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Silvia Lorenzi
SVELARE
LAVOCE
Confessioni di un vocal coach
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Se tutto ciò che ho scritto in questo libro fosse detto a voce,
avrebbe molto più significato.
La voce è il risultato del pensiero di quel preciso momento.
Prima di tutto, se tra le vostre letture manca Jane Austen, senza indugio vi invito
a chiudere subito questo mio e a tuffarvi in un suo romanzo. Per chi già conoscesse
i suoi scritti, allora mi auguro possa trovare qui un’eco, un declinare proprio
sulla “voce” la sua grande sapienza degli affetti e della personalità umana,
alla ricerca di quell’equilibrio perfetto che proprio Austen ci dimostra esistere.
Perché in ogni voce convivono una Elinor e una Marianne.
Se tutti gli esseri umani leggessero Jane Austen, il mondo sarebbe migliore.
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Ogni espressione vocale artistica porta con sé due elementi che,
parafrasando Jane Austin, potremmo identificare, come ha ben fatto
Silvia Lorenzi in questo testo, come sentimento e ragione.
Da un lato si trovano le capacità istintuali di un artista, l’attitudine
interpretativa, il suo modo di saper fare arte, le sue abilità agogiche,
la disposizione all’improvvisazione, le sue dinamiche di ritmo,
intensità e frequenza, il suo essere dentro la melodia e dentro il brano:
quelli che in linguistica chiamiamo tratti sovrasegmentali, cioè
l’intenzione comunicativa trasmessa al di là di ciò che non è detto
esplicitamente dal testo musicale scritto (non tanto ciò che si dice
o si canta ma come lo si dice e lo si canta). È quel fattore che ti fa
cominciare spesso come autodidatta, proprio perché ti viene
riconosciuto che “hai qualcosa da dire”. Dentro la valenza emotiva
istintuale, che fa dell’artista un comunicatore di emozioni, riposano
le abilità interpretative, magiche, la metafisica del canto, il talento
(così può anche succedere a volte che il grande artista abbia studiato
poco tecnica vocale o non sappia insegnarla con consapevolezza);
attitudine gestita a volte con un atto di eroismo, perché al pubblico
piace immedesimarsi nella sofferenza dell’artista come in quella
dell’atleta che col suo corpo sublima le possibilità motorie; ciò che
impari sul palco.
Dall’altro lato, invece, stanno gli aspetti del codice, la capacità
esecutiva legata a modelli di apprendimento di aspetti puramente
tecnici, che permettono di superare i momenti di difficoltà o trovare
soluzioni a problemi esecutivi, la capacità dunque di fare, essere in
grado di eseguire ciò che la scrittura richiede dentro quel codice e
quello stile, averlo appreso in modo efficace ed economico, gli aspetti
testuali e linguistici, il cosa si dice. Tutti questi elementi rappresentano
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ciò che ti insegna il tuo maestro di canto. In questo volume ci sono
considerazioni sulla voce e sul suo modo di “farla” che nascono
dal lavoro personale svolto da un’esperta maestra, Silvia Lorenzi,
con numerosi cantanti e allievi. Lei stessa, in primis, soprano educata
al canto classico e a modalità di emissione vocale ortodossa correlate
al belcanto, si è curiosamente interessata ad altre espressioni stilistiche
e ha studiato la voce in tutte le sue potenzialità espressive, perché i suoi
allievi crescano con la consapevolezza di quel che fanno con il loro
apparato fonatorio. Il termine di vocal coach definisce la professione di un trainer
della voce, ossia un allenatore, addestratore ed educatore delle funzioni
vocali artistiche che si avvale di strategie atte a indurre nel cantante
cambiamenti funzionali sia al raggiungimento dei propri obiettivi
sia alla definizione di una certa autoefficacia che si traduce
nel tempo in successo professionale. È quindi una specialista
dell’empowerment, il processo attraverso il quale le persone
acquisiscono controllo sulla propria voce e sulla propria performance
e quindi efficacia nel rendimento della prestazione artistica. Lavorando
sul piano tecnico e contemporaneamente su quello mentale, si può
agire sul cantante nello stesso modo in cui si farebbe con un atleta.
Il vocal coach si occupa dunque della promozione dell’autonomia
del cantante aiutandolo a trovare risposte e soluzioni alle
problematiche contingenti, creando un percorso a termine
di crescita costruito a partire da una situazione specifica del cantante,
costituita dall’esistenza di un problema contingente, un disagio,
una incapacità, senza snaturare le qualità primigenie del singolo artista,
ma comprendendole, esaltandole, fornendo strumenti
per gestirle tecnicamente al meglio.
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Il vocal coach è in fondo un facilitatore dell’emergere del sé come
artista. In Italia lo studio della tecnica vocale è stato soggetto, negli
ultimi quindici anni, a una crescita esponenziale, poiché è aumentato
l’interesse per lo studio delle tecniche degli stili moderni come il pop,
il jazz, il rap e, in genere, tutti gli stili più commerciali. Rimane escluso
il canto lirico che, da sempre, ha bisogno di studio per ovvie ragioni.
Forse una causa di ciò è nel recente successo mediatico dei talent show
che però, in realtà, hanno massificato lo spirito educativo portando
gli allievi televisivi e il pubblico dei talent a svilire la personalità
in cambio della ricerca di un prodotto canoro standard, emulativo
e di mercato. Speriamo che le scuole di canto e i metodi che ricevono
oggi, forse grazie proprio ai talent, sempre maggiore attenzione,
si preoccupino di cercare sempre più nei loro allievi il dono naturale,
perfezionandolo, rendendolo cosciente in una pratica salutare,
consapevole e fisiologicamente sana, e facendo sì che la sfera artistica
sia il meno possibile contaminata dal copiare qualcun altro, e che
nel gusto di chi ascolta vi sia un filtro appreso che insegni a distinguere
un urlo da un suono eufonico, per godere emozioni più intense
e raffinate. Nel volume è riassunta la consapevolezza di tutto questo,
come anche degli aspetti inconsci del risultato vocale, delle qualità
dei timbri che la voce usa per esprimersi e interpretare, della possibilità
di deroga da emissioni eufoniche a scopo espressivo, dell’importanza
del ritmo e dei doverosi aspetti tecnici sulle posture, respirazione e uso
dei registri.
Per far sì che la voce sia.
Franco Fussi
Medico foniatra
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La voce è una forma di energia, che si realizza attraverso principi fisici
messi in atto da un pensiero.
A sua volta ogni pensiero può essere considerato una forma di energia
dotata di natura psichica che affonda le proprie radici nel percorso
evolutivo e filosofico dell’uomo, come elemento non avulso dall’intero
cosmo.
Non partirò da così lontano, ma queste poche parole servano per poter
comprendere cosa per me può significare una voce e chi la produce
e compone.
Sì, la voce è un insieme di infiniti elementi, fisici e mentali,
in buona parte a noi tramandati.
Quello che invece noi possiamo fare è aggiungere l’elemento
“necessario”, costituito dalle nostre scelte e dalle nostre capacità
di far diventare questa forma di comunicazione una vera opera d’arte,
che affonda le proprie radici nell’intera conoscenza.
Bruno Santori
Direttore d’orchestra
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Sommario
12 Introduzione
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Per cominciare
La voce è nutrimento
La voce è viva
Cosa si intende
per tecnica vocale
Tra tecnica vocale
e inconscio
Il canto come attività
atletica
21
21
22
25
25
28
32
1. La voce come via
per l’inconscio
La voce non mente
La verità del timbro
Voce e parola
Avere o essere la voce
Il ritmo nella voce
Sessualità e femminilità
nella voce
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2. L’incontro di voce,
poesia e inconscio
La nota blu
La nota blu e la poesia
La sublimazione come
atto creativo d’arte
La purezza della voce
Affinità tra voce, poesia
e inconscio
45
45
48
50
54
3. Testimonianze
sulla voce
Caterina Scotti racconta
la sua voce
La voce per Silvia
Infascelli
Esperienze nella voce
di Franco Mussida
Composizione e voce
per Stefano Gervasoni
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62
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78
82
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95
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4. Tra tecnica e filosofia
della voce
Dalla postura al respiro
Il mistero della respirazione
I parametri del suono
vocale
Vocali e consonanti
Approfondimenti
sul timbro
I registri della voce
Conoscere e curare la voce
Breve eserciziario
117 7. I talent show
1 01
101
102
103
5. Dal lirico al pop
Linguaggio lirico
Linguaggio belting
Linguaggio pop
137 Ultimo pensiero
1 07
107
109
110
111
115
6. Come nasce
un cantante
Dalla ninnananna al rock
L’imprinting della ninnananna
La mia storia
Quando una canzone
diventa un successo
La coppia cantantepubblico
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1 24 8. Per un’eccellenza
delle emozioni
124 Ansia e paura
127 Preparazione mentale
129 Consapevolezza
emozionale
131 Automotivazione
132Rinvio delle gratificazioni
132 Stato di flusso
134 Conclusioni
138 Bibliografia
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Introduzione
Questo scritto è il risultato della mia personale esperienza nel mondo
del canto, è la mia posizione sull’uso della voce, è la conseguenza spontanea del mio essere innanzitutto una cantante (un soprano!), del mio
naturale manifestarmi attraverso la voce; voce intesa come ciò che mi
appartiene profondamente e mi rappresenta più di ogni altra mia
espressione.
Esplorerò questo argomento da più punti di vista perseguendo un
obiettivo essenziale e irrinunciabile per chiunque desideri esprimersi
attraverso la propria voce, cioè capire la voce.
Vi sono vari canali di approccio allo studio della voce, che sono spesso
appannaggio di diversi specialisti, con percorsi formativi anche molto
distanti. In commercio esistono numerosi testi che si occupano del
canto e della voce, di più o meno facile accesso, indirizzati al mondo
specialistico logopedico o foniatrico, a quello del cantante, dell’attore
o dell’oratore, ma anche della psicoanalisi e territori limitrofi. Tutti
questi specialisti hanno qualcosa di importante da riferire sulla voce,
ognuno attingendo al proprio peculiare sapere: il foniatra piuttosto che
il cantante, l’analista o il critico musicale, o ancora l’ingegnere del
suono. Si tratta spesso di letture appassionanti, che io stessa frequento
con entusiasmo. Il mio progetto nasce dal desiderio di accostare e integrare i diversi territori di indagine sulla voce, presentandoli al lettore
con la leggerezza adatta a un pubblico eterogeneo. Intendo fornire la
possibilità di attingere a un ampio panorama che avvicini le diverse
figure che agiscono più o meno direttamente sulla voce, facilitando la
reciproca comprensione e dotando il lettore della possibilità di orientarsi all’interno dei diversi vocabolari e metodi di lavoro. Mio desiderio,
in sostanza è trovare un ponte tra la parola scientifica, di chi vanta una
tale formazione, e la comunicazione per immagini e metafore caratte12
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corpo
inconscio
tecnica
scienza
Indagini
sulla voce
emozione
poesia
linguaggio
interpretazione
fig. 1
ristica di chi ha una esperienza prettamente artistica. È dotare il sapere scientifico della forza dell’immagine, è legare la scienza all’arte, la
parola alla proiezione visionaria, in un circolo virtuoso di rinforzo di
significati contenuti (fig. 1).
Dedico questo libro a chiunque trovi interessante e attraente il mondo
della voce, dilettante o professionista, cantante o insegnante, operatore sanitario o semplice amante della voce, per condurlo alla scoperta
del proprio strumento, per aiutarlo a entrare in confidenza con la
propria voce: comprenderla, possederla, saperla ascoltare e gestire in
ogni momento.
Spero possa essere una piacevole digressione nel mondo della voce,
non un manuale tradizionale, ma piuttosto uno strumento che possa
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essere di aiuto e stimolo alla soggettività di ogni voce. Non fornirò
“formule magiche”, ma mi permetterò di suggerire una filosofia di
approccio, un invito alla ricerca, avvicinando il più possibile il lettore
alla natura del proprio strumento, nel rispetto delle peculiari vocalità
di ognuno, e del personale percorso.
La voce sarà affrontata in relazione al corpo, alla psiche e alla parola
nelle sue diverse dimensioni: razionale, emotiva, istintiva, interpretativa e semantica. Inoltre, essendo la voce conseguenza di un insieme di
manifestazioni psico-fisiche, capire la voce vuol dire capire, arricchire
e rinforzare le consapevolezze dell’intera persona. Conoscere la propria
voce è conoscere se stessi, e tutto ciò che ne deriva. Lavorare sulla voce
ha effetto terapeutico su tutta la persona.
In ogni caso non basterà leggere questo libro per imparare a cantare,
l’arte del canto è qualcosa che ha assoluto bisogno della pratica costante, del confronto con uno o più maestri e con più cantanti possibili.
Questo testo vuole essere un mezzo per rendere consapevole e virtuoso il percorso scelto e per creare un terreno il più fertile possibile alle
esperienze di aula.
Mi auguro di cuore che questa lettura sia per voi entusiasmante e arricchente, così come spesso è capitato a me di provare affrontando quei
testi che oggi fanno parte della bibliografia di questo libro.
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Per cominciare
La voce è nutrimento
La leggenda narra che Federico II (1194-1250) imperatore del Sacro
Romano Impero (1220-1250), conosciuto con gli appellativi stupor
mundi (“meraviglia del mondo”) o puer Apuliae (“fanciullo di Puglia”),
appartenente alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen, dotato di
personalità poliedrica e affascinante, innovatore di tecnologie e cultura,
unificatore di terre e popoli, letterato e protettore di artisti e studiosi,
mosso dal desiderio di trovare il linguaggio originale (cioè la lingua
non acquisita ma già posseduta alla nascita e poi persa nell’impatto col
mondo e il suo linguaggio), fece isolare acusticamente alcuni neonati.
Le balie che li avevano in cura erano incaricate di non parlare né con
i neonati né tra di loro. L’esito fu drammatico: tutti i piccoli morirono!
La voce è viva
Cantare è intonare una melodia, emettere suoni armoniosi, modulare
suoni secondo le regole della musica, ma vuol anche dire celebrare,
elevare, attestare, dichiarare, narrare, magnificare, esaltare, incensare,
onorare, poetare, proclamare. È chiaro che l’atto del canto coinvolge
altri aspetti oltre a quelli puramente tecnici e meccanici (fisiologici),
cioè coinvolge anche i territori della semantica (significati) e delle
emozioni (sentimenti).
Se è vero che c’è partecipazione emotiva in ogni forma di musica strumentale, a maggior ragione ciò avviene se lo strumento è la voce. Essendo uno strumento vivo, esso si plasma e adatta attorno a un corpo
flessibile e suscettibile. Pure, la voce non può “suonare” senza l’integrazione della parte emotiva del cantante stesso. Il cantante, nell’atto
del cantare, esprime di sé anche un suo peculiare stato emotivo: in
parte indipendente dall’atto musicale (preesistente) e in parte conse15
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guenza dell’atto stesso e sviluppato su di un contenuto semantico, che
in quel momento riconosce e fa proprio (testo intonato).
Cantare vuol dunque dire presentarsi per intero, proporsi all’esterno
usando un canale di comunicazione, quello della voce, che è la manifestazione di corpo e psiche.
Ogni cantante è il proprio strumento. Si tratta di uno strumento
complesso e delicato. Ogni volta che il cantante si avvicina al canto
si pone in un atteggiamento psico-fisico specifico. Precisamente si
concentra sulla sua capacità di suonare. Alla voce manca quell’evidenza propria di strumenti esterni, chiaramente percepibile sensorialmente, statici e prevedibili (tutti gli strumenti eccetto la voce!).
Lo strumento voce è in gran misura nascosto, è in perpetuo mutamento e soprattutto è in buona parte agito inconsciamente. Il cantante non ha da guardare una tastiera per orientarsi, ma per lui è assolutamente indispensabile uno sguardo interno, sottile, una capacità
propriocettiva (relativa alla coscienza e al controllo dello stato del
corpo, in relazione allo spazio esterno e ai rapporti tra i segmenti
scheletrici) ed endocettiva (relativa alla percezione e alla coscienza
degli stati interni) particolarmente raffinata. Su queste sensibilità si
basa l’abilità e l’arte del cantante: sulla capacità di “guardarsi dentro”,
di ritrovare sempre lo strumento interno, in qualsiasi condizione
psicofisica e ambientale, e di saperlo riconoscere e gestire attraverso
una consapevolezza specifica acquisita con impegno e costanza (schema corporeo vocale).
Il lavoro sull’ascolto interno è tanto più efficace quanto più coinvolge
l’intera persona (corpo e psiche in continua relazione). L’ascolto interno,
a sua volta, deve essere in stretta connessione con l’emissione: percezione
ed emissione devono essere tra loro in equilibrio dinamico, in un costante
scambio di contenuti e informazioni. L’emissione è efficace quando
contemporaneamente è attiva la percezione: in ogni azione vocale
artistica, percezione ed emissione devono riguadagnare quell’equilibrio
potenzialmente perfetto in natura e alterato nell’uomo condizionato
da un ambiente civilizzato (ma anche arricchito culturalmente!).
Cosa si intende per tecnica vocale
La voce è uno strumento potentissimo e assolutamente complesso, e la
sua tecnica altro non è che il supporto necessario alla valorizzazione
del potenziale vocale. Non dovrebbe rappresentare una gabbia che
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limita e circoscrive, ma una condizione evoluta dello strumento voce.
Una buona tecnica non deve necessariamente togliere spontaneità e
naturalezza alla voce. Una tecnica sana permette di ampliare le possibilità dello strumento e di lavorare in un equilibrio di efficienza ed
efficacia, cioè minimo sforzo con massimo risultato.
La fonte del suono vocale è la laringe, organo che nasce con funzione
sfinterica e solo secondariamente diviene strumento di linguaggio. Solo
all’interno di un lungo percorso evolutivo si colloca lo sviluppo del
canto, che acquista lentamente funzione aggiuntiva, un’ulteriore opportunità di comunicazione. La laringe non ha come primo scopo il
canto, il canto è segno e sintomo di un’evoluzione, biologica, culturale e sociale che non a caso si manifesta diversamente a seconda delle
coordinate temporali, geografiche e culturali nelle quali si esprime.
Non esiste un’unica tecnica vocale, ma esiste un potenziale comune a
tutte le voci umane. La tecnica vocale è un sapere condizionato da riferimenti temporali, culturali e geografici, ma sviluppato su un potenziale comune a ogni essere umano.
Padroneggiare “una tecnica” vocale vuol dire semplicemente conoscere il proprio strumento, saperlo rispettare nelle specifiche qualità
di base (limiti compresi) e saperlo muovere nell’ambito o negli ambiti prescelti per gusto, stile e temperamento. Ciò non dovrebbe
precludere al cantante lirico, quando lo voglia, l’opportunità di cantare con voce naturale, come pure a un cantante di musica leggera, studiare e affrontare il canto classico, senza per questo destrutturare e
perdere le peculiarità timbriche della vocalità leggera. Un’abilità non
necessariamente deve escluderne un’altra. Accadrà poi naturalmente,
nel percorso di un artista, di trovarsi di fronte a una scelta che sarà
tanto più efficace quanto più consapevolmente orientata verso l’ambiente musicale che meglio esprime la sua sensibilità musicale e la sua
morfologia. Sono altresì convinta che la sperimentazione vocale sia un
atteggiamento positivo e che, appunto in virtù di un sapere vocale più
vasto, sia in grado di “illuminare” il repertorio scelto elettivamente.
Avere una padronanza della “tecnica vocale” vuol dire saper fare il più
possibile, il più correttamente possibile e il più semplicemente possibile con la propria voce. Non vi è sostanziale differenza tra quella che
genericamente si definisce una voce impostata liricamente e una voce
da musica leggera. Lo strumento di partenza è lo stesso, anche se vi è
certo una evidente diversità timbrica e di volumi, dovuta alle diverse
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esigenze: il lirico deve amplificare naturalmente il suono, il leggero si
avvale dell’ausilio del microfono. Al lirico è stato insegnato uno stile,
al quale deve assolutamente aderire, al leggero si chiede una spiccata
caratterizzazione vocale. Per quanto riguarda i fondamenti della tecnica vocale, non esiste sostanziale differenza tra i due ambiti: la meccanica cordale, la respirazione e la posizione del suono sottendono
alle stesse leggi fisiologiche. Sarà poi l’obiettivo scelto a condizionare
il percorso tecnico, sempre nel rispetto dell’organo vocale.
Esistono poi altre culture che usano la voce diversamente da come
avviene in Occidente, culture lontane che spesso non ci è dato di conoscere direttamente, ma che in qualche modo sono state “importate”,
e che vale sempre la pena, per quanto possibile, di esplorare. Il confronto con altre vocalità è sempre e in ogni caso arricchente e stimolante. Nella mia esperienza, l’incontro con altre vocalità ha “illuminato” aree del mio strumento che altrimenti non avrei potuto conoscere,
permettendo una sorta di “rinascita” della voce, pur rimanendo all’interno della cultura musicale di appartenenza.
Tra tecnica vocale e inconscio
Come narra un’antica sentenza di origine asiatica: “Meriterà il nome
di uomo, e potrà contare su ciò che è stato preparato per lui, solo colui
che avrà saputo acquisire i dati necessari per conservare indenni sia il
lupo sia l’agnello che gli sono stati affidati”.
Non si può dimenticare che l’uomo per essere tale dovrebbe, attraverso le proprie risorse intellettuali e spirituali, tenere in sé in equilibrio
di convivenza sia il lupo (l’istinto) sia l’agnello (il sentimento). Trovo
particolarmente pertinente questo detto se declinato sulla voce. Se,
come mia profonda convinzione, nella voce è sedimentato tutto ciò che
costituisce l’individuo, essa meriterà il nome di voce e potrà avere il
privilegio di saper dire ed essere ascoltata.
Questo è il grande obiettivo di una buona tecnica: non alterare la
parte istintiva e primitiva della voce (il lupo) e arricchirla con la parte evoluta rappresentata dal sentimento e dalla capacità di controllo
(l’agnello).
Lo sviluppo di una tecnica vocale potenzialmente conduce a una crescita vocale, ma può anche essere il limite stesso della vocalità. Tecnica
può voler dire circoscrivere e limitare le proprie capacità espressive o
autocensurare le proprie esperienze vocali e costringere al silenzio
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parte dell’inconscio e dell’istinto. Ritengo fondamentale lasciare la voce
libera di esprimersi anche “secondo natura” e non solo “secondo tecnica”, collocandola in una posizione di consonanza condivisa tra corpo
e psiche. In quest’ottica, frequentare diversi generi musicali diventa
l’opportunità di indagare nel proprio inconscio, muovendosi in aree
evolute e culturalmente elevate ma anche primitive e più spiccatamente ludiche. Se sul confronto e la disciplina è basato l’approccio all’educazione vocale, non bisogna circoscriversi all’atto imitativo e disciplinato nei confronti del maestro, ma cercare di ascoltare, dare voce, e
magari anche “imitare”, nel senso di procedere per tentativi sempre
più efficaci, il proprio inconscio, inteso come il recipiente delle personali autenticità latenti. L’inconscio potrebbe essere per ognuno un
importante maestro.
La voce, come ologramma della persona, proietta l’interezza dell’uomo, rappresentata dalla dicotomia tra pulsione e sentimento, tra
istinto e ragione, sublimando la materia del corpo e riproponendola
come corpo senza massa.
Il canto come attività atletica
Oltre all’apertura ai diversi aspetti della natura e della tecnica vocale,
un atteggiamento che io auspico nel “cantante ideale” è quello dell’approccio atletico. Non intendo con questo esigere corpi atletici, ma un
atteggiamento mentale e una disposizione alla cura del corpo, alla
pianificazione dello studio/allenamento e a un sano agonismo.
Va sottolineato che si canta con tutto il corpo. Le corde vocali sono la
fonte della vibrazione, ma è tutta la complessità dell’essere che viene
messa in gioco nell’atto fonatorio. Uno stato di benessere fisico avrà
un indubbio riscontro in una voce “sana”. Anche il riscaldamento
della voce (buona cosa da mettere in atto quotidianamente prima di
affrontare il repertorio) dovrebbe essere preceduto da un riscaldamento fisico, dolce (si veda il capitolo 4). Durante la fase di riscaldamento
sono consigliabili anche discipline posturali come il metodo Feldenkrais1. Molto diffusa tra gli artisti è anche la tecnica Alexander, una
rieducazione volta alla riduzione delle tensioni psicofisiche e al contenimento dello spreco di energia2. Anche un’attività come lo yoga o il
power yoga3 (meno meditativo e più dinamico rispetto al primo) può
essere una più che valida opportunità. Lo yoga ha il grande vantaggio
di essere molto efficace sia per lo sviluppo di qualità come l’equilibrio
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sia per una buona e armoniosa tonicità muscolare, favorendo la respirazione diaframmatica, la riattivazione circolatoria, e stimolando altresì la percezione del proprio corpo e la capacità di concentrazione.
Moshé Feldenkrais, fisico e ingegnere
nato in Ucraina e naturalizzato britannico,
ideò questo metodo attorno agli anni cinquanta, in seguito a una lesione riportata
a un ginocchio. Il metodo è basato essenzialmente sulla presa di coscienza del
proprio movimento e dei propri schemi
motori ed è articolato in sequenze di semplici movimenti che coinvolgono ogni
parte del corpo, dall’ascolto delle sensazioni che gli stessi inducono allo sviluppo
di nuovi modi di muoversi e percepirsi.
Si tratta di un metodo per l’apprendimento e l’autoeducazione attraverso il movimento, che si prefigge di indurre a conoscere e utilizzare pienamente le nostre
risorse. Lo scopo non è applicare una
ginnastica, ma fornire strumenti di automiglioramento, al fine di arricchire la
qualità della propria vita. È adatto a ogni
soggetto e a ogni età, è insegnato in due
modalità parallele: lezioni di gruppo o
individuali. Oggi il metodo è diffuso in
tutto il mondo. Dalle illuminanti parole
di Moshé Feldenkrais: “Io credo che l’uni1
tà di mente e corpo sia una realtà oggettiva. Non si tratta solo di parti collegate
in qualche modo tra di loro, ma di un
tutto che è indivisibile durante il suo funzionamento. Un cervello senza corpo non
potrebbe pensare…”. È semplice intuire
l’efficacia di una tale disciplina sul corpo
e sulla psiche di un cantante.
2
Alexander era un brillante attore australiano, ma con un problema: durante le
recite soffriva di abbassamenti di voce.
Per questa ragione lasciò il teatro e non
trovando aiuto nella medicina, provò a
osservare, con l’ausilio di una serie di
specchi, il suo lavoro sul palcoscenico per
trarne i dovuti insegnamenti. Ci vollero
dieci anni per elaborare la sua tecnica di
rieducazione di mente-corpo, alla cui
diffusione dedicò il resto della sua esistenza.
3
Il power yoga è uno yoga dinamico, che
privilegia l’aspetto fisico rispetto a quello
meditativo, e che si sviluppa mettendo in
atto una serie di coreografie con l’ausilio
dei movimenti tipici dello yoga.
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1. La voce come via per l’inconscio
La voce non mente
“La voce, come il corpo, non mente”1 dice Laura Pigozzi, enunciando
così una verità profonda. Essa rappresenta il supporto necessario e indispensabile del linguaggio, fatto di articolazione di suoni, con lo scopo
specifico di rendere possibile la comunicazione tra persone che condividono lo stesso codice. La voce è il vettore vivo del linguaggio e rappresenta una componente assolutamente personale. È la variabile che
rende diverso e unico l’approccio con un codice linguistico standardizzato e che, insieme al linguaggio non verbale, fornisce all’ascoltatore un
grande numero di informazioni, più o meno esplicite, assolutamente
specifiche e non trascurabili. La voce ha infatti la capacità di andare
oltre il linguaggio, di esprimere anche ciò che forse non sappiamo né
desideriamo far trasparire. È la “dimensione” che ci rappresenta interamente, sempre, anche quando non è nelle nostre consapevoli intenzioni (come per lo sguardo). La voce anticipa e “tradisce” la nostra
volontà: non può ignorare l’inconscio, anzi, ne è appunto l’espressione,
il mezzo per emergere dal “luogo” più profondo e misterioso.
Mi piace pensare che la voce, come somma e risultato della forma fisica
e psichica, rappresenta una sorta di “altro corpo”, un corpo sublimato,
un ologramma, e la parola – e ancora di più la parola nel canto –, ne sia
il “gesto”. Spesso si parla del “corpo della voce”, proprio nel tentativo
di descriverla da un punto di vista più fisico, cercando suggestioni
concrete e tangibili che la descrivano. Ma in realtà essa è quanto di più
difficile da “spiegare”; può certo essere rappresentata attraverso uno
spettrogramma, ma la sua effettiva capacità espressiva non può che
essere descritta dal suo impatto con l’orecchio. La voce – come la musica – è quindi un “linguaggio” intraducibile e universale, una realtà
complessa e articolata impossibile da tradurre semanticamente.
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Nel canto il gesto sonoro della voce, cioè il suono in movimento, acquista particolare importanza proprio in virtù del fatto che il vettore è vivo.
Il gesto della voce non si avvale di nessuno strumento esterno, di nessuna mediazione con oggetti inerti (come l’arco per il violino, la tastiera per il pianoforte). Nella voce artistica il gesto sonoro non viene alterato o “contaminato” da un mezzo esterno, ma mantiene la sua purezza
e la sua verità. Questa caratteristica di purezza intrinseca, arricchisce di
nuovi significati l’oggetto stesso, cioè la voce. Essa infatti mette interamente a nudo, e questo è il motivo che la rende più suscettibile di
fluttuazioni emotive rispetto agli altri strumenti.
La verità del timbro
Parlare di voce, vuol dire prendere in seria considerazione il suo parametro per eccellenza: il timbro.
Il timbro è un parametro “sensibile”: all’interno di un discorso, una
stessa voce continua a mutare di timbro attraverso l’articolazione delle vocali e delle consonanti e in generale a seconda dell’atteggiamento
del tratto vocale; il timbro è quindi un parametro complesso, così come
lo strumento che lo determina.
Nella comunicazione attraverso un codice, il timbro si sovrappone al
linguaggio, amplificandone il contenuto. Ma il timbro è meno plasmabile e influenzabile rispetto al linguaggio, e può accadere che si trovi
in conflitto con esso. È il tono della voce a tradire una bugia! La comunicazione sarà tanto più efficace e lineare quanto più in grado di
rispettare e non tradire la propria voce, il proprio timbro. In altre
parole, il timbro può “tradire” un particolare stato d’animo che non
viene espresso attraverso la parola. Vi è uno stretto parallelismo tra la
verità del corpo e quella della voce, entrambi posseggono e condividono un’intrinseca incapacità di mentire. Come fa il corpo quando non
trova “voce” per esprimere le proprie sofferenze, anche la voce, considerata come corpo sublimato, “somatizza”. Particolari tensioni emotive possono somatizzare in una voce rendendola instabile, o pressata,
o altro, o addirittura possono far perdere la voce.
Si parla spesso di “voce timbrata”, volendo esprimere connotati di
bellezza e valore, ma è sempre molto difficile parlare del timbro e
cercare di definirlo. L’Associazione Americana di Normalizzazione
definisce il timbro come segue: “L’attributo della sensazione uditiva
che permette all’ascoltatore di differenziare due suoni della stessa al22
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tezza e della stessa intensità, presentati in maniera simile”, cioè definendo il timbro per sottrazione agli altri parametri, citando quello che
in realtà non è. Da notare che altezze, durate e intensità possono essere discrezionate, cioè sono ordinabili come grandezze scalari, lungo
un’unica dimensione (possono essere ridotte a un valore numerico); il
timbro invece è multidimensionale, non può essere espresso da un
numero.
