) Tavola 1. Improvvisazione, ed. Bèrben, 1970. a) Incipit; b) Mosso, p. 1, rigo 6; c) Più mosso e brillante, p. 2, rigo 4; d) Più lento, p. 2, rigo 7; e) Più mosso p. 3, rigo 1 e Calmo, p. 3, rigo 4. I Cinque Preludi (1971), nella loro essenziale assertività e chiarezza, sono una prima conferma della coerenza lessicale del Compositore, il quale, a un anno dall’Improvvisazione, propone un taglio formale differente: cinque brevi quadri, diversi tra loro e perfettamente compiuti, anziché un solo movimento articolato. Nei preludi è sempre l’eloquio della melodia, ora cantato e solitario o ritmico e chiassoso, ovvero leggero e danzante, a condurre il discorso, incrociando voci e accordi di sostegno. Ognuno dei cinque brani ha struttura a sè, resa tale dal contingente sviluppo del discorso, ed emergono – specie in apertura dei Preludi I e III – ricorrenti giochi che frammentano e ribaltano le linee melodiche. L’inizio del Preludio I come appare nel manoscritto di Bruno Bettinelli con l’aggiunta della diteggiatura di R. Chiesa 18 2. a) 2. b) 2. c) 2. d) 2. e) Tavola 2. Cinque Preludi, ed. Zanibon, 1972. a) Preludio I, Incipit; b) Preludio II, Incipit; c) Preludio III, Incipit; d) Preludio IV, Incipit; e) Preludio V, Incipit. Quattro Pezzi è il terzo titolo chitarristico di Bettinelli, risalente al 1972, e il breve lasso di tempo intercorso dai precedenti lavori sembra parlarci di un momento particolarmente prolifi- co del compositore, come se un corposo insieme di idee maturate precedentemente avesse finalmente trovato l’occasione per materializzarsi sul pentagramma. 3. a) 3. b) 3. c) 3. d) Tavola 3. Quattro pezzi, ed. Bèrben, 1973. a) I. Introduzione, Incipit; b) II. Toccata, Incipit; c) III. Notturno, Incipit; d) IV. Ritmico, Incipit. 19 Effettivamente vi è molta densità di contenuti in questi quattro movimenti, che potremmo qualificare come un grande esercizio di conduzione melodica; in essa si incrociano tuttalpiù scarni dialoghi contrappuntistici con una seconda linea. Le armonie sono momentanee (cfr. Tav. 4 a, b), a volte accordali, altre volte “melodicizzate” in forma di arpeggio (cfr. Tav. 4c). Come nelle pagine più meditative, anche qui il canto si scontra in fugaci diafonie, intese come “interferenze” (o “dissonanze”, come ebbe a far notare Angelo Gilardino)13 e assecondate da una diteggiatura che lascia vibrare una nota sull’altra. Elemento a parte sono i fantasmatici e lontani rasgueados del Pezzo III e l’asciutto intervento del Pezzo IV (cfr. Tav. 4d, e), che richiamano alla memoria le sonorità vocianti del Preludio V (cfr. Tav. 4f). 4. a) 4. b) 4. c) 4. d) 4. e) 4. f) Tavola 4. Quattro pezzi, ed. Bèrben, 1973. a) I. bb. 34-39; b) III. bb. 12-18; c) III. bb. 31-32: d) III. b. 28-29; e) IV. b. 20; f) Preludio V, bb. 9-10 13. ANGELO GILARDINO, Bruno Bettinelli, Cinque Preludi per Chitarra, “Il Fronimo”, n. 4, luglio 1973, p. 28. 20 La Sonata Breve, del 1976, dedicata al chitarrista milanese Aldo Minella, è un vivo trittico (Tav. 5 a, b, c) dove è particolarmente ampia l’escursione linguistica tra gli scorci tonali e i momenti di più libero impiego dei dodici semi- toni (specificamente nel I e III movimento, molto ritmici e spigolosi, a parte la sognante parentesi del tranquillo del tempo finale, cfr. Tav. 5d) e in cui spicca l’amabile, eterea, Aria centrale (Tav. 5 b). 5. a) 5. b) 5. c) 5. d) Tavola 5. Sonata breve, ed. Zanibon, 1977. a) I. incipit; b) II. incipit; c) III. incipit; d) III. bb. 43-52 Sono particolarmente esplicite le riproposizioni del tema nei due tempi rapidi (cfr. Tav. 6 a, b), a chiusura di un disegno interno tripartito, dove si può leggere, pensando al classicissimo titolo, un voluto omaggio a strutture formali tradizionali. Ma anche nell’Aria, in sol respiro, è stato riservato lo spazio per richiamo finale al tema (per aumentazione, Lento cfr. Tav. 6 c), dopo diversi accenni riati allo stesso. 6. a) 6. b) 6. c) Tavola 6. Sonata breve, ed. Zanibon, 1977. Rientri del tema. a) I. bb. 101-105; b) III. bb. 56; c) II. bb. 19-20 21 un un nel va- Inizio dello Studio III come appare nel manoscritto di Bruno Bettinelli con l’aggiunta di diteggiature da R. Chiesa I Dodici Studi, del 1977, sono la risposta dell’autore alle esigenze degli studenti di chitarra, ai quali offrono la possibilità di risolvere problemi tecnico-interpretativi utilizzando un lessico moderno e sofisticato. Il numero dodici, ricorrente in celebri raccolte della storia della musica quali, ad esempio, gli studi di Chopin, Liszt e Debussy, e in Kreutzer e Thalberg, fino a Kurtág o – più familiarmente per i chitarristi – a Villa-Lobos, non è collegato in Bettinelli a logiche di ordinamento degli studi basate sul procedere semitonale della scala cromatica (come ad esempio, il succedersi delle tonalità dei 24 Preludi e Fughe di ciascun volume del Clavicembalo ben Temperato di Bach, o, in ambito non tonale, ai diversi incipit dei dodici Microludi per quartetto d’archi di Kurtág, che – sebbene in parte – ricalcano le altezze di una scala cromatica ascendente). Bettinelli sceglie invece un criterio diverso e in un certo senso legato allo strumento destinatario dei suoi Studi; come ha acutamente evidenziato Paola Brino osservando le note iniziali di ciascun brano: “più di uno studio esordisce con il Mi [...] e quindi l’altezza ritorna ciclicamente ogni quattro studi. I sei Studi centrali, invece, esordiscono ciascuno con una delle sei note dell’accordatura della chitarra, anche se non con il medesimo ordine. Per finire, le note iniziali dei primi e degli ultimi tre Studi sono contenute nell’ambito di un intervallo di due toni interi [...]. Ora, non è difficile scorgere in tutto questo due tipi di suddivisione differenti: di quattro in quattro se consideriamo la cadenza con cui ritorna l’altezza Mi, di tre in tre [...] se invece consideriamo il rapporto intervallare tra le note iniziali degli Studi. Dunque Bettinelli, invece di privilegiare una suddivisione dell’ottava in dodici semitoni uguali [...] ha preferito evidenziare altri tipi di suddivisione possibili, sempre simmetrici, per terze minori e per terze maggiori, ossia i due intervalli che sono alla base di tutti gli accordi.”14 14. Paola Brino, Tra spontaneità e rigore. Dodici Studi per chitarra di Bruno Bettinelli, “Il Fronimo”, n. 130, aprile 2005, p. 22. 22 7. I 7. II 7. III 7. IV 7. V 7. VII 7. VIII 7. IX Tavola 7. Dodici Studi, ed. Suvini Zerboni, 1979. Incipit degli Studi I, II, III, IV, V, VII, VIII, IX Bettinelli evidenzia il contenuto didattico di ogni studio indicandone la caratteristica prevalente e la correlata finalità pedagogica: i titoli monodico (I), ritmico (II), arpeggi e canto superiore (III), accordi (IV), registri alternati (V), note ribattute (VI), intervalli spezzati (VII), polifonia (VIII), prevalenza di melodia nel basso (IX) cònnotano i primi nove studi, e la scrittura personale e volutamente non troppo idiomatica spicca ovunque nel materiale utilizzato: ad esempio, nelle note ribattute dello Studio VI che non cedono alle lusinghe del classico tremolo (pur utilizzato nella prima delle Due Liriche del 1977). 8. a) 8. b) Tavola 8. a) incipit dello Studio VI; b) incipit di Lirica I per soprano e chitarra I tre ultimi studi, come Bettinelli stesso segnala, possono essere considerati autonomamente a titolo riassuntivo “come i tre tempi di una sonata”: gli appellativi di mosso, calmo e tempo di Passacaglia riprendono infatti alcuni spunti degli studi precedenti, condensandone e sovrapponendone idee e contenuti, e lasciando a una ispirata e architettonicamente densa Passacaglia la funzione di congedo. Carlo Mosso chiuderà similmente i suoi tre Quaderni per chitarra nel 1986, confermando come una parte significativa del pensiero compositivo moderno scelga ancora di ancorare lo sviluppo alle strutture più solide della tradizione colta occidentale. 23 9. a) 9. b) 9. c) 9. d) Tavola 9. a, b, c) Incipit degli Studi X, XI, XII; d) Carlo Mosso, Quaderno III (Passacaglia), incipit. Come una Cadenza, composto nel 1983 e pubblicato nell’85, è una tesa ed efficace pagina rappresentativa dell’autore, una pseudo-improvvisazione cadenzale caratterizzata dalla varietà di atmosfere, dall’alternanza di sospensioni introspettive e fluide rincorse, e da un geste inventivo in un’unica articolata campata chiusa sul finire, come un cerchio, da un rapido richiamo all’idea tematica iniziale. La divisione del discorso appare più sfumata 10. a) rispetto all'Improvvisazione, muovendosi attraverso un’agogica che prepara ai vari cambi di luce: dato un tempo metronomico iniziale (Tav. 10a), si incontra un Meno Mosso e poi un Calmo (Tav. 10b); quindi un Allegro a 104 di metronomo (Tav. 10c) che – inframezzato da un graduale acquietarsi centrale, metronomicamente guidato – porterà alla ripresa tematica, con esiti quasi in stretto (Tav. 10d), e al Lento di congedo Tav. 10e). 10. b) 10. c) 10. e) 10. d) Tavola 10. Come una cadenza, ed. Suvini Zerboni, 1985. a) incipit; b) Meno mosso (p. 2, rigo 11) e Calmo (p. 2 rigo 13); c) Allegro (p. 2, rigo 16); d) Tempo I (p. 3, rigo 32); e) Lento finale (p. 3, rigo 34) Il Notturno (1985), dedicato al chitarrista alessandrino Guido Margaria, si porta su di un piano decisamente più introspettivo e impegnativo all’ascolto, soprattutto dove la melodia incede, intensa, da sola. Quest’ultima si sviluppa, con giusta lentezza, a partire dalla quinta corda (Tav. 11a) e, passando per il sospeso, etereo nucleo del brano (Tav. 11b) si scopre sollevata di un semitono nella ripresa del tema, già smontato e proiettato nell’evaporazione finale (Tav. 11c). Sono frequenti i momenti di apertura estatica verso l’acuto: cercati, lenti, intensi. Il Notturno inizia e finisce sulla nota Si: dapprima grave e isolata, e infine acuta e immersa in una luminosa triade maggiore (Tav. 11d). 24 11. a) 11. b) 11. c) 11. d) Tavola 11. Notturno, ed. Ricordi, 1987. a) incipit; b) bb. 50-54; c) bb. 60-64; d) bb. 80-82 (fine) L’ultima opera per chitarra sola, in ordine cronologico, risale al 1994: le Mutazioni su Tre Temi Noti (da Mozart, Chopin e Stravinskij) sono indubbiamente le pagine più tradizionali di questo suo repertorio; in esse il compositore pare voler dimostrare quanto, con gesto leggero, si possa trattare materiale tematico celeberrimo senza stravolgerne necessariamente il portato, ma, scivolando su di un terreno più mo- bile e personale, illuminarlo con garbo di luce diversa.15 Proprio questo riuscito sforzo di variare un poco la natura di questi tre brani rispetto ai precedenti, mantenendo al contempo con quelli una palpabile coerenza di certi procedimenti compositivi, ci ricorda quanto unitario sia stato il percorso di Bettinelli in ventiquattro anni di rapporto con la scrittura chitarristica. 