Quando il compositore compone per voce, il suo interesse cadrà in
maniera importante anche sulla scelta delle caratteristiche timbriche
vocali desiderate. Mentre altezza e ritmo sono parametri prevedibili, il
timbro non lo è. Il timbro di una voce sarà determinante sul risultato
della composizione, avrà un suo impatto e tutto questo proprio in
virtù della sua coincidenza con un “corpo vivo”.
Il timbro, in definitiva, ci rappresenta proprio nella nostra complessità e poliedricità: è l’articolata proiezione dello strumento che lo
produce. Esso ci rappresenta senza volerci per questo “spiegare”. È
chiaramente quel parametro che contraddistingue in maniera inequivocabile ogni voce, che la rende riconoscibile e unica. Il timbro è infatti un marcatore ancora più accurato e specifico rispetto alle impronte digitali. Il timbro è il risultato di un corpo e di una mente, ma anche
di un percorso storico personale. Nel timbro è sedimentato tutto il
vissuto, tutto ciò che abbiamo ascoltato e che abbiamo assorbito: ci
sono le nostre paure e le nostre forze, le sconfitte e le gioie, l’eco degli
spazi aperti e il rimbombo delle stanze chiuse. Il timbro è una memoria vivente; è il risultato della stratificazione e della “metabolizzazione”
del personale vissuto. Col trascorrere del tempo il timbro si plasma sul
corpo e sulle esperienze, muta con essi e ne viene condizionato. Esso
si sa esprimere ancora prima della parola e soprattutto è il parametro
che rende vivo il linguaggio, che lo “umanizza”, che è manifestazione
di energia vitale. Il timbro della voce è il corpo tradotto in energia
priva di massa.
Particolarmente affascinante è la disciplina dell’improvvisazione vocale quando coinvolge il timbro come parametro dominante e come
guida per lo sviluppo improvvisativo: la voce viene messa nella condizione di liberare il corpo attraverso di sé, di fare un percorso storicoevolutivo rovesciato, non cercando più solamente un suono tecnicamente corretto o, per così dire, “evoluto”, ma, con andamento involutivo, ricercando suoni “primitivi” o che si accostino ai suoni della na23
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tura o ancora che si destrutturino nel tentativo di essere altri strumenti (improvvisare usando la voce percussivamente e “sentendosi tamburo”). Improvvisare vuol dire poter usare “tutto” della voce e farlo attraverso l’unione di corpo e psiche. Improvvisare è cercare di far
emergere tutto il possibile dal nostro inconscio attraverso un corpo
messo a disposizione, nudo e senza menzogne, e soprattutto senza
darsi il tempo di riflettere, ma agendo rapidamente, con consapevolezza istintiva.
Pigozzi definisce la voce strutturata nella parola come il nodo di tre
registri.
Voce + parola = tre registri:
1. la parola, che rappresenta l’ordine simbolico dello scambio
sociale, la regola riconoscibile;
2. l’intonazione, originata da un corpo risonante, che esprime la
dimensione del reale, la portata fisica e naturale della voce;
3. la prosodia, il livello immaginario, quello della creatività e
dell’invenzione, la posizione nello spazio libero, il gesto.
Se si trasferisce questa organizzazione all’ambito parametrico musicale vocale ne consegue che si identifichi la parola/simbolico con il ritmo,
il suono/reale con la melodia e la prosodia/immaginario con il timbro.
Registro
parola
intonazione
prosodia
Livello
simbolico
reale
immaginario
Parametro
ritmo
melodia
timbro
Nella musica vocale, e non solo, può avvenire che uno dei tre parametri (ritmo, timbro, melodia) prevalga sugli altri. Una composizione può
avere il suo focus sulla ricchezza ritmica piuttosto che sulle sfumature
timbriche o sulla costruzione melodica. Questa “dominanza” di un
parametro sugli altri può essere enfatizzata in maniera ancora più evidente nell’arte dell’improvvisazione. Nelle formazioni dal duo in su, i
vari parametri del suono possono essere isolati e sviluppati secondo
loro natura. I diversi parametri possono essere “distribuiti” tra i musicisti, i quali, assoggettati a una sorta di deontologia che prevede di
non invadere il campo occupato dall’altro, ne sviluppano e ampliano
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i contenuti. È vero anche che ogni parametro si trascina dietro, per
inerzia, caratteristiche degli altri, non essendo per loro natura completamente separabili, e che appariranno in secondo piano come contenitori necessari. Così anche il timbro della voce con il suo bagaglio di
reale e di qualità sonora, non può esistere senza una componente, per
quanto latente, di parola/simbolico/ritmo e di prosodia/immaginario/
melodia. In ogni caso una voce non potrà mai esprimere in un unico
gesto la sua natura poliedrica, ma avrà sempre una parte di sommerso,
un ambito latente, pronto a emergere, non sempre consapevolmente,
e, come per l’inconscio, destinato a sorprendere.
Voce e parola
“La parola, nel suo ruolo di scambio sociale…, ne rappresenta l’ordine
simbolico”2. La parola testimonia la nascita del gruppo sociale, essa è
tramite e mezzo per il legame sociale. La parola per la sua capacità di
ordinare e articolare è rappresentazione del sociale. Dove c’è parola
c’è sociale.
Ogni linguaggio porta con sé un’imperfezione, un’incapacità di garantire un’efficace comunicazione, che inevitabilmente limita la condivisione. Il “limite” sta nella parola stessa: il limite della parola è la causa
dell’incapacità di una reale comprensione tra popoli e quindi è la causa della diaspora finale.
Così la parola/gesto/sociale risulta intrinsecamente imperfetta.
La voce, su questa parola imperfetta, è l’ingrediente che ne smussa
le rigidità e ne attenua l’imperfezione. È l’elemento inalienabile per
l’uomo sociale, è la memoria musicale della lingua universale, è la sua
eredità.
Tutto ciò presuppone però una capacità di ascolto non comune, un’attenzione al suono che permetta una più profonda decodifica.
Non è un caso se durante le sedute di analisi, l’analista è molto attento
a cogliere le sfumature di voce del paziente. Improvvisi scatti o interruzioni, sbalzi tonali ecc., sono il segno di una voce che tenta di “superare” il linguaggio. Anche un transfert3 è spesso evidenziato da un
cambiamento della voce.
Avere o essere la voce
Altro aspetto da considerare è la differenza tra avere ed essere la voce,
ricordando ancora Freud sul tema dell’avere ed essere relativo al seno
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della madre. Se nell’identificazione del bambino con il seno della madre si evidenzia una posizione arcaica, il trauma che lo vede come
soggetto separato è la base per un progressivo e sano allontanamento
da lei e per la conseguente costruzione di una personale individualità
e consapevolezza di sé. Anche per la voce il ragionamento può essere
simile: io non sono la voce ma io ho la voce, nel senso che la voce mi
rappresenta ma io non desidero inseguirla. La voce è la proiezione che
si stacca da me, e io non mi limito e circoscrivo nel mio prodotto vocale del momento, non rincorro la mia voce, cioè non regredisco nel
rincorrerla né la tengo attaccata a me. La voce è destinata a staccarsi
dalla fonte per andare verso l’altro, acquisendo così il carattere di oggetto pulsionale, che si “perde”. La pulsione insegue l’oggetto (la voce)
senza mai catturarlo veramente. Il momento in cui la voce si palesa,
coincide con l’istante della sua perdita. La voce ci sfugge in continuazione e soprattutto sfugge al nostro controllo. È nell’accettazione del
distacco che la voce prende vita, è nella capacità di rispettarla senza
forzarla che può crescere. Così come il “bambino dei sogni” è solo una
proiezione del desiderio di una mamma in attesa che non coinciderà
con il bambino reale, anche la voce è una realtà che può discostarsi dai
desideri personali.
Vero è che il cantante rischia di identificarsi con la propria voce quando sarebbe più corretto sentirsi rappresentato da essa. In realtà la voce
parla di noi, porta con sé un significato che ci appartiene, ma che non
sempre è facile accettare e comprendere fino in fondo, un po’ come
quando non riconosciamo la nostra voce al telefono. Accade anche di
ascoltare la propria voce registrata e di non esserne soddisfatti o peggio
ancora di non percepirla come personale. Questo in parte è dovuto alla
differenza tra un ascolto del proprio suono di tipo interno, per trasmissione prevalentemente ossea, e un ascolto esterno, cioè di suono che
trova il suo ingresso a livello timpanico dopo aver viaggiato in uno
spazio ed essere stato in parte trasformato dallo stesso. Tale differenza
non può giustificare totalmente l’incapacità di riconoscere il proprio
suono. Un ascolto consapevole della propria voce deve passare anche
dall’ambiente esterno. Nel percorso di crescita vocale è indispensabile
un autoascolto critico e imparziale, anche con l’ausilio di registratori,
al fine di rendersi veramente conto di ciò che arriva all’altro. Un atto
di umiltà e di riconoscimento, per evitare di immaginare una voce
“migliore” di quanto sia realmente.
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Guardandosi allo specchio il reale tridimensionale viene ridotto a
immagine bidimensionale, nell’ascolto della propria voce invece si
passa da un unico suono prodotto a due dimensioni di ascolto: cioè
sentiamo la nostra voce due volte (ascolto interno + ascolto esterno),
mentre chi ci ascolta sente una volta sola.
Nell’atto del canto si è impregnati del proprio suono, si è inebriati,
quasi ubriacati e si può perdere obiettività di valutazione. L’equilibrio
tra corpo e voce sarà tanto migliore quanto più si ritroveranno somiglianze e assonanze tra le parti, pur rimanendo tra di loro identificabili separatamente.
Il lavoro di un cantante è volto indubbiamente ad acquisire capacità
tecniche che abbiano come scopo principale l’educazione della voce,
rendendola flessibile e duttile, ricca di armonici, ben proiettata e con
la giusta energia. Ma questo processo di crescita vocale non va mai
percorso allontanandosi dalla propria natura, sia fisica sia emotiva. La
tentazione di cercare caratteristiche che non appartengono alla nostra
voce è sempre in agguato; per questo un ascolto più profondo di tutto
il nostro corpo dovrebbe aiutare a riconoscere e trovare le personali,
specifiche e uniche peculiarità vocali. Il suono, pur staccandosi dal
corpo, deve mantenere coerenza e somiglianza con la fonte e la deve
saper correttamente rappresentare per poter essere realmente efficace.
La voce ha dunque un suo confine, è portatrice di un limite, intrinsecamente presente nel nostro patrimonio genetico e ulteriormente
definito dall’impatto ambientale e culturale.
Ogni limite rappresenta anche un punto di forza e un valore. Esso
umanizza e, nello specifico, il limite è l’elemento che meglio ci rappresenta, che rende “descrittiva” la voce stessa.
Essa “disegna” il soggetto che la produce, crea un’immagine psicofisica nella mente dell’ascoltatore. Ad esempio, per le voci alla radio,
all’ascolto si sovrappone una sommaria visione interiore: l’ascoltatore
“vede” il radiofonico. La voce porta con sé delle forme che rispondono alle suggestioni che timbro e prosodia provocano nell’immaginario.
Evidente è anche la rievocazione, ad esempio attraverso l’ascolto della
voce al telefono, di volti già conosciuti. Questo “rispecchiamento” tra
corpo e voce costituisce una risorsa in termini di capacità di equilibrio
psicofisico.
Un’interessante testimonianza è quella di Françoise E. Goddard quando afferma: “[…] ogni volta che ho risolto un problema del mio suono,
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qualcosa si è messo a posto nella mia vita; e, viceversa, ogni volta che
vedevo un miglioramento nel mio modo di cantare, un problema si era
risolto nella mia vita”4. Nella mia esperienza di cantante spesso mi sono
stupita di ritrovare nella mia voce non semplici somiglianze con il mio
modo di essere, ma chiare spiegazioni. La mia voce sottolinea ed evidenzia il mio approccio all’esistenza. Trovo il gesto della mia voce assolutamente consonante con i miei gesti quotidiani e con i miei pensieri. Se la mia voce suona in un certo modo è perché io sono quel
modo di suonare. Le caratteristiche e i punti di forza della mia vocalità sono tali proprio perché mi appartengono profondamente. Come
mi riconosco in un certo tipo di poetica della vita così la stessa si imprime sul mio suono.
Mi è spesso capitato di incontrare colleghi cantanti e di osservarli in
semplici gesti del corpo (scostare i capelli dal viso, stringere una mano,
afferrare un oggetto). Mi sono spesso stupita di notare in quei gesti la
stessa “posa” evidenziata nella loro voce, e soprattutto ho compreso
alcune differenze tra la mia e la loro vocalità proprio osservando azioni e comportamenti al di fuori dell’atto musicale.
Ma la voce non è solo timbro, in essa altri parametri si sovrappongono
e contribuiscono alla rappresentazione del soggetto. Il ritmo della voce/
parola, ad esempio, è un aspetto altrettanto complesso e personale.
Il ritmo nella voce
Un noto motto platonico enuncia: “Il ritmo è ordine del movimento”.
Ogni voce ha un ritmo strutturato sull’alternarsi di vocali e consonanti, dove le prime rappresentano il suono e le seconde il limite o la misura delle prime. Ogni voce ha una sua personale prosodia ritmica,
risultato dell’articolazione tra vocali e consonanti. Come ricorda Pigozzi, le consonanti, data la loro caratteristica di porre un confine alle
vocali, possono rappresentare l’ordine simbolico, il sociale, e vengono
associate alla figura del padre, colui che rappresenta la “legge”; di
conseguenza le vocali possono essere lo spazio del canto, arginato
dallo scandire consonantico, luogo artistico privilegiato, associato alla
figura della madre. A tale proposito va ricordato il ruolo fondamentale del “linguaggio” materno nei primi mesi di vita, quando la madre si
rivolge al figlio usando un “codice assurdo”, fatto di grande prosodia,
cioè ricco di picchi tonali con grande alternanza di suoni acuti e gravi,
usando un’associazione di sillabe non senso e di vezzeggiativi di fanta28
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sia, un linguaggio che è stato definito mammanese, una sorta di dialetto materno (il lalangue di Lacan). Si tratta di una condizione privilegiata di comunicazione tra madre e figlio, con un ritmo assolutamente
libero che lascia molto spazio al vocalico. La prosodia del mammanese
sarebbe il presupposto allo sviluppo del linguaggio, la prima marcatura, responsabile della nascita di quel simbolico che è la condizione per
lo sviluppo del futuro linguaggio. Una mamma molto prosodica aiuterà il figlio nelle sue prime risposte vocaliche disarticolate, creando la
condizione necessaria per lo sviluppo di un’intrinseca sensibilità musicale. Accade inoltre che i suoni emessi siano la naturale conseguenza
di ciò si è ascoltato; è infatti più facile essere prosodici nella lingua
madre piuttosto che in lingue successivamente padroneggiate. Tale
fenomeno potrebbe essere favorito dal fatto che la lingua madre è
stata introdotta proprio attraverso la sua prosodia.
Vi sono poi lingue affascinanti come le lingue tonali, nelle quali il
senso della parola cambia in relazione al tono di pronuncia. La distribuzione geografica delle lingue tonali ha la sua massima presenza in
territorio subsahariano, Cina e Indocina. In Europa solo lo scandinavo
e il norvegese hanno caratteristiche tonali. In italiano il tono non incide sul senso della parole, anche se l’intonazione della frase fornisce
ulteriori informazioni e arricchisce di significati. Un’intonazione di tipo
ascendente ha senso interrogativo (?), una piana assertivo (.) e una
discendente indica comando (!). Oltre a questi tre principali movimenti, la lingua italiana si esprime in infinite sfumature d’intonazione con
senso musicale ed emotivo.
Il 2 aprile 2013 uno studio del Baycrest Health Sciences’ Rotman Research Institute di Toronto, coordinato da Gavin Bidelman e pubblicato sulla rivista “Plos One”5, ha affermato che chi parla lingue tonali
ha più facilità nei processi di apprendimento della musica, in sostanza
ha un orecchio migliore e il cervello è meglio preparato ad ascoltare la
musica. In questo modo anche le neuroscienze affermano che musica
e linguaggio non solo condividono alcune strutture cerebrali, ma fra
di esse vi sarebbero opportunità di benefici bidirezionali. Non solo
l’ascolto della musica può migliorare l’accesso al linguaggio (già ampiamente dimostrato) ma le abilità linguistiche inciderebbero sull’apprendimento musicale. Ciò non vuol dire che questi siano i presupposti per essere musicisti migliori, il talento musicale ha origini e motivazioni ben più complesse e inspiegabili. Il valore aggiunto dello studio
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in realtà può esser offerto dallo sviluppo di nuove opportunità riabilitative attraverso training musicale in soggetti con deficit di linguaggio.
Nell’opera può accadere che il cantante enunci un testo decisamente
in contrasto con lo stato d’animo del personaggio che interpreta, mentre lo stesso messaggio emotivo passa nella scrittura musicale, cioè
l’emozione autentica del personaggio non sta nelle sue parole ma nel
movimento musicale che lo supporta, nella “prosodia” della musica.
In questo caso, il “tono della voce” è espresso attraverso il movimento
della musica, la quale diventa il mezzo per far arrivare l’autentico messaggio emozionale, cioè ha il compito di far emergere il vero, di non
mentire, di essere come il timbro: disarmante dichiarazione di verità.
Ritornando al tema del ritmo della voce, va ricordato che il linguaggio
è costituito da un flusso propriamente narrativo, ove il ritmo è libero
e personale, in un certo senso, creativo e poietico. Nella musica codificata è invece inserito con grande evidenza il modulo della ripetitività,
articolato dal metro; intendendo per metro un “di cui” del ritmo, una
conseguenza, la sua parte implicita, che organizza i singoli intervalli di
tempo (espressi dai valori musicali) all’interno di un “modello” reiterato (ad esempio 2/4, 3/8 ecc.), senza rinunciare alla presenza di accenti, più o meno in relazione coincidente tra ritmo e metro6.
Se la scrittura musicale da un lato pone un limite alla libera fluidità
propria del linguaggio parlato, dall’altro ne permette un’organizzazione formale. Anche in questo caso l’obiettivo del cantante è volgere i
limiti a suo vantaggio, affrontando l’imposizione di ritmo e metro, come
virtuosa coercizione che favorisca lo sviluppo direzionale e una vocalità lineare e proiettata all’altro, all’esterno. Il limite del singolo valore
musicale e della battuta diventa così un’opportunità per evitare l’eccesso d’interiorizzazione, la regressione nel proprio ritmo, nei privati
confini biologici e culturali, favorendo un “linguaggio” verso l’altro
piuttosto che una forma di auto gratificazione, per altro assolutamente
non disprezzabile. Diventa l’opportunità di creare movimenti ritmici
per così dire, meno personali ma sicuramente “più condivisibili”.
Il metro prima ancora che parametro della musica codificata, è esperienza
precoce e spontanea, come il battito cardiaco. Tale esperienza permette
una sincronizzazione senso-motoria, cioè una consapevolezza di coincidenza tra ritmo percepito e ritmo prodotto. Ad esempio, il semplice gesto ripetitivo di cullare il bambino, come pure le ninnenanne in mammanese,
spontaneamente si organizzano su di un semplice metro o pulsazione.
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La personale prosodia ritmica è quindi (come per il timbro) il risultato di un vissuto: è la stratificazione del suono del battito cardiaco
della madre durante la gestazione, della prosodia materna e paterna,
con le loro caratteristiche e i loro ruoli specifici. Già nelle prime lallazioni ed ecolalie comincia a manifestarsi questa esperienza. Si tratta di
un patrimonio che non andrà perso. Da adulto, ognuno avrà consolidato una propria personale prosodia derivata, da patrimonio genetico,
ambiente ed esperienze sensoriali oltre che emotive.
C’è chi afferma che in forme artistiche legate alle discipline del jazz
come lo scat7, può essere recuperata più o meno consapevolmente
l’esperienza della lallazione.
Nell’improvvisazione il parametro ritmico si sviluppa secondo suggestioni che pescano nel passato storico sia collettivo sia soggettivo.
In particolare il ritmo viene distinto da tre differenti modi di articolazione:
1.il ritmo narrativo, cioè organizzato come un libero discorso;
2.il ritmo legato alla danza, ove la pulsazione domina come un
bordone cardiaco;
3.il ritmo metrico, cioè legato alla reiterazione di un modello
sottointeso, con organizzazione ordinata, regolare,
e soprattutto ciclica.
Così come la prosodia è caratteristica soggettiva, in ambiti come quello dell’improvvisazione, cioè capaci di pescare nell’inconscio, si rendono evidenti caratteristiche personali relative anche alla gestione del
ritmo, che finiscono con l’evidenziare tratti di somiglianza tra voce,
corpo e psiche. Nella mia piccola esperienza improvvisativa ho scoperto affinità con una organizzazione ritmica piuttosto che con un’altra,
come pure con particolari aree melodiche, armoniche e timbriche, come
a dimostrare che il mio essere è frutto di un impatto sociale e culturale ma anche bagaglio “biologico” personale e specifico.
Anche il ritmo della voce è, insieme al timbro, rappresentativo della
verità che è il soggetto fonte. Ogni gesto del corpo porta con sé un
“ritmo”, la parola e il canto non sono che gesti musicali, e come il
movimento del corpo parla di sé, così fa ed esprime il movimento
della parola.
Anche la lettura di uno spartito già ritmicamente definito non può
sottrarsi alle caratteristiche ritmiche personali del soggetto lettore:
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esiste sempre un margine che permette di far emergere le peculiarità
ritmiche dell’interprete. Il gesto vocale all’interno della scrittura musicale imposta potrà essere più o meno morbido, piuttosto che aspro
o spigoloso, virile o suadente, aggressivo o remissivo…
Sessualità e femminilità nella voce
Il godimento e di conseguenza la sessualità dell’essere umano evade
dal puramente “naturale”. L’uomo, essendo dotato d’intelligenza e
d’inconscio, vive il sessuale superando la barriera dell’istinto. L’uomo
a differenza dell’animale è dotato di linguaggio, l’uomo per amare deve
parlare, deve usare linguaggio, voce e prosodia.
Durante l’emissione vocale e soprattutto durante il canto tutto l’organismo viene coinvolto: non è pensabile cantare senza usare l’interezza
fisica e psichica. Il respiro ne è il presupposto, è l’invito al canto, è
l’atto preparatorio dovuto, che già contiene tutta l’enfasi del canto. È
il movimento dilatatorio che accoglie aria ma, nello stesso tempo, prepara lo spazio del suono. Durante l’emissione vocale artistica accade
che il suono viene accolto virtualmente nello spazio preparato dal respiro, procede riempiendo i vari risuonatori naturali, producendo effetti di consonanza e risonanza (si veda il capitolo 4) e in definitiva
facendo “suonare” tutto il corpo. Questa straordinaria capacità di
essere contemporaneamente sia fonte viva e plastica della vibrazione
sia cavità e corpo risonante, si traduce indubbiamente in un atto che
porta in sé la capacità del “godimento”.
Ciò che genera piacere è:
• produrre il suono,
• essere mezzo di propagazione della vibrazione,
• essere la cavità, lo spazio, il contenitore risonante.
Più è efficace il canto, maggiore è il godimento. La percezione del
piacere legata all’emissione è tanto più evidente quanto maggiori sono
le capacità di evitare azioni costrittive e di autocensura. Consapevolezze tecniche e abilità nello sfruttare i risuonatori sono altri fattori che
incidono favorevolmente sul piacere del canto. Più si è in grado di
“vibrare” col proprio suono e più vi è piacere. Importante a questo
punto è constatare che si tratta di un godimento con un carattere specifico femminile, cioè è un godimento “altro”, non di natura fallica. È
la capacità femminile di “accogliere” per godere, nel senso di farsi
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“culla”, di trovare uno spazio amando il suono, amando la risposta del
corpo messo in risonanza. È la capacità tutta femminile di trovare
spazi occulti, cavità virtuali e di renderle reali e vive. La donna ha, da
questo punto di vista, una specificità in più: è per natura più portata
all’ascolto delle sensazioni propriocettive ed endocettive, probabilmente perché a differenza dell’uomo, il suo apparato sessuale è più nascosto, segreto, non mostrato evidentemente all’esterno. Questo porta la
donna a sviluppare una capacità di osservazione sensibilmente rivolta
alle sensazioni interne. Il suono ha bisogno di dirigersi in spazi del
corpo non visibili dal nostro occhio, ma intuibili per atto introspettivo.
Il suono, per essere giustamente collocato e sviluppato, deve sapersi
orientare in tali spazi. Ecco perché la consapevolezza delle proprie
cavità rappresenta un vantaggio per il cantante.
Nel repertorio operistico compaiono spesso figure femminili con ruoli
di strega o di maga: prima fra tutte Medea, ma anche Norma, Azucena,
Anna, Alcina e via dicendo… Tutte queste eroine hanno in comune la
capacità di scrutare nel non visibile, di andare oltre sacrificando anche
la propria immagine agli occhi altrui e la loro capacità di fascinazione
risiede proprio in queste abilità. Il cantare è di fatto un gesto un po’ da
“strega”. Si tratta di un “talento” indispensabile per un buon cantante.
Un cantante sarà tanto più abile a sviluppare tecnica e suono quanto
più sarà in grado di ascoltare le risposte del proprio corpo, soprattutto
interne e nascoste. Non a caso è più facile che l’esperienza del canto
lirico sia affrontata da una donna. Spesso per l’uomo si parla di una
“tecnica più complessa”, anche se sarebbe più corretto parlare di un
più complesso rapporto con le sensazioni endocettive.
Certamente questo non emargina il mondo maschile dal canto, ma è
pur vero che spesso si avvicinano al canto uomini con caratteristiche
di sensibilità femminile.
Fin dall’infanzia tra maschio e femmina sono evidenti atteggiamenti
diversi, ad esempio nel disegno le bambine privilegiano disegni costruiti più concentricamente, mentre nei maschietti è più frequente trovare forme centrifughe. La preferenza del maschio è verso giochi che
prevedono il lancio, mentre nelle bambine è verso giochi che cercano
il “segreto”, con borse, nascondigli ecc.
Demetrio Stratos ha detto: “Riconosco di avere in me, e di coltivarla,
una forte componente femminile. La esprimo soprattutto attraverso il
suono originale, cioè la voce”8.
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La laringe è un organo sessuale secondario, responsabile del cambio
di voce nell’adolescente e normalmente in grado di discriminare tra i
due sessi (solitamente il registro dell’uomo è più basso di circa un’ottava rispetto a quello femminile).
Un uomo normalmente si trova più a suo agio controllando ciò che può
vedere piuttosto che ciò che è nascosto. Per il mondo maschile risulta
più immediato gestire la propria voce con forza muscolare, ovvero con
un’energia più facile da riconoscere e controllare rispetto allo sforzo di
un ascolto propriocettivo, di riconoscimento e accoglienza di un “suono altro” all’interno della propria voce. In alcuni uomini, per esempio,
può essere più difficoltoso affrontare il “passaggio” della voce, quasi
rappresentasse un tabù, un uscire da confini puramente maschili, un
rendere più “femminile” la propria voce. Il legame tra voce e sessualità
è quindi evidente sia a livello psicologico che fisiologico.
In un’intervista, una nota cantante lirica alla domanda: “Dove appoggia il suono?”, rispose: “Non si può dire!”.
La sessualità non è una componente sconosciuta alla voce. La libido è
la fonte principale di energia psichica (secondo Françoise Dolto9 la
libido è la parte inconscia del sessuale). Il canto per manifestarsi ha
bisogno di un grosso investimento in termini di energia psichica, da
ciò è ipotizzabile la liaison con l’aspetto del piacere. In particolare, il
canto può essere il risultato artistico della sublimazione dell’energia
sessuale. La voce trasporta in sé un godimento sublimato. Essendo la
fonte sonora il corpo stesso, la sublimazione che ne deriva ha un’impronta fisica così spiccata da rendere proprio la voce lo strumento per
eccellenza deputato al piacere.
Nella sensazione di godimento propria del canto lirico vi è anche un
altro fattore. Normalmente cantare vuol dire evadere dal registro del
parlato, porsi a un altro livello. Si tratta di un’abilità da sviluppare e
solo in rari casi innata ed efficace. In sostanza si passa da un livello
concreto e terreno a un secondo livello, per così dire, “superiore”, che
guadagna una certa spiritualità. Cantare vuol dire porsi al di sopra del
quotidiano, sia in termini di efficacia sonora sia di intensità di suono
sia di bellezza. L’azione del canto è un po’ come la continua conquista
di nuove vette, cariche di spiritualità, guadagnate con fatica e determinazione. La conquista è sempre godimento. Anche se poi segue la discesa, la vetta rimane nell’esperienza dello scalatore alimentandone il
piacere a ogni evocazione. L’abilità del cantante è un’abilità non co34
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mune che non tutti sanno o possono sviluppare efficacemente: il cantante è una sorta di “super eroe”, un soggetto con abilità artistiche e
atletiche. Il cantante di fatto supera l’atleta perché non comunica solo
emozioni ma col proprio corpo produce arte e nobilita l’ascoltatore.
Infine cantando ci si fa belli, ci si pavoneggia, e di questo indubbiamente si gode!
L. Pigozzi, A nuda voce. Vocalità, inconscio, sessualità, Antigone, Torino 2008.
2
Ibid.
3
Transfert, o traslazione, è un meccanismo
per il quale ogni individuo tende a spostare schemi di sentimenti e pensieri relativi a una relazione significante su una
persona coinvolta in una relazione interpersonale attuale.
4
F.E. Goddard, L’anima nella voce, Urra,
Milano 2006.
5
“Plos one”: rivista internazionale pubblicata dalla PLoS, organizzazione noprofit di scienziati e medici il cui scopo è
rendere la letteratura medica e scientifica
pubblicamente accessibile, utilizzando il
concetto di peer review.
6
Il parallelo tra prosodia della parola e
ritmo in musica trova le sue origini nell’antichità classica, quando l’organizzazione
delle durate applicato a poesia e musica
era la stessa, cioè basata sulla quantità
delle durate, in un susseguirsi di sillabe
1
lunghe e brevi; alla fine del XII secolo le
sillabe persero la netta differenziazione
quantitativa e la musica s’identificò con il
mensuralismo; nel XVII secolo il ritmo
venne distribuito nella battuta.
7
Lo scat è una forma di canto, quasi sempre improvvisato, appartenente alla cultura musicale del jazz, che non prevede
l’uso di parole compiute, bensì di fonemi
privi di senso dal suono accattivante, che
il cantante utilizza in chiave ritmica oltre
che melodica. Se ne attribuisce la paternità, o quanto meno la diffusione, a Louis Armstrong, verso la metà degli anni
venti.
8
J. El Haouli, Demetrio Stratos, alla ricerca della voce-musica, Auditorium, Milano
1999, p. 33.
9
Françoise Dolto (Parigi, 1908-1988),
medico e psicoanalista francese, allieva di
Jacques Lacan, si dedicò soprattutto ai
problemi dell’infanzia, e alla “sensibilità
linguistica” dell’infante.
35
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2. L’incontro di voce, poesia e inconscio
La nota blu
Nel jazz e nel blues una blue note può essere rappresentata dal III
grado della scala maggiore (ma anche dal V o dal VII) abbassato di un
semitono e suonato o cantato in maniera leggermente calante. L’associazione con il colore blu vuole richiamare un senso di nostalgia e tristezza tipico della musica afroamericana che utilizzava scale non temperate (in particolare la scala pentafonica) che diedero poi origine alla
scala blues. Queste note, utilizzate tipicamente in una cornice armonica di accordi maggiori, presentandosi però abbassate di un semitono,
come riferendosi a un modello minore, creano quell’atmosfera di indefinitezza tonale caratteristica del blues. In particolare, il secondo
suono della scala blues, quando viene suonato calante, è una blue note.