12. a) 12. b) 12. c) Tavola 12. Mutazioni su tre temi noti, ed. Suvini Zerboni, 1996. a) I. su “La ci darem la mano” dal Don Giovanni di Mozart; II. su Notturno op. 9 n. 3 di Chopin; c) III: su Piccolo valzer da Petrouschka di Stravinskij 15. Alfonso Baschiera, revisore del brano che è contenuto nell’antologia La chitarra oggi, 19 novembre 2010: “quando feci l’antologia mi recai due volte a casa di Bettinelli a Milano; gli proposi di scrivere dei brani semplici, adatti a ragazzi dal 3° al 5° anno di studi, brani dove ci fosse sia la presenza di un tema cono- sciuto, sia l’intervento di un compositore moderno, con il suo specifico linguaggio” [...] “Le Mutazioni sono concepite come la presentazione di un linguaggio originale attraverso la presenza di un tema noto che, via via, si rimodella in una nuova scrittura” 25 HEITOR VILLA-LOBOS: LE OPERE PERDUTE speculazioni e considerazioni di Andrea Bissoli C irca un anno fa ci siamo imbattuti nel manoscritto di un frammento per chitarra intitolato Valsa, composto da Villa-Lobos in data non precisata e rimasto nella casa della prima moglie, Lucília Guimarães, fino al 1996. In quell’anno, infatti, una donazione della famiglia Guimarães lo ha reso al Museu Villa-Lobos, mettendolo a disposizione di interpreti, curiosi e appassionati esegeti.1 Al momento del suo ritrovamento il brano non figurava in alcun catalogo, ma alcune circostanze hanno fatto sì che questo frammento si associasse, nella nostra immaginazione, ad un altro inedito, andato perduto: la pagina smarrita si chiamava Valsa sentimental. Alcune insolite coincidenze ci hanno indotti a valutare quest’idea: forse il brano smarrito e la pagina riscoperta erano in realtà una cosa sola. Le nostre peregrinazioni ci hanno condotti ad una visione insolita del rapporto di Villa-Lobos con la musica scritta. Non ci riferiamo alla leggenda secondo cui aveva rischiato di finire sulla graticola per stenografare i canti degli indios nella foresta amazzonica: ci riferiamo invece alla realtà di Rio, dei chorões, dell’improvvisazione… Nel 1975 il Museu Villa-Lobos pubblicò un saggio del chitarrista brasiliano Turibio Santos, dal titolo Heitor Villa-Lobos e o violão. Herminio Bello de Carvalho, poeta e musicologo amico di Villa-Lobos, aveva contribuito alla realizzazione compilando il catalogo delle opere chitarristiche del compositore. L’elenco di Bello de Carvalho riporta una quantità stupefacente di brani giovanili andati perduti. La leggerezza e l’originalità della Suite populaire brésilienne riecheggiano nella memoria e la fantasia si anima sentendo i nomi di queste composizioni: Panqueca (composta nel 1900, quando Villa-Lobos aveva tredici anni), Mazurka em ré maior (19012), Valsa Concerto n. 2 (1904, dedicata a Miguel Llobet; poi ritrovata 3 ), Fantasia (1909), Oito dobrados (composti fra il 1909 e il 1912, negli anni della Suite), Canção brasileira, Dobrado pitoresco, Quadrilha (una quadrilha, la Quadrilha das moças, aveva reso celebre il nonno materno, il pianista Antonio Santos Monteiro) e Tarantela (questi ultimi quattro brani composti nel 1910). La serie di manoscritti mancanti si interrompe nel 1911, con il brano Simples: di cui ci è giunta una versione autografa completa. Da quel mo- * * * 1. Circa le ragioni di una risoluzione tanto tardiva, cfr. EDUARDO FERNÀNDEZ, Villa-Lobos: New Manuscripts, “Guitar Review”, Fall 1996, p. 22. 2. Bello de Carvalho, veramente, riporta: Mazurka em ré maior (1899) e Panqueca (1900). Egli stesso, però, ci avverte che Villa-Lobos “contribuì a creare confusione, […] affermando che era stata la Panqueca la sua prima opera. […] Poi rettificò l’informazione”. Cfr. HERMINIO BELLO DE CARVALHO, Relação das obras compostas para violão por Heitor Villa-Lobos, in TURIBIO SANTOS, Heitor Villa-Lobos e o violão, Rio de Janeiro, Museu Villa-Lobos, 1975, p. 51. La datazione da noi adottata si basa sull’ultima edizione del catalogo Villa-Lobos, Sua obra, Rio de Janeiro, Museu Villa-Lobos, 2009. 3. Cfr. EDUARDO FERNÀNDEZ, op. cit., p. 23. 26 mento in poi, per quanto riguarda la produzione per chitarra sola descritta da Bello de Carvalho, non ci sono più lacune.4 Volgendo lo sguardo alla produzione pianistica di quegli anni, siamo attirati da una curiosa coincidenza. Anche qui, infatti, Villa-Lobos inizia a mettere sistematicamente nero su bianco le proprie invenzioni solamente nel 1911, con i brani Bailado infantil, Tarantela e Valsa lenta. Per quanto riguarda gli autografi pianistici giunti a noi integralmente, passiamo da un massimo di un manoscritto nel 1907 e uno nel 1910,5 a ben tre stesure complete in un solo anno nel 1911. Qualcosa, evidentemente, era accaduto. Villa-Lobos tendeva notoriamente ad annotare frammenti, idee originali con tanto di luogo e data dell’intuizione, per poi portarli ad una forma compiuta solo negli anni successivi: la data riportata nella stesura definitiva, a questo punto, sarebbe stata quella dell’intuizione, anziché quella del compimento. È possibile, anzi verosimile, che le pièces pianistiche Valsa romântica e Tristorosa siano state ultimate soltanto dopo il 1911, sulla base di abbozzi concepiti, rispettivamente, nel 1907 e nel 1910. Tale visione collimerebbe appieno con la data di pubblicazione della Valsa romântica (pur essendo datata 1907, infatti, fu pubblicata nel 1912) e con la data della prima esecuzione di Tristorosa (pur essendo datato 1910, il brano fu eseguito postumo nel 1968 6). Il 1911, dunque, costituisce una linea di confine tra due diversi modi di considerare la musica scritta: la negligenza totale o la semplice annotazione di un’idea da una parte (prima del 1911); la stesura integrale di ogni singola opera dall’altra (dal 1911 in poi). Questa circostanza può essere spiegata alla luce di alcuni cenni biografici. La sera di Ognissanti del 1912 Villa-Lobos conobbe Lucília Guimarães, eminente pianista, nonché apprezzata didatta nella città di Rio de Janeiro. L’incontro era organizzato a casa Guimarães. Scrive Lucília: “La serata musicale andò molto bene, fu molto gradevole e, per noi, la chitarra nelle mani di Villa-Lobos fu un vero successo. Finita la sua esibizione, Villa-Lobos manifestò il desiderio di ascoltare il pianoforte e io suonai, quindi, alcuni brani di Chopin: l’esecuzione mi parve aver fatto una buona impressione, dal punto di vista tecnico e interpretativo. Villa-Lobos, però, era a disagio; forse si sentiva umiliato, perché a quel tempo la chitarra non era uno strumento da salotto, per la vera musica, ma uno strumento popolare, per i chorões e i seresteiros. Improvvisamente, però, come facendosi coraggio, dichiarò che il suo strumento era il violoncello e chiese di organizzare un incontro, a casa nostra, per farsi ascoltare con il suo primo strumento. 4. In realtà Bello de Carvalho fa riferimento anche ad un sesto Preludio, sulla cui esistenza pare che lo stesso Villa-Lobos alimentasse la leggenda. Sia Angelo Gilardino che Frédéric Zigante giungono a ritenere, con argomentazioni pertinenti, che questo brano non sia mai esistito; per questo non l’abbiamo inserito nel novero delle partiture smarrite. Cfr.: ANGELO GILARDINO, “Heitor Villa-Lobos, genio ribelle che divenne maestro e profe- ta”, in Heitor Villa-Lobos / L’opera per chitarra, a cura di Angelo Gilardino e Frédéric Zigante, speciale “Guitart”, n. 13, 2005, p. 22; cfr. FRÉDÉRIC ZIGANTE, H. Villa-Lobos, Cinq Préludes, Eschig, 2008. 5. Rispettivamente, la Valsa romântica e Tristorosa. 6. Il brano fu eseguito da Arnaldo Estrella in prima assoluta il 20 novembre 1968, a Rio de Janeiro. 27 Fu fissato un nuovo incontro e si stabilì che Villa-Lobos avrebbe inviato anticipatamente la parte pianistica, perché la studiassi e potessi accompagnarlo, il sabato successivo.7 Nel giorno stabilito si ripeté l’audizione, questa volta con Villa-Lobos al violoncello. Altri incontri seguirono. I contatti frequenti, l’affinità artistica e un’attrazione naturale e crescente culminarono nel nostro fidanzamento. Il 12 novembre 1913 ci sposammo. […] Villa (così lo chiamavo) cominciò a comporre le sue prime opere, con tenacia. Poiché non suonava ancora il pianoforte, ero io che facevo le prime esecuzioni.”8 Lucília Guimarães L’incontro con Lucília fu un evento fondamentale nella vita del compositore, che vide i propri sforzi apprezzati da un’interprete riconosciuta, nonché le proprie opere regolarmente eseguite in pubblico: proprio per questo, probabilmente, dovette compiere lo sforzo di trasferirle sulla carta con una certa regolarità… In realtà i primi concerti interamente dedicati ai suoi lavori risalgono al 1915, ma l’intento di dar vita ad un corpus di opere originali è verosimilmente databile al periodo in cui incontrò Lucília, la quale riconobbe il suo talento e lo spronò a cercare un riscontro, a crearsi un pubblico. Non è un caso che la prima opera edita di Villa-Lobos (Valsa romântica 9) sia stata pubblicata nell’anno del loro incontro, nonostante fosse stata composta, stando all’indicazione dell’autore, ben cinque anni prima. L’inflazione di manoscritti integrali nel 1911 può essere dunque spiegata così: nel 1912 VillaLobos incontra Lucília e, dietro suo consiglio, non solo inizia a portare sistematicamente a compimento le opere a venire, ma compie la medesima operazione con le intuizioni più fresche, quelle dell’ultimo anno, cioè quelle scritte fra il 1911 e il 1912. Questo spiegherebbe il numero di manoscritti autografi datati 1911. Vista la scarsa propensione, fino ad allora, ad annotare per intero i vari brani, Villa-Lobos avrebbe potuto ultimare soltanto i lavori ancora vivi nella memoria. A questo punto avrebbe riportato nel manoscritto la data in cui aveva avuto l’idea, invece della data in cui l’aveva portata a compimento. La vita in casa Guimarães giovò anche alle opere chitarristiche, che da allora furono riportate con costanza.10 Oltre al benefico influsso sull’attività del compositore, a Lucília Guimarães dobbiamo la prima esecuzione di molte delle sue opere pianistiche (solistiche e cameristiche), nonché la trascrizione per pianoforte solo del Poema sinfonico Ibericarabe (1914). La nuova tendenza di Villa-Lobos a concludere i lavori abbozzati ci induce ad una considerazione disincantata sulle opere smarrite: se non sono state ultimate nel 1912, non erano 7. Sono datate 1910 le prime pagine per cello e pianoforte del compositore: si tratta di trascrizioni da Bach e Chopin, rispettivamente una fuga dal Clavicembalo ben temperato e il Preludio in Fa diesis minore. Siamo tentati a credere che Villa-Lobos aveva chiesto una seconda serata, da dedicare al suo violoncello, con l’ntenzione di eseguire, in quell’occasione, proprio questi brani. Le parti sono andate perdute. 8. LUCILIA GUIMARÃES, Memoirs, in OLDEMAR GUIMARÃES, DINORAH GUIMARÃES CAMPOS & ALVARO DE OLIVEIRA GUIMARÃES, Villa-Lobos visto da platéia e na intimidade (1912/1935), Grafica Editôra Arte Moderna, Rio de Janeiro, 1972, pp. 223-224. 9. Pubblicato dalla casa editrice Casa Vieira Machado di Rio de Janeiro. 10. Nel caso specifico di Simples, però, dobbiamo notare che la sopravvivenza del manoscritto è da attribuirsi ad una contingenza specifica, estranea all’incontro con Lucília. Infatti, Villa-Lobos mise il brano nero su bianco per farne dono al chitarrista Eduardo Luiz Gomes, suo allievo e, stando alla seconda versione del catalogo Villa-Lobos, Sua obra, dedicatario dell’opera. Fu proprio la figlia di Luiz Gomes a donare il manoscritto al Museu Villa-Lobos. Cfr. HERMINIO BELLO DE CARVALHO, op. cit., p. 53. 