Ad esempio, scala blues di Do:
Do, Mib (blue note), Fa, Fa#, Sol, Sib
Per estensione anche altre note quando vengono suonate calanti vengono definite blue note. Le tecniche dei musicisti per eseguire, sfruttare ed enfatizzare le blue note sono le più varie: i cantanti spesso utilizzano un piccolo portamento giocando tra tale nota e quella “temperata”, lo stesso fanno i trombonisti con il glissando. I chitarristi usano la
tecnica del bending (stirando le corde col polpastrello), mentre i pianisti a volte suonano entrambi i semitoni vicini.
Ma la nota blu si riferisce anche a stati emozionali creati da una musica di per sé lontana dal repertorio jazz e blues.
La nota blu – come la definì Delacroix ascoltando suonare Chopin nel
salotto di George Sand – è la capacità che ha un suono, adeguatamente
preparato dal discorso musicale, di indurre un senso di riconoscimento,
di significato ritrovato, che però torna subito a sfuggire. Questa nota
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attesa, preparata da una successione di suoni che ne alimentano l’aspettativa, porta con sé una “rivelazione”: lo schiudersi della nota blu.
Questo suono parla a chi l’ascolta rivelando un sapere che esisteva già
ma che era latente. È la voce dell’altro che arriva a noi con inusitata
chiarezza, che si rivolge direttamente all’intuito, che non è esprimibile
attraverso il linguaggio della prosa, ma che viene veicolata dal suono e
dal timbro fino a raggiungere un’acutissima zona di sensibilità, nascosta, occulta, che penetra l’inconscio proprio perché scaturita dall’inconscio dell’artista.
La nota blu, con il suo carico di significati e suggestioni, se applicata
alla voce e in particolare al canto, è una nota, o un suono, o un gruppo
di suoni che si sa esprimere meglio degli altri, che ha una capacità comunicativa amplificata. Questa nota può esistere riferita a un contesto,
cioè inserita all’interno di un discorso musicale, contenendo in se stessa il “messaggio emotivo” dell’intera frase musicale cui appartiene.
Ma la nota blu è anche quel suono che più di ogni altro ci appartiene,
anche privata di qualsiasi contesto. È quel suono che è in grado di far
vibrare il proprio strumento con un’efficacia e una conseguente gratificazione straordinaria. La voce/strumento accoglie la sua nota blu di
risonanza entrando in sintonia con essa in un atteggiamento “indicibile”, nel senso che il linguaggio musicale è intraducibile e tutti i tentativi di descrivere il suono portano in sé una insuperabile incapacità
comunicativa.
Anche nel godimento del corpo si potrebbe parlare di nota blu come
di quella verità desiderata, preparata, vissuta e subito persa: la verità
del piacere come una nota blu del corpo. La natura così intensa e
inafferrabile della nota blu non può che indurre a successive ricerche
attraverso nuove esperienze musicali o di vita. È in quest’ottica una
sorta di mistero affascinante, che attrae, che non si svela mai fino in
fondo, che assomiglia all’animo femminile nel senso di portatore di
spazi insondabili.
La nota blu e la poesia
Come ha sottolineato Freud, nel poetico e nell’inconscio – e nella
musica aggiungo io – si annida quello che “non si sa di sapere”, quello
che sfugge all’Io. Si tratta di un sapere che per sua natura è subito
sfuggito, che non può essere trattenuto, perché non riducibile a una
sequenza logica di significati, ma piuttosto che è portatore di un retro
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significato, stratificato e tridimensionale. Il valore intrinseco del poetico e del timbro, indescrivibile e polimorfo, si potrebbe avvicinare al
carattere della nota blu: un valore preesistente di un sapere nascosto,
preparato, liberato, intuito e subito sfuggito.
La nota blu, essendo di per sé un’esperienza, ovvero per la sua appartenenza al reale, non può essere espressa pienamente attraverso l’uso
di un simbolico (la parola), di conseguenza non può essere espressa
attraverso la letteratura.
Il reale, cui la nota blu appartiene, è per sua natura complesso,
multidimensionale e polimorfo (matassa) e non può essere compiutamente
descritto da un linguaggio che si sviluppa su di un’unica dimensione
lineare (filo). Quando però il significante viene articolato in una forma
poetica qualcosa cambia. Ciò che differenzia ed eleva il poetico dalla
prosa è la capacità del primo di “rappresentare”, di “mettere in scena”,
di indurre una visione tridimensionale, costituita dalla contemporanea
sovrapposizione e stratificazione di significati altri (il discorso, come
semanticità articolata, e il testo, come semanticità non articolata). Il
linguaggio organizzato in forma poetica acquisisce una capacità espressiva
eccedente il semplice valore comunicativo: il testo va oltre il discorso,
ne è il valore aggiunto. Di conseguenza il linguaggio poetico, a differenza
della prosa, è prossimo al potere espressivo che in musica ha la nota
blu, intendendo con essa quel surplus di valore che va oltre il discorso
musicale. Tra la poesia e la nota blu ci sono consonanze.
In musica il discorso si organizza nella successione armonico-melodica,
con i suoi significati funzionali di tensione e distensione, ma è il testo
il reale vettore emotivo, cioè ciò che sa emozionare ma che non è spiegabile attraverso una semplice analisi armonico-melodica e che penetra
ogni ascoltatore in modo assolutamente soggettivo. Il testo (di cui fa
parte la nota blu) si rende evidente attraverso l’esecuzione musicale, e
arriva all’ascoltatore che possiede già nel suo inconscio quello stesso
bagaglio emozionale. Il testo è quel di più che rende un atto compositivo una forma d’arte.
Quando nella musica viene integrato il verso poetico, l’amplificazione
di significati latenti è al suo massimo sviluppo. Ciò che arriva all’ascoltatore è espresso allo stesso tempo su diversi livelli di significazione: vi
è il messaggio puramente musicale, fatto di fluttuazioni e movimenti
emozionali astratti, portatori di note blu; vi è il discorso del poetico con
la sua chiara articolazione semantica; vi è il testo poetico, ulteriormen38
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te esploso attraverso la frammentazione operata dalla dilatazione della
musica; e vi è poi un apporto di fisicità ed erotismo propri della sonorità della lingua e della voce e conseguenza di un corpo vivo. Il valore
che si riversa sull’ascoltatore è di notevole portanza; inoltre i diversi
livelli si amplificano a vicenda in un gioco di consonanze e risonanze.
Ad esempio, il tempo delle emozioni in musica non coincide con il
tempo delle emozioni della parola quotidiana. Vi è una sfasatura che
fa sì che le emozioni normalmente scaturite dalla recitazione di un
verso poetico, vengano dilatate temporalmente nella frase musicale e
di conseguenza amplificate nei loro significati reconditi. La musica
permette al poetico di svilupparsi oltre, acquisendo potenza espressiva
inusitata.
Qualsiasi valore artistico, compositivo o poetico che sia, guadagna una
propria autonomia attraverso l’atto esecutivo del concerto o della declamazione, ed è in quel preciso frangente, staccandosi dalla fonte, che
si emancipa e si carica di ulteriori nuovi significati.
Freud sottolinea l’importanza che nella pratica della seduta psicoterapeutica ha la libera parola associativa del soggetto, quando proferita
ad alta voce e non in monologo interiore, causando in questo modo
uno spossessamento del sapere del soggetto a tutto vantaggio di una
traslazione sulla parola: il significato non appartiene più al soggetto ma
alla parola.
Nell’atto del canto lo “spossessamento” è ulteriormente enfatizzato, ricordando che in esso si attua un plurimo distacco dal soggetto-cantante:
quello del significato musicale, quello del significato poetico (con discorso e testo) e quello della voce con il suo complesso bagaglio timbrico, il
tutto destinato a inoltrarsi e vivere in uno spazio esterno alla fonte.
La sublimazione come atto creativo d’arte
Il linguaggio è territorio condiviso da canto, poesia e inconscio. Il loro
scopo supera il semplice atto funzionale o utilitaristico. Per canto,
poesia e inconscio il dispendio di energie è orientato soprattutto al
godimento, che è il loro reale obiettivo. Esso è la conseguenza della
soddisfazione di una pulsione, e in arte si realizza attraverso un atto di
sublimazione: il desiderio si scioglie in quiete a opera della sublimazione. L’artista trasforma la pulsione in spinta creativa, elevandone il
godimento. L’artista sublimando produce arte: la sublimazione non è
un processo economico né funzionale.
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Canto e poesia non sono che l’innalzamento di una pulsione: l’atto
sessuale viene sostituito dalla gratificazione creativa della forma d’arte.
Dante per primo lo ha testimoniato con l’amore per Beatrice: esaltato
non attraverso il soddisfacimento del desiderio, ma con l’idealizzazione dell’amata, ponendola a un livello superiore, irraggiungibile (e
giustificando in un certo senso anche l’“insuccesso” dell’uomo), trasformando il desiderio in amore. Dante codifica, testimonia e divulga
quello che nella costruzione cristiana sostituisce l’amore al sessuale.
Dante, il poeta per eccellenza, è colui che anticipa il sapere dell’analista, che poetizza questo sapere senza specifica consapevolezza. L’analista dal canto suo, affronta il poetico come colui che sa e che proprio
nel poetico trova la dimostrazione del proprio sapere. Se il poeta usa
l’atto della sublimazione come strategia per occultare l’assenza del
rapporto sessuale, l’analista ne svela il meccanismo smascherando
proprio l’assenza del rapporto sessuale: il poeta non ha obiettivo funzionale, l’analista sì.
Per il poeta, come per il musicista, l’atto creativo filtra e rimodella la
percezione del reale, così per il cantante, l’atto vocale è poetizzazione
del reale. Invece l’approccio dell’analista (e talvolta anche quello del
critico musicale) è quello di decodificare, di dedurre quanto di funzionale esiste nell’atto artistico, in sostanza trasforma l’arte in scienza, la
cultura in cura: per l’artista quello che conta è il bello e l’indicibile,
l’analista fa a meno del bello e utilizza un linguaggio funzionale perché
ragiona in termini di economia.
Il critico musicale è indispensabile, è il tramite tra musica e pubblico,
esprime a parole quello che il compositore non sa di aver detto, ma
può anche essere pericoloso quando eccede nella “scienza” e nella
“cura”, dimenticando di stare in silenzio di fronte all’inesprimibile. Il
critico, a differenza dell’artista, non sublima, ma scompone.
La purezza della voce
Della musica e della voce si tenta sempre di parlare, scontrandosi immediatamente con l’impossibilità di tradurre a parole gli effetti che la
voce produce sui sensi. La musica come l’inconscio non ha un vocabolario in senso semiologico, non esiste un elenco di simboli per sostenere i significati dei suoni. Si tenta di descrive la musica appoggiandosi al simbolico parola, ma non vi è simbolo per tradurre il suono. La
musica è semplicemente “movimento di affetti”. Si può cercare una
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somiglianza di effetti e affetti tra suoni e parole, circolando tra le suggestioni fornite dai cinque sensi, ma la musica non può che rimanere
senza parole. Si può parlare di suono scuro o brillante o duro o aspro,
usando i sensi per descrivere il timbro, ma mancando il vero bisogno
di riuscire in una traduzione. Il linguaggio è il tentativo, fallito, di
tradurre il messaggio dei sensi.
Nulla è più lontano dalla sostanza della musica della parola: la parola
è semplice mediatrice tra musica e inconscio. L’inconscio si nutre attraverso i sensi, accumula ciò che i cinque sensi assorbono e si struttura attorno e attraverso il materiale fornito da essi: l’inconscio è una
politonalità sui cinque sensi, è un labirinto in continua trasformazione.
L’inconscio, come il timbro fra i parametri musicali, è come la matassa costituita da tutti i sensi, il tridimensionale sensoriale, intuibile ma
non penetrabile, qualcosa di inclassificabile ma di profondamente
percepibile. Mentre il linguaggio della parola è funzionale, l’inconscio
e la musica non lo sono. Inconscio e voce si sanno esprimere anche se
non hanno parole (pur rimanendo intraducibili): a loro è dato il privilegio di esprimersi senza mediatori, il loro messaggio è meno contaminato, è potenzialmente puro.
Affinità tra voce, poesia e inconscio
Polidimensionalità
Tra poesia e musica esiste uno stretto rapporto. Secoli di musica hanno privilegiato l’utilizzo di testi poetici. Il musicista preferisce mettere
in musica la poesia piuttosto che la prosa. Ciò è particolarmente evidente nel repertorio cameristico, dal madrigale al Lied, ma trova una
sua verità anche nella storia dell’opera che, pur avendo vissuto grandi
cambiamenti nella struttura dei libretti, (ad esempio con Puccini emancipandosi dalla rigida organizzazione in versi), non ha mai abbandonato un assetto poetico. L’affinità tra poesia e musica altro non è che
una consonanza di stile, un bisogno di eleganza, in un gioco di trasparenze di significati, in una dimensione tridimensionale.
Ciò che attrae tra loro le due forme d’arte (poesia e musica) e che le
fonde attraverso l’uso della voce, è proprio la condivisione di una struttura multidimensionale e poliedrica, capace più della prosa di rievocare e di rappresentare la complessità del reale, di costruire uno spazio,
di dare una sorta di profondità virtuale, un volume architettonico di
significati sovrapposti e stratificati, osservabili da più punti di vista.
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La voce svolge un ruolo insostituibile, un ruolo inarrivabile da un altro
strumento, perché più di ogni altro è dominata dal timbro (parametro
tridimensionale per eccellenza) e perché strumento vivo, non statico,
ma orientato attivamente nel reale. Il timbro della voce si esprime
sempre nella sua totalità, nel bene e nel male, come frutto di un percorso storico personale inalienabile e inarrestabile. La voce, in quanto
viva, in quanto esperienza, si nutre direttamente di reale, che a sua
volta è lo stato multidimensionale e inafferrabile per eccellenza.
E ancora, come già detto per la poesia, anche la voce porta in superficie
il sommerso, è ponte e punto di emergenza per il nascosto dell’inconscio.
Poesia e voce (e soprattutto poesia e canto) possiedono e condividono
una “quarta dimensione”, che va oltre la “sintassi” per raggiungere il
pozzo senza fondo dell’inconscio, luogo polidimensionale per eccellenza.
Struttura dialogica
Altra condivisione tra voce, poesia e inconscio, oltre allo sviluppo
delle stesse su più dimensioni, è il carattere dialogico.
La parola presuppone una dimensione intersoggettiva, acquistando
senso perché rivolta verso l’altro. Anche il sintomo psicosomatico ha
una sua direzione, è rivolto verso un “ricettore”, trasporta un contenuto. Il sintomo rappresenta la “parola” dell’inconscio, è la sua risposta al vissuto e alle emozioni che porta con sé.
Attraverso la poesia si attua un dialogo che per essere efficace si riduce al minimo, va oltre la sintesi, la supera. Nella poetica il linguaggio
vive una sua autonomia ribellandosi alle stesse leggi che lo governano.
Le normali regole comunicative sono sovvertite, il linguaggio supera
se stesso e proprio in questo ambito disarticolato si può attuare un
dialogo privilegiato, introducendo l’altro a una dimensione di esperienza nuova, con ordini nuovi di relazioni simboliche.
Il canto per eccellenza implica l’esistenza di un dialogo. Fisicamente
la voce si stacca dal corpo per indirizzarsi verso l’altro, inviandogli non
solo un testo più o meno poetico, ma caricando lo stesso di nuova
bellezza e significato (attraverso la musica) e soprattutto muovendo
molta più energia fisica. L’atto del canto prevede un lavoro fisico oltre
che psichico, che è anch’esso valore comunicativo. Il canto è un gesto
musicale che trasferisce non solo significati (testo e discorso) ed emozioni (fluttuazioni emotive) ma anche movimento vibratorio, conferendo “energia” al messaggio.
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La manifestazione della voce attua una catena di azioni di dialogo,
perché il movimento dialogico avviene in primis tra la parte conscia e
l’inconscio del cantante; solo successivamente la voce, una volta staccatasi dal corpo-fonte, si proietta verso l’altro attuando con esso un
dialogo; per poi penetrare e rinnovarsi in una relazione tra il soggetto
bersaglio e il suo inconscio.
Superamento della parola
Nell’essere umano, in quanto essere parlante, può prendere forma
l’inconscio. Secondo Lacan: “Il linguaggio è la condizione dell’inconscio”1. L’inconscio è strutturato come linguaggio e in esso un materiale si muove secondo le regole della lingua parlata, anche se in realtà
non è pienamente traducibile attraverso la parola. Meglio ancora,
l’inconscio è per Lacan “desiderio diveniente linguaggio”, ed è proprio
nei “buchi di senso del discorso conscio dove la verità dell’inconscio
si situa tra le righe”. La poesia è l’atteggiamento del linguaggio che
meglio si avvicina alla descrizione dell’inconscio. Non a caso, Lacan
consigliava agli analisti di coltivare la poetica come esercizio nei confronti di un linguaggio che (come l’inconscio) non è correlazione
univoca tra segno e realtà, ma molteplici relazioni tra segni in un continuo gioco di significati mutevoli. Nella poesia la metafora e la metonimia esprimono una verità attraverso la negazione della stessa, avvicinando il reale con approccio rovesciato. L’uso del linguaggio poetico
è tramite per l’emersione di significati altri, oltre a quelli chiaramente
articolati dal significato.
Anche il canto è usare la voce secondo canoni estetici differenti dalla
voce parlata. Si tratta di enfatizzare alcune potenzialità della voce, di
inspessirla tridimensionalmente, di infarcirla di significati intraducibili, al fine di far emergere proprio quelli più nascosti, indicibili. Ogni
essere umano possiede potenzialmente una vocalità, come potenzialmente possiede una capacità poetica. L’artista è colui che trasforma un
potenziale in reale atto artistico. Così chi è cantante dedica le sue
energie allo sviluppo della propria vocalità, dedicandosi ai contenuti
tecnici, al potenziale espressivo, e prendendosi a cuore soprattutto un
aspetto determinante: il timbro. Di fatto il primo obiettivo di un cantante è sviluppare il proprio timbro e articolarlo in un discorso poeticomusicale, valorizzando la propria voce e dichiarandola non ripetibile
da altri in quanto valore assoluto. Anche nell’atto poetico vi è un tim43
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bro che è proprio ed esclusivo di quel poeta, e che si manifesta con la
scelta dei suoni, del ritmo, oltre che dei significati, che lo rende sempre
riconoscibile.
Poesia, inconscio e canto evadono dal lineare della parola per cercare
una dimensione che, pur poggiando sulla parola, la supera trasformandola in arte.
Il grafico di seguito riassume e schematizza le afferenze alla triade
canto-poesia-inconscio.
multidimensionali
indicibili
non
funzionali
dialoganti
sublimazione
Canto
Poesia
Inconscio
ARTE
fig. 2.1
J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il
rovescio della psicoanalisi (1969-1970),
1
Einaudi, Torino 2001, p. 44.
44
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3. Testimonianze sulla voce
Cantanti, attrici, musicisti e compositori parlano della propria “voce”:
Caterina Scotti, attrice e ballerina
Silvia Infascelli, cantante jazz
Franco Mussida, cantante e chitarrista della PFM
Stefano Gervasoni, compositore
Queste persone hanno messo a disposizione la propria voce, ne hanno
fatto arte, l’hanno resa strumento espressivo e manifestazione della
personale sensibilità. Sono voci che prima di tutto hanno saputo ascoltare, sono voci dotate di “orecchio”, che si esprimono su palcoscenici
come nella confidenza di queste testimonianze. Riflessioni ed esperienze sono condivise in un contrappunto di voci tra loro sobriamente
armoniche.
Caterina Scotti racconta la sua voce
Caterina Scotti è attrice del Teatro Tascabile di Bergamo dal 1982 e
la sua storia professionale si identifica con quella del teatro (www.
teatrotascabile.org). L’accento che la poetica del Teatro Tascabile di
Bergamo pone e sviluppa nel suo essere, è la fisicità del fatto teatrale
e l’artigianato scenico, privilegiando l’autonomia dell’evento spettacolare, e rifuggendo la “traduzione” scenica di un preesistente testo
teatrale1.
Caterina Scotti, con grande generosità, si racconta qui di seguito, senza pudori e confessando un rapporto complesso con la propria voce.
Io, che più volte l’ho ascoltata recitare, posso affermare che non solo
scopro in questa sua testimonianza il background di quanto arriva
allo spettatore, ma raccolgo anche la dimostrazione di come un presunto limite nella voce porti con sé una squisita unicità e soprattutto
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quel ché di “straniante” che sa arrivare all’uditorio. È la storia della
sublimazione di un umano limite in qualcos’altro di indicibile, ovvero: in arte.
“Ricordo mia madre mentre cantava, con quel timbro caratteristico
degli anni sessanta, sempre lieve e vibrato, cantava mentre puliva la
casa o cucinava, cantava assieme a me, mentre ascoltavamo dal mio
mangiadischi Patty Pravo”.
“Mia madre mi ha raccontato che ero una bambina molto silenziosa,
anche quando mi svegliavo nel mio lettino rimanevo lì, senza gridare
o piangere, finché lei non si accorgeva che ero sveglia. Anche i ricordi
delle scuole elementari sono quelli di una bambina molto timida, che
raramente faceva sentire la propria voce”.
“A scuola si usava dividere i bambini in stonati e intonati e io ero tra
quelli stonati. Mi sentivo un po’ esclusa e forse anche per questo penso
di aver fatto di tutto per rendere la mia voce il meno udibile possibile”.
“Ricordo molto nitidamente la mia prima esperienza fisica, di danza,
mentre nel campo vocale devo riandare ai miei primi esperimenti teatrali. È stato il teatro il vero veicolo della mia voce. Ho avuto la possibilità,
grazie al Teatro Tascabile di Bergamo, di fare esperienza con i più grandi pedagoghi e insegnanti della voce, soprattutto all’interno di quello che
veniva definito da Eugenio Barba il Terzo Teatro2. È stato in questo
contesto che ho iniziato ad avere consapevolezza di una parte del mio
corpo ancora inesplorata. La voce ha cominciato a prendere il suo spazio
e ad agire esattamente come un braccio o una gamba. Attraverso un
allenamento costante ho riconosciuto possibilità e limiti, colori, fragilità
e punti saldi cui aggrapparmi. Suoni disarticolati, grida, voci di pianto e
dolore sono stati i primi a sgorgare dal più profondo”.
“Con lo spettacolo Esperimenti con la verità è cominciato un nuovo
cammino verso la voce e il testo. Lavorando sugli stessi parametri che
vengono usati nel canto: ritmo, intonazione, timbro, ho scoperto una
voce che sa muovere sulle parole una sua danza, inizialmente inafferrabile, ma che lentamente ha creato un proprio solco. Il significato viene
lasciato per ultimo, lasciando al significante lo spazio per espandersi e
invadere territori attigui, senza paura, per poi ritornare a un significato
rivificato. Nel momento in cui sono ritornata alla parola, così recuperata e reinventata, la sensazione è stata quella di essere un corpo unico
assieme alla parola-voce”.
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“Negli spettacoli successivi ho affrontato il canto, soprattutto all’interno della canzone popolare italiana, scoprendo di avere la possibilità di
ampliare ed espandere il mio suono, lo stesso che fino ad allora credevo impossibile da valorizzare.
Sentivo la mia voce premere, infiltrare il pavimento, ma anche scendere nel più fondo delle mie viscere, e ho cominciato a sentirmi finalmente in pace con lei, con quella voce che in passato non sentivo appartenermi”.
“Il legame tra suono e corpo è per me totale, non posso immaginare il
mio suono svincolato dal suo risuonatore e da tutte le cavità che sono
al mio interno”.
“Oggi, se devo parlare della mia voce, la descrivo come flebile, esile,
ma anche capace di trasformarsi in maniera camaleontica, di parlare
alla parte più nascosta e sensibile dello spettatore, di accompagnare e
farsi accompagnare”.
“Oggi mi riconosco nella mia voce. Penso che è la voce che mi merito,
a volte un po’ schizzata e sdoppiata come sono io, eternamente in bilico tra certezze e inquietudini”.
“In particolare io e la mia voce siamo accomunate dallo scomparire
insieme in situazioni di panico e dal proporci in modo arrogante quando mi sento sicura e decisa”.
“Della mia voce amo soprattutto la velatura, così come amo i soffiati e
la voce di pancia”.
“La mia voce mi delude quando non si proietta fuori da me, quando
si rintana al mio interno, come una tartaruga nel suo guscio, quando
non arriva e diventa inudibile”.
“Sento che il mio suono nasce a livello nel chakra solare3 e da lì si irradia e risuona dove io voglio che risuoni, e si colora a seconda dell’immagine o, come usiamo dire con gergo interno al nostro gruppo, a
seconda del compito che mi sono prefissa: trafiggere come una lama,
posarsi come una piuma, tintinnare come le perle di una collana spezzata, accarezzare come una mano guantata…”.
“Il suono della mia voce può essere spaventoso: a volte lo ascolto e ne
ho paura, mi sembra che non mi appartenga, soprattutto nei momenti
estremi, sia di dolcezza sia di isteria. In questo senso è assolutamente
omogeneo al mio essere donna”.
“Gli attori si innamorano dei loro ruoli vocali, ma in genere sono loro
(i ruoli vocali) che scelgono noi e non viceversa”.
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Queste sono le parole di Caterina Scotti che raccontano il personale
percorso di crescita con e attraverso la voce. Aggiungo solo questo: io
conosco bene la sua voce, sia usata in teatro sia nella vita quotidiana e
la trovo una voce dal grande fascino e dalla costante suadenza.
La voce per Silvia Infascelli
Silvia Infascelli è una cantante jazz (www.silviainfascelli.it) cioè una
donna che attraverso la voce vive esperienze psicofisiche intense e
sofisticate. Non sempre parlerà in prima persona, ma sarà affiancata
dalla mia propria voce condividendone vissuto ed emozioni.
“Alle passioni che si agitano dentro di noi, vorremmo dare quasi una
forma visibile e le moduliamo in parole; ma non ci basta, e allora queste voci si prolungano in canto4”.
Silvia Infascelli, cita un suo articolo e parlando del canto continua così:
“La fisicità della voce lo rende strumento diretto e concreto; la sua
componente emozionale ne fa allo stesso tempo un mezzo di comunicazione di sentimenti e passioni in grado di esorcizzare il quotidiano…
Mi colpì molto uno scritto del cantante-poeta inglese Peter Hammill,
il quale definiva la voce il primo mezzo di espressione e comunicazione, a cominciare dal pianto del bambino fino a considerare tutte le
altre manifestazioni vocali dell’essere umano”.
Silvia Infascelli ha cominciato a pronunciare le prime parole abbastanza tardi, poco prima di compiere l’anno di età, manifestando più tardi,
durante l’infanzia, grande attitudine alla “chiacchiera”. Ricorda bene
la voce di sua madre, che cantava spesso in casa, svolgendo le consuete attività domestiche, con bella voce da soprano, istintiva. Il nonno
materno in particolare possedeva un passato da tenore. Fece una certa
carriera, tenendo concerti in chiese e teatri, incise anche alcuni dischi,
tutto questo continuando contemporaneamente a lavorare come operaio meccanico e a badare alla propria famiglia.
Proseguendo, la storia sfiora la leggenda familiare, passando di bocca
in bocca per tanti anni e arrivando fino a me ora, lasciandomi stupita
e commossa. Silvia Infascelli narra che il nonno, a un certo punto della sua carriera, ricevette la proposta per un contratto con la Radio
svizzera. Ma appena giunto in Svizzera, il “nonno tenore” improvvisamente e senza apparente ragione, perse la vista. La medicina ufficiale
non seppe curarlo, e il nonno si sottopose alle cure di un così detto
mèdegocc, una sorta di stregone guaritore locale, che gli prescrisse stra48
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ne terapie associate a preghiere. Solo dopo tre anni, e sempre inspiegabilmente, il nonno riacquistò la vista.
Questa storia mi è sembrata particolarmente suggestiva. Nel racconto
sembra evidente la centralità della voce, in riferimento al ruolo e alle
responsabilità in società, nel lavoro e in casa di un padre di famiglia.
Si coglie la paura nei confronti di una voce che “trascina lontano”, e
si percepisce la forza attrattiva e castrante delle certezze del quotidiano
e del familiare.
Ma Silvia mi ha raccontato altre storie. La mamma di Silvia aveva una
bella voce naturale e accadeva che da bambina, durante le recite scolastiche, le chiedessero di cantare. Le circostanze però erano particolari: la piccola doveva cantare stando dietro le quinte, mentre “la bella
della scuola” stava sul palcoscenico a muovere le labbra restando muta.
Il nonno, orgoglioso e consapevole delle doti della figlia, la portò a fare
un’audizione dal suo Maestro, ma in tale circostanza, la ragazza non
riuscì a emettere nemmeno un suono!
Questi brevi aneddoti raccontano l’esperienza delle due generazioni
che l’hanno preceduta: un percorso in un certo senso preparatorio a
quel “salto” verso un uso più completo, consapevole e appagante della voce che proprio lei ha saputo fare.
Per Silvia Infascelli la voce non ha rappresentato il primo approccio
con la musica, anzi il percorso è stato lungo e frammentario ma, nello
stesso tempo, inevitabile. Piano piano il jazz è diventato l’opportunità
per veicolare la sua peculiare urgenza espressiva.
Sicuramente Silvia è nata e cresciuta in un ambiente musicalmente
fertile, anche il papà “strimpellava” pianoforte e fisarmonica. In casa
si faceva grande uso di giradischi a 78 giri. Silvia stessa aveva imparato
a orecchio e a memoria, con l’aiuto del libretto, tutta l’operetta de La
vedova allegra. In particolare l’incontro definitivo con il canto è avvenuto in un momento di svolta e cambiamento, durante il quale, con
sorprendente naturalezza, la voce ha trovato il suo spazio. L’esigenza
di fare del canto la propria arte di vita si è manifestata con chiarezza,
diventando questione inalienabile. L’approccio con il canto è cambiato e le cose giuste sono cominciate a succedere, forse perché, per
usare le parole di Silvia: “Io c’ero!”.
Cantando si va oltre se stessi, si diventa tramite e veicolo del canto, il
canto passa attraverso, invade il cantante stesso fino a fargli raggiungere una sorta di trance. Il canto, oltre a possedere un indubbio pote49
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re liberatorio e catartico, è in grado di comunicare di più rispetto ad
altri “linguaggi” più rigidi e strutturati. Cantare è mettersi a disposizione di qualcosa che chiama, di una condizione che si ricrea ogni
volta che si canta.
Accade, cantando, di sentirsi spettatori di se stessi, quasi stando fuori
dal proprio corpo, ma non perdendone il controllo. Questo stato è
tipico nella meditazione nello yoga, che Silvia ha a lungo praticato. In
questo caso il canto appare come una manifestazione interna che si
rende “visibile” all’esterno. L’ambiente nel quale si è immersi, un
ambiente sia fisico sia psichico, contribuisce a delineare la voce.
Per Silvia il suono ha il suo centro d’irradiazione in un’altra dimensione fisica, nascosta forse nello stesso corpo, ma come ultra corpo, che
non possiede in realtà limiti fisici, che contiene ed è contenuto allo
stesso tempo. La suggestione che coglie il cantante nell’atto del canto
è proprio quella di essere contemporaneamente dentro e fuori dal
proprio corpo, di avere uno spazio interno senza un fondo e nello
stesso tempo di occupare, con la propria voce, tutto il volume circostante, come se la voce, uscendo dal corpo, in realtà portasse con sé
proprio parte di quello stesso corpo.
Esperienze nella voce di Franco Mussida
Milanese. Musicista e compositore, cantante e chitarrista della PFM
(Premiata Forneria Marconi, www.pfmpfm.it), con oltre cinquant’anni di esperienza in diversi settori artistico-musicali: concertistico, formativo, di ricerca sulla comunicazione musicale, editoriale.