28 nemmeno state parzialmente annotate al momento del concepimento. Per i brani del 1911, se anche non fossero stati abbozzati in precedenza, avrebbe potuto soccorrerlo la memoria. Per la Valsa romântica e per Tristorosa, concepiti alcuni anni prima, potrebbero averlo aiutato le annotazioni prese in tempo reale, al sopraggiungere delle idee. Per i brani non ultimati, evidentemente, non giunsero in soccorso né la memoria (era passato troppo tempo), né gli abbozzi: verosimilmente le idee compositive non erano nemmeno state annotate. Scrive Eduardo Fernàndez: «[Nel 199611] una nipote di Lucília Guimarães arrivò al Museu Villa-Lobos e disse al direttore, Turibio Santos: “Abbiamo trovato alcuni manoscritti di Villa-Lobos a casa e vorremmo portarli qui al Museo.” Quando i manoscritti furono consegnati, arrivarono a formare una pila alta quasi un metro e, logicamente, ci volle del tempo per organizzarli e classificarli».12 La catalogazione ebbe luogo e portò alla stesura della quarta e ultima versione del catalogo Villa- Lobos, Sua obra: delle opere giovanili citate da Bello de Carvalho davvero nessuna traccia.13 Verosimilmente di quei brani non è mai esistita una stesura su carta e tale prospettiva è in piena sintonia con le tendenze dei chorões, che Villa-Lobos frequentò assiduamente. Villa-Lobos ricorda il 1899 come l’anno in cui iniziò a comporre: fu l’anno in cui la malattia portò alla morte il padre Raúl e in cui Heitor iniziò a frequentare regolarmente i chorões, che Raúl considerava sconvenienti, immorali. Os sedutores (1899), cançoneta per pianoforte e voce, è la prima composizione di cui Villa-Lobos avesse memoria; probabilmente era un omaggio a due grandi del chôro, Joaquim Callado e Chiquinha Gonzaga: scrissero, rispettivamente, i brani A sedutora e Seductor.14 È probabile che proprio quest’aspetto spingesse il compositore ad associare, nella memoria e nel racconto di sé, la cançoneta al 1899, anno in cui entrò a far parte dei chorões: potrebbe aver qui evocato le sue prime impressioni di chorão. Tra il 1900 e il 1901 Villa-Lobos si dedicò quasi esclusivamente alla chitarra, scrivendo la Panqueca e la Mazurka em ré maior. Anche queste due opere, evidentemente, dovevano nascere nell’ambiente dei chorões ed essere intimamente legate, quindi, all’improvvisazione che ne costituiva la quintessenza. Ecco spiegato il motivo per cui, nel primo periodo, l’assenza di manoscritti è pressoché totale15. Bello de Carvalho dice che Sátiro Bilhar, talentuoso chitarrista dei chorões, “era un elemento fondamentale e, per molto tempo, rappresentò un’incognita per gli studiosi di questo genere musicale. Perché così importante? Perché 11. N.d.a. 12. EDUARDO FERNÀNDEZ, op. cit., p. 22. 13. Eccezion fatta per la Valsa Concerto n. 2. Cfr. nota 2. 14. Joaquim Antônio da Silva Callado junior, padre del chôro, scrisse la polka A sedutora. Francisca Hedwiges Gonzaga, amica e compagna di chôro di Callado, rispose con il tango Seductor. 15. L’unico brano che ci è pervenuto di quegli anni è Dime perché di cui Villa-Lobos, al momento della stesura autografa del proprio catalogo, non ricordava bene né il titolo, né l’autore del testo. 29 così celebrato, se non rimane quasi nulla delle sue composizioni? Mozart de Araujo fece questa domanda a Villa-Lobos, che gli diede la stessa risposta che Donga aveva dato a me: non era quel che suonava, ma come suonava. […] Come compositore aveva tre o quattro musiche solamente e, come si dice, con esse fazia a festa. A seconda dell’ambiente in cui suonava, eseguiva queste musiche in maniera differente, rendendole classiche o popolari. Così un chôro diventava un preludio, una sonata o uno studio. E quale fantasia nell’improvvisare!”.16 Potremmo, in sintesi, avanzare l’ipotesi secondo la quale gran parte della prima produzione di Villa-Lobos condividesse con i chôros, oltre allo stile e all’ispirazione, anche la tendenza a considerare le composizioni una sorta di standard jazzistici ante-litteram. Poteva trattarsi di semplici melodie armonizzate, che non era necessario annotare, perché erano brevi e rimanevano vive nella memoria attraverso la pratica: una sera si eseguiva un chôro di Sátiro e un’altra sera la Mazurka di Villa, probabilmente la prima Mazurka-chôro che avesse composto. Dobbiamo tuttavia considerare, a questo punto, un elemento che potrebbe turbare questa nostra prospettiva. La donazione della famiglia Guimarães, a metà degli anni Novanta, mise a disposizione del Museu Villa-Lobos un manoscritto autografo della Valsa-Concerto n. 2. Nonostante il manoscritto sia incompleto, incontriamo un Andante introduttivo, un primo tema in Mi maggiore (tempo di valzer brillante), una modulazione al quarto grado, un secondo tema, una modulazione a La minore e l’inizio di un nuovo tema: qui il manoscritto si interrompe. Una tale solerzia davvero non si addice al chorão di quegli anni. Per quale ragione avrebbe annotato una composizione chitarristica quasi per intero? La risposta potrebbe essere: per consegnarla a Miguel Llobet. Bello de Carvalho riporta a questo riguardo una testimonianza dello stesso Villa-Lobos, che dice: 16. TURIBIO SANTOS, Heitor Villa-Lobos e o violão, Rio de Janeiro, Museu Villa-Lobos, 1975, p. 7. 17. TURIBIO SANTOS, op. cit., p. 11. Villa-Lobos parlò dell’incontro con Llobet anche in occasione di un’intervista per la “Guitar Review”. Il compositore rimarcava l’importanza che l’influenza del vir- tuoso catalano ebbe per la conoscenza di una chitarra diversa, non necessariamente legata allo stile ritmico e staccato della musica popolare brasiliana, ma che ambisse alla purezza e all’espressività del tocco. Cfr. RALPH J. GLADSTONE, An Interview with Heitor VillaLobos, “Guitar Review”, n. 21, 1957, p. 13. “Incontrai Segovia nel 1923 o nel 1924, non ricordo bene. Fu a casa di Olga de Moraes Sarmento Nobre; c’erano tutti quella sera. Notai un ragazzo dall’acconciatura esuberante, circondato di donne. Più che simpatico, mi sembrò volgare e pretenzioso. Costa, il violinista portoghese, chiese a Segovia se conosceva VillaLobos, ma senza dirgli che ero lì. Segovia disse che Miguel Llobet, chitarrista spagnolo, gli aveva parlato di me e gli aveva presentato alcuni miei lavori. Io avevo scritto una ValsaConcerto per Llobet. Purtroppo la parte è andata perduta”.17 Proprio la necessità di offrire la parte al chitarrista potrebbe avere indotto il compositore a fare un’eccezione, davvero l’unica, prima del 1911. La Valsa è datata 1904, mentre l’incontro fra i due potrebbe essere avvenuto alcuni anni più tardi, in occasione delle prime tournées sudamericane di Llobet: secondo la logica consueta, Villa-Lobos potrebbe aver concepito e annotato il brano nel 1904 e averlo “scritto” (in senso letterale) per il chitarrista catalano soltanto in seguito. In sintesi, prima del 1912 Villa-Lobos ha riportato sulla carta pochissimo, solo il necessario; si è quindi risparmiato la fatica di mettere nero su bianco i morceaux per pianoforte e per chitarra. Sono giunti sino a noi, oltre a Simples e alla Valsa-Concerto n. 2, ai due brani pianistici citati e alle opere datate 1911 (ma verosimilmente annotate per intero solo nel 1912), due canções per voce e pianoforte (Dime perché, Confidência) e la Fantasia característica Cânticos sertanejos. Non ci stupirebbe se quest’ultimo brano, scritto nel 1907 per flauto, clarinetto e archi, della durata di tre minuti, coin- 30 tiva, una piccola consolazione ci è data dal ritrovamento, nel voluminoso labirinto della donazione Guimarães, di un frammento intitolato Valsa. Le condizioni del manoscritto, un foglio di 15,5 x 25 cm, sono travagliate, ma non al punto di minarne la leggibilità. Si tratta di trentadue battute, disposte in quattro righi di otto battute ciascuno. La scrittura è inconfondibile: la pagina è autografa. cidesse con il brano Recouli, scritto nel 1908 per flauto, clarinetto e archi, della durata di tre minuti, di cui non si trova traccia. Quest’ultimo, infatti, fu eseguito il 26 aprile del 1908 per gli studenti di Paraná, sotto la direzione del compositore. Villa-Lobos, com’era sua consuetudine, potrebbe aver messo la musica nero su bianco soltanto in vista dell’esecuzione pubblica, scegliendo un titolo ad hoc.18 Al delinearsi di una tale disincantata prospet- Valsa, incipit. Copyright © Villa-Lobos (Academia Brasileira de Música), cortesia del Museu Villa-Lobos Il frammento, della durata di un minuto circa, è privo di dedica; il tono espressivo, in queste poche righe, indulge ad un lirismo pungente ed appassionato. Astraendo questi dati essenziali, l’immagine del brano che ne risulta coincide stranamente con le notizie che abbiamo di un altro manoscritto, la Valsa sentimen- tal, andata perduta. L’esistenza del brano è riportata per la prima volta in una copia del catalogo Villa-Lobos, Sua obra, conservata al Museu Villa-Lobos di Rio de Janeiro. La descrizione del brano è aggiunta alla stampa tramite un’inserzione in penna: la parte smarrita era priva di dedica e durava circa un minuto. Museu Villa-Lobos: Villa-Lobos, Sua obra, seconda edizione (1972), l’inserzione in penna relativa alla Valsa sentimental Museu Villa-Lobos: la prima versione del catalogo (1965), priva dell’aggiunta manoscritta 18. Il titolo Recouli assomiglia molto alla parola “recolhi”, che in portoghese significa “raccolsi”: Cânticos sertanejos era, infatti, una raccolta di tre melodie tipiche. 31 La grafia dell’inserzione in penna è incerta, ma sappiamo che fu Arminda Neves d’Almeida, seconda moglie del compositore,19 a curare la stesura del catalogo. Mindinha fu direttrice del Museu dal 1960 al 1985 e, verosimilmente, le notizie sulla Valsa sentimental sono da attribuire a lei. È curioso notare come sia riuscita a datare il brano pur non avendo a disposizione alcun manoscritto. Lei e il marito erano inseparabili e, comprensibilmente, non esiste traccia di una loro corrispondenza; dunque non poteva aver attinto le informazioni da una lettera del marito. Il primo segno dell’esistenza del brano coincide proprio con l’inserzione in penna nel catalogo e Arminda, dunque, non può aver attinto che alla propria memoria. Siamo tentati di credere che abbia datato questo frammento in base ad un preciso riferimento biografico. Dell’accadimento, risalente al 1936, ci è giunta una testimonianza diretta. Il 28 maggio 1936 il compositore scrisse a Lucília: caduto, se non la scomparsa di ogni traccia dei sentimenti che provavi per me. […] Hai detto che tutto ciò che ti lega a me è un senso di gratitudine per la mia lealtà: posso dirti con orgoglio che in tal senso non ho debiti verso di te. Se ultimamente non ho condiviso le tue gioie e le tue tristezze, è semplicemente perché non mi hai dato l’opportunità di farlo. […] Quindi, Villa, sono pronta ad affidarmi alla volontà di Dio, ma, almeno per soddisfare la mia coscienza, continuerò ad aspettare di sentire da te le tue ragioni o la tua ultima parola.”20 “Villa, […] non è necessario che io commenti la tua oltraggiosa e assurda decisione. […] Non trovo altro punto di partenza per spiegarmi l’ac- Fu un un duro colpo per Lucília e Villa-Lobos, dal canto suo, nel 1936 compose pochissimo. La Valsa sentimental potrebbe essere rimasta, nella memoria di Arminda, indissolubilmente legata agli avvenimenti di allora, ai segni che gli eventi lasciarono nella vita di ognuno. Potrebbe trattarsi di uno degli ultimi brani composti da Villa-Lobos nella convivenza con la prima moglie: in tal caso la parte potrebbe essere rimasta nella vecchia casa… Questo ulteriore elemento ci ha indotti ad accarezzare un’ipotesi: è possibile che la Valsa della donazione Guimarães sia proprio la Valsa sentimental ricordata da Arminda. La Valsa Guimarães, infatti, essendo rimasta nella casa in cui Villa-Lobos aveva vissuto con la prima moglie, non può essere stata composta più tardi del 1936, quando si lasciarono. Il 1936, però, è anche l’anno in cui, secondo Arminda, Villa-Lobos aveva scritto la Valsa sentimental che lei non riusciva a trovare. Se davvero le due pagine coincidessero, quindi, non spiegheremmo soltanto la presenza della Valsa sentimental nel catalogo curato da Mindinha, ma anche l’assenza, nello stesso catalogo, della Valsa rinvenuta nel ‘96. 19. “Lei e Villa-Lobos non poterono sposarsi, perché Lucília morì sei anni e mezzo dopo il marito [nel 1966, n.d.a.] e in Brasile il divorzio fu introdotto nel 1977. Molto più tardi Arminda cambiò il suo nome in Arminda Villa-Lobos e divenne, a tutti gli effetti, la seconda Signora Villa-Lobos.” LISA MARGOT PEPPERCORN, The World of Villa-Lobos in Pictures and Documents, Scolar Press, Aldershot, 1996, p. 163. 20. Lettera di Lucília Villa-Lobos al marito del 14 giugno 1936. Per la corrispondenza epistolare cfr. LISA MARGOT PEPPERCORN, The Villa-Lobos Letters, Toccata Press, London, 1994, pp. 56-59. “Lucília, ho intrapreso questo viaggio di tre mesi in Europa soprattutto per decidere della mia vita privata, una volta per tutte, più che per ottemperare ai miei doveri di delegato dell’International Congress of Musical Education. […] Non posso vivere in compagnia di qualcuno a cui mi sento totalmente estraneo, da cui mi sento isolato, costretto, in breve senza provare alcun sentimento se non una certa gratitudine per la tua lealtà in tutti questi anni che hai vissuto con me. Proclamo la nostra assoluta libertà. […] Manderò una persona fidata a ritirare le mie cose”. La risposta di Lucília è composta e decisa: 32 La Valsa Guimarães ricorda, sotto il profilo stilistico, la Suite populaire brésilienne. Se effettivamente coincidesse con la Valsa sentimental, però, sarebbe databile 1936, quindi risalirebbe ad un periodo di molto posteriore a quello in cui fu scritta la Suite. Potremmo allora leggere nella linearità formale di questo frammento un segno premonitore dei Cinq Préludes. In particolare, la scrittura della Valsa ricorda quella del Prélude n. 5, pregnante memoria delle sere nella Rio del primo Novecento. Notiamo per inciso che, se riorganizzassimo la prima pagina del Prélude n. 5, suddividendo ciascuna battuta da 6/4 in due battute uguali da 3/4, otterremmo un brano in 3/4 della lunghezza di trentadue battute, cioè esattamente delle stesse proporzioni della Valsa. Questo frammento, insomma, costituisce verosi- milmente il refrain di un’opera più ampia rimasta incompiuta: un rondò nello stile della Suite, oppure una forma ternaria premonitrice dei Cinq Préludes. Naturalmente le nostre sono e rimangono delle ipotesi, ma hanno suscitato su di noi un tale fascino da spingerci a condividerle con i lettori. Non intendiamo imporle come scientificamente provate, ma semplicemente contribuire ad una ricerca non ancora conclusa: l’esplorazione del cosmo villalobossiano, dell’ammaliante inventiva di questo “indio bianco”, come Villa-Lobos amava definirsi. Intendiamo il nostro lavoro come una base dalla quale muovere alla ricerca dei tasselli mancanti per salvare il salvabile delle belle invenzioni di questo artista, consolandoci dell’impossibilità di attingere alle fantasie della sua giovinezza. CHITARRE DA CONCERTO Annessa al laboratorio, bottega per la vendita di chitarre da concerto e da studio delle migliori marche, corde, accessori e mercato dell’usato Il negozio è aperto giovedì, venerdì e sabato via Goldoni 77, 20129 Milano. Tel. 02 70100028 www.luciocarbone.it VENDITA C O R D E E AC C E S S O R I O N L I N E 33 LO LA STILE CLASSICO. FORMA-SONATA E I CHITARRISTI DELL’OTTOCENTO di Marco Riboni Prima parte I n questo articolo esamineremo in quale maniera i chitarristi della prima metà dell’Ottocento si siano rapportati con la forma principe dello stile classico: la forma-sonata. L’argomento o, meglio, la sua definizione è particolarmente complessa e quindi necessita di alcune premesse, dapprima di ordine generale e poi via via sempre più focalizzate sull’oggetto del nostro studio: vi sono infatti da chiarire alcune questioni di primaria importanza e tutt’altro che scontate. di consumo), da un ideale di sobrietà, compostezza, buon gusto, esattezza ed equilibrio delle proporzioni (la forma classica, il genere classico, l’architettura classica) all’idea di un modello di riferimento esatto, normativo, da imitare, ricreare e riproporre, spesso con forti connotazioni tradizionaliste e accademiche (ad esempio lo stile neoclassico). Tra tutti questi intendimenti (ma spesso anche fraintendimenti), l’aspetto normativo e di modello codificato che ha assunto il significato più rilevante è forse proprio quello della musica (con ogni probabilità la disciplina artistica con il maggiore apparato normativo), tanto che ha finito per indicare un’epoca storica e stilistica di riferimento: quella vissuta a cavallo fra XVIII e XIX secolo. Per questa ragione, nel linguaggio comune l’aggettivo è stato addirittura sostantivato ed ecco così che ormai tradizionalmente si parla di “classicismo” e, in particolare, di “classicismo viennese”. Ma a questo punto le cose anziché chiarirsi e semplificarsi, come sembrerebbe in apparenza, si complicano ulteriormente e necessitano di una seconda premessa. La definizione precisa e appropriata di un’epoca stilistica di ampio respiro (stile barocco, stile galante, stile classico, stile romantico, ecc.) è infatti da sempre un arduo e insidioso banco di prova per gli studiosi. Uno dei problemi che subito si pone consiste nel fatto che non sempre le aree artistico-estetiche sono pienamente sovrapponibili a quelle storico-cronologiche, mentre invece assai di frequente le coordinate delle due categorie di giudizio sono fra loro confuse. Per entrare nel vivo del nostro argomento, le istanze stilistiche che caratterizzano l’età classica PREMESSA Cominciamo con l’affrontare la problematica relativa al termine “classico”, una sorta di vexata quaestio annosa e non certo indenne da insidiosi fraintendimenti. Questo aggettivo è usato spessissimo nell’ambito delle materie umanistiche ma sovente con un’accezione di spiccata genericità e con significati non sempre ben precisi e definiti: si parla infatti di musica classica e di arte classica, di studi classici e di materie classiche, di stile classico e di forme classiche, di genere classico e di moda classica e via dicendo. Si passa da un senso di antica civiltà artistica quasi idealizzata (l’arte della Grecia classica) all’idea di un’epoca storica del passato (il periodo classico, l’età classica), da un concetto di tradizione, conservazione e accademia (gli studi classici, lo stile classico appunto) contrapposto a quello di innovazione, contemporaneità e rottura con la tradizione, dalla concezione di seriosità, cultura e passato (la musica classica o cosiddetta “colta”) opposta a quella di giovanilità, facilità e accessibilità (la musica leggera o 34 tradizionalmente intesa – all’incirca dal 1770 al 1830, cioè dall’esperienza di Gluck e Mozart sino a Beethoven – non sono racchiuse e totalmente esaurite in quell’unico lasso di tempo ma anzi si protraggono con profonda influenza anche nelle epoche successive. A questo proposito, è impossibile scindere l’operato della triade classica Haydn-Mozart-Beethoven da Schumann, Mendelssohn, Liszt, Brahms e gli altri romantici ma anche, avvicinandoci alla nostra epoca, dall’esperienza neoclassica (ed è quasi una tautologia) vissuta nella prima metà del Novecento dai vari Casella, Stravinskij, Hindemith, ecc. (con Castelnuovo-Tedesco e Rebay per la chitarra).1 D’altra parte, alla stessa maniera precise peculiarità dello stile galante e addirittura di quello barocco sopravvivono e s’innestano senza soluzione di continuità in quello classico (basti pensare alla pratica del contrappunto o del basso albertino). Insomma, la diatriba del primato metodologico fra storia ed estetica è sempre insidiosamente aperta2 e se è vero che dal punto di vista diacronico non si può pensare che le epoche storiche marcino disciplinatamente in fila indiana senza lasciare alcuna influenza l’una sull’altra (per dirla con Dahlhaus3), è ancor più vero che da quello sincronico non si può concepire che il periodo classico coincida tout court con lo stile classico. Chiarite le differenze fra ambito storico ed estetico (per quanto non sempre sia semplice o possibile tracciare una netta linea di demarcazione fra i due), possiamo ora affermare che la nostra indagine sullo stile classico si svolgerà principalmente nel secondo settore. Tale scelta, tuttavia, da sola non basta ancora a risolvere tutte le questioni epistemologiche della ricerca, giacché in campo rimangono altri aspetti da puntualizzare prima di entrare nel vivo del nostro argomento e quindi è necessaria una terza e ultima premessa. Dicevamo sopra che in ambito musicale, tradizionalmente, lo stile classico è stato inteso come “classicismo”. Quest’ultimo, sempre secondo la stessa tradizione e con un passaggio tanto automatico quanto cruciale, divenne repentinamente “classicismo viennese” e come tale viene ormai accettato e considerato da almeno un secolo e mezzo a questa parte, ossia dalla nascita in terra tedesca delle discipline musicologiche. Ed è proprio questo il punto nodale di una questione che, pur non potendo ovviamente in questa sede essere affrontata in maniera approfondita per la sua complessità (e sulla quale il dibattito musicologico è ancora serrato), merita tuttavia un breve accenno in quanto inerente all’argomento del nostro articolo. La storiografia musicale tradizionale ha infatti sempre privilegiato la componente austro-tedesca all’interno della caleidoscopica realtà musicale europea a cavallo fra Sette e Ottocento, considerandola come visione unica, centripeta e autoreferenziale rispetto agli ambienti artistici delle altre capitali europee, visti come dimensioni marginali, satellitari e comunque secondarie rispetto al cuore culturale della mitteleuropa.4 A volte, le tendenze “non-viennesi” sono state addirittura lette e giudicate in maniera negativa in 1. È tuttavia opportuno precisare che l’approccio neoclassico non fu certo lo stesso per tutti gli autori citati: c’è chi riprende il modello classico come risposta agli eccessi romantici e lo ricrea solo dal punto di vista formale, usandolo cioè come un sorta di guscio esterno da riempire con altre tematiche (Stravinskij), chi invece (Castelnuovo-Tedesco e Rebay) adotta e crede in questo modello in tutto e per tutto, non solo nell’aspetto formale, ma anche e soprattutto in quello sostanziale creando così una sorta di modello al quadrato (modello del modello). 2. Si veda sull’argomento il denso scritto di CARL DAHLAUS Fondamenti di storiografia musicale, Fiesole, Discanto, 1980 nel quale in più punti (cfr. in particolare le pp. 23, 151, 154, 159 e 160) si spiega approfonditamente come il concetto di storia della musica cambi radicalmente se concepito come “storia della musica”, ossia con il primato della storia che spiega e giustifica l’arte musicale o, al contrario, come “storia della musica”, dove invece è l’arte musicale la chiave interpretativa dei procedimenti storici. 3. Ancora di Dahlaus cfr. Storia europea della musica nell’età del classicismo viennese, in “Nuova Rivista Musicale Italiana”, Torino, ERI, 1978, n. 4, p. 501. 4. Il profondo senso di superiorità – anzi, un vero e proprio complesso – della musica tedesca sopra quello delle altre nazioni già emerge a chiare lettere nei numerosissimi scritti di Robert Schumann sulla “Neue Zeitschrift für Musik”, la rivista da lui fondata nel 1834 che segnò la nascita della critica musicale professionale e che influenzò profondamente la cultura tedesca (e non solo). Va inoltre ricordato che la ricerca musicologica nacque in quegli anni proprio in Germania e quindi è facile comprendere come la concezione germanocentrica abbia decisamente condizionato la storiografia musicale. 