Per il primo colloquio ho incontrato Franco Mussida in un soleggiato
pomeriggio invernale, nel suo studio all’interno della sua scuola di musica, il CPM (Centro Professionale Musica) di Milano, prestigioso ambiente dedicato alla musica e alla ricerca musicale, immergendomi con
lui in un’atmosfera di sereno e appassionante confronto. Quanto segue
è tratto da vari appunti raccolti durante amabili chiacchierate e successivamente arricchito da scambi e confronti epistolari.
“Aveva una vôs s’cêpa, aspra, di testa, con risonanze alte, ma che lei
sapeva addolcire…”.
Queste sono le prime parole di Franco Mussida sulla voce della mamma. La madre sapeva miscelare suadenza e autorevolezza in una voce
che era al contempo la proiezione di un corpo rotondeggiante e acco50
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gliente e del suo scheletro portante, forte e determinato. Era una voce
in grado di inviare segnali materni e al tempo stesso forti e decisi.
Anche la voce del padre emerge come ricordo importante, all’interno
di un rapporto potenzialmente conflittuale, mai realmente sviluppato:
“Un suono caldo e profondo, consolatorio e consonante…”, a tratti
carico di rabbia, ma sempre vettore di una cultura e una saggezza
popolare che su un Franco ancora ragazzo, ha saputo incidere sicurezza e determinazione.
Verso il primo anno di vita, egli ha cominciato a esprimersi usando i
primi fonemi articolati “nel tentativo di esprimere e comunicare la
meraviglia”. Da sempre Franco si è espresso anche col canto e oggi con
orgoglio afferma di aver cominciato prima a cantare e solo successivamente a parlare. Emblematico fu l’episodio che lo vide giovane interprete a un concorso canoro, all’età di soli quattro anni. In tale occasione, durante l’esibizione, nonostante ricordasse perfettamente la musica, proprio sul palcoscenico si rese conto di non ricordare più le parole e si dovette fermare. Franco era consapevole delle proprie qualità
vocali e nonostante la melodia fosse ben ancorata nella sua memoria,
altrettanto non valeva per il testo. Ancora privo di esperienza era rimasto attratto e coinvolto dal contenuto musicale più che da quello
verbale, a dimostrazione del fatto che nell’ordine dei suoi valori, per
importanza espressiva veniva prima la musica rispetto alla parola.
Egli paragona la propria voce a una pianta dal grande fusto: un noce.
Albero diffuso in Italia, dal legno forte e pregiato, duro e resistente alle
tarme, dal colore caldo, dall’odore speziato e dal frutto commestibile.
La sua è una “sostanza vocale” dalle forti qualità, di buona intensità e
personalità.
Un cambiamento nella voce e nello spirito di Franco è avvenuto spontaneamente durante lo sviluppo del corpo dall’età infantile a quella
adulta, passando da qualità coincidenti a quelle femminili fino a raggiungere una caratterizzazione maschile. Mentre la componente virile
della voce, profonda e maschile, si proietta nell’immagine del tronco,
l’eredità femminile del falsetto è rappresentata dalle foglie, mobili e
leggere, che assorbono e filtrano i raggi solari: “Cantando sia in falsetto sia di voce piena mi sono abituato a interpretare diversi ruoli non
solo solistici, ma anche d’aiuto, di compendio corale ad altre voci. Ma
il canto in falsetto è certamente l’esperienza che più di altre mi fa vivere la leggerezza e la meraviglia del volo”.
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Franco Mussida sottolinea nella voce un altro aspetto femminile, che
si esprime nel gesto intellettuale: “[…] è un farmi continuamente domande, speculare intellettualmente, sentirmi in continuo movimento,
percepire il senso dell’arte, e sentire il suono come essenziale fondamento, elemento creante della persona in relazione alla Musica nel suo
significato più alto […]”.
Una volta divenuto adulto, la sua vita vocale si è divisa in due periodi
temporali: il primo caratterizzato da una voce vuota, come sola vibrazione, e il secondo caratterizzato da una voce piena, come spazio riempito. Nella prima fase il cantante viveva la propria vocalità come una
struttura al servizio del pubblico, come un efficace strumento di comunicazione, ma rimanendo ancora distante dal possedere coscienza
della propria identità sonora. Soddisfacente in senso strumentale, ma
non ancora appagante emotivamente.
Il secondo periodo conduce a un arricchimento di contenuti e concetti che vivificano il rapporto con la personalità.
Oggi, dopo un ricco percorso di esperienze psicofisiche e musicali, ha
consolidato un rapporto privilegiato oltre che efficace con il proprio
strumento vocale: “Mentre canto mi sento come sospeso in una bolla
che occupo solo io e che mi isola dalla realtà esterna”. Mi spiega che si
tratta di una condizione nella quale la sua voce è in relazione solo con
la propria persona e non con l’esterno. In questo modo può realizzare
un dialogo e uno scambio virtuoso tra se stesso e il proprio suono: “In
questa dimensione, non mi occupo della relazione con l’altro. In primo
piano c’è il bisogno di usare questo mezzo espressivo per attivare un
dialogo esplorativo profondo e privilegiato con me stesso. È un’area di
libera espressività e immaginazione che mi permette, nella duplice veste
di creatore del proprio suono e di ascoltatore dello stesso, di vivere
intimamente i processi del mio stato emozionale istintivo, di lavorare
su questi, di modificarli e orientarli. Queste sono le basi per un uso
consapevole della voce… che si esprime in sfumature e in colori che
concorrono a delineare quel temperamento individuale, soggettivo che
completa e definisce meglio l’unicità dell’identità personale non solo
sonora. Si può dire quindi che la sonorità timbrica e il modo con cui
viene espressa, rispecchia alla perfezione le tendenze e le coloriture
affettive della persona. In altre parole è l’identità sonora dell’individuo,
il suo portato fisico e spirituale, che si colora delle personali propensioni affettive, ovvero del temperamento animico…”.
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Mussida parla della melodia nel canto descrivendola come uno sviluppo consequenziale di singole note, assimilabile alla linea di sviluppo
del pensiero, entrambe capaci di movimento orizzontale. Un movimento che, nel ricordare e ripercorrere la successione melodica, produce
piacere.
Nel canto si attua una relazione superiore tra la parte razionale, cioè il
messaggio logico comunicato attraverso la parola, e la componente affettiva, che raccoglie i sentimenti. L’atto del canto sarà tanto più musicale quanto più ricco di sentimento. Perciò nel canto il sentimento diviene elemento caratterizzante (un po’ come la calligrafia arricchisce l’oggettività dello scritto). Il canto si avvicina dunque a uno stato alterato di
coscienza. Il canto induce il cambiamento verso uno stato meno razionale e più profondo, all’interno di un flusso che racconta, attraverso riverberi di suoni e di significati, un gioco di domande (suono) e risposte
(ascolto). In questo stato, per Franco il suono è assimilabile al colore puro,
privo di forma e di massa, ricco solo di qualcosa che non è materia,
mentre il sentimento è la forma: “Cantando esprimo colore, pigmento
puro cioè suono e lo lavoro con il sentimento dandogli una forma”.
Franco ha una voce dirompente. A volte le passioni che vive vengono
ulteriormente amplificate dalla voce: “La voce ha il grande potere di
veicolare ciò che sento, anche se chi ascolta non sempre capisce le mie
profonde intenzioni. Mia moglie spesso mi dice di non gridare, mentre
io in realtà non ho gridato…”.
Poeticamente ancora racconta come ogni parte del suo corpo abbia
un ruolo nella realizzazione del discorso musicale vocale: nella testa
risiede la ragione, nel torace e particolarmente nel cuore c’è la passione, mentre nella pancia si trova tutto il resto. La pancia è il luogo
del mistero per eccellenza, dove si rielaborano gli elementi provenienti dall’esterno trasformandoli in parti di sé. Così accade anche
per le esperienze e i ricordi: questi vengono mangiati, rielaborati e
trasformati. Infine ogni cosa riemerge attraverso la voce.
Egli descrive le sensazioni fisiche che vive nell’atto del canto, il piacere che procura al suo corpo: “Un uscire da una realtà per entrare in
un’altra: una realtà sempre fisica ma con le ali. Sentirmi vibrare quando parlo, recito, canto, è bello. La voce illumina tutto il corpo, anche
se la sensazione investe in modo più forte torace, testa e pancia. La
vibrazione vitale che mi pervade si manifesta palesemente attraverso il
cantare e il parlare…
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Vivo e sento il parlare un po’ come un camminare dell’anima, dove i
passi rappresentano la consequenzialità dei pensieri, come se i pensieri fossero una strada spirituale che prende corpo con il suono della
voce. Vivo il recitare come un inserirmi con più consapevolezza nei
processi sonori, cambiando costume timbrico per immergermi in un
ruolo nuovo e nuotare in un’acqua eccitante e ricca di consapevole
emozione. Il canto è invece un ulteriore cambio di stato. Il canto è un
volo, è la mia opportunità per dispiegare le ali di cui sono dotato, le
mie ali emozionali che mi consentono di immergermi, anche durante
lo stato di veglia, nella dimensione sognante.
Ogni aspetto della mia voce nasconde un piacere diverso e io mi ritrovo in tutti. Intellettualmente nella melodia, istintivamente nel ritmo,
emotivamente nel timbro e nella dinamica dei colori…
La mia voce è generata da una struttura portante (il corpo) e si manifesta attraverso un contenuto (il timbro)… La mia voce è un’opportunità da riempire con gli strumenti che ha a disposizione…”.
Composizione e voce per Stefano Gervasoni
Stefano Gervasoni (www.stefanogervasoni.net) è uno dei più autorevoli compositori contemporanei del panorama europeo, capace di
proseguire la ricca tradizione musicale classica italiana.
Il piacevole incontro col Maestro, trova qui di seguito condivisa testimonianza.
Il compositore ricorda una mamma premurosa e dolce, ma soprattutto di lei descrive una voce estremamente “musicale”. Si tratta verosimilmente del suo primo contatto col mondo sonoro: un incontro avvenuto su di un piano a-linguistico o prelinguistico, nel senso di mondo sonoro portatore di messaggi emotivi prima ancora che di chiaro
significato semantico, ancora privo di una specializzata e specifica
funzione comunicativa. La voce della mamma ha dunque rappresentato il primo avvicinamento a quel “mondo musicale” che diventerà
poi perno della sua esistenza.
Il Maestro mi ricorda che il primo luogo sonoro-affettivo si sviluppa
come codice universale capace di trasmettere l’essenziale e dal quale
le parti traggono ciò di cui hanno più bisogno. Attraverso la sua musica, Gervasoni rievoca proprio quella radice di esperienza infantile,
col suo carico di toni magici e intraducibili, vissuta in primis nello
scambio attraverso la voce. E forse, in virtù di questa primaria espe54
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rienza, il bambino oggi diventato uomo, parla del ruolo della musica
come quello di una madre che si esprime rivolta a un bambino/spettatore, utilizzando un linguaggio privilegiato e privato, asemantico e
privo di un codice univoco, rigidamente definito e culturalmente acquisito.
La personalità del Maestro è precocemente attratta dall’arte e dal suo
potere espressivo: il primo richiamo viene dal disegno; in seguito vira
gradualmente e definitivamente verso la musica. Fin da giovanissimo,
in età scolare, si diletta componendo piccoli brani musicali imitando
vari stili compositivi: dalla musica antica a Berio. Verso i vent’anni
trova il suo stile personale. La sua opera zero è del 1985, composta
all’età di ventitré anni, l’organico prevede: voce, chitarra, violino, clarinetto basso, su testi di Pablo Neruda. Va notato che all’interno del
vasto repertorio compositivo del Maestro Gervasoni, la voce compare
immediatamente, e mantiene sempre un posto privilegiato, interessando la maggior parte del suo catalogo, e in particolare si tratta, fatte
poche eccezioni, di un repertorio dedicato alla voce femminile.
La voce, dice, si fonde alla musica attraverso un testo poetico diventando simbolo di un’ambiguità derivata proprio dalla commistione
tra parola, suo significato strettamente semantico, suo significato altro,
cioè suo bagaglio poetico, e musica. La voce fonde in sé le “parti”,
ridisegnando un luogo dai confini plastici, indefinibile e magico. In
particolare, la parola nell’essere mediata dalla voce cantata, cioè
dalla voce per eccellenza enfatizzata e messa in musica, rende ambiguo ciò che non cantato sarebbe più intelligibile e soprattutto dotato
di funzione.
La musica frammenta il testo arrivando a far emergere quel “poetico”
quanto mai nascosto. Così come la parola acquista significati più efficaci e articolati passando dalla pronuncia nel pensiero alla pronuncia
ad alta voce, così la stessa parola articolata nel canto (o meglio, disarticolata nel canto) si carica di ulteriori significati, staccandosi dalla
fonte, ovvero sia dal compositore che dall’interprete, raggiungendo un
pubblico in ascolto. Proprio in questo ambito (musica + voce + poesia)
l’arte compositiva dell’autore trova il suo peculiare status: lo scopo non
si ottiene col minimo dispendio, ma con grande impiego di energie
espressive ed emotive. Per il musicista il dispendio di tempo ed energia
espressiva è un valore, concetto che non può essere valido nell’atto
funzionale.
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Vero obiettivo della musica non è l’atto funzionale ma, oltre agli aspetti più immediati del piacere e della catarsi, è la capacità di instillare una
sorta di dubbio. La musica porta con sé una volontà di benessere che
si spalanca al dubbio e lì rimane sospesa, in un luogo fuori dal tempo,
dove il passato, come esperienza di vita mai uguale a se stessa, si ripresenta con il suo carico d’interrogativi, questa volta veicolato dall’anestetico della musica, e in definitiva fornendo una nuova consapevolezza rispetto ai fatti della vita, cioè una consapevolezza mediata dalla
musica. In sintesi si potrebbe dire che la musica percorre un canale
verso l’inconscio, che ha come origine l’inconscio del compositore e
come meta quello del pubblico, attivando lungo tutto il suo percorso
un sapere preesistente e inafferrabile, appoggiandosi e sfruttando
proprio un dubbio trasfigurato in arte.
Cantare una poesia implica una teatralizzazione. Nella dimensione
della performance vocale, la voce diventa perciò un personaggio (mentre uno strumento non può diventare personaggio).
La voce ha un aspetto fisico implicito, per questo il corpo non può
essere dissociato in alcun modo dal gesto musicale/vocale. La voce,
essendo conseguenza del corpo, acquista la superiorità di uno strumento trasfigurato. La voce trasmette un’idea globale sintetica (come accade in poetica), attraverso l’interiorizzazione e la coincidenza di intenzione sonora, fonte sonora e corpo risonante. L’incontro tra gli
elementi conduce a risultati in un certo senso incontrollabili e sempre
nuovi, proprio perché transitati nel vivo di un corpo.
In definitiva, anche per il Maestro la voce è lo strumento per eccellenza, seguito nell’ordine da: archi, percussioni, ottoni, legni e solo infine
pianoforte.
La coppia che si viene a creare tra compositore e interprete vocale è il
risultato dell’avvicinamento di due entità complesse e polimorfe, certamente non riducibili a un dato e quindi non sommabili, ma miscelabili secondo principi alchemici. Entrambe le parti, dopo l’esperienza
musicale, non saranno più uguali a prima e il rapporto con il semantico del testo e l’indicibile della musica sarà rinnovato a ogni esecuzione.
Ma anche la voce pone dei limiti alle esigenze creative del Maestro. La
voce educata secondo tecniche e scuole ben precise pone dei confini
culturali. La vocalità del cantante può essere educata secondo modelli più restrittivi rispetto al suo potenziale biologico ed espressivo. Può
prevalere un certo “galateo” della voce, che può portare a un conflitto
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tra la mentalità conservativa e iperprotettiva del cantante con le esigenze del compositore. La voce rimane lo strumento dalle maggiori
potenzialità, purché queste vengano accettate e sperimentate.
La parola voce in italiano è di genere femminile, ma anche in diverse
lingue europee: voix, voz, stimme ecc. Si è già detto che la maggior
parte delle composizioni vocali di Gervasoni sono per voce femminile,
va inoltre specificato che l’oggetto dei testi poetici musicati è prevalentemente di natura femminile, come la donna, ma anche in senso più
ampio di genere, come la divinità, la natura ecc. Le Muse sono per
eccellenza figure femminili. L’atto poetico presuppone una natura
femminile, o meglio c’è natura femminile nell’atto poetico, da cui
l’adesione del maestro a questa dominanza femminile all’interno della
sua musica.
Raramente il Maestro Gervasoni nell’atto compositivo si rifà a un interprete vocale specifico. La pianificazione dell’interprete in fase di
scrittura può infatti essere molto deludente. Assai più efficace gli risulta scrivere nell’ignoranza del futuro e solo successivamente scoprire
un’alchimia con l’artista esecutore, lasciando quindi più spazio alla
natura e, entro certi limiti, al caso.
In R. Vescovi, Scritti dal Teatro Tascabile, Bulzoni Editore, Roma 2007, è possibile rintracciare parte del percorso professionale e artistico di Caterina Scotti
all’interno degli spettacoli del Teatro Tascabile di Bergamo e in relazione all’esperienza con il teatro orientale che è una
delle caratteristiche peculiari della sua
formazione professionale.
2
Il Terzo Teatro è la definizione di un
universo teatrale costituito da gruppi
portatori di un’etica sociale e della necessità di una vera e propria vocazione
nell’arte dell’attore. Si distingue dal teatro tradizionale, ma dichiara scopi diversi dal teatro d’avanguardia. Grande
importanza in questo approccio alla teatralità rivestono il training e la ricerca
di una tecnica che porti, attraverso il
gioco della finzione, alla più profonda
1
sincerità. Il manifesto del Terzo Teatro
fu scritto da Eugenio Barba nel 1976, in
occasione dell’Incontro internazionale
di ricerca teatrale.
3
Secondo l’antica cultura indiana, si parla di chakra (ruota) solare come centro di
energie, e in particolare: della forza, delle
ambizioni dell’io, ovvero dell’imposizione
della propria personalità. In questo chakra
si trova il desiderio di individualità, ed è
anche la sede della libertà personale e dei
sentimenti di colpa, come pure delle possibilità di sviluppo potenzialmente illimitato, nonché delle limitazioni che il singolo pone a se stesso.
4
Confucio, VI-V secolo a.C. Silvia Infascelli usa questa citazione per aprire un
suo articolo dal titolo Comporre il canto,
apparso sul n. 15 del 1995 della rivista
“Musica oggi”.
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4. Tra tecnica e filosofia
della voce
“Soltanto individui con tendenze artistiche, siano essi musicisti,
pittori, scultori, attori, ballerini e alcuni scienziati, continuano a
crescere a livello personale così come professionale e sociale […]
Grazie all’arte gli artisti continuano invece a migliorare, differenziare
e variare le capacità motorie fino alla vecchiaia”.
Moshé Feldenkrais
Cercando di immedesimarmi nelle vostre aspettative e in voi, mi pongo questa domanda: “Cosa mi aspetto da me stessa come cantante e
artista? O semplicemente come possessore di una voce?”.
Prima di tutto da me stessa io voglio il massimo, come voglio essere
per ogni mio lettore uno strumento e un’opportunità di crescita. Voglio
conoscere la mia voce, voglio capirla e rispettarla, voglio allenarla e
saperla usare sempre. E dalla mia voce vorrei almeno qualcosa di straordinario. So che sono grandi obiettivi, e per questo ho bisogno di
conoscenze, di stimoli, di esempi vincenti, di una luce che sia il mio
focus. Posso osservare e raccogliere dalle esperienze di altri, seguire la
strada battuta dai grandi, e magari aprire anche io nuovi sentieri.
In definitiva, vorrei costruire e distribuire su questo percorso narrativo
una segnaletica per orientare me e voi verso questo obiettivo, seminando briciole per ritrovare la strada.
Dalla postura al respiro
Il cantante, per facilitare il funzionamento del proprio strumento, ha
assolutamente bisogno di realizzare una presa di coscienza dell’atteggiamento posturale più efficace. Innanzitutto, il cantante deve riconoscere se stesso come il risultato di un corpo orientato in un campo
gravitazionale. La postura è la posizione che il corpo e i suoi segmenti
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assumono nello spazio. Essa è in stretta relazione con l’azione del
campo gravitazionale terrestre, che di conseguenza la condiziona. È la
testa che, contenendo tutti gli organi di senso, consente di metterci in
relazione con lo spazio, governando e regolando il nostro equilibrio.
Inoltre, essendo la testa piuttosto pesante, il suo movimento influenza
il tono dell’intera muscolatura del corpo.
Gli stimoli sensoriali sono in più diretta comunicazione con l’inconscio
che non con il conscio, da ciò risulta intuitivo pensare che postura ed
equilibrio siano in buona parte condizioni non pienamente consapevoli, ma veicolate da processi istintivi inconsci.
Una corretta postura garantisce una posizione idonea del corpo nello
spazio in opposizione alle forze gravitazionali, cioè con il minor dispendio energetico sia in condizioni dinamiche sia statiche. Obiettivo
di una buona postura è garantire quell’equilibrio che attua il miglior
rapporto tra il soggetto e l’ambiente circostante, a seconda degli stimoli ambientali che riceve e del programma motorio che adotta.
La postura è una dimensione in evoluzione nel tempo: circa 20-15
milioni di anni fa, gli ominidi iniziarono a vagare per le savane in cerca
di cibo. Qui la pressione selettiva favorì quegli individui capaci di ergersi sugli arti posteriori potendo così, ad esempio, avvistare in anticipo un predatore.
Anche nel solo corso di una vita vi sono notevoli cambiamenti nella
postura, conseguenti alla normalità della crescita e dello sviluppo:
l’uomo conquista lentamente le capacità motorie, dalla culla all’età
adulta. Ma la postura si modifica anche in risposta a stress, traumi fisici ed emotivi, ad abitudini professionali sbagliate ripetute e mantenute nel tempo, a respirazione scorretta, a squilibri biochimici e altro
ancora, con un conseguente aumento dello stato di contrazione muscolare in aggiunta al tono basale preesistente. L’essere umano è fortemente suscettibile ad alterazioni della propria postura, con il pericolo di indebolire l’equilibrio e di limitare le proprie performance procedurali.
Nella corretta postura eretta il centro di gravità del corpo umano si
trova a livello della terza vertebra lombare, cioè nella posizione più alta
possibile compatibile con la sua struttura (da notare l’importante frequenza delle patologie a livello di L3!).
Prima di cantare è necessario orientarsi efficacemente col corpo nello
spazio, proprio perché una buona postura predispone un corpo pron59
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to ed elastico e quindi favorisce un canto efficace. La posizione più
comune del cantante è l’ortostatismo, che per essere efficace deve rispettare determinate condizioni sintetizzabili come segue:
•come sospesi al vertice (il punto più alto del cranio);
•colonna estesa e allungata verso l’alto (ma non rigida);
•spalle aperte e petto ampio;
•bacino leggermente retroverso;
•ginocchia non rigide e non bloccate in atteggiamento
di iperestensione;
•piedi ben radicati a terra, leggermente divaricati,
o uno un po’ più avanti dell’altro.
Tale posizione va intesa nel rispetto di un certo dinamismo, evitando
qualsiasi forma di rigidità e ancoraggio statico a forme prestabilite.
Non è raro trovare cantanti che ricercano un buon equilibrio dinamico in posture con gambe mediamente divaricate e ancora con un piede
leggermente più avanti dell’altro. Ciò garantisce, oltre a un ottimo
equilibrio, una buona elasticità e prontezza del corpo, evitando di
cadere in atteggiamenti di rigidità.
Sono consapevole che non sia sempre possibile mantenere questa
postura durante l’atto del cantare, ad esempio durante un concerto o
una performance, o sul palcoscenico di un’opera lirica. L’allenamento
attraverso una corretta postura è essenziale in aula per insegnare al
corpo la strada più efficace per una vocalità libera da costrizioni indotte da vizi posturali. Una buona postura in fase di studio facilita e favorisce l’apprendimento della tecnica vocale. Ogni atteggiamento virtuoso sarà, con la costanza e la disciplina, fissato a livello muscolare. È
questo il lavoro della memoria procedurale e non verbalizzabile, che
si può acquisire e “metabolizzare” in aula, e che con impegno e dedizione acquista una certa indipendenza dalla coscienza, pur rimanendo
inconsapevolmente a disposizione per l’atto del canto. Una volta interiorizzato e registrato a livello muscolare il percorso ideale del suono
in relazione alla postura più efficace, sarà possibile orientarsi nello
spazio con relativa libertà, allontanandosi quindi dalla postura tenuta
in aula, anche se sempre nel rispetto e nella garanzia di un buon equilibrio. Dopo questo “allenamento”, il cantante affronterà il palcoscenico lasciando lavorare in autonomia la memoria procedurale del
corpo, vivendo una propria “verticalità interna”, intrinseca, e lascian60
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do libero il corpo di agire artisticamente, non perdendo il percorso e
i riferimenti acquisiti in aula e in definitiva permettendo una migliore
concentrazione su altri fattori.
In altre parole, e semplificando un po’ un argomento assai più vasto e
articolato, nel nostro cervello operano due forme di pensiero: una razionale che presiede a tutto ciò che compiamo deliberatamente e
consciamente, e una inconscia, che regola tutto ciò che facciamo in
maniera inconsapevole o quasi, senza coinvolgere la coscienza e la
volontà. L’esibizione è un insieme di moltissimi processi impossibili
da governare tutti consapevolmente. Quando un’azione razionale ripetitiva diventa abitudinale, viene trasferita sotto il controllo dell’inconscio, cioè diventa automatica, e non è più necessario il presidio
razionale. Nell’esibizione artistica sono essenziali i ruoli di entrambe
le forme d’intelligenza: i processi inconsci si occupano di far eseguire
tutte le operazioni che sono state automatizzate, l’intelligenza razionale è libera di presidiare i punti più complessi e imprevedibili dell’esecuzione. Le abilità razionali determinano il nostro successo nella fase
di apprendimento di una tecnica e di memorizzazione di un brano. La
parte inconscia ed emotiva si manifesta e risulta determinante durante
l’esibizione. A tutto ciò bisogna poi necessariamente aggiungere il
temperamento artistico personale.
L’obiettivo di una postura efficace è quindi insegnare al corpo a muoversi rispettando e coadiuvando la voce, è lasciare un corpo libero per
una voce in movimento, è alleggerire il gesto musicale dall’interferenza di contraddittori gesti del corpo. È necessario trovare questa sinergia
sottile tra postura e voce, a garanzia di un corpo leggero e flessuoso per
una voce sempre “a disposizione”. Il suono va prima orientato nel corpo per poi essere orientato nello spazio esterno. Il suono ha sempre
bisogno di uno spazio che lo sappia accogliere e rispettare. Ancor prima
dello spazio sonoro, va ricercata una sorta di spazio emotivo che renda
l’azione fisica efficace e non la sovraccarichi di stress e ansie.
L’efficacia è conseguenza di un solo atto intenzionale, non interferito,
che integra in sé la complessità di tutti i dettagli costitutivi. L’azione
superflua è peggio dell’azione insufficiente: costa sforzo inutile, aumenta il grado di entropia, rende l’apprendimento scarso e faticoso. Nel
canto uno sforzo eccessivo è sintomo di un errato rapporto con ciò che
stiamo facendo. Nel canto c’è lavoro ma non ci deve essere fatica: lo
sforzo è spreco. Se il lavoro è corretto e lo sforzo è minimo, il corpo lo
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riconosce come efficace e lo memorizza come positivo (memoria procedurale). Tema importantissimo legato alla postura è la respirazione.
Premessa a una buona respirazione è la capacità di respirare “con
tutto il corpo”, percependo la verticalità dalla testa ai piedi: una buona
respirazione è felice conseguenza di una buona postura. Tutto il corpo
è coinvolto dalla respirazione, non tutte le parti in maniera attiva, ma
essendo il corpo un’unità inscindibile, esso è interamente interessato
dall’onda respiratoria.
Il mistero della respirazione
Nel canto, a mio avviso, nulla è più difficile da comprendere e da mettere in pratica della respirazione. Eppure respiriamo dal primo momento in cui veniamo al mondo: il primo atto che compiamo è proprio
il respiro, e da quel momento in poi non smetteremo più fino alla nostra
morte. Nonostante ciò, la respirazione per il cantante continua a essere un compito problematico, con evidenti ripercussioni sugli altri
aspetti della vocalità. La respirazione è luogo centrale del canto. Una
respirazione non perfettamente funzionale alla voce finisce con l’alterare gli equilibri di emissione, generando una voce di faticosa gestione.
Questo è per me motivo sufficiente per scegliere di affrontare questo
argomento cercando di indagarlo quanto più a fondo possibile.
I significati
Esplorando il significato linguistico di respiro si nota che, oltre a indicare l’insieme dei movimenti della respirazione, vuol anche dire sollievo, riposo, pausa, tregua.
In molte culture e tradizioni il respiro è manifestazione dello spirito,
energia sottile, è alito di vita.
La respirazione è un oggettivo atto funzionale necessario alla sopravvivenza, ma cos’altro suggerisce l’infinito “respirare”? Quali altri modi
esistono di pensare al respiro? Quali sensazioni ed emozioni porta con
sé il respiro?
Vi sono diversi atteggiamenti psicosensoriali associati all’atto del respiro, alcuni dei quali elencati di seguito:
• annusare
• ansimare
• aspirare
• bisbigliare
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• esalare
• gemere
• gorgheggiare
• russare
• sbadigliare
• sbuffare
• soffiare
• sospirare
• sussurrare
• cantare
In tutti questi casi si tratta di azioni psicofisiche con impatto sensoriale e spesso cariche di significati emotivi. Da ciò risulta evidente quanto
il respiro sia vulnerabile anche all’azione della componente emozionale. Ad esempio, è possibile classificare macroscopicamente il respiro
in tre categorie, a seconda dei diversi modi di viverlo:
•respiro equilibrato: l’inspirazione ha una durata pari a quella
dell’espirazione, inspiro ed espiro, yin e yang, sistema nervoso
simpatico e parasimpatico sono in equilibrio;
•respiro purificatore: l’espirazione prevale sull’inspirazione
(sospiro o gemito), si attua in situazioni fisicamente
ed emotivamente sovraccariche e contribuisce a eliminare
gli eccessi di tensione;
•respiro energetico: l’inspirazione prevale sull’espirazione
(sbadiglio, boccata d’aria), tipico di momenti di stasi
psicofisica, rappresenta un bisogno e una ricerca di energia.
Continuando a ragionare sul respiro, possiamo soffermarci sui modi
di dire attorno al respiro:
…fino all’ultimo respiro
…un alito di vita
…col fiato sul collo
…da mozzare il fiato
…col fiato sospeso
…bello da togliere il respiro
…spezzare il fiato in gola
…tutto d’un fiato
…sentir mancare il fiato
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…finalmente si respira
…un’atmosfera irrespirabile
…un respiro affannoso
…un’opera di ampio respiro
…essere asfissiante
…sprecare il fiato
…a pieni polmoni
…senza fiatare
…senza un attimo di respiro
In tutti questi modi di dire vi è la presenza di un potenziale di energia in
movimento. Energia e movimento sono rappresentati da azioni fisiche
ma anche emotive. Cioè: il respiro è vita, il respiro è movimento e azione di corpo e psiche, il respiro è inevitabile, il respiro parla di noi, il
respiro ci condiziona, ma soprattutto, il respiro è condizione del canto.