35 quanto centrifughe, discordanti e devianti da un modello chiaramente codificato e dalla normativa esatta. Se quindi l’accezione di “classicismo” risulta fortemente ambigua quando si riferisce genericamente allo stile classico (per le questioni storiche ed estetiche di cui sopra), ancora più forzoso è rubricare sotto la sola etichetta di “classicismo viennese” tutti i fermenti e le tendenze che animarono la meravigliosa e insuperata civiltà musicale dell’età di Mozart e Beethoven. Pare quindi più opportuno, utile e funzionale parlare di diversi classicismi invece che di uno solo e viennese. Pensiamo all’opera ma anche alla scuola strumentale italiana (che non visse solo nell’epoca dei Lumi ma proseguì sino a Ottocento inoltrato), agli ambienti di Londra, di Parigi, della Germania settentrionale e della Spagna (e subito vengono in mente le fondamentali esperienze a Madrid di Scarlatti prima e Boccherini dopo): ognuno di questi ambiti può infatti assurgere (e di fatto assurse) a modello normativo. Per concludere: la civiltà musicale del periodo classico nel suo splendente fulgore diede vita a diversi stili classici e se è indubbio che quello viennese fu importantissimo (se non dominante), è altrettanto vero che esso di certo non racchiuse in sé tutte le varie tendenze stilistiche – classiche a loro volta – della medesima epoca.5 Identificate quindi tutte le varie insidie che si celano dietro la definizione di “stile classico”, possiamo ora dedicarci alla nostra indagine e finalmente indicarne l’ambito preciso tracciandone con chiarezza l’area di competenza e i confini senza rischio di ambiguità e fraintendimenti: la relazione dei chitarristi con lo stile classico viennese, ossia il loro personale approccio con la forma-sonata nei vari tipi di composizioni. La forma-sonata fu infatti la forma principe dello stile classico viennese e la struttura compositiva predominante nel periodo classico. Se il grande musicologo tedesco Hugo Riemann fu geniale nel definire il barocco come l’età del basso continuo,6 molto meno genialmente e ben più banalmente si potrebbe essere tentati di qualificare lo stile classico come l’età della formasonata, vista la disarmante ovvietà dell’assunto. Essa infatti venne impiegata nel movimento di apertura di tutte le opere strumentali che ambivano a una caratura artistica elevata (e che quindi presentavano una campata strutturale di ampio respiro) quali la sonata per pianoforte (e in duo con il violino), il concerto, la sinfonia, il quartetto e gli altri organici cameristici. Il suo modello di riferimento tradizionale – che però in realtà divenne consciamente normativo e codificato solo a Ottocento inoltrato – consiste, com’è noto, nella forma tripartita di esposizione, sviluppo, ripresa e nel bitematismo dell’esposizione e della ripresa. Il suo fondamento risiede nella concezione organica e unitaria della composizione musicale, nella quale la coerenza e la solidità formali sono garantite da una parte dalla strettissima relazione fra la struttura tematica e la struttura tonale, dall’altra dalla profonda concezione dell’elaborazione motivico-tematica. Prevale quindi la logica dialettica, drammatica, organico-strutturale della forma musicale. Le frasi musicali sono organizzate sintatticamente nel periodo e trovano la loro ragion d’essere l’una nell’altra e nella loro reciproca connessione.7 Vedremo tuttavia come 5. L’esponente più illustre della visione musicologica austro-tedesca è CHARLES ROSEN del quale, fra i suoi numerosi e importanti scritti, bisogna ricordare due testi fondamentali: Le forme-sonata, Milano, Feltrinelli, 1986 e Lo stile classico, Milano, Feltrinelli, 3ª ed, 1989. L’impostazione metodologica dei due libri è eccellente per inquadrare e comprendere le peculiarità storico-stilistiche del classicismo viennese tradizionalmente inteso, ma risulta profondamente penalizzante per tutto quanto ne è marginale o estraneo: caso clamoroso è quello di Luigi Boccherini (con Vivaldi il maggiore sinfonista italiano nonché uno dei più grandi strumentalisti del nostro Paese), pressoché ignorato dallo studioso americano. Un quadro invece molto più am- pio sul ben più variegato universo dello stile e del periodo classico si può trovare in LEONARD G. RATNER, Classic Music. Expression, Form and Style, New York, Schirmer, 1980. 6. Cfr. MANFRED BUKOFZER, La musica nell’età barocca, Milano, Rusconi, 1982, p. 15. 7. Questa affascinante concezione, profondamente logica e razionale, a prescindere dai soliti luoghi comuni è chiaramente figlia del pensiero e della mentalità al nord delle Alpi. Vedremo invece come una visione opposta – ossia paratattica, con frasi paradigmatiche e quindi con senso autonomo e indipendente le une dalle altre – sarà assai differente ma parimenti affascinante nei musicisti italiani (Giuliani su tutti). 36 molte saranno le deroghe e le licenze che i chitarristi (ma non solo loro) si prenderanno nei confronti di questo schema.8 La forma-sonata sarà dunque il nostro banco di prova per constatare quale fu l’atteggiamento dei chitarristi nei confronti dello stile classico, come una sorta di cartina di tornasole non solo per misurare il loro grado di partecipazione alle peculiarità stilistiche del linguaggio dominante di quel periodo, ma anche per evidenziare le caratteristiche musicali che proprio di questo linguaggio più interessavano a ciascuno di loro. Divideremo i chitarristi in gruppi a seconda delle aree geografiche di appartenenza, proprio per verificare le tendenze stilistiche comuni a seconda delle differenti tradizioni musicali.9 Salvo sporadiche occasioni, nella nostra analisi delle sonate per chitarra sola10 verrà preso in esame dettagliatamente solo il primo tempo, proprio perché è il movimento nel quale viene applicata da tutti la forma-sonata e quindi permette di distinguere i diversi atteggiamenti. La struttura generale, d’altra parte, è comune a tutti gli autori: i canonici tre o quattro movi- menti, al cui interno dopo il primo tempo (a volte preceduto da un’introduzione lenta) vi è solitamente un adagio e/o un minuetto con trio cui segue un rondò conclusivo (spesso in forma di rondò-sonata), più raramente un tema con variazioni. Ovviamente, per evidenti ragioni di praticità non analizzeremo nel dettaglio tutte le composizioni nelle quali compare la forma-sonata ma solamente le opere più note o significative, sforzandoci di cogliere caratteristiche personali e tendenze di fondo. Riguardo a questo inevitabile sfoltimento, va decisamente ridimensionato il luogo comune che vedrebbe i chitarristi della prima metà dell’Ottocento ben poco inclini alla composizione di sonate o di brani in forma-sonata: sono decine le opere che abbiamo analizzato e basta l’esempio del solo Wenzeslaus Matiegka (nel cui catalogo compaiono ben tredici sonate) per dissipare ogni dubbio. Se poi, come detto in nota, si prendessero in considerazione anche i concerti e i brani cameristici con ogni probabilità l’unità di misura non sarebbe più a due bensì a tre cifre. Non altrettanto si può dire per i chitarristi compositori del successivo periodo romantico (la triade Mertz-Coste-Regondi, gli altri a nostro parere non sono da prendere in considerazione) che non presentano nella loro produzione esempi di sonate o forme-sonata: un dato che dovrebbe far riflettere su come la chitarra dagli anni Quaranta in poi fosse ormai uscita dai linguaggi musicali dominanti (nei quali la forma-sonata continuò a vivere pur dilatandosi e trasformandosi radicalmente) e stesse già ripiegandosi su se stessa. 8. Assai intelligentemente Rosen intitola il suo libro al plurale, Le forme-sonata (“Sonata Forms”), proprio per evidenziare le molteplici varianti di questa forma compositiva. 9. Preferiamo parlare di “tradizioni” perché ci sembra un termine più elastico e meno tecnico-specialistico di “scuole” che, se e dove ci furono, si formarono in un momento successivo: infatti, se è oggi possibile identificare, ad esempio, una scuola spagnola assai differente da quella italiana, questo è per quanto avvenne dopo la nascita e la formazione di una tradizione chitarristica nella prima metà dell’Ottocento e nelle varie nazioni. Com’è ovvio, l’aspetto didattico e normativo può crearsi solo dopo un certo tempo dalla formazione della disciplina artistica e la pratica esecutivo-compositiva sulla neonata chitarra esacorde era ai sui albori nei primi decenni del XIX secolo. 10. La forma-sonata nel primo tempo è quasi sempre presente nei concerti per chitarra e orchestra e nel vastissimo repertorio cameristico, generi che invece non prenderemo in considerazione sia per non dilatare a dismisura il campo della ricerca, sia perché l’orchestrazione e la concertazione influenzano pesantemente le modalità di scrittura e gli stili espressivi. Troppe le differenze con il repertorio solistico, impossibile quindi creare paragoni e modelli funzionali anche perché molti autori che eccelsero nella musica da camera spesso nelle opere per chitarra sola non andarono oltre una grigia mediocrità. Non è escluso che questo possa diventare l’argomento di un prossimo articolo. Haydn, Mozart, Beethoven 37 cale dal padre e si trasferì a Vienna dove trascorse quasi tutta la sua vita. Nonostante la predisposizione e le qualità, come la grande maggioranza dei suoi colleghi chitarristi, trovò impiego nella pubblica amministrazione. La ricerca storica, la composizione e la collezione di partiture furono le sue grandi passioni che coltivò sino alla morte.13 Molitor oggi è ancora un personaggio quasi sconosciuto, come d’altra parte le sue opere. In realtà proprio per la sua produzione sonatistica meriterebbe qualche attenzione in più, soprattutto alla luce dell’influenza che in questo genere compositivo proiettò sui suoi più illustri successori in terra viennese (fra i quali anche Giuliani). Per chitarra sola ha lasciato quattro sonate: la considerevole Grosse Sonate op. 7 e le opp. 11, 12 e 15. L’op. 7, in La minore, è indubbiamente la più importante di Molitor ed è emblematica dello stile sonatistico viennese applicato alla chitarra. Merita quindi particolare attenzione, tanto più che lo stesso Molitor, consapevole di consegnare alle stampe un’opera ambiziosa e dal carattere volutamente normativo, le dedicò una lunga introduzione e numerose note esplicative in calce a quasi tutte le pagine riguardo alla modalità esecutiva di alcuni passaggi. L’AREA AUSTRO-TEDESCA: MOLITOR, MATIEGKA, DIABELLI. Molitor e Matiegka La nostra indagine non può che iniziare nella patria della forma-sonata, in particolare nella città dove tale forma si innalzò a livelli insuperati di civiltà musicale: Vienna. Diverse sono le fonti che testimoniano la notevole diffusione della chitarra nella capitale dell’impero asburgico ancor prima dell’arrivo di Giuliani nel 1806.11 La qualità della produzione dei compositori chitarristi non rispecchiò, è ovvio, quella delle opere degli straordinari protagonisti che vissero in quell’epoca irripetibile; di certo comunque ne riprese – almeno in parte – le tendenze stilistiche. Ecco così che alcuni chitarristi, particolarmente sensibili, colti e pienamente inseriti nel formidabile ambiente musicale viennese, fecero tesoro della lezione dei grandi maestri e, rendendosi pienamente conto del valore e dell’importanza dello stile classico,12 si sforzarono di ricreare sulle sei corde la sua forma principe. Tra loro, per anzianità bisogna cominciare ad occuparsi del tedesco del Württemberg Simon Molitor (Neckarsulm, 1768-Vienna, 1848). Figura di grande erudizione, ebbe la formazione musi- Il titolo dell’op. 7 di Molitor come appare all’inizio della voluminosa prefazione 11. Basti almeno citare l’ormai famosa prefazione di SIMON MOLITOR e R. Klinger (pseudonimo di WILHELM KLINGENBRUNNER) al Versuch einer vollständingen methodischen Anleitung zum Guitare-spielen, Vienna, Chemischen Drucherey, 1812. 12. La moderna musicologia austriaca ha dimostrato che i contemporanei si rendevano perfettamente conto che la loro città stava vivendo un periodo magico e irripetibile della storia della musica. Cfr. in particolare ANTONICEK, THEOPHIL Vienna, IV: 1740-1830, in The New Grove Dictionary of Music, London, Macmillan, 1980, vol. 19, p. 722. 13. Per nformazioni su Molitor cfr. FRANCESCO GORIO, Simon Molitor, in “il Fronimo”, 1984, n. 46, pp. 34-44. 38 La Grosse Sonate è un’ampia composizione articolata in quattro movimenti: Adagio introduttivo cui si aggancia un Agitato ma non troppo Allegro, quindi un elegante Andante, poi un classico Minuetto e Trio e infine un esteso Rondò. L’Adagio (Es. 1) con il suo tipico ritmo puntato d’apertura richiama molto l’introduzione della Grande Ouverture op. 61 di Giuliani (e non sarà questo l’unico punto di contatto con lo stile del grande pugliese, come vedremo), tra l’altro con l’impiego degli stessi accordi cromatici di sesta cadenzanti sulla dominante: Es. 1, bb. 1-17 Il primo tema di 12 bb. è costruito su una successione di bicordi (con una densità di scrittura che sarà tipica di Molitor) caratterizzati da appoggiature, accordi smorzati e sforzati in levare. Es. 2, bb. 1-12 Il successivo ponte modulante, anch’esso di 12 bb., conduce canonicamente nella zona della Dominante al relativo maggiore (Do) per in- trodurre il secondo tema (Es. 3), altrettanto canonicamente dal carattere più dolce rispetto al primo: Es. 3, 24-32 39 L’area del secondo tema è molto più ampia (36 bb.), come era tipico nella musica di quel periodo, a causa dell’estensione e della proliferazione di formule cadenzali e code che servivano a concludere l’esposizione, esattamente co- me fa Molitor. Caratteristico l’uso del basso albertino in Do maggiore e le concatenazioni accordali (Es. 4). Così come il pedale nel basso e gli accordi di settima (anche con la tipica diminuita) (Es. 5): Es. 4, bb. 42-55 Es. 5, bb. 56-61 Conclusa l’esposizione – come appena visto, già di per sé ricca di spunti interessanti – inizia la sezione dello sviluppo, ossia il più cruciale fra i punti cardine della forma-sonata poiché è al suo interno che si possono cogliere le maggiori differenze fra i compositori. Molitor si dimostra pienamente aderente alle peculiarità tipiche dello stile classico viennese che vede proprio nello sviluppo la sua caratteristica più evidente, ossia la stretta dialettica fra le due aree tematiche dell’esposizione con l’analisi delle reciproche matrici costruttive. Ecco così che le prime venti battute riprendono l’arpeggio di quartine del ponte modulante, ma con un’inedita successione accordale che tocca tonalità inconsuete quali Si bemolle maggiore, Sol minore e Mi bemolle maggiore (Es. 6): Es. 6, bb. 62-70 Anche questa serie di modulazioni è tipica dello sviluppo tradizionale che va ad esplorare varie zone tonali mantenendo alcune caratteristiche dei temi esposti. Ma ecco che laddove nell’esposizione il ponte modulante portava al secondo tema, qui nello sviluppo avviene un piccolo colpo di scena: la falsa ripresa del primo tema, dapprima esposto nel modo minore e poi maggiore di quella che era la Dominante del secondo tema (Sol). (Es. 7) 40 Es. 7, bb. 80-93 La falsa ripresa – o ripresa prematura – era un tipico espediente di sorpresa dello stile classico (Haydn, per esempio, lo usava per fare degli scherzi musicali, una specie di ironia in musica) e non è casuale che Molitor l’abbia impiegata nella sua composizione più ambiziosa, tra l’altro perfettamente congegnata nell’impianto tonale in quanto non cita la tonalità del secondo tema ma la sua Dominante, creando una sorta di doppia falsa ripresa o, meglio, una falsa ripresa al quadrato. La seconda parte dello sviluppo riprende i ti- pici accordi smorzati con gli sforzati di entrambi i temi e le formule brillanti che chiudevano il secondo tema, così come la coda conclusiva con tanto di cadenza vera e propria, punto coronato e trillo scritti secondo tradizione in notazione più piccola e senza segno di battuta (alla Dominante di La, Es. 8). Anche questa è un’altra caratteristica dello stile classico proveniente in particolare dal genere del concerto per solista e orchestra, quasi una sorta di luogo comune e di topos inevitabile. Es. 8, bb. 98-101 Questo primo tempo di sonata è esemplare sia dal punto di vista della struttura, ben equilibrata nella tripartizione (circa 150 bb. quasi equamente divise nelle tre sezioni), sia da quello della concezione tradizionale viennese, del quale riprende il modello di scrittura con uno sviluppo secondo i canoni (l’elaborazione e la dialettica dei due temi) ma anche con alcune varianti (la falsa ripresa e l’omissione del primo tema nella ripresa) per altro ben radicate nello stile classico. Anche il carattere è decisamente viennese, ossia molto sobrio ma non austero, con una condotta armonica rigorosa ma non priva di interessanti aperture a tonalità lontane e una scrittura densa senza essere prolissa. I due La ripresa parte direttamente dal secondo tema – secondo tradizione nella Tonica maggiore di La – omettendo del tutto il primo. Tale procedimento, oltre a essere particolarmente frequente anche fra i “non-viennesi”, come vedremo in seguito, risulta particolarmente intelligente dal punto di vista dell’equilibrio formale: il primo tempo si era appena ascoltato nella precedente falsa ripresa (seppur in altra tonalità) e la sua ripresa testuale sarebbe apparsa prolissa e ridondante. Da qui in avanti tutto procede secondo norma, con l’intero materiale del secondo gruppo tematico ripreso testualmente in La maggiore e la coda conclusiva. 41 temi, pur non essendo particolarmente icastici e incisivi dal punto di vista melodico, sono comunque assai funzionali all’impianto rielaborativo dello sviluppo e finalizzati alla struttura generale. In deroga a quanto affermato nella premessa, spenderemo qualche breve parola anche per i movimenti successivi. L’Andante è un bel pezzo in sei ottavi in un Do maggiore che ricorda molto lo stile di Giuliani nel movimento delle parti per moto contrario, nel tipo di scrittura e tessitura, nelle diminuzioni progressive del tema, nel basso albertino e persino in alcune successioni armoniche. Già dalle prime battute del primo movimento è possibile cogliere diversi stilemi ripresi in seguito da Giuliani che, evidentemente, appena arrivato a Vienna si era subito messo a studiare le opere e lo stile di uno fra i chitarristi più rinomati della città (la Grosse Sonate fu composta nell’autunno del 1806, ossia proprio quando egli arrivò a Vienna). L’attenzione di Giuliani dimostra quindi l’importanza di Molitor nello sviluppo del chitarrismo nella capitale asburgica. Molto bello anche il Minuetto in La minore con saporose sincopi e interessanti progressioni, mentre il successivo Trio alla Tonica maggiore è un po’ più convenzionale ma ben scritto. Il tutto comunque ricorda abbastanza il Diabelli delle Serenate, in particolare l’op. 105. Il Rondò finale è un brano assai ampio (più di 150 bb.) ma che per il suo andamento lieve e sereno riesce a non essere prolisso (pericolo sempre in agguato in questi autori, come vedremo). Strutturato in una sorta di rondò-sonata – ossia A-B-A /C/ A-B-A, ma in questo caso con alcune varianti nella sezione conclusiva – quest’ultimo movimento ha un dolce carattere di pastorale conclusiva, anch’essa caratteristica assai tipica viennese e che ricorda ancora Diabelli, questa volta quello della bucolica Pastorale che chiude la splendida Grande Sonata brillante op. 102 per chitarra e fortepiano. Di livello assai più basso sono invece le due sonate opp. 11 e 15. La prima, in Do maggiore (composta fra il 1806 e il 1807), è articolata in tre movimenti ed è purtroppo estremamente prolissa (come detto, difetto sempre in agguato negli autori dell’area austro-tedesca). Qualche spunto d’interesse si può cogliere nell’Allegro moderato d’apertura, nel quale il ponte modu- lante fra il primo e il secondo tema è caratterizzato da una serie di modulazioni a gradi lontani abbastanza inconsuete in quel punto (molto più frequenti invece all’inizio dello sviluppo). Potrebbe essere un’influenza dello stile concertante: nel concerto solistico, infatti, alcuni passaggi estesi e sviluppati di solito cadono proprio nelle sezioni di raccordo fra i punti nodali della struttura. Niente di particolarmente interessante nell’Andante successivo (più di 100 bb.) e nello Scherzando capriccioso conclusivo (quest’ultimo più del doppio, quasi 230 bb.), nei quali la scarsa inventiva non riesce a reggere strutture così ampie. Anche la Sonata op. 15 in Sol maggiore (scritta fra il 1807 e il 1810) non presenta particolarità di rilievo: dopo un Preludio dallo stile un po’ arcaico, polifonico e una condotta delle parti dotta e osservata (con tanto di antiche progressioni) vi è la Marcia in una forma-sonata estremamente semplificata e poco interessante. Poca fantasia anche nel tema variato finale, prolisso e ripetitivo. Degna di nota è invece la Sonata op. 12 in Do maggiore (composta negli stessi anni dell’op. 15) e per diversi motivi. Il primo movimento in forma-sonata è una Marcia. Allegro maestoso e il suo maggior interesse risiede in una struttura talmente chiara e lineare da far quasi pensare a intenti didattici, sia dal punto di vista compositivo (quasi una sorta di primo modello di riferimento per gli studenti) che da quello esecutivo (abituare i principianti a identificare gli assi portanti della forma-sonata e quindi adottare fraseggio e interpretazione adeguati). Inoltre la sua semplicità costruttiva non coincide affatto con la banalità. Il primo tema è di 8 bb., così come il ponte modulante e il secondo tema. Quest’ultimo è totalmente privo di figurazioni brillanti o virtuosistiche che sovente si incontrano in questo punto, a testimonianza sia degli intenti didattici di cui sopra, sia del segno di decisa disgiunzione dallo stile brillante italiano e concertistico (come vedremo in seguito). L’esposizione è rigorosamente simmetrica (8 +8 +8 bb.) e quindi difficilmente equivocabile nell’identificazione dei suoi punti nodali (ovviamente secondo la consolidata ortodossia: Tonica al primo tema, Dominante della Dominante il ponte modulante e Dominante il secondo tema). Perfettamente leggibile è anche lo sviluppo, di 42 sole 36 bb. (dalla 24 alla 60) ma anche questo quasi normativo nella chiarezza della sua struttura. Vi sono infatti le consuete modulazioni ai gradi lontani nelle prime 20 bb. (Si bemolle mag- giore, Sol minore, Mi bemolle maggiore, Do minore, Fa minore e addirittura Si bemolle minore) con anche una efficace enarmonia conclusiva (Es. 9): Es. 9, bb. 24-44 è la ripresa quasi testuale e abbreviata del Rondò di apertura).14 Simon Molitor fu uno dei padri fondatori del chitarrismo viennese e un punto di riferimento per tutti i chitarristi a Vienna nel genere del sonatismo: egli (per primo sulle sei corde) ne definì con precisione le coordinate stilistiche fondamentali, in particolare nella concezione dello sviluppo nel quale le caratteristiche dei due temi vengono analizzate, sviscerate e confrontate dialetticamente (com’è appunto tipico dello stile viennese tradizionalmente inteso). Ancora secondo la norma, il materiale musicale impiegato proviene dai due temi che canonicamente ricompaiono testualmente nella ripresa in Tonica. Niente di trascendentale, per carità, ma il tutto è assai esemplificativo su come costruire una forma-sonata seguendo i canoni tradizionali. Qualche parola va spesa non tanto per i due movimenti centrali (uno Scherzando e il classico Minuetto e Trio che ricordano un po’ Diabelli), quanto piuttosto per il Rondò finale o, meglio, per la sua struttura. Si tratta infatti di un Rondò-sonata un po’ mascherato, in quanto la tripartizione (A-B-A /C/ A-B-A) non è esattamente speculare ma è evidenziata da tre indicazioni agogiche con altrettanti cambi di tempo: un Rondò in 2/4 in Do maggiore, un Andante moderato in 3/4 in La maggiore/minore e un Allegretto conclusivo in Do maggiore in 6/8 (ma Dopo Molitor ci dobbiamo occupare ora di Wenzeslaus Matiegka. Segnalato dallo stesso Molitor nella prefazione della sua Grosse Sonate op. 7 come uno dei protagonisti della scuola chitarristica viennese (assieme a Diabelli), Matiegka nacque a Chotzen, in Boemia (oggi Repubblica 14. Se la si guarda con attenzione, questa struttura è la medesima del Rondò conclusivo della Sonata op. 15 di Giuliani – pubblicata proprio in quegli stessi anni a Vienna (1808) – che appunto ha nel movimento centrale un brusco cambiamento di tempo e di carattere. Che Giuliani abbia avuto modo di studiare anche que- sta Sonata come la precedente dell’op. 7? Trattandosi di un’opera manoscritta e rimasta inedita ( Cfr. FRANCESCO GORIO, op. cit., p. 40) a differenza invece della Sonata di Giuliani, è difficile dare una datazione precisa a questa composizione di Molitor e quindi la nostra rimane solo una semplice ipotesi. 