Riscoprire il respiro
Tutti sanno respirare ma pochi ne sono consapevoli, questo è il vero
nodo sulla respirazione. Essa è qualcosa che non si “impara”, che è
preesistente alla nostra consapevolezza. Proprio per questo sulla respirazione è possibile e auspicabile un percorso di “riscoperta” e “rieducazione” propriocettiva relativo a strutture ed energie interne di mente e corpo. Non è appropriato pensare di “imparare” una tecnica respiratoria, ma lo è di più parlare di “disimparare” alcune cattive abitudini acquisite e scambiate per modelli positivi. Nel respiro sono più
le cose da disimparare che quelle da apprendere realmente. La tecnica respiratoria non è complessa ma naturale (in assenza di particolari
patologie della respirazione) ed è in equilibrio con le leggi psicologiche
e fisiologiche della mente e del corpo. Vi possono però essere delle
abilità del corpo rimaste latenti e che un uso professionale della voce
necessita di riscoprire.
Condizione prima è riconoscere la presenza di uno spazio respiratorio,
dinamico e flessibile, una cavità nella quale muovere i volumi d’aria.
L’utilità delle cose cave sta proprio nel loro spazio vuoto all’interno:
per il corpo è indispensabile prendere coscienza della spazialità del
respiro. La percezione degli spazi interni consente di “muoversi” all’interno senza rischiare di urtare in ciò che non si conosce, così come la
percezione dello spazio esterno permette di orientarsi e di stabilire
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relazioni efficaci con cose o persone. La mancanza di consapevolezza
sugli spazi interni non può che ingenerare confusione, conflitto e disarmonia, come muovendosi ciechi in un labirinto. Inoltre, la respirazione
è una funzione che può essere agita sia volontariamente sia involontariamente: quando il respiro è volontario, il centro respiratorio del sistema nervoso autonomo viene bypassato e il controllo passa alla corteccia
cerebrale. Ma la natura consente un controllo minimo su questa funzione, prevalentemente involontaria e normalmente sorvegliata dal
centro della respirazione nel sistema nervoso autonomo (nucleo del
vago e midollo allungato, alla base del quarto ventricolo cerebrale). Il
ciclo respiratorio involontario diventa volontario sostanzialmente in
relazione al bisogno di esprimersi con la voce. Nel parlato e ancora di
più nel canto il ritmo e l’intensità del respiro vengono modificati volontariamente. La respirazione funzionale alla parola, e ancora di più
al canto, si diversifica dalla respirazione fine a se stessa.
Il respiro subisce anche delle alterazioni involontarie in particolari stati
emotivi: paura, piacere intenso, sorpresa ecc. Reazioni involontarie che
coinvolgono il respiro sono anche: singhiozzo, starnuto, tosse, sbadiglio,
riso, pianto. Si tratta di reazioni che, nell’educazione artistica della voce,
possono avere un’utilità come esperienze. Essendo perfettamente conosciute e acquisite, esse possono rappresentare punti di riferimento e
consapevolezze utili allo sviluppo di una tecnica vocale. A tali sensazioni si può ricorrere per evocare particolari atteggiamenti funzionali al
canto. Ad esempio c’è nel pianto un atteggiamento del corpo che posiziona la laringe verso il basso con un conseguente aumento della dimensione verticale del vocal tract1 e aumento degli spazi di risonanza; oppure, nell’atto di sorpresa vi è un innalzamento del velo palatino e un ampliamento dei volumi orali, con effetti simili sul vocal tract, o ancora
nello spavento c’è un innalzamento di spalle e clavicole e una contrazione generale del corpo negativi ai fini di un’efficace respirazione.
Ponte tra conscio e inconscio
Respirare vuol anche dire collegare il nostro spazio interno con quello
esterno, in un moto di va e vieni che è ponte tra il dentro e il fuori, in
un equilibrio tra il chiedere e il dare.
Il respiro, come funzione sia volontaria sia involontaria, è territorio di
condivisione tra conscio e inconscio, tra ragione ed emotività. Il respiro collega il nostro mondo interiore con la realtà esterna, il respiro dà
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accesso alla dimensione inconscia attraverso il suo andare e venire:
alternarsi di yin e yang, negativo e positivo, vuoto e pieno.
Siamo dotati della potenziale capacità di percepire il nostro corpo e i
suoi spazi, ma spesso siamo viziati da una mancanza di consapevolezza
sensoriale, siamo soggetti a condizionamenti ambientali e culturali e
finiamo per trovarci in uno stato di amnesia somatica ed emotiva. È
necessario imparare ad ascoltare contemporaneamente le due dimensioni: interna ed esterna, emotiva e fisica, imparare ad ascoltare e a
percepire i movimenti del respiro, senza interferire con essi, senza
cercare di modificarli, avendone fiducia, in un continuo sforzo di apertura e scambio (non solo ossigeno e anidride carbonica).
Una buona respirazione è la conseguenza di una forma di intelligenza
organica, di una sapienza del corpo, di un’intelligenza procedurale
non verbalizzabile, cioè di un’abilità non acquisibile attraverso la
parola ma attraverso l’esperienza. La parola, la spiegazione, il suggerimento sono solo strategie di supporto che l’insegnante dà al proprio
allievo; sono strumenti che devono aiutare l’allievo a compiere e memorizzare la giusta esperienza sul respiro. Anche per questo motivo
risulta molto complesso e a volte fuorviante parlare della respirazione
a scopo didattico.
Il controllo
L’omunculus motorio, ideato da Wilder Penfield (fig. 4.1), è la rappresentazione dell’estensione delle aree motorie sulla circonvoluzione
precentrale del telencefalo relative a ogni distretto corporeo. Tale rappresentazione mette chiaramente in luce il rapporto tra i gruppi di
neuroni situati nella corteccia motoria umana e i muscoli da essi controllati: più vasta è l’area del corpo rappresentata sulla corteccia motoria,
maggiore è il numero di neuroni pertinente a tale area, e di conseguenza più selettivi e raffinati i movimenti muscolari. Osservando l’immagine, le aree anatomiche coinvolte nella respirazione sono decisamente
poco estese, cioè la respirazione non coinvolge aree muscolari capaci di
essere selettive e raffinate (nell’omunculus hanno una piccola area di
rappresentazione) e per questo non è possibile realizzare un controllo
“puntuale” sulla muscolatura respiratoria. Non possiamo agire sulla
respirazione con l’evidenza e la prontezza con la quale muoviamo una
mano sulla tastiera di un pianoforte, dobbiamo in buona parte affidarci
alle preesistenti abilità del corpo, riconoscendo le dinamiche efficaci e
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corteccia cerebrale
sostanza bianca
vocalizzazione
fig. 4.1
naturali, rimanendo a disposizione con il corpo, riconoscendo la necessità di valorizzare gli spazi, unico vero presupposto al respiro, in un
principio generale che desidera espandere senza forzare.
Forme di empatia
Altra suggestione scientifica viene da considerazioni sui neuroni2 a
specchio. Giacomo Rizzolatti e il suo gruppo di ricercatori dell’Università di Parma, negli anni ottanta e novanta, hanno scoperto e studiato i mirror neurons (neuroni a specchio), una delle più importanti
scoperte degli ultimi anni nell’ambito delle neuroscienze: sono stati
prima scoperti nella scimmia e poi dimostrati anche nell’uomo. I neuroni a specchio stabiliscono una sorta di ponte tra l’osservatore e
l’attore, essi sono al centro dei comportamenti imitativi e fanno sì che
un’azione sia compresa in quanto la rappresentazione motoria di
quest’azione è attivata nel cervello dell’osservatore. Nell’uomo il complesso sistema dei neuroni a specchio codifica sia il tipo di azione sia
la sequenza dei movimenti di cui essa è composta. Il biologo indiano
Ramachandran3 in un suo saggio ha ipotizzato e sviluppato la potenziale importanza che hanno i neuroni a specchio nello studio dell’imitazione e del linguaggio. Infatti questi neuroni possono essere coinvolti nella comprensione delle azioni di altre persone e di conseguenza
favoriscono l’apprendimento delle stesse per semplice imitazione.
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Ruolo primario dei neuroni a specchio sembra proprio essere quello
di comprendere le azioni altrui, determinando intorno agli individui
l’esistenza di uno spazio d’azione condiviso, originando forme di interazione sempre più elaborate e modulando forme di empatia.
Questo è un tema che coinvolge anche tutta l’area delle abilità sviluppate attorno alla voce e quindi alla respirazione. È importantissimo
avere a disposizione dei modelli efficaci, avere una guida vocale capace
sia didatticamente sia vocalmente. L’allievo deve avere l’opportunità di
condividere le esperienze vocali dell’insegnante attivando i corretti
neuroni a specchio e assimilando inconsciamente la giusta procedura.
Con tempo e fatica l’allievo potrà così costruirsi una propria capacità di
entrare in empatia con “l’autorevole voce” del proprio insegnante, ma
sarà anche in grado di riconoscere le forme e le dinamiche più efficaci
ascoltando il panorama vocale che vorrà frequentare.
Il canto è un linguaggio meno comune rispetto al parlato, il bambino
impara naturalmente a parlare ma non sempre ha a disposizione i modelli di riferimento necessari per imparare a cantare. Si ritiene il canto
socialmente meno importante rispetto al parlato, anche se si tratta di
una dimensione presente nella nostra cultura. Questo atteggiamento
può portare a rischiare di sottovalutare il bisogno di modelli di riferimento. Per questo la scelta delle guide e dei modelli è di centrale importanza, almeno quanto lo è la volontà di conoscere e comprendere i
meccanismi fisiologici sottesi al canto, soprattutto in ragione del fatto
che il canto richiede, rispetto al parlato, importanti abilità aggiuntive.
Tecnicamente
Citando Mackenzie4: “Un perfetto governo della respirazione è condizione fondamentale del bel canto; dacché, per quanto la voce possa
essere bella in se stessa, non potrà mai essere adoperata artisticamente
se il metodo della respirazione è scorretto”.
Nel canto esiste quindi un modo di respirare considerato corretto ed
efficace che garantisce il risultato artistico desiderato.
Concettualmente nel canto la respirazione non è sostanzialmente differente rispetto al parlato, ciò che cambia sono volumi di energie ed
equilibri, precisamente vi è in gioco:
• una maggior quantità di aria;
• una maggior quantità di energia psicofisica;
• una maggiore enfasi dei parametri.
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In definitiva, vi è una maggiore complessità di emissione, di conseguenza: il canto è più complesso del parlato.
Il respiro consta di diverse fasi che costituiscono il ciclo respiratorio:
inspiro (presa d’aria) ed espiro (eliminazione d’aria), intervallati da
brevi apnee. L’equilibrio di queste fasi è importantissimo. Nel canto è
necessario “educare” queste fasi, considerando che l’emissione vocale
vera e propria coincide con l’atto espiratorio.
Nelle condizioni ideali del canto risulta con evidenza che:
•il tempo d’inspirazione è accorciato e il tempo di espirazione
è allungato;
•l’espirazione è uniforme, sostenuta e appoggiata, priva di scatti,
con controllo della pressione sottoglottica;
•l’espirazione è attiva.
Procedendo sistemicamente, vale la pena ricordare quali sono le meccaniche muscolari sottese alla respirazione. I muscoli coinvolti nella
respirazione, si dividono in:
•inspiratori: diaframma e intercostali esterni (e in parte minore
anche sternocleidomastoideo, scaleni, grande e piccolo
pettorale, gran dorsale, erettori della colonna vertebrale,
elevatori della scapola);
•espiratori: intercostali interni, dentato postero-inferiore,
trasverso del torace, addominali (retto, trasverso,
obliquo interno e obliquo esterno).
cassa toracica
inspirazione
diaframma
espirazione
fig. 4.2
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Il respiro prende vita dalla successione ritmica di contrazione e rilassamento del diaframma (coadiuvato dagli intercostali esterni), come
avviene per il funzionamento di un mantice, che crea un parziale vuoto che attira aria all’interno dei polmoni (fig. 4.2). Il diaframma è un
muscolo membranoso involontario, posto come una cupola a separazione della cavità toracica da quella addominale. Durante l’inspirazione il diaframma si contrae e si abbassa aumentando la capacità polmonare, durante l’espirazione il diaframma si rilassa e sale verso l’alto
contribuendo a espellere aria dai polmoni.
L’espirazione è normalmente passiva, ma attenzione, questo non è
perfettamente valido per il canto: nel canto anche l’espirazione è attiva. Il diaframma è normalmente attivo in fase inspiratoria, e ha importanza, oltre che nella respirazione, anche nella defecazione e
nell’espulsione del feto nella fase terminale del parto. Va ricordata
anche l’esistenza di un diaframma pelvico, posto inferiormente alla
cavità addominale, con forma a imbuto con la parte stretta rivolta
verso il basso. Anche il diaframma pelvico, contraendosi, si abbassa
attuando una depressione addominale che favorisce la discesa del
diaframma addominale.
Il diaframma è un muscolo molto importante nella fase inspiratoria;
in questa fase il diaframma contraendosi si abbassa dislocando più
verso il basso gli organi addominali (motivo per cui inspirando può
sporgere un po’ la pancia; ciò è più evidente in posizione supina) e
aumentando la capacità toracica. L’aria entra nei polmoni (effetto
mantice) con un contributo attivo anche dei muscoli intercostali esterni. Il coinvolgimento dei muscoli inspiratori ausiliari (sternocleidomastoideo, scaleni, grande e piccolo pettorale, gran dorsale, erettori
della colonna vertebrale, elevatori della scapola) deve essere modesto
e solo di rinforzo rispetto a diaframma e intercostali esterni. Quando
vi è una prevalenza della componente muscolare ausiliaria (meccanismo
sterno-costale) rispetto a quella costo-diaframmatica, la fonazione
viene pregiudicata.
Nel canto va privilegiata la componente costo-diaframmatica, che come
abbiamo visto si realizza attraverso l’azione sinergica di:
•diaframma e muscoli intercostali esterni durante l’ispirazione,
con ampliamento verticale e trasversale della gabbia toracica;
•parete addominale e intercostali interni durante l’espirazione
cioè nella fonazione.
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Si parla di meccanismo costo-diaframmatico proprio per definire bene
i territori più e meglio coinvolti dall’onda respiratoria associata al
canto. Una respirazione alta, ad esempio innescata da un moto di
paura, coinvolge poco la componente diaframmatica e basso costale e
troppo quella sterno-costale (spalle e sterno si sollevano), inficiando la
possibilità di controllo sulla respirazione stessa. Viceversa un eccesso
di coinvolgimento della componente addominale può irrigidire tutta
la muscolatura, anche quella laringea, con le dovute conseguenze. Si
ricorda che la corretta respirazione nel canto è il risultato dell’azione
di muscolature antagoniste secondo un equilibrio fisiologico (e quindi
naturale). Forze opposte si integrano per garantire la giusta emissione
di fiato in rapporto al suono desiderato, mettendo in atto un buon
accordo pneumofonico, cioè un giusto equilibrio tra presa di fiato,
emissione di fiato e assetto laringeo, senza la presenza di ipercinesie.
Un buon accordo pneumofonico risulta evidente in esercizi quali la
messa di voce, ove quest’equilibrio è condizione stessa per la riuscita
dell’emissione in crescendo e/o diminuendo d’intensità nel pieno controllo dell’intonazione. Durante l’inspirazione, con l’uso prevalente dei
muscoli inspiratori, si parla di azione di appoggio; nella fase espiratoria, con l’uso prevalente dei muscoli espiratori (si ricorda che nel
canto l’espirazione è attiva), si parla di azione di sostegno, in virtù
degli effetti che hanno sul canto i muscoli usati (fig. 4.3).
Le due componenti di appoggio e sostegno dovrebbero essere tra di
loro integrate, in un lavoro sinergico che procede dalla fase inspiratoria a quella espiratoria variando e integrando adeguatamente le due
grandezze: in fase inspiratoria l’appoggio è massimo, proseguendo
azione di
appoggio
azione di
sostegno
parete addominale
diaframma
fig. 4.3
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appoggio
punto di equilibrio
cantare sul fiato
controllo della pressione
sottoglottica
fig. 4.4
sostegno
verso la fase espiratoria diminuisce cedendo gradualmente la sua azione al sostegno. Cantare sul fiato vuol dire mantenere in equilibrio le
due componenti di appoggio e sostegno, garantendo la giusta pressione sul piano cordale e non esaurendo la colonna d’aria stessa (fig. 4.4).
Cantar sul fiato vuol dunque dire saper dosare il fiato in un giusto
principio di economia.
Come già accennato, anche la postura incide sulla respirazione: in posizione eretta vi è già un normale tono della parete addominale con funzione di sostegno e di contenimento, inoltre nella postura vista in precedenza e suggerita al cantante, l’allungamento della colonna, la retroversione del bacino, ecc., favoriscono l’attività della parete addominale,
condizione che di per sé promuove l’allargamento della gabbia toracica
in direzione centrifuga, cioè favorisce l’abbassamento del diaframma e
l’allargamento delle coste. La contrazione del diaframma pelvico, che si
induce portando un po’ in dentro il basso addome e/o stringendo un
po’ i glutei, è una manovra che può essere utile per facilitare una buona
presa d’aria perché favorisce l’abbassamento del diaframma addominale supportando l’appoggio. Una corretta postura quindi facilita una
buona respirazione, creandone il giusto presupposto. In aula è desiderabile che il cantante, in fase inspiratoria, ricerchi un’ampiezza toracica
che sia sinonimo di eleganza e maestà, con atteggiamento calmo e consapevole in un corpo flessuoso. Le clavicole non vengono coinvolte più
di tanto, mentre l’arco costale delle ultime coste (fluttuanti) viene sospinto verso l’esterno aumentando il diametro toracico. Nella fase espiratoria, cioè nel canto, diventa necessario non abbandonare la sensazione di ampiezza del torace onde impedire al diaframma di decontrarsi
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bruscamente e di lasciare svuotare i polmoni improvvisamente e senza
controllo. L’attività della parete addominale in questo caso favorisce un
lento rilascio del diaframma e di conseguenza un controllo del fiato.
Viceversa, un corpo non in equilibrio lavorerà muscolarmente interferendo con l’azione corretta dei muscoli respiratori, causando un eccessivo dispendio di energie e uno scarso controllo sull’emissione.
Concludendo, da un punto di vista fisiologico, possiamo riassumere
la respirazione elencando una serie di assiomi:
•appoggio e sostegno sono forze antagoniste che devono
rimanere tra loro in equilibrio variabile;
•se aumenta il sostegno diminuisce l’appoggio e viceversa;
•il punto di equilibrio tra appoggio e sostegno è mobile;
•esiste un’interdipendenza tra sistema respiratorio e laringeo;
•la postura incide sulla respirazione.
I pericoli più comunemente verificabili durante la respirazione sono:
•un’inspirazione eccessiva che può compromettere la capacità
di gestione del fiato (un motore che si ingolfa);
•un eccesso di appoggio (spinta in basso e in fuori),
con affondo della laringe, che genera un suono pesante
e probabilmente calante, con portamenti dal basso
e vibrato eccessivamente ampio;
•un eccesso di sostegno (spinta in alto e in dentro), con laringe
stretta ed eccessivamente alta, che genera un suono stridulo,
probabilmente crescente e vibrato stretto;
•un addome troppo contratto che ostacola l’abbassamento
del diaframma (ad esempio in situazioni di stress emotivo
e/o da performance);
•un eccesso di tensione nella muscolatura respiratoria
che incide sulla meccanica laringea e quindi sulle sue capacità
funzionali.
Ciò che un cantante dovrebbe saper fare, è sviluppare sempre più consapevolezza sulla propria respirazione e garantire la sopravvivenza di
un equilibrio dinamico tra appoggio e sostegno, in rapporto alle peculiari caratteristiche fisiche, somatiche e psicologiche personali, mettendo a disposizione energia che non deve degenerare in sforzo, quindi
senza il coinvolgimento della muscolatura posturale sovra e sotto-ioidea.
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Il cantante che ben respira si sa muovere a suo agio sul palcoscenico,
non perché è vittima di aggiuntive contrazioni muscolari, ma perché
vive un virtuoso equilibrio tra respiro, articolazione del suono e movimento.
Di solito, i testi che si occupano di canto a questo punto suggeriscono
degli esercizi sulla respirazione, ma non sarà questo il caso. Io non credo
molto in tutti quegli esercizi proposti per esercitare la respirazione o che
ne vogliono potenziare le capacità. È mia convinzione che il giusto respiro si possa attuare solo nell’atto stesso del canto, che l’esperienza
della respirazione debba passare obbligatoriamente dal canto. Esistono
indubbiamente molti esercizi che aiutano a realizzare una buona respirazione, ma il loro obiettivo è lavorare sul respiro fine a se stesso. Durante il canto gli equilibri respiratori cambiano completamente, ed è di
quella specifica esperienza che abbiamo bisogno. Ritengo più utile dedicarsi ad attività fisiche integrate con il respiro, come lo yoga, il nuoto
o la ginnastica posturale (con l’aiuto di specialisti del settore) e anche la
corsa, che sviluppano schemi corporei molto validi e aumentano l’efficienza respiratoria, ma tenendo sempre a mente che il canto è tutta
un’altra cosa. Ogni eventuale esercizio sulla respirazione dovrebbe avere l’obiettivo di sviluppare una propriocezione e un’endocezione sottili
che poi possano risultare utili anche nell’atto dell’educazione della voce.
Molto importante rimane l’affidarsi a un maestro di canto che sia in
grado di riconoscere e modificare un’eventuale inefficacia respiratoria.
Concludo questa lunga digressione sul respiro sottolineando che non
c’è uomo senza respiro, non c’è voce senza respiro, ma ci sono molti
uomini senza voce!
I parametri del suono vocale
“L’organo vocale è uno strumento troppo individuale per potere
imparare schematicamente certi modi di emissione: nessun metodo è
sistematico e la ricerca di timbrature e risonanze particolari, che non
siano quelle a cui l’organo vocale in questione è fisiologicamente
predisposto, può risultare dannosa5”.
Franco Fussi
Questo è il presupposto indispensabile per lo studio del canto. Ogni
voce si può orientare al canto solo rispettando la propria natura, sapendola ascoltare e declinando sul proprio strumento i suggerimenti
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forniti da insegnanti, testi, colleghi e quant’altro. Ciò di cui parlerò ora
andrà dunque letto sotto quest’ottica.
I parametri del suono vocale, cioè i “livelli” sui quali lavora il cantante,
si possono esprimere in: intensità, altezza e timbro.
•L’intensità del suono vocale è data dall’ampiezza di vibrazione
delle corde vocali in relazione alla pressione sottoglottica.
•L’altezza è funzione della lunghezza, dello spessore e della
tensione delle corde vocali, e varia in funzione della
frequenza di vibrazione delle corde, della forza adduttoria
e della pressione sottoglottica.
•Il timbro è la qualità della voce, determinata dagli armonici
del suono fondamentale (dipendenti dalla vibrazione
segmentale delle corde) e dalla selettiva amplificazione
di alcuni armonici secondo forma, dimensione e consistenza
dei risuonatori.
Fisiologicamente il suono vocale viene così prodotto:
•l’aria che fuoriesce grazie alla spinta del diaframma è
l’elemento “eccitante” sulle corde vocali;
•il corpo vibrante è rappresentato dalle corde vocali, la cui
tensione, lunghezza e spessore determinano l’altezza
del suono;
•l’“ambiente risonante” si sviluppa a partire dal piano cordale
ed è rappresentato da tutti quegli spazi invasi dall’onda aerea
vibrante: faringe e cavità orale (vocal tract). I “risuonatori”
possono essere mobili ed è pertanto possibile modificarne
la forma nel corso dell’emissione del suono, potendo variare
il timbro con continuità (morphing timbrico).
La consonanza avviene invece per propagazione dell’onda acustica nelle zone anatomiche vicine, generando sensazioni
di vibrazione (ad esempio, consonanza di petto, consonanza di testa).
L’atto respiratorio avviene a corde in posizione aperta, cioè a riposo,
mentre durante la fonazione si chiudono restringendo il passaggio.
L’aria che impatta sul piano cordale genera un aumento di pressione.
Quando tale pressione è sufficiente a contrastare la tensione delle
corde, si ha il passaggio dell’aria dalla fessura tra di esse, e una corri75
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spondente e improvvisa diminuzione della pressione (principio di
conservazione dell’energia del teorema di Bernoulli).
Il suono prodotto dipende dalla frequenza di oscillazione delle corde
vocali, in rapporto alla loro tensione, densità e lunghezza. Nell’uomo
adulto la lunghezza delle corde è di circa 17-25 mm, mentre per la
donna è di 12,5-17,5 mm, motivo per cui tra maschio e femmina c’è
differenza di tessitura (a parità di classe vocale, la donna si posiziona
circa un’ottava sopra).
Per la produzione della voce è necessaria pochissima aria, infatti l’onda sonora non è il risultato del trasporto dell’aria, ma dell’oscillazione
del mezzo. L’aria che fisicamente esce dalla bocca è il risultato di una
“fuga” (debito glottideo), che è tanto maggiore quanto più grave è il
suono prodotto, motivo per cui è più difficile eseguire un suono lungo
grave piuttosto che acuto.
Va ricordato che l’efficacia di un cantante nell’eseguire lunghe frasi,
dipende dall’abilità dello stesso nel gestire la pressione sottoglottica e
non dalla capacità toracica.
I risuonatori, che nel loro insieme costituiscono il vocal tract, possono
essere stilizzati graficamente in una “F” sovrapposta all’immagine
della sezione sagittale della testa (fig. 4.5). Il vocal tract, rappresentato
da faringe, bocca e naso, è attraversato dall’aria vibrante, dal piano
cordale alla rima orale e consente e determina l’amplificazione del
suono e la definizione del timbro.
Sono le soggettive caratteristiche anatomiche e le variazioni di forma
e dimensione del tubo aggiunto a produrre un’amplificazione selettiva
delle armoniche e, in definitiva, a modellare il timbro. Si ricorda che
per la voce le cavità di risonanza non sono statiche ma possono subire
modifiche di forma, dimensione e tono di parete, per cui anche il timbro in una stessa voce risulta essere un parametro variabile. Questi
fenomeni di modellamento dell’atteggiamento del vocal tract generano
diversi risultati timbrici che si manifestano in primis attraverso le differenze tra i suoni vocalici e consonantici e quindi in tutte le possibili
sfumature di “colore”.
Oltre al fenomeno di risonanza dato da una cavità inondata dal flusso
aereo vibrante, come già accennato, vi è anche un fenomeno di consonanza, cioè di propagazione dell’onda acustica nelle strutture anatomiche limitrofe. Si parla quindi di consonanza di petto quando l’onda
acustica consuona nelle strutture anatomiche del petto (suoni gravi), o
76
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seno frontale
seno sfenoidale
cavità nasale
palato duro
palato
molle
lingua
faringe
epiglottide
corde
vocali
esofago
trachea
fig. 4.5
consonanza di testa quando il fenomeno riguarda la testa (suoni acuti),
in relazione alla frequenza fondamentale del suono e all’impedenza
specifica degli organi coinvolti. In particolare, una corretta emissione
con buona qualità timbrata necessita di un’ottimale collaborazione tra
azione meccanica laringea (si veda più avanti il paragrafo I registri della
voce), gestione e modellamento del vocal tract, e corretto rapporto
pneumofonico. Di norma, l’ampliamento del vocal tract prevede un
aumento dello spazio orofaringeo per elevazione del velo palatino e
appiattimento della base della lingua, oltre che un abbassamento della
laringe e un aumento del diametro trasverso della faringe, onde garantire pienezza, rotondità e proiezione al suono (concetto di bilanciamento di emissione). Per quanto riguarda il modellamento dello spazio faringeo, va ricordato che esistono tre muscoli costrittori della laringe
(superiore, medio e inferiore) che durante la fonazione dovranno essere mantenuti in stato rilassato. In particolare, l’inferiore risulta essere
in relazione con il muscolo cricotiroideo, cioè il muscolo tensore delle
corde vocali e responsabile del controllo sull’intonazione. Questa relazione risulta pericolosa salendo di tessitura, infatti una maggior tensione del cricotiroideo induce una contrazione della bassa faringe creando
un conflitto di azioni muscolari. Una buona emissione prevede lo svi77
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luppo dell’abilità di mantenere ampie le cavità del tratto vocale impedendo sincinesie muscolari che si oppongono a tale principio. Lo sbadiglio (nella sua fase iniziale) rappresenta una strategia per indurre uno
spontaneo abbassamento della laringe, un sollevamento del velo palatino e favorire l’ampiezza orofaringea.
Lo sbadiglio in definitiva esalta la componente volumetrica dei risuonatori, arricchendo il suono di componenti armoniche. La parte terminale dello sbadiglio, con l’arretramento eccessivo della lingua e l’“infossamento” della voce, è invece controproducente ai fini di una buona
emissione. Anche la protrusione del labbro durante la fonazione, rappresenta un’azione in grado di allungare il vocal tract e di arricchire il
timbro. In ogni caso, ogni voce rimane e rimarrà sempre un mondo a
parte, e principi validi da un punto di vista tecnico vocale possono non
essere strettamente indispensabili per coloro che usano la voce in senso
non completamente eufonico ma comunque vincente.
Vocali e consonanti
L’articolazione dei fonemi è materia importante per chi usa professionalmente la parola e il canto. Darò qui spazio a pochi ma indispensabili cenni su vocali e consonanti, rimandando a testi specializzati
l’approfondimento dell’argomento.
Le vocali
A seconda della loro posizione (conseguenza della posizione della
lingua), le vocali si distinguono in:
• anteriori: è (bello) é (velo) i;
• centrale: a;
• posteriori: ò (trono), ó (dono), u.
A seconda del suono possono essere:
• chiuse, in posizione di risonanza alta: i, u;
• semichiuse, in posizione di risonanza medio alta: é, ó;
• semiaperte, in posizione di risonanza medio bassa: è, ò;
• basse, in posizione di risonanza aperta: a.
Essendo la lingua direttamente collegata alla laringe, nella pronuncia
delle vocali anteriori la laringe sarà in una posizione leggermente più innalzata, neutra per la “a” e più bassa per le vocali posteriori (tabella 4.1).
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Tabella 4.1. Posizione e suono delle vocali
Vocali
anteriori
alte
(chiuse)
i
u
medio-alte
(semichiuse)
é
ó
medio-basse
(semiaperte)
è
ò
basse
(aperte)
centrali
posteriori
a
Le consonanti fuse alle vocali offrono la possibilità di articolare la
parola.
Vengono per questo chiamate “con-sonanti”, cioè che suonano se
accostate a un suono, poiché hanno bisogno di accompagnarsi a una
vocale. In realtà le consonanti sono rumori e in particolare sono originate dal rumore della colonna d’aria in espirazione prodotto a livello
di differenti punti di articolazione quali labbra, arcate dentarie, palato
duro, velo pendulo. Importante è comprendere che vocali e consonanti vengono prodotte da differenti azioni muscolari e per un buon risultato devono essere tra di loro debitamente coordinate, evitando ogni
interferenza tra i differenti meccanismi. Le vocali sono prettamente
spazi e “forme” risonanti (vedi più avanti: Le formanti), mentre le
consonanti sono interruzioni di flusso aereo.
Le consonanti si distinguono a seconda del suono (tabella 4.2), del
luogo (tabella 4.3) e della modalità (tabella 4.4) di articolazione.