43 Come detto in precedenza, Matiegka è stato il più prolifico compositore di sonate per chitarra sola della prima metà dell’Ottocento – tredici opere – e quindi già solo per l’aspetto puramente numerico merita la massima attenzione (anche se purtroppo non sempre la quantità coincide con la qualità). Dalla nostra analisi sono rimaste escluse la Sonata op. 23 – in quanto, com’è ormai risaputo, si tratta di una parziale trascrizione della Sonata Hob. XVI:32 di Haydn – e le due sonate catalogate da Gorio come G. A6 e G. A7.16 La Grande Sonate N. I in Re maggiore, del 1808, è un’estesa composizione in tre movimenti. Fin troppo estesa e anche decisamente prolissa: il Rondò Capriccioso finale è un brano interminabile di più di 400 battute. Quello che però interessa a noi è il Maestoso di apertura, anch’esso di ampia campata (172 bb.) ma innervato in un’ottima struttura, solida e funzionale che riesce a mimetizzare alcuni momenti un po’ ripetitivi. Il primo tema è ripetuto due volte per un totale di 16 bb. con all’interno una sezione di raccordo che servirà per l’innesto della ripresa (Es. 10). Da notare i caratteristici accordi smorzati e il pedale di La nel basso, peculiarità che già avevamo colto in Molitor. Frontespizio della Grande Sonate n. 1 di Matiegka Ceca) nel 1773 e morì a Vienna nel 1830. La sua figura e le sue opere sono più conosciute di quelle di Molitor e per tutte le informazioni rimandiamo agli scritti a lui dedicati.15 Es. 10, bb. 1-16 15. Cfr. ancora gli articoli di FRANCESCO GORIO pubblicati sempre su “il Fronimo” nei nn. 52, 53, 54 e 55 fra il luglio del 1985 e l’aprile del 1986. Un generale e aggiornato riepilogo si può leggere nella prefazione curata da MASSIMO AGOSTINELLI e GIOVANNI PODERA a Matiegka, Opere scelte, Ancona, Bèrben, 1995. 16. Cfr. FRANCESCO GORIO, op. cit., n. 55, p. 28. Lo studioso bresciano ha desunto l’esistenza di queste due opere dall’indice tematico pubblicato sulla copertina della Sonate I e Sonata II, ma purtroppo non ne ha reperito alcun esemplare, né tantomeno noi. 44 Il ponte modulante (Es. 11), che porta al secondo tema, oltre a presentare un aspetto polifonico a due voci con moto contrario e risposte alternate fra alto e basso, è importante perché sarà uno degli spunti per lo sviluppo. Il secondo tema, secondo consuetudine, è molto più articolato (una trentina di battute, dalla 28 alla 56) ed è contraddistinto da uno stile antico, quasi toccatistico e con progressioni barocche che ne evidenziano il carattere brillante (Es. 12). Es. 11, bb. 18-27 Es. 12, bb. 29-34 Una breve coda con arpeggi di sestine chiude quindi l’esposizione. La sezione dello sviluppo (che copre una cinquantina di battute) si apre riprendendo il ritmo della testa del primo tema (minima e quattro crome) e la condotta a due voci del ponte modulante, la cui terzina apparsa quasi casualmente e una volta sola assurge ora a unità strutturale: Es. 13, bb. 55-69 Lo sviluppo prosegue poi prendendo spunto dalle progressioni nello stile antico del secondo tema, questa volta però nella zona della Sopradominante. Si nota la presenza dei tipici accordi cromatici17 e anche di un breve accenno alla chiusa ancora del secondo tema (Es. 14): 17. È sicuramente un caso, ma queste progressioni in Si minore ricordano molto da vicino quelle di Barrios nell’“Allegro solemne” della sua celebre Catedral. 45 Es. 14, bb. 87-101 La ripresa è canonica (primo tema lievemente abbreviato e secondo testuale in Tonica), però con un’estrema dilatazione della codetta dell’esposizione che dalle originali 5 bb. quasi si quintuplica a 23 bb., ma, soprattutto, sposta pericolosamente l’asse tonale dapprima a Re minore e poi a Si bemolle maggiore, rendendo un po’ brusca e inaspettata la breve citazione in Re maggiore del tema iniziale che chiude il brano. La forma-sonata di questo primo tempo è comunque esemplare: solida, ben strutturata, con uno stile un po’ baroccheggiante e austero ma, soprattutto, molto “austro-tedesca” nella concezione tematica e dello sviluppo. La Grande Sonate N. II in La maggiore, anch’essa del 1808, è in tre movimenti: il Mo- derato d’apertura, un Andante e infine un tema di Haydn con otto lunghissime variazioni (la concisione non era certo una qualità di Matiegka che evidentemente necessitava di molto spazio per esprimere il suo pensiero musicale). Il Moderato in forma-sonata è ancora più lungo del Maestoso della sonata precedente (201 bb. contro 172) ma, paradossalmente, appare meno prolisso per una migliore felicità di scrittura. Il primo gruppo tematico (che si articola su 28 bb.) è diviso in due sezioni di 14 bb. ciascuna e la seconda parte vede una fioritura contrappuntistica del tema iniziale che già sembra un micro-sviluppo (Es. 15). Il ponte modulante riprende gli incisi tematici e contrappuntistici con una buona resa melodica (Es. 16). Es. 15, bb. 1-17 46 Es. 16, bb. 28-38 Già da queste prime battute dell’esposizione si può notare come il tutto appaia già estremamente coeso e logicamente connesso. Il secondo tema alla Dominante (bb. 45-80) non presenta una vena melodica particolarmente felice ed evidente, ma nel suo fluido scorrere delle terzine contrasta efficacemente con la scrittura quasi geometrica del primo tema: Es. 17, bb. 44-55 Le terzine dei bicordi ribattuti poi si snocciolano in agili arpeggi che portano a un breve ac- cenno del primo tema cui segue un pedale di Dominante che chiude l’esposizione: Es. 18, bb. 60-73 47 Le 80 battute dell’esposizione sono quindi innervate in una struttura ampia, solida e senza alcuna prolissità tanto è bilanciata ed equilibrata nelle sue proporzioni (primo gruppo tematico di 28 bb., ponte di 16 e secondo gruppo tematico di 36). Ovviamente la sezione dello sviluppo non può che rispecchiare fedelmente un impianto così razionale. L’esordio riprende le sestine della coda e subito attacca con l’analisi del primo tema (ma anche della coda del secondo) dapprima proiettandolo in tonalità lontane (Do maggiore, Fa maggiore e Re minore) e poi dilatandone il dialogo contrappuntistico: Es. 19, bb. 80-99 Del secondo tema sono invece riprese le terzine di bicordi ribattuti (Es. 20) non senza una suggestiva falsa ripresa nel modo minore (Fa diesis) del dolce che chiudeva il secondo tema pri- ma della coda dell’esposizione (Es. 21). Qui il carattere è particolarmente malinconico e ricorda da vicino lo spirito della “Zingara” del famoso Notturno op. 21 per flauto, viola e chitarra: Es. 20, bb. 106-112 Es. 21, bb. 117-128 48 Dominante è invece una Marcia di 40 bb. e la coda seguente che conclude l’esposizione è un Allegro assai in 6/8. Insomma, una tripartizione “ufficiale” con tanto di didascalie all’interno della prima parte di una struttura tripartita. Ma non è finita: lo sviluppo di una cinquantina di bb. (dalla 103 alla 151) cambia ancora il tempo che torna di 4/4 e presenta le ormai consuete caratteristiche analitiche e dialettiche del materiale tematico dell’esposizione. La ripresa, lievemente abbreviata di una trentina di bb. rispetto all’esposizione (da b. 152 a b. 222: meno male, altrimenti questo primo tempo sarebbe stato interminabile…), dopo il primo gruppo tematico vede ancora un altro cambio di carattere con la Marcia del secondo tema – ora canonicamente in Tonica – e poi ancora l’ultima mutazione di tempo con l’Allegro in 6/8 della coda finale. Essendo quasi del tutto speculare all’esposizione, anche la ripresa si presenta quindi “ufficialmente” tripartita con tanto di sezioni segnate dalle didascalie. La creazione di due microstrutture tripartite agli estremi della macrostruttura a sua volta tripartita più che a una forma-sonata fa pensare a un rondò-sonata (A-B-A / C / A-B-A), ma curiosamente già in apertura di sonata e quindi contro la tradizione che vuole tale forma nel terzo movimento (peraltro il terzo tempo di questa op. 17 è pure una sorta di rondò-sonata, lievemente mutato nella sua massiccia struttura, di più di 200 bb.). In generale la Sonate progressive non sarebbe affatto male (l’Andante centrale è lirico e ispirato, il Rondò conclusivo assai efficace nella sua idiomaticità) se non fosse schiacciata dal suo stesso peso che, proseguendo nella metafora, le impedisce letteralmente di decollare. Un Matiegka “iperstrutturalista” insomma, che porta quasi a conseguenze estreme un pensiero profondamente costruttivista e razionalistico. Con il blocco delle Six Sonates progressives op. 31, pubblicate nel 1817 in tre fascicoli separati dieci anni dopo l’op. 17, Matiegka riduce a più miti propositi le sue velleità compositive ma, purtroppo, anche i suoi risultati artistici. Tutte e sei articolate in tre movimenti, sono brevi, asciutte, tenderebbero all’essenzialità ma, al di là di una vena inventiva tutt’altro che disprezzabile e di una solida padronanza della forma, non riescono ad elevarsi al di sopra di un buon artigianato, soprattutto se paragonate con Come nella Sonata N. I, la ripresa parte dalla sezione di raccordo fra le due parti del primo tema e poi prosegue canonicamente in Tonica con tutto il materiale tematico dell’esposizione lievemente abbreviato (per un totale di una sessantina di battute) e con una suggestiva coda in pianissimo, dolce, bucolica e molto viennese. Anche questa sonata è quindi esemplare della concezione austro-viennese che vede appunto un’impostazione molto chiara degli assi portanti della struttura, in particolare dello sviluppo nel quale vi è quasi la celebrazione dello stile classico tradizionalmente inteso: al contrario dei “non-viennesi” (e, ancora come nella premessa, questa è quasi una tautologia) non vi è alcuna aggiunta di materiale tematico inedito bensì un profondo spirito analitico su quanto già espresso nell’esposizione, una sorta di riflessione e dialettica sulle tesi esposte in precedenza (altro aspetto tipicamente tedesco). Meno interessante è la Sonate Facile op. 16 in Do maggiore e in tre movimenti (del 1807), il cui primo tempo vede una forma-sonata molto semplificata, chiara, asciutta e leggibile nella sua struttura e quindi concepita con chiari scopi didattici. La Sonate progressive op. 17 in Sol maggiore – come la precedente dell’op. 16 articolata in tre movimenti e del 1807 – è invece assai particolare e proprio per la singolare struttura del suo primo tempo, decisamente degna di nota. Intanto va subito evidenziata la sua estensione (222 battute) che, esempio unico nella produzione sonatistica di Matiegka, sorpassa nella lunghezza anche il terzo movimento. Inoltre si tratta di un caso assai raro nel panorama del primo Ottocento (e non solo nell’ambito chitarristico) di una forma-sonata talmente dilatata e strutturata da presentare al suo interno addirittura cambi di metro e di tempo, con tanto di didascalia e indicazioni agogiche.18 L’esposizione, di ben 102 bb., inizia con un Cantabile in 4/4 di 34 bb. che corrisponde al primo gruppo tematico; il secondo tema alla 18. Solo a tardo Ottocento e quindi con la dilatazione ipertrofica della forma-sonata – una sorta di bulimia strutturale – si possono assistere a esempi del genere. 