Tabella 4.2 Secondo il suono
Sorde
Sonore
quando il suono si produce senza
vibrazione delle corde vocali (cassa)
quando il suono è prodotto dalla
vibrazione delle corde vocali (gallo)
79
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Tabella 4.3 Secondo il luogo
Luogo di
articolazione
Consonante
bilabiali
tra le labbra
b-m-p
labio-dentali
tra incisivi e labbro
inferiore
f-v
linguo-dentali
tra la punta della lingua
e gli incisivi superiori
t-d-n
linguo-alveolari
punta della lingua
posteriormente agli
incisivi
s-z-r-l
linguo-palatali
tra porzione anteriore
della lingua e del palato
osseo
ci - gi
velari
tra il dorso della lingua
e il palato molle
k-g
Tabella 4.4 Secondo il modo
Occlusive
(la corrente d’aria trova
un ostacolo)
costrittive
(la corrente d’aria trova
un restringimento)
Affricate
(costituite da una
consonante occlusiva
e da una costrittiva)
p-b-t
d-k-g
m - n - gn
f - v (fricative)
s - sc - z (sibilanti)
r (vibranti)
l - gl (laterali)
z (t+s)
z (d+s)
ci/e (t+sc)
gi/e (d+j)
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Tabella 4.5 Secondo suono, luogo e modo
Costrittive
laterali
s (sorda)
s (sonora)
r
l
linguopalatali
sc (j)
bilabiali
p
(sorda)
b
(sonora)
nasali
linguoalveolari
orali
vibranti
Affricate
sibilanti
fricative
Occlusive
m
labiodentali
linguodentali
velari
f
(sorda)
v
(sonora)
t
(sorda)
d
(sonora)
k (sorda)
g
(sonora)
n
z (sorda) (t+s)
z (sonora)
(d+z)
gl (l) ci (sorda)
(t+j)
di (sonora)
(d+z)
gn
(ñ)
Nel canto una buona articolazione non è sempre affine a una corretta
emissione e a un’ottimale risonanza. Può accadere, soprattutto salendo
d’intonazione, che la parola perda di intelligibilità (in modo particolare
nella lirica); ciò è dovuto alle esigenze di emissione. È molto importante “ambientare” la pronuncia all’interno del “canale” di emissione
senza abbandonare il tono muscolare necessario per quella risonanza.
È necessario conciliare il luogo di articolazione (in bocca) con quello di
risonanza (più alto e/o posteriore), se necessario scendendo a compromessi a favore di una corretta emissione. Ad esempio, l’apertura della
bocca va aumentando negli acuti di potenza con conseguenti problemi
articolatori (fermo restando l’importanza dell’apertura interna, della
81
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parte posteriore della bocca, ciò che rende possibile ad esempio anche
acuti in pianissimo a bocca quasi chiusa). Inoltre, non sempre deve
essere ricercata una corretta dizione; soprattutto nel pop-rock una
pronuncia “personalizzata” può essere condizione premiante per una
vocalità molto caratterizzata.
Approfondimenti sul timbro
Il timbro, come già accennato, è determinato dai sopratoni armonici
che si associano al suono fondamentale, e può essere modificato in
relazione alla forma della cavità di risonanza percorsa dall’onda. In
rapporto al suono fondamentale, gli armonici sono sempre superiori
(cioè più acuti), progressivamente più deboli e in quantità differente
in relazione ai dettagli dell’oscillazione (ad esempio, i suoni gravi sono
più ricchi di trama armonica). L’intensità di queste componenti armoniche è spiccatamente modulata dal passaggio negli spazi superiori al piano cordale. Secondo la fisica del suono, ogni cavità è soggetta
al fenomeno della risonanza, e l’effetto sull’onda sonora attraversante
un risuonatore è di smorzare le componenti spettrali fuori risonanza
ed esaltare quelle prossime alla risonanza. Vale la pena ora fare un
riferimento ai risuonatori di Helmholtz (fig. 4.6). Si tratta di particolari cavità risuonanti create da Hermann von Helmholtz nel 1860 per
lo studio del suono e della sua percezione. Mettendo in oscillazione
l’aria contenuta in un risuonatore (soffiando di taglio nell’imboccatu-
fig. 4.6
82
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ra o esponendo il risuonatore a una fonte di onde sonore), si generano
al suo interno onde stazionarie in risonanza con la frequenza propria
della cavità, che quindi si comporta come un amplificatore selettivo.
Se è vero che il timbro delle vocali è conseguenza dell’amplificazione
selettiva di determinate frequenze, è vero anche che le stesse vocali
possono essere riprodotte per sintesi combinando suono fondamentale e armonici nella misura voluta. Questo lavoro è stato realmente
eseguito da Helmholtz utilizzando delle canne d’organo chiuse. Egli
constatò che per ciascuna delle vocali pronunciate, la cavità boccale
produce una specifica serie di risonanze, indipendenti dall’altezza del
suono prodotto e caratterizzanti la voce stessa. Cioè ogni vocale era
caratterizzata da una sua serie di risonanze. Secondo i principi della
fisica del suono, nello spettro sonoro prodotto dalla vibrazione delle
corde vocali si vedono rinforzate prevalentemente le armoniche corrispondenti alla frequenza di risonanza di quella forma e di quel volume mentre le altre vengono ridotte. In sostanza, la bocca funziona
essa stessa come un risuonatore di forma e grandezza variabile. A ogni
morphing corrisponde una selettiva amplificazione di armonici. Il
cantante, agendo sulle cavità di risonanza e modellandole, favorisce
l’esaltazione delle componenti armoniche efficaci per la specifica
emissione.
A parità di intensità, frequenza della fondamentale e timbro iniziale,
la voce è soggetta a una profonda e controllabile modificazione del
suo contenuto spettrale, permettendo di articolare moltissimi suoni
in forma di vocali e consonanti, nelle varie tessiture e con lo stile
desiderato. Inoltre, una buona tecnica è in grado di produrre una
buona “accordatura” delle risonanze del tratto vocale, sfruttando al
meglio il potenziale offerto dalle cavità e permettendo di generare un
suono più rinforzato nei suoi armonici (suoni più timbrati), oltre che
un suono di maggiore intensità a parità di pressione dell’emissione. Il
suono prodotto e proiettato all’esterno avrà un timbro caratteristico in
relazione alle diverse forme e dimensioni delle cavità di risonanza
(anatomia del soggetto e morphing timbrico), oltre che determinato
dall’attività articolatoria sui fonemi. Atteggiamenti specifici, come la
protrusione delle labbra o l’innalzamento del velo palatino, hanno
effetto diretto sul risultato dell’amplificazione del suono con modifica
del timbro, dovuti a un aumento e a un modellamento degli spazi di
risonanza.
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Ogni vocale è in grado di modellare all’interno del cavo orale spazi e
dimensioni specifici, di conseguenza la rappresentazione delle vocali
all’interno dello spettro si esprime attraverso la posizione assunta dalle prime due formanti (tabella 4.6):
Tabella 4.6 Le formanti delle vocali
i
I
formante in Hz
II
formante in Hz
240
2500
e
350
2200
a
750
1300
o
350
865
u
240
750
La formante (F) è una particolare frequenza attorno alla quale un suono
mostra un picco di ampiezza, cioè si tratta di zone di frequenza con
particolare concentrazione di energia acustica, conseguenti a un’amplificazione selettiva attuata dal vocal tract. Nella voce umana sono presenti diverse formanti, cioè picchi di energia acustica in posizioni variabili,
conseguenti agli atteggiamenti del tratto vocale; altrimenti detto, il meccanismo di emissione delle vocali modifica le posizioni delle formanti.
Nel dettaglio ogni vocale è identificata dal rapporto tra seconda e prima
formante: F2 / F1, mentre le successive formanti definiscono “sfumature” linguistiche, dialettali e personali. Schematizzando, la frequenza
della prima formante (F1) è in relazione con l’ampiezza dell’apertura
della bocca, mentre la frequenza della seconda formante (F2) è determinata dalle diverse posizioni della lingua. Da notare che per ogni vocale
la posizione delle formanti non cambia pur variando la frequenza del
suono fondamentale che si sta emettendo (ad esempio, la vocale “a” avrà
sempre la prima formante attorno ai 750 Hz e la seconda attorno ai 1300
Hz, qualunque sia l’intonazione del suono fondamentale) (fig. 4.7).
Al variare della frequenza, e senza modifica della posizione delle formanti, vi è invece una diversa quantità di informazioni contenute in
ciascuna formante. La trama armonica risulta essere più fitta nelle voci
maschili, meno nelle femminili e rada nel falsetto. Questo accade perché salendo d’intonazione le armoniche si distanziano tra di loro.
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F1
F1
F2
F2
F1 F2: vocale i
F1 F2: vocale é
F1
F1
F2
F1 F2: vocale è
F2
F1
F2
F1 F2: vocale a
F1
F2
F1 F2: vocale ò
F1 F2: vocale ó
F1
F2
F1 F2: vocale u
fig. 4.7
85
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In definitiva le vocali non sono che timbro. Ogni vocale ha una sua
forma, descritta graficamente attraverso lo spettrogramma e rappresentata tridimensionalmente dal volume risonante vero e proprio.
L’atteggiamento delle cavità di risonanza sopraglottiche determina la
vocale, in conformità con le leggi fisiche delle risonanze acustiche. Le
vocali sbocciano sulle labbra, ma si modellano a opera dell’intera cavità orofaringea. Ogni vocale è realizzata da uno specifico atteggiamento dei risuonatori e una buona pronuncia vocalica richiede di modellare spazi e strutture interni quali cavità orale nel suo insieme, lingua
e velo palatino, agendo anche su labbra e mandibola. La gestione di
suoni vocalici richiede una capacità propriocettiva sottile nel modellamento delle cavità interne. Non basta aprire la bocca e atteggiare le
labbra per ottenere un buon suono vocalico.
Altri esempi di amplificazione selettiva del cavo orale sono il fischio, il
canto armonico e lo scacciapensieri. Provando ad esempio a fischiare
con intonazione comoda e continua, senza interrompere l’emissione,
e provando ad atteggiare il cavo orale alla pronuncia in sequenza delle
vocali “a-e-i-o-u”, si nota che non è possibile controllare l’intonazione
e che la stessa tenderà a modificarsi, salendo o scendendo, a ogni diverso atteggiamento vocalico. Ciò dimostra concretamente che il fischio
(le corde vocali non producono suono, il fischio è solo dato dalla frequenza di risonanza della cavità) modula l’intonazione agendo sulla
forma e dimensione della cavità, cioè lavorando solo sugli armonici
prodotti dalla specifica cavità, senza la presenza di un suono fondamentale (come soffiando di taglio sull’imboccatura di un risuonatore
di Helmholtz). Questo è anche il principio del canto armonico, che su
fig. 4.8
86
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di un suono cordale attua una selezione delle armoniche da amplificare basandosi proprio sulla pronuncia delle vocali. E ancora, strumenti
come lo scacciapensieri (fig. 4.8) sanno produrre suoni dalla vibrazione di una sottile lamina, mentre il suonatore crea un vortice d’aria da
dentro a fuori la cavità orale, e l’intonazione avviene esclusivamente
modulando spazi e volumi interni, sempre sulla traccia delle vocali.
Concluderò questo capitolo con una suggestione empirica riguardante
proprio il suono delle vocali. È possibile notare che il timbro di ogni
vocale possiede una somiglianza con il proprio segno grafico stampato
maiuscolo: “A-E-I-O-U”. Probabilmente il timbro vocalico ha influenzato la scelta grafica, ma ciò è interessante soprattutto perché permette di notare che tutte e cinque le lettere condividono un aspetto: ogni
segno grafico di vocale può contenere al proprio interno la vocale “I”.
Cioè vi è una dimensione comune a tutti e cinque i suoni, che è quella
verticale, alla quale non si può rinunciare. Tale riflessione è utile per
chi usa la voce professionalmente e ha bisogno di immagini e rappresentazioni che guidino le proprie propriocezioni, infatti è molto più
potente il contenuto veicolato da un’immagine o da una metafora che
quello veicolato dalla parola scientifica. La “I” viene quindi intesa come
una colonna portante, intrinseca a ogni vocale. Se in una vocale manca
la verticalità della “I” il suono tende a schiacciarsi. La “I” diventa una
dimensione di riferimento, molto chiara da un punto di vista rappresentativo e molto efficace a livello di sonorizzazione (tutti sappiamo
pronunciare correttamente la “I”): in ogni pronuncia vocalica non
dovrebbe mancare mai la verticalità della “I”, ove la punta rappresenta esattamente il punto di contatto della vocale sulla superficie di vocal
focus, “luogo” assai riconoscibile per questa vocale e meno evidente
per le altre (non a caso la “I” è la vocale percepita più alta). Analogamente la “A” è la vocale che graficamente mostra un’ampia base di
appoggio e che a sua volta può contenere le altre vocali. Anche in
questo caso la “A” descrive la dimensione massima orizzontale e la
posiziona sulla base (non a caso la “A” è la vocale più aperta e più
bassa). Gli altri suoni vocalici non possono che posizionarsi nello spazio delimitato da “I” (punta) e “A” (base). Queste immagini spaziali
possono semplicemente essere utili e rassicuranti per la gestione efficace della pronuncia vocalica all’interno del vocal focus e nel rispetto
dell’emissione.
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I registri della voce
Un argomento che voglio toccare, anche se non approfondire, essendo
territorio più del foniatra che non del cantante, è quello dei diversi
registri laringei. Reputo importante avere a disposizione delle chiare
informazioni su questo argomento, onde aiutare l’allievo a comprendere cosa sta accadendo nel proprio strumento e a perseguire la via più
corretta in relazione alle scelte stilistiche.
Per cominciare è bene dare qualche cenno anatomico-funzionale. La
laringe è la sede dell’organo deputato alla fonazione, è sospesa all’osso
ioide per mezzo del legamento joepiglottico; superiormente si continua
con la faringe e inferiormente con la trachea. Nell’uomo la laringe è
più voluminosa e in posizione un po’ più bassa che nella donna. Il suo
scheletro è costituito da cartilagini tra di loro articolate.
Le principali cartilagini che costituiscono la laringe sono:
Cartilagini
Anatomia
epiglottide
impari: a forma di foglia, nella deglutizione chiude l’adito
laringeo permettendo al cibo di passare solo nella faringe
e quindi in esofago
tiroide
impari: è la più voluminosa, a forma di libro aperto,
con dorso posto anteriormente (riconoscibile nel
“pomo d’Adamo”)
cricoide
impari: è la più inferiore della laringe, di forma complessa
assimilabile a un anello
aritenoidi
pari: si tratta di due piccole cartilagini a forma piramidale
Le corde vocali sono rappresentate da due paia di pieghe, le false (superiormente) e le vere (inferiormente), separate da uno spazio detto
“ventricolo del Morgagni”. Mentre le corde false sono solo degli abbozzi muscolari ricoperti di mucosa, le vere hanno struttura a strati e
precisamente:
88
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Struttura delle corde vere
superficiale
epitelio
lamina propria
superficie
della corda
spazio di Reinke
banda di fibre elastiche
fibre collagene
profonda
muscolo cordale
legamento
vocale
corpo cordale
I muscoli laringei che agiscono nella produzione della voce possono
essere distinti in: muscoli estrinseci, che collegano una cartilagine laringea a una struttura ossea limitrofa, posti all’esterno delle strutture
cartilaginee della laringe, che permettono al corpo laringeo di compiere alcuni movimenti entro il collo; e intrinseci, che invece collegano
due cartilagini laringe e governano i movimenti tra le cartilagini, sono
interni alla struttura cartilaginea, eccezion fatta per i cricotiroidei che
sono posti esternamente.
Muscoli estrinseci: modificano in volume e lunghezza
le cavità di risonanza
Muscolo
Azione
Quando
tiroioidei
spostano la laringe verso l’alto
nell’emissione
degli acuti
sternotiroioidei
spostano la laringe verso
il basso
nell’emissione
dei gravi
costrittori inferiori
della laringe
uniscono laringe e faringe e
spostano indietro la laringe
digastrico, stiloioideo,
ioglosso
fissano la laringe per facilitare
il lavoro dei muscoli intrinseci
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Muscoli intrinseci: modificano la relazione
tra le cartilagini laringee
Muscolo
adduttori:
costrittori
della glottide
Dove
interaritenoidei
tra le due cartilagini aritenoidi
cricoaritenoideo laterale
tra parete laterale della cricoide
e l’apofisi laterale dell’aritenoide
abduttori:
dilatatori
della glottide
cricoaritenoideo posteriore
tra faccia posteriore della cricoide
e l’aritenoide
tensori
cricotiroideo
(esterno alla struttura
cartilaginea della laringe)
tra faccia anteriore della cricoide
e margine inferiore della tiroide
tiroaritenoideo
anteriormente nell’angolo tiroideo
e posteriormente sull’aritenoide
Gruppi muscolari
aritenoidei
interaritenoidei
cricoaritenoideo laterale
se con azione prevalente:
voce piena
tiroaritenoideo
(corda vocale)
cricotiroidei
cricotiroideo
se con azione prevalente:
voce di falsetto
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Azione
Quando
avvicinano tra loro le cartilagini aritenoidi,
chiudendo posteriormente la glottide
in fonazione
fanno ruotare medialmente le cartilagini
aritenoidi, facendo chiudere la glottide
in fonazione
fanno ruotare lateralmente le cartilagini
aritenoidi, facendo aprire la glottide
nella respirazione
movimento verso il basso e in avanti della
cartilagine tiroidea, con allungamento e
assottigliamento della massa cordale,
responsabili anche del vibrato
regolazione dell’intonazione e
destabilizzazione della resistenza
glottica adduttoria
nella fonazione
rappresenta il corpo muscolare delle corde
vocali, con un fascio laterale adduttorio, e un
fascio mediale che accorcia le corde vocali
per i toni gravi
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Le due corde vere possono emettere suoni con grande variabilità di
intonazione, di dinamica e di timbrica, sfruttando un’ampia e articolata gamma di assetti glottici.
Le caratteristiche dominanti dell’assetto glottico definiscono il registro
vocale, dove per registro s’intende una gamma di toni omogenei per
timbro, prodotti da uno stesso meccanismo laringeo e in equilibrio
con la capacità di adattamento dei risuonatori. Dunque esistono diverse meccaniche di lavoro nell’emissione laringea dei suoni, che implicano risultati acustici differenti.
Il gruppo dei muscoli aritenoidei è in antagonismo con il gruppo dei
cricotiroidei. Entrambi i gruppi agiscono contemporaneamente e in
antagonismo regolando la tensione delle corde vocali e determinano
forza adduttoria, massa, lunghezza e tempi di contatto cordale. La
prevalenza dell’azione di uno dei due gruppi determina la meccanica
in atto, cioè i meccanismi laringei sono la diretta conseguenza dell’azione e dell’integrazione di muscoli tra di loro antagonisti. L’attività di
questi gruppi muscolari varia in funzione dell’altezza del suono prodotto, con una componente minima dei cricoaritenoidei per i toni
gravi nel registro pieno, e una massima per gli acuti in registro leggero.
I muscoli cricotiroidei gestiscono la tensione longitudinale e di conseguenza l’estensione musicale.
meccanica
registro
ambiti
M0
fry,
pulse
– nel parlato
modale,
pieno
– nel parlato
– nel canto
M1
frequenze più basse
dell’estensione
frequenze gravi e centrali
M2
M3
falsetto,
leggero
– nel canto
flauto,
fischio
– nel canto
toni medi e acuti dell’estensione
sovracuti in donne e bambini
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Nei toni gravi vi è una prevalente attività del tiroaritenoideo (muscolo vocale, appartenente al gruppo degli aritenoidei), con aumento
della massa cordale e dei tempi di contatto cordale, producendo suoni armonicamente ricchi e timbrati. Nei toni acuti invece c’è una
prevalente attività dei cricotiroidei, con allungamento della corda e
diminuzione dei tempi di contatto cordale con produzione di suoni
meno ricchi e timbrati. Il suono prodotto da queste meccaniche laringee, subirà poi un ulteriore modifica a opera del vocal tract. In questo
modo si ottiene la definizione di due livelli di registri: uno primario,
che è conseguenza dalla meccanica laringea d’origine, e uno secondario che è dato dal contributo del vocal tract sul suono prodotto dalla
specifica meccanica. Quando si parla di voce di petto o di testa, è
opportuno capire che non ci si sta riferendo a un registro primario ma
a un registro secondario, cioè agli effetti del vocal tract sul suono
prodotto da una specifica meccanica. Parlare di voce di petto o di
testa non ha nessun riferimento al registro laringeo, ma si riferisce solo
a sensazioni di consonanza associate a un suono prodotto da una
specifica meccanica e percepibili rispettivamente a livello del petto o
del massiccio facciale.
I registri primari, in relazione alla frequenza prodotta, possono essere
raggruppati in quattro categorie:
corde
corte e spesse, gli strati superficiali rilassati e spostabili dai piani sottostanti, attività
muscolare di aritenoidei e cricotiroidei minima, alti tempi di contatto glottico,
può esserci vibrazione concomitante di false corde e aritenoidi
corte e spesse, vibranti nell’intera lunghezza, il corpo cordale è più rigido rispetto
agli strati superficiali, l’attività degli aritenoidei prevale su quella dei cricotiroidei,
l’attività di entrambi aumenta con l’aumentare della frequenza, il tempo di contatto
cordale supera il 50% dell’intero ciclo vibratorio
la massa vibrante è ridotta, l’ampiezza di vibrazione è ridotta, tutti gli strati cordali
sono stirati, l’attività muscolare cricotiroidea è prevalente, con tempi di contatto
glottico inferiori al 50% dell’intero ciclo vibratorio
sottili e tese, onda mucosa assente o quasi, talora con assenza di contatto cordale
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Il passaggio da una meccanica a un’altra può, soprattutto nella voce
non educata, incorrere in un sensibile mutamento qualitativo del suono. È riconosciuta una zona di passaggio tra un registro e il successivo,
che determina tale cambiamento timbrico. Il cantante esperto è invece
in grado, se richiesto dallo stile cui aderisce, di “sfumare” questa zona
di passaggio agendo sia sull’equilibrio di tensione dei muscoli laringei
che sulle risorse del vocal tract.
Un cantante ben formato è quindi in grado di eseguire suoni consecutivi e omogenei non lasciando percepire disomogeneità timbriche nelle
zone di passaggio da un registro all’altro. È perciò possibile attuare e
gestire un registro misto, che prevede la contemporanea azione di due
meccanismi, di due azioni tensorie antagoniste tra loro, ma capaci di
integrarsi in un equilibrio virtuoso. In particolare per ogni voce esiste
una zona di frequenze all’interno della quale si può scegliere se usare
in netta prevalenza il meccanismo 1 o 2. È importante trovare un punto
di convergenza tra i registri, ma anche saper sempre riconoscere e ritrovare le caratteristiche specifiche di ogni registro. Nella voce mista si
distinguono due comportamenti differenti per uomo e donna: l’uomo
privilegia un M1 mix M2, mentre per la donna è più comune M2 mix
M1 (dove la prima meccanica è dominante sulla seconda).
L’intensità è un parametro connesso alla meccanica laringea, infatti
aumentando la pressione sottoglottica, anche l’intonazione tende a
salire, il cantante perciò, aumentando la pressione sottoglottica, agisce
contemporaneamente su intensità e intonazione modificando la miscela dei meccanismi 1 e 2. Nella gestione del parametro l’intensità risulta essere molto importante il gruppo degli aritenoidei, proprio perché
la loro azione compensa l’incapacità dei cricotiroidei a contrastare
l’aumento della pressione sottoglottica.
Una voce ben educata al canto è in grado di garantire (soprattutto
nelle zone di passaggio di registro) il miglior accoppiamento tra vibratore laringeo e risuonatori, cioè il risuonatore si adatta al suono che
deve rinforzare.
Tutte queste informazioni sui registri devono servire a chi usi la propria voce, per capire e rispettare il proprio strumento. La laringe e le
sue meccaniche non sono controllabili direttamente, se non attraverso la volontà di rispettarne gli equilibri e le fatiche. È possibile chiedere tutto alla propria voce, purché quel tutto sia realmente nel suo
potenziale. Ho conosciuto voci che si ostinavano a non affrontare un
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registro misto o di falsetto e che poi si lamentavano di non avere una
buona estensione, chiedendo all’insegnante la “ricetta per salire”.
Spesso si pretende troppo e subito, ogni voce ha le sue caratteristiche
e i suoi tempi. Non tutte le voci possono essere adatte a un particolare genere ed è bene capire anche quale sia lo stile meglio rappresentabile dal proprio strumento. Conoscere l’esistenza dei registri e le
loro dinamiche può aiutare a comprenderne i limiti e i vantaggi della
propria voce.
Conoscere e curare la voce
Per fare un uso professionale della voce sono necessari e indispensabili i seguenti ingredienti:
• un buono strumento a disposizione;
• salute fisica;
• talento musicale;
• personalità musicale.
Sulla base di queste caratteristiche è realisticamente possibile costruire una buona vocalità. A questo punto l’allievo dovrà raccogliere
spiegazioni il più possibile oggettive sugli atteggiamenti corporeomuscolari necessari. L’insegnante può certo fare ampio uso di immagini e metafore, che con la loro suggestione siano in grado di trasferire
sensazioni all’allievo, ma sempre basandosi su un sapere oggettivo e
non esclusivo frutto della personale creatività. L’allievo dovrà acquisire consapevolezza del proprio schema corporeo-vocale sviluppando
con costanza e pazienza la capacità di collegare un corretto comportamento funzionale con il relativo prodotto acustico e quindi di memorizzarlo a livello procedurale.
Il percorso all’emissione, se scomposto nelle sue fasi e messo sotto
lente d’ingrandimento, può essere il seguente:
•capacità di rappresentare mentalmente un progetto acustico
che preceda l’emissione stessa, prevedendone intonazione,
timbro, intensità;
•capacità di predisporre il corpo alla realizzazione del
progetto acustico, attuando una pianificazione del gesto
vocale e realizzando un respiro coerente all’intero percorso
musicale da affrontare;
•capacità di percepire correttamente la proiezione del suono
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sulle superfici di risonanza, cioè di percepire correttamente
il vocal focus;
•capacità di mantenere in equilibrio pressione aerea e suono,
realizzando un corretto accordo pneumofonico;
•capacità di mantenere la laringe libera da ogni forma
di costrizione e a disposizione dell’articolazione del suono;
•capacità di articolare vocali e consonanti senza interferire
con le esigenze di una buona emissione.
Il cantante dovrà poi evitare di incedere in situazioni di malmenage
e surmenage e per quanto possibile, dovrà proteggersi da patologie
infiammatorie, evitando il contatto con polveri e sostanze tossiche
irritanti, evitando eccessi di aria condizionata e abuso di alcool e/o
tabacco. Ai primi accenni di disfonia, di riduzione della qualità vocale, di emissione aspra, rauca, stimbrata o in caso di rapido affaticamento, è consigliabile il riposo vocale. In ogni caso il cantante può
condurre una vita assolutamente normale, senza indulgere in atteggiamenti ipocondriaci o di iperprotezione, riscontrabili in molti
professionisti della voce, ma che probabilmente sono segnali di fragilità psicologica.
Per capire con che voce si sta lavorando, sia che si parli della propria
sia di quella di un allievo, è necessario fare una serie di valutazioni, o
più semplicemente mettersi nella condizione di osservarla e analizzarla nelle sue componenti.
Innanzitutto è consigliabile un parere oggettivo fornito dal medico
foniatra, che sulla base delle sue competenze professionali e degli
strumenti a disposizione, eseguirà una valutazione anatomica, fisiologica e funzionale, fornendo informazioni per altro molto importanti
non solo per valutare lo stato di salute dello strumento ma anche per
aiutare a classificare la voce in base a dimensione, forma di laringe e di
vocal tract, oltre che evidenziare eventuali malformazioni congenite o
fragilità costituzionali. L’insegnante valutando queste informazioni, e
sulla base delle proprie esperienze, farà poi un’analisi qualitativa e
stilistica. Il cantante a sua volta, coadiuvato dal proprio feed-back
uditivo userà tutte le informazioni fornitegli da foniatra e insegnante
per sviluppare ulteriormente le proprie capacità di giudizio acustico e
di sensibilità endocettiva e propriocettiva in base agli obiettivi personali prefissati.
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Le tabelle che seguono forniscono suggerimenti
su come osservare la voce che si desidera valutare.
Valutazione del foniatra
condizioni generali e stato di salute dell’apparato fonatorio
dimensione laringe
lunghezza e spessore delle corde
valutazione delle cavità di risonanza
Valutazione quantitativa (insegnante e allievo)
estensione
fisiologica
- di 3 ottave
3 ottave
+ di 3 ottave
tessitura
- di 2 ottave
2 ottave
+ di 2 ottave
classe vocale
grave
media
acuta
volume
scarso
buono
importante
timbro
esile
agilità
buona
ricco
discreta
scarsa
Valutazione qualitativa (insegnante e allievo)
qualità
vocale
buona
velata
rauca
pressata
soffiata
ipercinetica
timbro
vellutato
metallico
cupo
aspro
brillante
legnoso
attacco
morbido
duro
soffiato
colpo di
glottide
impreciso
articolazione
chiara
imprecisa confusa
vocal focus
ben
sfuocato
localizzato
nasale
omogeneità
registri
(se richiesta
dallo stile)
buona
discreta
scarsa
legato
buono
discreto
scarso
intonazione
precisa
calante
crescente variabile
vibrato
normale
caprino
tremulo
ingolato
ballante
assente
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A questo punto potrebbe essere utile per allievo e insegnante confrontarsi con queste tabelle con cadenza periodica, semestrale o annuale,
a seconda dell’intensità e della costanza di studio, come pure potrebbe
essere di aiuto al professionista che intenda mantenere alto il livello
qualitativo della propria voce, non mancare di “esplorarla” sistematicamente.
Breve eserciziario
Innanzi tutto riscaldare la voce vuol dire ritrovare il proprio strumento. Non si tratta solo di un riscaldamento muscolare ma presuppone il
desiderio di atteggiare il proprio corpo a strumento e di “modellarlo”
come tale, con le sue parti vive, mobili e volubili. Il riscaldamento
parte quindi da un atteggiamento del corpo, da uno schema corporeo
vocale acquisito e riproposto ancora prima dell’emissione.
Ogni cantante o insegnante di canto utilizza una sequenza di esercizi
che ritiene efficaci ai fini del riscaldamento. Anche io indicherò di seguito il percorso di quello che considero il mio migliore riscaldamento,
e da esso potrete trarre ciò che più è in sintonia con le vostre esigenze
e sensibilità. La tabella cita vari esercizi, l’esecuzione di tutti può affaticare la voce, per un buon riscaldamento è necessario conoscere il
proprio strumento e sottoporlo al giusto lavoro. Personalmente, prima
di un concerto, trovo molto efficace riscaldare lo strumento con estrema calma, cominciando con ampio anticipo e concedendomi delle
generose pause tra una fase e l’altra del riscaldamento stesso, bevendo
acqua tra un esercizio e l’altro, ciò che mi permette, oltre che di idratarmi, di mantenere la laringe libera da stress costrittivi. La prima fase
del riscaldamento è dedicata all’intero corpo, solo successivamente
passo nello specifico del riscaldamento vocale.
Riscaldamento del corpo
riscaldamento
di tutto il corpo
stretching o yoga o simili,
dolce, senza stancare il corpo
qualche respiro
espirazione: mi svuoto non solo dell’anidride carbonica,
ma da ogni tensione negativa, vecchie emozioni o pensieri
inspirazione: introduco ossigeno, energia ed esperienze
nella pausa tra inspiro ed espiro familiarizzo con quello
spazio fisico e temporale che dà accesso all’“interno”
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RISCALDAMENTO DELLA VOCE
(valutando la giusta tessitura per la propria voce senza stancare lo strumento)
muto
da N (risonanza percepita in testa) a M (risonanza percepita
(su suono centrale nel petto), in continuum, cercando di percepire i diversi
comodo)
spazi di risonanza
muto
(attorno a una
quinta)
glissando lento
con M
armonici
(su suono
comodo centrale)
tutta la
sequenza
per gradi
congiunti
(attorno a una
quinta)
con “M”
con “R”
con “M-I”, “M-O”
con “R-I”, “R-O”
per piccoli salti
(triade perfetta)
con “M”
con “R”
con “M-I”, “M-O”
con “R-I”, “R-O”
vocali
I-E-A-O-U sullo stesso suono con
messa di voce, ripetendolo
l’esercizio su ogni grado
dell’estensione
agilità
arpeggi legati e
picchettati
1°-3°-5°-8°
con “I” e “O”
test di qualità
suono minimo: emissione
del suono più breve
e piano possibile
evocazioni
libere improvvisazioni a seconda dello stato d’animo
e del repertorio da affrontare
glissando ellittico, da N (più acuta) a M
(più grave), in continuum, cercando di
percepire i diversi spazi di risonanza
scale
picchettate
e veloci
gorgheggi e solfeggi
(Rossini)
picchettato su tutta
la tessitura
Il mio riscaldamento si conclude con una lettura a mente di tutto ciò
che dovrò eseguire durante il concerto, riservando una lettura in voce
solo a pochi passaggi che richiedono particolare abilità. Tutta la fase
di riscaldamento può durare anche due ore o più, ma di queste solo
una parte è realmente cantata, infatti la prima regola è non stancare
la voce.