49 le grandi sonate precedenti (anche se la sesta in Si minore presenta aspetti interessanti, in particolare nello stile contrappuntistico che, tra l’altro, ricorda molto lo Studio Op. 51 n. 7 di Giuliani). L’autore, con ogni evidenza, non era in grado di coniugare brevità e concisione con icasticità e felicità inventiva. Riguardo all’aspetto formale, va sottolineato come in tre di queste sonate (la seconda, la terza e la quarta) nel primo tempo la struttura sia bipartita, con tanto di segno di ritornello non solo dopo l’esposizione – come di consueto – ma anche alla fine del brano dopo la ripresa. Questo, tuttavia, era allora molto frequente e non deve stupire perché in realtà a quel tempo la forma-sonata era ancora concepita e vissuta dai contemporanei come bipartita (esempi se ne trovano anche nelle opere giovanili di Mozart). Solo più tardi, come già detto a Ottocento inoltrato, le è stato attribuito un senso tripartito. La logica prevalente dell’epoca era quella del percorso armonico, che nella prima parte andava dalla Tonica alla Dominante e nella seconda, con una sezione di transizione (che poi è stata identificata come sviluppo), dalla Dominante tornava alla Tonica.19 Matiegka e Molitor sono figure tipiche del pensiero musicale austro-tedesco e di fondamentale importanza per la creazione e lo sviluppo del sonatismo viennese nella chitarra. Condividono l’impianto strutturalistico generale, con i temi che emergono più dalla concezione armonica che dall’inventiva melodica e nei quali il secondo gruppo tematico è più dilatato ma è sostanzialmente estraneo al carattere brillante e virtuosistico dello stile italiano. Lo sviluppo per entrambi è molto tradizionale e saldamente innervato nella mentalità austro-tedesca, senza alcuna concessione a materiale tematico inedito ma, al contrario, con lo svisceramento analitico di quanto espresso nell’esposizione. Ambedue, per la formazione musicale colta e permeata nella pratica della coralità e della musica sacra, sono attratti dal contrappunto e dalla polifonia, mantenendo uno stile improntato al rigore, all’antico e all’austerità, derivante anche dall’intensa attività didattica e di ricerca. E, non a caso viste tutte queste caratteristiche, ancora per entrambi è sempre in agguato il rischio di scivolare nella prolissità e nella ripetitività, pur facendo salve tutte le eccellenti qualità intellettuali di cui sopra. (continua) 19. La struttura della sonata bipartita, che privilegia la struttura armonica su quella tematica, fu meticolosamente descritta e analizzata alla fine del XVIII secolo da Francesco Galeazzi (Torino, 1758 - Roma, 1819), teorico della musica, violinista e compositore nonché autore dell’importante trattato Elementi teorici-pratici di musica, 2 voll., Roma, 1791-1796, Pilucchi Cracas e Puccinelli. La concezione sonatistica dei teorici musicali fra la fine del XVIII e dell’inizio del XIX secolo era diversa da quella attuale (cioè la forma-sonata tradizionalmente intesa) che appunto si creò solamente a Ottocento avanzato. Ecco infatti come ce la descrive la studiosa Bathia Churgin in un suo articolo del 1968: siderandole come caratteristiche basilari della struttura. I teorici avevano poco interesse riguardo al numero e al carattere dei temi. Così, secondo l’usuale descrizione Classica, un movimento nella forma-sonata è bipartito, non tripartito, dal momento che è l’impianto tonale, non la sequenza tematica, a provvedere a un primario livello di organizzazione. Le due parti principali del movimento contengono ognuna due sezioni che sono totalmente contrastanti. Nella prima parte, la prima sezione è alla tonica e la seconda alla dominante se la tonica è maggiore, o al relativo maggiore se la tonica è minore. Nella seconda parte, la terza sezione è modulante e la quarta sezione stabilisce ancora una volta la tonalità della tonica. (BATHIA CHURGIN, Francesco Galeazzi’s Description (1796) of Sonata Form, JAMS, 1968, XXI/2, p. 181. […] I teorici della fine del XVIII secolo posero l’accento sulla divisione bipartita e sull’impianto tonale, con50 idee a confronto Caro Fronimo, La lettura del numero scorso ha stimolato la mia curiosità su alcune questioni. Sull’uso del quinto dito (il mignolo!): condivido in pieno le argomentazioni di Colin Cooper, anche quando scrive che abbiamo “quattro dita e un pollice”; comunque, mantenendo le indicazioni p, i, m, a, dovremmo inventare qualcosa per il mignolo, parola che – ahinoi! – ha la stessa iniziale del medio. Ma vediamo, prima, se davvero vale la pena di usarlo, questo ditino. Anche il mio maestro, Bruno Tonazzi, alla fine degli anni Sessanta mi aveva detto di averci provato, rimanendo poi fedele alla tecnica tradizionale, e, all’epoca, segoviana: quattro dita e basta. In effetti, la chitarra ha sei corde, le dita sono cinque; quindi comunque amplieremmo le possibilità in maniera imperfetta. Potrebbe però l’uso del mignolo evitare che quest’ultimo si muova insieme all’anulare? E questo riflesso meccanico nuoce realmente all’agilità delle altre dita? Credo che una risposta attendibile potrebbe darcela, più che uno studio teorico di fisiologia, l’utilizzo pratico del mignolo per l’esecuzione e non solo per lo studio. Ancora una volta, tornano buone le considerazioni di Colin Cooper: “La storia ci dimostra che una tecnica strumentale si sviluppa per soddisfare le esigenze dei compositori, non il contrario”. Perciò, in attesa di musiche che richiedano effettivamente cinque dita, si potrebbe provare a sviluppare la novità tecnica proponendola ai bambini, non come cavie, ma come collaboratori. Un corpo che cresce sviluppa abilità che un adulto non ricercherà (quasi) mai di propria iniziativa. Insomma, magari le parti si invertiranno: bambini che insegnano agli adulti. Qualche docente se la sente, lui o lei sì, di fare da cavia? E veniamo all’altra mano. Il pollice sinistro non si usa più, diversamente da quanto fanno i chitarristi elettrici. Anche qui, secondo me val più la pratica (dimensioni del manico, necessità esecutive ed espressive) della grammatica (meglio il pollice o un barrè obliquo? Piegare il polso fa male?). Non dimentichiamo che la tecnica è un mezzo, non un fine, e anche in questo senso è “strumentale”. Sperando che altri amanti della chitarra contribuiscano con le loro idee ed esperienze, cordiali saluti Riccardo Cechet (Trieste) TECNICA E STUDIO Prendo spunto dall’intervento di Giuliano D’Aiuto che discute l’approccio tecnico di Bungarten. Come anche ha sottolineato Angelo Gilardino in un articolo sul Fronimo, vi sono varie tecniche, alcune fisiche, altre mentali: combinate tra loro, permettono di trasformare e realizzare un pensiero musicale attraverso l’uso di uno strumento adeguato. Parlando ora di “tecnica” mi riferisco a quella fisica/manuale, alla meccanica di un movimento che permette di trasformare un segno scritto in un suono attraverso la chitarra. Quando una volta interrogai il mio primo Maestro su come tenere le mani sullo strumento, egli tirò fuori un certo numero di fotografie: Ecco Ida Presti le tiene così; Segovia così; Manuel Diaz Cano in questo modo; ognuno fa un po’ 51 quello che vuole. Come ho già raccontato sul Fronimo, fu Ruggero Chiesa a spingermi a frequentare un corso di Abel Carlevaro, a quel tempo conosciuto come il “chitarrista più tecnico del mondo”. Da lui, in due settimane di corso a sette ore al giorno, ho imparato alcune nozioni fondamentali, dalle quali discende la cosiddetta “tecnica”, la meccanica che permette alle mani di muoversi sugli impulsi del cervello. Ho imparato, pertanto, che noi abbiamo una fisiologia articolare che funziona in un certo modo e che è sostanzialmente identica per tutte le persone (anche se nei cosiddetti fuoriclasse le articolazioni o la muscolatura possono essere iperfunzionali); che lo strumento che suoniamo ha una propria fisiologia; che la tecnica per suonare è data dall’incontro, dal rispetto e dall’adattamento della fisiologia dello strumento alla nostra e non viceversa. Carlevaro, oltretutto, aveva una visione globale della fisiologia dell’intero corpo e curava la postura della seduta, del portamento del busto, delle braccia e delle spalle partendo da una considerazione importante: dimostrava come la chitarra possa sostenersi da sola sulle gambe dell’esecutore, senza nessun intervento muscolare e senza fare sforzi prima ancora di cominciare a suonare. Concordo con D’Aiuto: lo studio della tecnica passa attraverso queste conoscenze fondamentali. Motivo per cui mi sono studiato alcuni manuali di fisiologia articolare usati in medicina, ho discusso con medici e fisioterapisti e con molto interesse ho sempre letto chi tratta di tecnica come Angelo Gilardino, Mauro Storti o in campo liutistico Pat O’Brien. Ritengo importante che un insegnante pratichi la “tecnica” con l’allievo; diffido di quegli insegnanti, anche e proprio quelli delle masterclass, che snobbano la tecnica privilegiando solo musica o che parlano ma non praticano. Concordo ancora perfettamente con D’Aiuto sul discorso musicalità e tecnica. Mentre esiste una fisiologia indiscutibile, non c’è una tecnica assoluta ma è l’obiettivo musicale che indirizza la nostra attività manuale a compiere certi movimenti per assecondarlo. Penso al liuto che esige una tecnica della mano destra completamente differente da quella chitarristica per esprimere le potenzialità della musica rinascimentale o barocca restando funzionale alla necessità di soddisfare le esigenze stilistiche ed estetiche dell’epoca e dello strumento preso in considerazione (liuto rinascimentale, liuto barocco francese, vihuela ecc.). In campo chitarristico, penso allo straordinario Duo Maccari/Pugliese che nell’ottica della ricerca filologica ha sviluppato una nuova “tecnica globale” (la postura in piedi con la tracolla, le unghie presenti ma corte, le scale pollice-indice secondo necessità, l’adattamento fisico completo agli strumenti originali, tanto per citare qualche aspetto). Per esprimere al meglio la propria sensibilità artistica, il Duo ha decisamente abbandonato il concetto segoviano di “chitarra classica” verso un concetto di chitarra che esprime una potenzialità musicale sollecitata in una certa direzione, quella storica ottocentesca. Capisco infine le perplessità sul discorso di Bungarten “immaginiamo la musica e la tecnica segue”. È un discorso esatto ma da insegnante professionista, non certo da allievo. Immaginare la musica (quella del Novecento, dell’Ottocento o di un certo autore) e la sua esecuzione è già un lavoro culturale avanzatissimo che richiede conoscenze di storia, armonia, composizione e quant’altro. Non c’è contraddizione quindi se si devono eseguire molti esercizi per entrare nel discorso di Bungarten. Ringrazio per l’ospitalità e l’attenzione. Giorgio Ferraris (Milano) Errata corrige: il direttore d’orchestra giapponese intervistato da Aldo Vianello sul numero scorso (n. 152, ottobre 2010, pp. 11-14) si chiama Akira Yanagisawa e non Yaganisawa come è apparso erroneamente nell’articolo. Chiediamo scusa per la svista. 52 53