Dopo questo rito, nel tempo che mi rimane prima della performance,
mi dedico serenamente ad altro, sapendo che, per il momento dell’esecuzione, il mio strumento, fatto di corpo, mente cognitiva e mente
emotiva, sarà pronto.
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Dopo il concerto si ha poi bisogno di ritornare al territorio del parlato,
a uno stato vocale più calmo, e di ritrovare i giusti equilibri. Questo è
possibile, come fanno anche gli atleti, accompagnando l’apparato
muscolare verso uno stato di quiete, favorendo lo smaltimento dell’acido lattico prima che si depositi per evitare l’irrigidimento dei muscoli
causato dall’attività muscolare. È molto importante eseguire un buon
defaticamento soprattutto dopo attività vocali intense, con esercizi
simili a quelli adottati per il riscaldamento, ma con minor intensità e
forza, favorendo disegni discendenti e scemanti verso il parlato.
DEFATICAMENTO
deglutizione
mezza voce discendente
muto discendente
glissato discendente
Vocal tract: tratto vocale, chiamato anche
tubo aggiunto; rappresenta l’insieme di
cavità poste in serie e in parallelo, dal
piano glottico alle fosse nasali e invase
dall’aria messa in vibrazione.
2
Neuroni: cellule cerebrali che costituiscono il tessuto nervoso, e che concorrono alla formazione del sistema nervoso.
3
Vilayanur S. Ramachandran (1951) è un
1
neurologo indiano, sua è la frase: “I neuroni a specchio saranno per la psicologia
quello che il dna è stato per la biologia”.
4
Sir Morell Mackenzie, da Hygiene of the
vocal organs, London 1886.
5
F. Fussi, M. De Santis, Le Parole e il
canto. Tecniche, problemi e rimedi nei
professionisti della voce, Piccin – Nuova
Libraria, Padova 1993, p. 77.
100
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5. Dal lirico al pop
Vi sono infinite affinità tra generi vocali diversi, partendo dal presupposto che all’origine c’è la stessa cosa, cioè la voce come proiezione
della totalità dell’uomo. Sulla base di questo principio, desidero navigare, anche un po’ arbitrariamente, da un estremo all’altro degli
stili vocali, per poter tracciare una mappa il meno riduttiva possibile
dell’ologramma umano, esplorando il potenziale di ogni voce, declinato in modi sempre nuovi pur rimanendo sempre se stesso. Muovendomi tra differenti qualità vocali, esporrò brevemente ciò che il codice lirico e quello del pop condividono, passando attraverso l’esperienza del belting.
lirico
belting
pop/rock
Linguaggio lirico
Come già accennato, esistono diversi “codici” performativi del sistema
pneumofonico. Nascita, sviluppo e diffusione degli stessi sono in relazione a fattori ambientali, temporali, sociali, culturali, razziali e semantici. Nel canto lirico la vocalità viene definita “impostata”. Si tratta di
un codice vocale proprio dell’opera europea, nato tra il XVII e il XVIII
secolo e cresciuto fino a oggi, sviluppando la prassi esecutiva in relazione a cambiamenti del gusto musicale, della tecnica vocale, degli
strumenti e dei teatri. Oggi, l’estetica del canto lirico necessita di una
lunga fase di apprendimento, costante e di alto livello. Le caratteristiche fisiologiche di ogni voce e la personale sensibilità artistica indirizzano il cantante verso diverse specializzazioni (musica antica, opera,
musica contemporanea…). La conoscenza della cultura della musica
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scritta, della classe di appartenenza (soprano, mezzosoprano, contralto, baritono, basso) e dell’estensione (almeno due ottave) sono requisiti necessari a ogni voce lirica. Inoltre sono richieste precise qualità e
caratteristiche:
• omogeneità tra i registri vocali;
• coesistenza di qualità timbriche di punta e di cavità (voce rotonda);
• delta dinamico delle intensità ampio e controllabile;
• portanza e penetranza;
• appoggio e sostegno respiratorio potenziati e in equilibrio;
• presenza quasi costante di un vibrato di qualità;
• oltre a un implicito talento musicale.
Solo così è possibile un’emissione eufonica con sforzo laringeo contenuto, massima udibilità e timbro omogeneo lungo tutta l’estensione.
Queste qualità fanno sì che la voce venga definita coperta e non abbia
bisogno di amplificazione. L’amplificazione naturale è il risultato della
presenza della terza formante, o formante del cantante, posizionata a
circa 3000 Hz dello spettro sonoro, qualità che permette alla voce di
“passare” l’orchestra. Secondo Gisela Rohmert, esistono altre due
formanti, evidenziate in voci cosiddette “funzionali”, cioè con caratteristiche di spiccata qualità, che si posizionerebbero rispettivamente a
5000 e 8000 Hz circa. Questi picchi di energia vengono riconosciuti
acusticamente come qualità di brillantezza. Inoltre, nella voce lirica
devono essere assenti rumore e diplofonie.
Linguaggio belting
L’atteggiamento vocale del musical, genere musicale fiorito in America (soprattutto attorno a Broadway) nei primi anni del Novecento, è il
belting. Il musical è il risultato della fusione di forme teatrali europee
con la sensibilità americana, e nasce per soddisfare l’esigenza di un
teatro popolare meno dispendioso e privo di sistemi di amplificazione.
Il termine belting deriva da “to belt out”, cioè cantare a squarciagola.
Ethel Merman (1908-1984), con la sua emissione belting, è una delle
prime grandi rappresentanti del musical americano; successivamente
cito tra i tanti, Barbra Streisand (1942) e Liza Minelli (1946). Canto
lirico e belting in realtà sono il prodotto di una stessa base tecnica che
si realizza attraverso un’impostazione della respirazione, un corretto
uso delle cavità di risonanza e delle meccaniche laringee.
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La reale differenza sta nella scelta delle meccaniche laringee. Se il lirico predilige un registro M2 (falsetto) il belting si basa sull’M1 (pieno).
C’è ovvero un lavoro laringeo differente: un uso dei cricotiroidei e
cricoaritenoidei nel primo caso e del muscolo vocale nel secondo. Da
ciò deriva la forte diversità timbrica tra i due generi (vedi capitolo 4).
Vi sono però molte condivisioni e zone di contatto tra i due atteggiamenti, ad esempio in un certo registro mediamente acuto del tenore,
il tipo di emissione è molto vicino al belting.
Il suono è caratterizzato da timbro diritto e sferzante, dotato di squillo e di forza, aperto e con una certa pressione sottoglottica. Il prevalente registro pieno si avvale di consonanze di petto, con una laringe
mediamente più alta rispetto al lirico. A volte può essere pressato o
nasalizzato. Il belting può assumere caratteristiche diverse e richiedere
differenti gradi di professionalità. Anche una mamma che chiama il
figlio o l'urlo di venditori ambulanti hanno un’emissione di tipo belting.
Dalla sua codificazione a oggi, lo si ritrova, con diversi gradi di contaminazione, un po’ ovunque. Dal vero e proprio belting di Gipsy (1959,
Jule Styne) o Hello Dolly (1964, Jerry Herman), al pop-rock di Jesus
Christ Superstar (1971, Andrew Lloyd Webber). Nel 1984 Leonard
Bernstein diresse e incise una versione lirica del suo West Side Story,
che aveva debuttato a Broadway nel 1957. Il belting si ritrova anche in
diversi generi musicali come gospel, folklorico ed etnico (Mahalia
Jackson, Amalia Rodrigues, Iva Bittová, Yma Sumac, Oumu Sangaré
Voci Bulgare). Il belting è un atteggiamento vocale molto efficace
anche nel vasto repertorio della musica leggera. È l’eziologia di una
vocalità spiegata sempre efficace. Spesso il comportamento vocale del
pop, altro non è che un uso personalizzato del belting. Questo tipo di
consapevolezza, richiede cantanti pop con atteggiamento atletico,
desiderosi di far crescere il proprio talento tecnico e musicale, capaci
di disciplina e dediti allo studio.
Linguaggio pop
Bisogna però precisare che il termine “pop” è quanto di più generico
per cercare di identificare un genere. Con il termine pop voglio riferirmi a un ambito musicale che non esclude a priori il rock o altri generi
limitrofi. In particolare il pop italiano è un genere musicale contemporaneo, popolare, poco elaborato e di facile ascolto. Caratterizzato da
spiccata melodia, struttura semplice con alternanza di strofa e ritornel103
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lo, disimpegno tematico, breve durata, che non richiede grande attenzione nell’ascoltatore e destinato al vasto pubblico. È soggetto a regole
commerciali internazionali. È di fatto un prodotto industriale, la cui
distribuzione si avvale di canali informatici, discografici, televisivi, radiofonici, oltre che di eventi dal vivo. Generalmente eufonico, ma con
componenti di gestione ipercinetica, fuga d’aria, uso di falsetti, attacchi
sporchi. Richiede voci dal timbro particolare, con carattere deciso e
spesso aggressivo. Nel mondo pop c’è spazio per molti, e non di rado
voci sporche, rotte, con difetti di pronuncia, nasalizzate e altro ancora
trovano grande riscontro tra gli ascoltatori. È determinante l’aspetto
interpretativo, che lascia in secondo piano quello puramente tecnico.
Viene data molta più importanza alla ricerca espressiva, a discapito del
virtuosismo. Rispetto al lirico, la respirazione è meno ampia e profonda,
essendo le frasi musicali brevi e frammentate e l’estensione contenuta.
La strofa ha una tessitura più grave rispetto al ritornello e di conseguenza viene eseguita con atteggiamento vocale meno incisivo, mentre
all’interno del ritornello si colloca il climax del brano. La laringe non è
troppo abbassata, onde evitare di scurire il suono. La pronuncia è chiara per poter dare la giusta importanza al testo, grande vettore di emozione. La musica pop è sempre amplificata. Nel canto moderno c’è un
rapporto strettissimo con le tecnologie di amplificazione, che diventano
un’estensione del proprio strumento, portando vantaggi ma anche limiti. Il volume è amplificato ma nello stesso tempo si crea un disturbo
all’ascolto della propria voce, oltre a uno “snaturamento” della stessa.
Da qui, l’uso di monitor e auricolari (ear monitor). L’amplificazione
esterna, per la sua potenza e invasività, fagocita l’ascolto interno. Quando la tecnologia non riesce a restituire un buon ascolto, il cantante al-
ack
inp
db
fee
ut
mo
to
rio
pianificazione del suono
attivazione orecchio
fig. 5.1
emissione
percezione uditiva
104
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tera la propria risposta vocale: la voce ha perso il contatto interno con
il proprio orecchio. Il triangolo formato da pianificazione del suono,
emissione e percezione uditiva si interrompe (fig. 5.1).
Si potrebbe pensare che sia la vocalità del lirico a non essere naturale,
perché costruita attraverso lo studio e la tecnica, ma in realtà tutto ciò
che fa il lirico è esattamente naturale, cioè sta nelle sue proprie ed
esclusive capacità e risorse. Altra cosa è una voce pop amplificata da
un microfono, scelto per enfatizzare il meglio e correggere i limiti. Per
quanto riguarda il risultato sull’ascoltatore, è sicuramente il pop che
snatura le caratteristiche della voce e non certo il lirico.
Da un punto di vista emozionale, il potere di pervasione e penetrazione del pop è così importante quanto difficile da definire. Il “segno”
che può lasciare il pop è difficilmente giustificabile in termini razionali, esso sfugge a un’analisi critica. Sicuramente si sovrappongono coincidenze sociali, momenti storici, bisogni specifici, gusto delle masse,
fluttuazioni della moda e chissà cos’altro. Ognuno, nel corso della
propria vita, ha probabilmente associato al tema di una canzone un
ricordo importante o una sensazione o un’emozione particolare. Il pop
ha la capacità di “marcare” la nostra vita, come un repère che si vada
ad ancorare là dove c’è una sensibilità. Il pop si orienta chiaramente
nella dimensione quotidiana, andando a fissarsi, come in una reazione
chimica, a specifici momenti della nostra vita. Se per apprezzare il
canto lirico è solitamente necessaria una certa cultura, il pop può raggiungere e conquistare tutti, intellettuali e no. Il pop va preso per
quello che è, qualcosa di leggero e facile, di volubile e capriccioso, ma
che, quando veramente riuscito, va a penetrare zone profonde dell’inconscio, appagando nello stesso tempo anche la parte più superficiale
della nostra personalità. Con il pop non c’è bisogno di intellettualizzare. I temi che tocca sono in grado di sensibilizzare quasi chiunque. Il
pop, a differenza del folk, non è legato a momenti particolari dell’anno,
a feste, ai cicli delle stagioni né a una fede, non ha carattere evocativo
regionale e culturale, non descrive una terra lontana o una cultura
perduta, ma un’intera moderna nazione. Nonostante proprio l’Italia
sia un territorio disomogeneo per sensibilità e cultura, il pop italiano
unisce tutta la penisola, con punte di eccellenza in Emilia e in Puglia,
regioni particolarmente ricche di talenti pop. Ha una sua capacità di
creare un territorio condivisibile dalla maggioranza, quasi un movimento democratico, un alimento come il latte: ci saranno sempre degli
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intolleranti, ma la maggior parte ne fa uso. È come la moda ma con il
valore aggiunto di saper emozionare. Questo per me è sufficiente per
pensare al pop come a un genere necessario oltre che piacevole. Spesso mi rammarico di sentire critiche sul più importante evento pop
italiano, il Festival della Canzone Italiana di Sanremo, che, dalla prima
edizione nel 1951, ha seguito il trasformarsi del gusto, della tecnica e
dello stile strumentale, accordandosi con le mode e il costume italiani.
I musicisti colti tendono a disdegnarlo se non a detestarlo, gli interpreti e cantautori leggeri lo criticano pensando di essere meglio di quanto
proposto da quel palcoscenico. In realtà il Festival è un grande fenomeno socioculturale, che ha sempre qualcosa da insegnare, che, volente o nolente è una fotografia dei tempi, e all’interno del quale c’è
sempre qualcosa che ci può far riflettere e che valga la pena di ascoltare veramente.
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6. Come nasce un cantante
In questo breve capitolo parlerò dell’eziologia della voce cantata,
degli elementi che danno origine a un artista della voce, fornendo
qualche spunto e suggerendo qualche percorso.
Dalla ninnananna al rock
La ninnananna può essere considerata il genere musicale madre dal
quale può nascere ogni altra musica. La ninnananna come potenziale:
come origine di un percorso che conduce ad altri generi musicali; come
presupposto e vissuto per chi poi si avvicinerà al mondo della musica;
come punto di partenza della vita musicale di ognuno; come valore
aggiunto al talento preesistente; come espressione della parte più remota della memoria musicale, che sa e può rendere più fertile e ricca
l’esperienza di una vita artistica.
Donne di ogni età, nazione e secolo hanno cantato ninnenanne, come
normale reazione ai bisogni del neonato. La voce è un fenomeno naturale bioacustico che coinvolge l’intero sistema, fatto di corpo, di
mente e di emozioni. Proprio la ninnananna è la forma musicale cantata che per eccellenza è espressione naturale e totalizzante. Si tratta
di un genere musicale antichissimo, appartenente al canto popolare e
per lo più tramandato per tradizione orale. Caratteristiche comuni a
ogni ninnananna sono: l’uso di melodie semplici, un carattere ritmico
uniforme, un andamento cullante, oltre alla presenza di assonanze, rime
e ripetizioni linguistiche. A tutto ciò va aggiunto un valore rituale e un
effetto ipnotico. Il testo è sovente impostato come un dialogo tra madre
e figlio. Il contenuto poetico attinge dalla mitologia, dalla storia, dall’organizzazione sociale, ma anche e soprattutto dagli affetti, dalle fatiche
del vivere quotidiano e dall’ambiente circostante.
La ninnananna è una delle prime forme musicali con cui l’essere uma107
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no di ogni tempo viene in contatto, rappresentando quasi un’esperienza “obbligatoria” per ogni nato. Fin dagli albori dell’umanità, la madre
si è presa cura del piccolo con gesti protettivi mediati dall’uso della
voce. Il carattere popolare delle ninnenanne e la loro diffusione in ogni
civiltà ed epoca rendono il genere particolarmente interessante per
studi circa le abitudini culturali. Con le ninnenanne si può fare il giro
del mondo e percorrere l’asse del tempo.
Già dalla 24° settimana di gestazione, l’orecchio è formato, il feto è in
ascolto e nell’encefalo si registrano le prime attività cerebrali uditive.
L’intelligenza musicale è la più precoce forma d’intelligenza a svilupparsi.
Presto il feto compie un’esperienza sensoriale attraverso l’orecchio. I
primi suoni vengono ascoltati, filtrati e attutiti dal corpo della madre
e dal liquido amniotico. Il feto percepisce tutti i rumori vitali del corpo
materno, come il battito del cuore e i rumori digestivi. A essi si aggiungono tutti i suoni provenienti dall’esterno: voci, rumori, musica. In
particolare la voce della madre gli arriva sia dall’esterno sia dall’interno, attraverso i tessuti, fino all’utero. Il piccolo ancora non comprende
il senso delle parole, ma è in grado di raccoglierne la carica affettiva e
di familiarizzare con una prosodia che dopo la nascita sarà ancora una
volta punto di riferimento per riconoscere la mamma: tra i due si è già
instaurato un legame.
In un’ambientazione utopica, serena e protetta, la mamma è sola col
bambino, gli porge il seno e intona una ninnananna. Nella ninnananna
il bambino ritrova sensazioni che ricordano il periodo intrauterino e il
benessere a esso legato. Nel condividere questo momento intimo, i due
rievocheranno istintivamente quell’equilibrio perfetto, quella simbiosi
che è stata la gravidanza.
Il rapporto mamma-neonato è un rapporto esclusivo, nel quale si realizza la soddisfazione dei bisogni primari del piccolo. C’è totalità e
appartenenza reciproca. Tutta la “verità” della madre, espressa attraverso il corpo e la voce, arriva al piccolo, come atto incondizionato
d’amore. Il piccolo è l’ascoltatore perfetto, è colui che si lascia incantare. Si genera in tal modo uno spazio protetto dove sciogliere i sentimenti, e anche se il bambino non comprende ancora il senso pieno
delle parole, nella diade c’è una profonda comunicazione. Madre e
figlio sono immersi in un ambiente entro il quale le tensioni si sciolgono. L’autocensura del linguaggio è allentata e la narrazione cantata può
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lasciare emergere le fatiche, sia fisiche sia psicologiche, del quotidiano.
La ninnananna è rivolta al piccolo, ma sostiene anche l’adulto che sta
cantando, inducendo anche in esso uno stato di quiete e di benessere.
L’adulto e il bambino sono raccolti all’interno di una stessa struttura
ritmico-sonora-affettiva ed entrambi ne godono. La comunicazione
diviene circolare: se inizialmente è la mamma che guida il piccolo
verso uno stato di quiete, gradualmente e successivamente i ruoli si
trasformano e il piccolo, abbandonando il corpo al sonno, induce
nella madre un nuovo atteggiamento vocale. Il piccolo diviene una
proiezione dell’orecchio della madre: esso raccoglie il suono e restituisce un feed-back.
Cantando una ninnananna, i “segnali” inviati dalla figura materna sono
la voce e il linguaggio non verbale di tutto il corpo, filtrati da mediatori quali l’ambiente affettivo, sociale e culturale. Il piccolo che è tra
le braccia della madre, ascolta la sua voce sia attraverso l’orecchio sia
come vibrazione trasmessa dal contatto fisico diretto: riceve il calore
del corpo materno, percepisce il movimento istintivamente ondulatorio (cullante) della madre, vive il senso di contenimento dell’abbraccio
e mentre le braccia materne sorreggono il corpo del bambino, la voce
sostiene le emozioni.
La ninnananna in questo modo diventa un’azione musicale perfetta
perché coinvolge tutti i livelli psicofisici. È infatti in grado di modificare lo stato psicofisico di entrambe le parti, è rituale, è esclusiva, è
circolare, è un atto d’amore.
L’imprinting della ninnananna
Il rapporto diadico tra pubblico e artista pesca dall’esperienza infantile del rapporto col genitore, realizzatosi attraverso i momenti dedicati alle ninnenanne. Quando pubblico e artista s’incontrano si rispecchiano nei ruoli genitore-figlio. Come in una sorta “d’innamoramento”,
una parte tende a soddisfare il bisogno di totalità dell’altra. L’artista si
rivolge al pubblico come alla parte fragile, alla quale dedicare tutte le
proprie attenzioni. Viceversa il pubblico si alimenta ascoltando l’artista
e si lascia abbracciare e sostenere dalla sua arte.
La capacità creativa e la sensibilità musicale di ogni essere umano,
hanno radici nelle precoci esperienze con la musica. Queste radici
rappresentano un patrimonio importantissimo per poter attingere alla
capacità artistica musicale.
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Nei diversi generi musicali derivati dalla tradizione popolare, si sviluppa un meccanismo simile a quello attuato nella ninnananna:
• c’è spazio per i sentimenti;
• si utilizza un linguaggio libero ed emotivo;
• si crea un rapporto privilegiato con l’ascoltatore;
• c’è uno scambio circolare tra fonte e uditore;
• c’è grande coinvolgimento del corpo;
• c’è immedesimazione e catarsi.
Ciò fa pensare che la ninnananna di una volta possiede delle similitudini con il “rock” di oggi. Entrambi condividono caratteristiche e
funzioni, anche se realizzate con tecniche diverse.
Lo spazio che separa la ninnananna dal rock non è poi così vasto se si
considera che entrambi vogliono e sono capaci di indurre catarsi. Sono
in grado di trasformare lo stato emotivo dell’uditore (il bambino si
addormenta, l’ascoltatore viene appagato), hanno facoltà di raggiungere la parte inconscia (memoria musicale implicita), sono efficaci a
ogni età e raggiungono ogni stato socioculturale.
Con ciò voglio dire che l’esperienza della ninnananna aiuta a sviluppare specifiche zone di sensibilità musicale, “fissandole” precocemente,
quando i centri cerebrali deputati alla memoria non sono ancora completamente formati, dando origine a una memoria implicita, non verbalizzabile, ma che rimarrà presente per tutta la vita. La ninnananna
perciò rappresenta un forte imprinting musicale, una cultura musicale
implicita e imprescindibile. Tale memoria, insieme al talento musicale,
al carisma artistico, all’esperienza musicale di tutta la vita vissuta, costituisce il presupposto all’atto creativo/artistico.
Se oggi cantiamo ai più piccoli, stiamo già preparando gli artisti di
domani.
La mia storia
La mia storia, come tante altre, non ha nulla di particolarmente interessante, se non essere un momento di riflessione per chiunque possieda una voce, uno spunto che induca il lettore a ritrovare e ascoltare la
storia della propria voce.
Ero una bambina introversa, seconda di quattro sorelle. I miei genitori erano insegnanti. Io e le mie sorelle siamo cresciute in un paese
della bergamasca, in una casetta con un piccolo giardino, un orto e
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nessun animale da cortile. Le regole di vita erano molto semplici,
chiare e severe: ubbidienza ai genitori, rispetto delle sorelle e la domenica tutti a messa. Non facevamo molta vita sociale, eravamo un
piccolo nucleo scarsamente connesso al mondo. Nessuno nella mia
famiglia aveva cultura musicale. Dell’infanzia una cosa ricordo molto
bene: il silenzio. Si trattava di un silenzio che mi turbava, dal quale
emergevano solo pochi rumori come il ronzio del frigorifero e il ticchettio dell’orologio. Li trovavo disarmonici e invasivi, ottusi e privi
di flusso. Stendevano un grigio uniforme su quella quotidianità lenta.
Percepivo il peso del silenzio, appesantito ancor più da quel pervasivo rumore. Ero triste.
Poi un giorno mi ritrovai seduta in un banco della piccola chiesetta
vicino a casa, ma non per seguire la messa. Non ricordo più come
fossi capitata lì, ricordo solo che c’era un concerto classico, un trio
pianoforte, violino e violoncello, tenuto dagli allievi del Conservatorio.
Rimasi paralizzata nel banco, completamente disarmata da quella
musica. Guardavo i tre ragazzi, per me erano degli dei! In quel momento, ascoltandoli suonare, mi sentii l’essere umano più piccolo del
mondo e pensai che mai nella mia vita avrei potuto elevarmi al loro
livello…
Invece oggi sono anch’io una musicista e se lo sono è proprio perché
quei tre ragazzi li ho idealizzati e sono diventati i miei ispiratori.
Quell’esperienza è stata per me l’accendersi di un faro che mi avrebbe
condizionata per tutta la vita.
Così ho scoperto come difendermi dal “silenzio” e con la musica ho
trovato tutti i colori che desideravo. Quel faro mi ha fatto proseguire
sempre, anche nei momenti più difficili e umili, per poi arrivare a
essere la musicista di oggi. Quel faro è ancora acceso e vivido, e io so
che mi precederà sempre, affinché io possa seguirlo ancora, utopicamente, per sempre. E se ho raccontato questa mia esperienza, è perché
ingenuamente vorrei tentare di accendere tante piccole luci, una per
ogni lettore.
Quando una canzone diventa un successo
Cosa desidera il pubblico dall’artista?
Sarebbe molto interessante sapere quali sono le caratteristiche che
rendono efficace e di successo una canzone. Ma nella realtà non ci sono
regole fisse né formule magiche.
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Dalla parte del compositore
Sicuramente è necessario avere qualcosa di ben chiaro da comunicare,
ci vuole la classica “ispirazione”, poi occorre essere in grado di sublimarla in un prodotto artistico. Inoltre, perché abbia successo, deve
rispondere al bisogno del pubblico, che vuole immedesimazione,
emozione e catarsi. La canzone deve arrivare come qualcosa di scritto “per me”, lasciando la sensazione che l’autore conosca l’animo
dell’ascoltatore, quasi avessero condiviso le stesse emozioni. In ogni
essere umano c’è una parte che parla e una che ascolta. Una parte
dell’ascoltatore è sempre dentro il compositore che sa comunicare
perché prima di tutto ha ascoltato se stesso, ha accolto le proprie
emozioni e le ha riconosciute. Il suo dialogo interiore è tradotto in
una canzone attraverso un testo, con i suoi significati simbolici, e una
musica, cioè quella parte che esprime tutto il non verbale delle emozioni, l’indicibile, tutto quello che ambienta e mette in risonanza la
parola. Così, attraverso lo spostamento di un vissuto, da dentro a
fuori di sé, cioè rendendolo condivisibile attraverso la realizzazione
di una canzone, autore e pubblico sperimentano, ognuno per sé, la
catarsi: l’emozione è purificata attraverso la sua rievocazione, il vissuto delle proprie passioni ritrova uno stato di riposo. È l’autenticità il
primo valore che il compositore deve valorizzare nel suo prodotto
artistico, quell’ingrediente che non sbaglia mai, che sa convincere e
catturare l’attenzione del pubblico, quel “non so che”, quell’assonanza tra vissuto e opera d’arte.
Dalla parte dell’ascoltatore
Ci sono sicuramente generi musicali privi di emozione, che hanno come
obiettivo proprio quello di indurre quiete e riposo, che riempiono uno
spazio vuoto senza aggiungere altro valore (come la musica ambient,
lounge, new age ecc.). Ma da una canzone ci si aspetta qualcosa di più.
Riflettendo sulle emozioni primarie, organizzate in quattro coppie dallo
studioso e psicologo statunitense Robert Plutchik (1929-2006), si può
constatare che non tutte possono essere evocate da una canzone:
gioia tristezza
fiducia
disgusto
rabbia paura
sorpresa aspettativa
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Ognuna di queste emozioni può variare d’intensità, originando qualità e gradazioni diverse di emozioni. Più le emozioni decrescono in
intensità, più possono mescolarsi tra di loro. La sovrapposizione di
gioia e fiducia genera l’amore; fiducia e paura si fondono nella sottomissione; se alla paura si accosta la sorpresa si ha la soggezione, e così
via. Queste ultime, nate dalla fusione di due emozioni primarie, sono
dette emozioni secondarie. Osservando il “fiore di Plutchik” (fig. 6.1)
si notano tre livelli concentrici. Le emozioni riportate nel secondo
cerchio sono le primarie, nel centro ci sono quelle di maggior intensità e nel cerchio più esterno ci sono le emozioni di minor intensità; i
petali bianchi rappresentano le emozioni secondarie.
Ritornando all’argomento principale, è la prima coppia di emozioni a
essere prevalentemente evocata nella canzone (con qualche eccezione,
ad esempio la rabbia in generi estremi e di protesta).
serenità
ottimismo
amore
accettazione
interesse
gioia
fiducia
aspettativa
aggressività
ammirazione
vigilanza
irritazione
sottomissione
estasi
rabbia
collera
terrore
odio
disprezzo
paura
apprensione
stupore
angoscia
soggezzione
sorpresa
disgusto
tristezza
noia
distrazione
rimorso
pensieroso
disapprovazione
fig. 6.1
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Lungo l’asse, gioia-tristezza, trova espressione la canzone, attraverso una
scrittura ora evocativa ora narrativa, descrivendo ora l’estasi ora l’angoscia, ora la nostalgia ora l’appagamento, divagando sempre sul grande
tema dell’amore. La gioia è uno stato emotivo dinamico, dal gesto centrifugo, che carica di energia psichica; mentre la tristezza tende a essere
statica, con gesto centripeto, riflessivo, che erode l’energia psichica. Se
la gioia si esprime attraverso il movimento di corpo ed energie, la tristezza lo fa attraverso il ripiegamento su se stessi. Se la prima fa venir
voglia di correre e ballare, la seconda di fermarsi a piangere. Ecco perché,
semplificando un po’, un brano sa raggiungere il pubblico in due casi:
se fa correre o se fa piangere. Quando il brano non si colloca bene tra
queste due emozioni primarie, rischia di non toccare i punti di sensibilità dell’ascoltatore. Quando la musica “fa correre”, si crea un vortice
che solleva artista e ascoltatore in una dimensione ideale, dinamica e
flessibile, altamente gratificante. La corsa è una disciplina che mi sento
di consigliare in ogni caso, ma aggiungo che oltre ai benefici fisici, essa
fornisce una metafora potentissima della vita del musicista. Anche il
musicista, come l’atleta, deve “allenarsi” con costanza, tendere sempre
a un miglioramento, accettare la fatica, sopportare la frustrazione, mirare sempre a un nuovo traguardo. La corsa allena anche la forza di
volontà e non solo muscoli e fiato. Ma ancora più importante è il valore
aggiunto dato proprio da ciò che differenzia la corsa dalla marcia o dal
camminare, cioè il balzo. Il balzo è quel breve momento durante il
quale nessuno dei due piedi tocca terra. In quello spazio sospeso tra
una spinta e la successiva c’è la capacità di tenersi sollevati da terra.
Ecco, proprio quell’istante, in cui il corpo “vola”, si è proiettati in una
dimensione eroica, una dimensione d’artista.
E quando la musica fa piangere? Chiunque ha un dolore, un rimpianto, una nostalgia. Queste emozioni si ritrovano nelle canzoni, inducendo un sentimento mesto, un movimento interno e profondo, un rimescolare di vissuti emotivi. Come già accennato, proprio vivendo questo
stato, l’ascoltatore ha la possibilità di esperire la catarsi, cioè di immedesimarsi, soffrire e poi liberarsi. Commuoversi per una canzone è cosa
bella e buona, lecita e auspicabile. Lo può fare chiunque, di qualsiasi
età o stato sociale, perché fa parte di un comportamento socialmente
accettato, perché è sintomo di sensibilità. Il pubblico, come il compositore, ha bisogno di queste lacrime. È dai sottili movimenti emotivi
dell’anima che nasce l’opera d’arte che può soggiogare il pubblico.
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La coppia cantante-pubblico
Immaginiamo pubblico e artista come una diade, come una coppia.
Questa coppia è formata da una persona che fa la musica e da un collettivo che la ascolta. Considerando il pubblico un’entità pensante,
capace di sentimenti ed emozioni, diventa necessario fare qualche ragionamento su come gestire il rapporto tra le due parti. Interesse
dell’artista è non perdere il contatto con il proprio pubblico, è riuscire
a crescere, maturare e anche invecchiare senza perdersi. Vi sono cantanti amati da sempre, che nonostante il passare del tempo rimangono
intramontabili, mentre altri non durano che una stagione. Questo rapido scemare del successo di un cantante non è solo la conseguenza
della velocità dei tempi moderni o dei meccanismi usa e getta della
musica contemporanea, ma è anche e soprattutto l’incapacità di costruire un vero rapporto con il pubblico, autentico e longevo. Nella
relazione con il pubblico è necessario costruire delle collusioni sane:
guadagnare fiducia e fedeltà, predisporre un efficace canale di comunicazione, rendere il rapporto gratificante e prolifico.
Da osservazioni etologiche sulle specie animali monogame, si è notato
che la lunga unione del maschio e della femmina è dovuta a diversi
fattori. Il 90% delle specie degli uccelli sono monogame, ma solo relativamente alla stagione. Tra di essi, fino a che nidificano nello stesso
posto, ci sono alcuni corvidi, rondini e cicogne. Tra i mammiferi ci
sono pinguino, lupo, orso, panda, tasso ecc. Sono monogami soprattutto animali la cui prole necessita di entrambi i genitori per sopravvivere. Non a caso, anche per la canzone il successo è la conseguenza
della presenza di entrambe le parti: artista e pubblico. Una bellissima
canzone che non venga regalata al pubblico è sicuramente morta.
Sempre gli animali monogami, durante tutta la vita, esercitano il rito
del corteggiamento. Secondo lo psicologo Giorgio Nardone, questo
meccanismo, è valido anche per gli esseri umani. Dove per corteggiamento s’intende non soltanto la sfera erotica, ma soprattutto tutte le
dinamiche di seduzione. Il corteggiamento è un ingrediente collante
all’interno della coppia. Là dove il corteggiamento non manca, nella
coppia la relazione viene costantemente consolidata. Il cantante deve
anch’esso corteggiare il proprio pubblico, e tornare a sedurlo giorno
dopo giorno.
Altre caratteristiche che si ritrovano nelle coppie longeve sono la complicità e l’esclusività. Cioè quella condivisione che si autoalimenta, quel
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costante aiuto diretto e indiretto che si realizza anche nell’ironia,
quell’alleanza compartecipe che lega la coppia. È la capacità di intuirsi a vicenda e di intendersi immediatamente. È tutto ciò che dimostra
che lo scambio tra due parti è unico e irripetibile. Complice col suo
pubblico è quel cantante che lo eleva al suo stesso rango, che lo mette
al suo stesso livello, che ne ascolta la risposta, col quale cerca sempre
un equilibrio, che provoca con ironia e poi torna ad accarezzare, col
quale condivide tutto se stesso.
Concludendo, fra cantante e pubblico, data per certa la capacità di
comunicare del cantante e la disponibilità di ascoltare del pubblico, la
coppia funziona quando coesistono corteggiamento, complicità ed
esclusività. Il pubblico va sempre coinvolto, va lusingato, va amato, va
fatto sentire speciale. Questo è quello che riescono a fare i grandi artisti, che non dimenticano mai di essere dei grandi comunicatori di
emozioni.
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7. I talent show
Argomento che non può mancare quando si parla di voce è quello dei
talent show a essa dedicati. Si tratta di show televisivi che hanno come
intento la scoperta di nuovi talenti, selezionati con audizioni e poi inseriti in una competizione. Esaminatori e insegnanti appartengono al
mondo dello spettacolo e il loro scopo non è solo valutare e addestrare ma soprattutto “fare spettacolo”.
Nel frattempo il mondo della discografia è cambiato. Mentre i talent
crescono di risonanza (e ascolti), si vendono sempre meno dischi. Le
case discografiche che in passato hanno investito nella ricerca di
nuovi artisti emergenti, oggi hanno delegato questo incarico proprio
ai talent. Ai vincitori viene assicurato un contratto con la Sony Music
(X Factor) o con Mediaset (Amici di Maria De Filippi) oltre a borse
di studio.
I giovani cantanti che vengono premiati da un talent hanno il privilegio
di avere un pubblico che li conosce e li segue. Un collettivo che ha già
condiviso molto con loro, che li ha accompagnati per mesi, osservandoli tranquillamente dalla propria casa, che ha espresso il proprio
parere attraverso il televoto, che conosce (o crede di conoscere) il carattere dell’artista, le sue abitudini, i suoi gusti e il suo talento.
Uno dei motivi per cui questi talent hanno così tanta presa è dovuto al
fatto che al centro è messa la voce, cioè l’espressione dell’interezza umana. Non c’è confine tra il sé e lo strumento, tra l’anima e il corpo. Non
c’è barriera tra il concorrente con le proprie ambizioni e lo spettatore
oltre lo schermo. Il cantante non ha nessuna protezione se non il suo
talento e le personali risorse emotive. Non ha “armatura” e gli ascolti
crescono quanto più importanti sono i picchi e gli abissi emotivi condivisi con gli spettatori. Il concorrente viene sfidato “all’ultimo sangue”
in una vera e propria arena. Viene giudicato non solo vocalmente ma
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anche per le sue capacità di showman, per la sua eccentricità o simpatia,
per la sua propensione a reagire alle difficoltà o a ritagliarsi un piccolo
ruolo da vittima, per la sensibilità di saper piangere al momento giusto,
quando il pubblico vuole vedere le lacrime, siano esse di gioia o di sconfitta, e non raramente di umiliazione. Lo spettacolo (il contenitore) è più
importante del valore artistico proposto (il contenuto).
Nonostante “l’aggressività” dei format, gli emergenti talenti pop italiani provengono proprio da queste esperienze: a fronte di un certo
numero di perdenti e sconfitti, tra i vincitori ci sono esempi di cantanti che hanno cominciato una carriera professionale importante e c’è
anche chi, pur con buone opportunità, non è sopravvissuto all’enorme
concorrenza del mercato. Oggi quasi chiunque è in grado di autoprodursi (anche se raramente in modo efficace) e di proporsi al pubblico
attraverso piattaforme quali social network, YouTube, iTunes ecc. Ma
la formula per avere successo rimane (e rimarrà) sempre un mistero:
un equilibrio conseguenza di molti ingredienti e ancora più variabili.
Molto interessante è il parere di chi ha fatto esperienza diretta nel
mondo dei talent o di quelle figure professionali che vi gravitano attorno. Ascoltando cantanti ma anche produttori e manager, è possibile
capire meglio i meccanismi sottesi, le energie messe in gioco, le implicazioni morali e soprattutto condividere le esperienze emotive.
Ecco alcune testimonianze.
Umberto Labozzetta, esperto in strategie di comunicazione, promotore musicale, consulente editoriale, organizzatore di eventi e docente
all’interno del master in Comunicazione musicale per la discografia e
i media dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
“Negli ultimi anni, in Italia, si è sentito parlare molto di talent show,
della loro forza mediatica e dell’impatto che hanno avuto e che continuano ad avere sui giovani artisti emergenti…
Il Regno Unito è il Paese europeo più influente dal punto di vista dei
talent show: molti di questi programmi sono nati in Gran Bretagna per
poi diffondersi nel resto del mondo. In Italia, questo genere televisivo,
si è diffuso soprattutto a partire dagli anni 2000. Tra i vari programmi:
Popstars (2001-2003), Saranno famosi (2001), trasformato l’anno successivo in Amici di Maria de Filippi, Operazione Trionfo (2002), Music
Farm (2004-2006), Ti lascio una canzone (2008), Io Canto (2010), X
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Factor (2008), Mettiamoci all’opera (2009-2012), Star Academy (2011),
The Voice of Italy (2013).
Con il passare degli anni, il talent show ha portato dei cambiamenti
all’interno delle case discografiche e all’esaurimento di alcune figure
professionali, quali quella del talent scout.
Tutto oggi è a portata di click: basta aprire una qualsiasi pagina web
per incontrare delle ‘belle voci’, basta cliccare su uno dei tanti video
musicali per valutare la presenza scenica…
Molti cantanti italiani che fanno questo mestiere da tanti anni oggi sono
critici riguardo il ruolo della televisione nel contesto musicale nazionale.
Pensano che la TV non aiuti la musica, anche se ne produce tanta. I
programmi dedicati alla musica permettono di identificare una persona
con talento, ma alla fine creano omologazione nel canto. Penso, ciononostante, che non bisogna avere una visione completamente negativa
riguardo questi contenitori televisivi. Ogni singolo artista che vi partecipa o che ambisce a farlo, dovrebbe vederli come una vetrina, come una
possibilità per farsi conoscere e per far conoscere le proprie potenzialità
vocali. Il vero lavoro, tuttavia, inizia dopo: compete a una seria agenzia
di promozione e a un ottimo team di management saper sviluppare un
lavoro discografico che duri nel tempo”.
Tino Silvestri, attualmente manager e produttore esecutivo di Arisa,
con un passato nell’industria discografica come general manager di
Warner Music Italy e precedentemente come direttore artistico. Ha
contribuito alla realizzazione di oltre 500 album italiani, collaborando
con diversi importanti artisti.
“Molti dei nuovi artisti che sono riusciti ad affermarsi negli ultimi
dieci anni, sono usciti dai talent. Questo perché sono soprattutto i
talent a dare spazio ai nuovi talenti. Nell’ambito della musica pop, tra
i tanti elementi che determinano l’affermazione di un artista, tre sono
essenziali: il carisma, il repertorio, la visibilità (a volte ne possono bastarne solo due…). I talent sono un’opportunità perché offrono la
possibilità di mostrare il cantante come un artista nuovo. Altre occasioni per gli emergenti, come il Festival di Sanremo, dipendono sempre
più da dati di audience (che tendono a penalizzare le novità). Queste
realtà hanno progressivamente tolto spazio alle nuove proposte, considerandole responsabili del calo dell’audience e di conseguenza dell’interesse degli inserzionisti pubblicitari.
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I talent show, a differenza di altri programmi, sono quindi riusciti a
fare delle nuove proposte un elemento di interesse. Gli elementi su cui
fanno leva sono:
•la gara a eliminazione che, da sempre, funziona televisivamente;
•la partecipazione interattiva del pubblico, grazie al televoto
e alle possibilità offerte dai nuovi media e mezzi tecnologici;
•le tifoserie che nascono e seguono i cantanti
(come per gli atleti nello sport).
In questo contesto va sottolineato come la musica e le doti artistiche
dei concorrenti non siano sempre in primo piano e non siano elementi chiave per il successo del programma televisivo. Il programma spesso ottiene successo perché attrae l’attenzione del pubblico con altri
meccanismi. Nel caso in cui le doti artistiche ci sono e il repertorio è
forte, il successo viene amplificato e diventa duraturo, mentre se tali
caratteristiche sono insufficienti, si configura verosimilmente il caso
delle cosiddette ‘meteore’. Vincitori o finalisti possono avere successo
momentaneo a prescindere dalle doti artistiche e dal repertorio proposto. In una realtà simile, la principale motivazione che spinge moltissimi ragazzi a partecipare a un talent sono non tanto le doti artistiche
ma la vanità o la voglia di evasione e di cambiar vita.
I talent show esistono da più di dieci anni, sono ormai una realtà affermata in tutto il mondo e vanno considerati come una opportunità
aggiuntiva per farsi conoscere. In questo senso mi sento di dire che
non tolgono nulla ai musicisti, semmai offrono delle opportunità di
visibilità che prima non esistevano. Riguardo alla qualità della musica
e alla preparazione dei concorrenti, non dipendono dai talent in modo
determinante ma da chi vi partecipa.
Inoltre, il pubblico di oggi sceglie sempre più senza accettare condizionamenti, pertanto se qualcuno si chiede perché ha vinto quel tale
concorrente, la risposta più corretta è: perché lo ha scelto e votato il
pubblico!”.
Andrea Rodini, produttore di Renzo Rubio, parla dei talent show
sulla base della sua esperienza diretta come vocal coach a X Factor
(2008-2009).
“X Factor è stato determinante nell’alzare il livello medio dei talent
italiani, proponendo al pubblico una figura come quella di Morgan che
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ha offerto una forte personalità televisiva sostenuta da preparazione
culturale. Nonostante ciò, non mi sento di consigliare a un giovane di
partecipare a un talent.
La maggior parte di questi programmi si avvale di un repertorio pop
internazionale che tende a omologare i cantanti. Se il giovane non ha
una sua solidità artistica, rischia di imitare più che interpretare, senza
riuscire a esprimere la propria essenza profonda. È una ‘vetrina di
corde vocali’, cioè un ambiente nel quale il giovane tende a un virtuosismo vocale che in realtà non è espressione della propria reale personalità musicale. Così il cantante diventa un prodotto… e si finisce per
fare un uso consumistico della voce. Un grosso limite consiste nell’eseguire esclusivamente cover, soprattutto straniere (i cantautori non
hanno molto spazio).
Da un punto di vista psicologico, per la società il cantante prima di
accostarsi a questa esperienza è un semplice ‘vicino di casa’, dopo tale
esperienza si è trasformato in un ‘personaggio pubblico’. Questa repentina trasformazione di ruolo può essere pericolosa. Raramente il
successo perdura e in ogni caso la gestione del post talent è molto faticosa se non problematica. I famigliari stessi possono generare problemi con le proprie aspettative e pressioni (soprattutto nei programmi
dedicati ai bambini).
Non ricordo di aver mai sentito dire a un giovane cantante: ‘Sono arrivato…’. L’artista ha sempre bisogno di conferme, non considera che
fermarsi non è un insuccesso. Essere selezionati è già un successo. La
famiglia dovrebbe aiutare a dare il giusto nome alle cose. È come si
osserva il percorso che fa la differenza… Le aspettative sono delle mine
pronte a esplodere. Il mio consiglio è quello di guardare ai talent come
un punto di arrivo, così vi possono esser più speranze di sopravvivenza artistica. Ricordo inoltre che le case discografiche di mestiere vendono CD e non musica, e che radio e televisioni vendono spazi pubblicitari… Se per primi i musicisti si adattano a questo pensiero riducendosi a un prodotto, come è possibile fare buona musica?”.
Silvia Aprile studia canto e pianoforte sin da bambina. Ancora giovanissima debutta come jazzista. Nel 2008, all’età di ventuno anni, partecipa alla prima edizione di X Factor, arrivando in finale. Nel 2009
partecipa al Festival di Sanremo nella sezione proposte con Un desiderio arriverà, con Pino Daniele come “padrino”.
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Le prime parole di Silvia Aprile interrogata sul tema della sua partecipazione a X Factor sono: “Non saprei come spiegarti…”. Questo
esordio lascia intendere quanta fatica un giovane interprete debba
affrontare quando si confronta con l’ambiente dei talent: “È un’esperienza molto complicata da gestire quando alla tua partecipazione non
segue un enorme successo… Ero sufficientemente corazzata, altrimenti ne sarei uscita con le ossa rotte; di sicuro è stata un’esperienza emozionante e se tornassi in dietro, in ogni caso, la rifarei… Non mi sono
trovata per caso ai provini, ma sono partita con la speranza di far sentire al grande pubblico ciò che avevo da dire.
I talent oggi, purtroppo, rappresentano un percorso quasi obbligato
per un giovane interprete che desideri farsi notare ed emergere. La vita
del cantante è durissima, ci sono pochissime realtà musicali all’interno
delle quali esprimersi, e ancora meno locali e addetti ai lavori pronti
ad aprirsi a degli artisti del tutto sconosciuti.
Personalmente sono approdata a X Factor con la speranza di dare una
svolta netta al mio percorso discografico, ma presto mi sono resa conto dell’importanza delle dinamiche televisive all’interno del programma.
Facevamo televisione e non discografia. Una prova molto difficile è
stata il rapporto con i critici musicali. Per un giornalista è facile attaccare un giovane che ha partecipato a un talent, non si preoccupa minimamente di conoscere cosa facesse o fosse pochi minuti prima di
presentarsi ai casting… Per la critica il concorrente è sempre nella
posizione sbagliata, qualsiasi cosa faccia, di buono o di cattivo.
Inoltre, bisogna lottare contro il tempo e le logiche di mercato. C’è un
riciclo generazionale che dura meno di un anno; la mamma dei talent
è sempre incinta, non c’è tempo per lavorare sull’artista. Nei pochi
mesi di trasmissione, ho fatto in tempo solo a far intravedere la mia
dimensione d’interprete…
Il percorso è stato duro. Dopo X Factor ho partecipato al Festival di
Sanremo, prodotta da Pino Daniele. A seguire un lungo periodo di silenzio. L’ambiente jazz, con il quale avevo collaborato in passato, non
mi riconosceva più e, nel frattempo, si facevano avanti le nuove generazioni di cantanti pop promossi dai talent. Per due anni nella vita ho
fatto tutt’altro, allontanandomi di netto dall’ambiente della musica, ma
senza mai smettere di studiare. E così, quando il secondo treno è passato, e il secondo treno passa prima o poi, l'ho preso al volo. Ho incontrato nuovamente persone che mi hanno dato fiducia. Serve tempra, carat122
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tere per questo mestiere emozionale, fatto di equilibri sottili… Quando
il bisogno di cantare è davvero dentro di te, è anche più forte di te…
Ognuno nella vita può avere più di una opportunità, ma il talento non
basta, ci vuole testa, ci vuole carattere! C’è tanto talento in giro, bisogna
avere la pazienza di aspettare… Il talent non regala niente e mette a dura
prova. Va preso con cautela, perché i rischi sono tanti, ma offre comunque grandi opportunità a chi è in grado di sostenerle.
Quanta gente che ha partecipato a un talent è diventata famosa? Pochissimi! L’unica cosa che porta un futuro duraturo nel tempo è la
musica vera. E tra la semina e la raccolta c’è bisogno di tempo”.
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8. Per un’eccellenza delle emozioni
Il canto è linguaggio emozionale e metafora degli affetti del cuore.
Ansia e paura
La parte emotiva è un tutt’uno con la nostra persona, è inscindibile
dalle altre componenti che ci determinano, inoltre essa è per sua natura fluttuante e instabile, come evidenzia il significato etimologico della
parola emozione, cioè “muovere” (dal francese émotion, derivato di
émouvoir, “mettere in movimento”).
Siamo dotati di due “menti”, una che pensa e l’altra che sente, due
forme di pensiero che tra di loro interagiscono dando luogo alla nostra
vita mentale. L’equilibrio di queste due componenti è, nel percorso di
una vita, in continuo movimento, allo scopo di mantenere e garantire
un assetto mentale di armonioso equilibrio e quindi uno stato di benessere. Ma tale virtuoso equilibrio è facilmente alterabile, e tanto più
“sentiamo” tanto meno attiva risulta la componente razionale. In particolare quando la parte emozionale sopraffà quella razionale, l’attività
mentale ne soffre. Quando il cervello emozionale prende il sopravvento, vi è un devastante impatto sulla lucidità mentale, che può arrivare
a “paralizzare” la capacità razionale. Forti emozioni sono come interferenze che rendendo disorganizzato il lavoro del pensiero, alterando
e bloccando alcuni dei suoi processi. Il cantante, durante la propria
prestazione, affronta stati emotivi complessi e non può permettersi di
lasciarsi dominare dalla sola componente emotiva. Quanto più l’equilibrio psicofisico del cantante risulta inadeguato, tanto più fattori
emozionali non costruttivi diventano predominanti, e come in un circolo vizioso, il canto perde progressivamente controllo.
Quel che effettivamente si perde, è ciò che gli scienziati cognitivi chiamano “memoria di lavoro”, cioè la capacità di tenere a mente tutte le
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informazioni necessarie per l’espletamento di un compito. Essa permette l’immagazzinamento temporaneo, la prima gestione e l’elaborazione dell’informazione, creando un ponte che mette in relazione la
percezione sensoriale con l’azione conseguente. La memoria di lavoro
è indispensabile per portare a termine tutti quegli aspetti cognitivi
che insieme a quelli emozionali costituiscono l’atto performativo. Il
cantante deve conoscere e saper gestire l’equilibrio tra ragione ed
emozione, preservando la propria memoria di lavoro senza rinunciare
per questo al sentire.
Quando durante la performance accade che l’equilibrio emozione/
ragione sia sbilanciato, si instaura uno stato di sofferenza psicofisica,
ad esempio il cantante può essere vittima di attacchi di “ansia” che a
loro volta innescano “paura” con conseguente risultato paralizzante.
La fissità prodotta da ansia e paura è in conflitto con la dimensione
nella quale è immerso l’artista durante la performance. Il blocco crea
disagi e interferenze che interrompono il naturale flusso di espressione
artistica. Si tratta di un elemento inaccettabile se si pensa che il respiro è movimento fisico e le emozioni sono movimenti psichici: la dimensione viva e attiva della performance esclude automaticamente
uno stato di fissità.
L’ansia in sé è un processo utile e positivo, che ha scopo autoprotettivo, che aiuta a preservare l’incolumità impedendo di rischiare di fronte al pericolo. L’ansia nasce come forma di difesa di fronte a una minaccia fisica. Ma quando si sceglie la via della performance, non si è
certo in pericolo di vita e l’ansia si interpone tra il performer e la performance come scoglio psicologico irrazionale, che invece di proteggere, ostacola e paralizza la volontà. L’ansia nasce quando non si
percepiscono alternative e l’effetto immediato è il blocco della creatività. Senza l’opportunità di scegliere, il cantante perde il senso della
bellezza in ciò che sta facendo, rendendo ancora più imperfette e scadenti le proprie azioni.
Anche la paura, come risposta innata al pericolo, è un istinto che inibisce il movimento generando una violenta contrazione di tutti i muscoli motori, un arresto della respirazione e una serie di disturbi vasomotori (polso accelerato, sudorazione) come conseguenza di un aumento di adrenalina nel sangue. Nello specifico dello strumento voce,
le tensioni muscolo-scheletriche parassite si manifestano, oltre che
attraverso una generale rigidità muscolare e in atteggiamenti forzati, in
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un eccesso e disequilibrio delle componenti di appoggio e sostegno
respiratorio, associati a laringe alta e rigidità della base linguale: tutti
sintomi che conducono a ipercinesia fonatoria e che incidono sul risultato vocale.
Ansia e paura possono essere innescate prima della performance, gradualmente crescere d’intensità avvicinandosi al momento dell’esibizione e invadere letteralmente il territorio performativo. La loro manifestazione è sia cognitiva (che si esprime attraverso pensieri e immagini)
sia somatica (che si esprime attraverso sintomi quali i già citati aumento della sudorazione, della frequenza cardiaca e delle tensioni muscolari). Le due modalità di espressione degli stati emozionali alterati sono
tra di loro integrate e, se mal controllate, possono alimentarsi a vicenda sviluppando una preoccupante escalation. La fissità prodotta da
ansia e paura, paralizza le intenzioni e toglie efficacia, ostacolando il
cantante nel suo peculiare momento di espressione: logora e sgretola
la capacità di controllo, sottrae il piacere del momento artistico. La
gestione dei problemi bloccanti può anche necessitare di brevi periodi
di terapie psichiche: il lavoro sulla voce è tanto più efficace quanto più
inteso come strumento di sviluppo globale della persona.
A questo punto mi sembra interessante riprendere il pensiero di Rohmert1
quando affronta il tema dei tre livelli funzionali dei sistemi organici.
Riferendosi all’apparato fonatorio, esso ha come funzione primaria
quella di protezione e regolazione, che si attuano attraverso la chiusura del sistema, ad esempio chiudendo la glottide per impedire la
penetrazione di un corpo estraneo. Tale funzione è cioè un riflesso di
fronte a un pericolo. Funzioni primarie sono lo starnuto, la tosse, ma
anche lo sbadiglio. Va sottolineato che la chiusura non è solo fisica ma
anche psichica. A fianco del blocco fisico c’è anche un atteggiamento
di rifiuto delle relative emozioni. Funzione secondaria è la parola,
cioè la capacità di coordinare più sistemi, al fine di produrre il linguaggio (alternando apertura e chiusura). Essa attenua i riflessi innescati della primaria, e le viene attribuito un più alto livello di coscienza. A questo punto, la funzione terziaria altro non è che un’ulteriore
evoluzione verso l’apertura dei sistemi. Essa ha un funzionamento
opposto alla primaria ed è il frutto di educazione e disciplina. La
funzione terziaria è tanto più efficace e facile da attuare quanto più
l’individuo accetta il “rischio”, cioè sceglie di aprire anche quando un
istinto o un riflesso comanderebbero la chiusura. La funzione terziaria
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supera anche la parola (già funzione secondaria), quando questa non
è strettamente funzionale al canto. Ansia e paura innescano funzioni
primarie, il canto necessita di funzioni terziarie. L’arte della voce è
l’evoluzione alle funzioni terziarie.
Preparazione mentale
Importante è considerare che le emozioni sono il risultato di energia
neurochimica. L’energia come tale non può essere distrutta ma solo
trasformata: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”2. Se
si reprime un’emozione essa torna a manifestarsi, in modo distorto e
inefficace nella postura e nei movimenti, o semplicemente come tensione sepolta. Le tensioni altro non sono se non lo scarto prodotto dal
tentativo di soffocare le emozioni. Esse non possono essere eliminate,
ma, attraverso una presa di consapevolezza, vanno trasformate in
energia emotiva costruttiva. Ad esempio, quando un’inefficacia emotiva innesca uno stato di paralisi sensoriale, la scelta di tamponare
questo disagio con un eccesso di stimolazioni, magari ricorrendo ad
alcool, caffeina, fumo, cibo, droghe, non risolve il reale problema ma
probabilmente lo aggrava, contribuendo a realizzare una stratificazione di stimoli sbagliati. Il risultato è un abbattimento della consapevolezza di sé e un incremento di energia inefficace.
Questi principi sono molto chiari ad alcune figure professionali come
l’atleta. La performance artistica è, per molti aspetti, simile a quella
sportiva, infatti per entrambe sono necessarie:
• doti naturali
• preparazione tecnica
• abilità interpretativa / performativa / strategica
• preparazione mentale
Artista e atleta vivono professioni incerte, che oltre a richiedere fatica
e dedizione, devono esprimere e dimostrare capacità e talento in pochi
salienti momenti performativi. I successi possono essere temporanei e
transitori. Sono professioni sempre esposte al giudizio e soggette a
discontinuità economica. Sport e arte del canto si fondano sulla performance e necessitano di grande studio e preparazione fisica, devono
fruttare nell’esatto momento dell’esibizione. Inoltre l’arte del canto
fonde agli atteggiamenti atletici, risultato dell’uso del corpo, quelli
espressivi e artistici.
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Tutto questo può aumentare il livello di ansia durante la performance.
All’artista/atleta può accadere di scontrarsi con interrogativi quali: “Ne
vale la pena? È davvero questa la mia strada? Come posso difendermi
dalle paure e dalle incertezze legate alla professione?”.
Una risposta univoca probabilmente non esiste, ma sussistono atteggiamenti vincenti, che si basano sulla valorizzazione della preparazione mentale. Si tratta di un fattore determinante, di una vera opportunità per gestire gli aspetti legati alla performance e sviluppare la resistenza psicologica necessaria a convivere più serenamente con le incertezze della professione.
L’utilizzo delle potenzialità mentali può dare risultati sorprendenti. È
necessario andare a esplorare i confini delle proprie risorse per scoprire quali possono essere i margini di miglioramento. La preparazione
mentale apre a nuove opportunità, sia fisiche sia psichiche e spinge
verso il superamento dei presunti limiti. Una buona preparazione a
questo livello riduce lo scarto tra prestazione reale e prestazione potenziale. La voce è un sistema complesso e soggetto a molte variabili,
per una sua ottimizzazione è necessario mettere in connessione le risorse biologiche con quelle psichiche. Questo equilibrio può innescare un funzionamento che rende disponibili tutte le risorse, tendendo
nel contempo ad azzerare le inibizioni. Per un’ottima performance è
necessario raggiungere quella concentrazione intrapsichica che permette l’accesso a tutte le potenzialità.
Nel mondo sportivo, la preparazione mentale è considerata un moltiplicatore delle doti innate e della preparazione tecnica.
Performance = (preparazione tecnica + doti naturali)
x preparazione mentale
La forza mentale può svilupparsi spontaneamente, ma può anche essere potenziata con l’allenamento di quegli aspetti personali legati alla
consapevolezza, alla motivazione, alla capacità di concentrazione e
alla gestione dei fattori emotivi.
Si tratta di scegliere un percorso che vuole analizzare e comprendere
le cause che scatenano l’ansia, oltre a individuare possibili modalità
di contenimento e di risposta efficace alla situazione inibente, anche
attraverso lo sfruttamento di risorse esterne quali l’assistenza di un
vocal coach.
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Consapevolezza emozionale
Per comprendere gli stati d’ansia è necessario prima di tutto mettersi
in ascolto, e chi è pieno del proprio canto non sempre è in ascolto.
Bisogna impararne anche la “lingua” del corpo: ritmo cardiaco, respirazione, postura, stati contratti, fatica e tutto ciò che un corpo all’opera esprime. Il corpo non smette mai di comunicare, ma non sempre è
correttamente attivo l’ascolto.
Recita il motto greco che riassume il pensiero di Socrate: “Conosci te
stesso”3.
È uomo saggio e maturo colui che sa comprendere e controllare le
proprie emozioni nel momento in cui esse si presentano.
A partire da queste suggestioni, il cantante dovrebbe ricordare che ha
sempre a sua disposizione la possibilità di controllare stati di disequilibrio
emotivo, proprio partendo dalla capacità di “conoscersi” e di saper
percepire e comprendere precocemente i propri stati emotivi. È l’“ignoranza” del sentire, la mancanza d’informazioni a generare ansia e paura,
che a loro volta catalizzano l’attenzione generando un circolo vizioso che
autoalimenta la condizione negativa limitando l’esperienza di se stessi.
Atteggiamento premiante e costruttivo è porre attenzione, è cercare
di essere consapevoli dell’ambiente emotivo nel quale si è immersi, è
prendere coscienza delle preoccupazioni che si presentano.
La preoccupazione in sé, cioè la parte cognitiva dell’emozione ansiosa,
può rappresentare l’elemento che innesca una reazione positiva: la
preoccupazione permette di identificare il pericolo e di conseguenza
pone le condizioni per poter cercare una soluzione. L’ansia, se associata alla consapevolezza delle proprie emozioni, può quindi diventare elemento costruttivo. La consapevolezza favorisce anche il processo di traduzione della componente cognitiva che si esprime per immagini, in componente che si esprime in pensieri, trasformando le immagini in significati e riducendone così la potenza di disturbo (le immagini sono molto più penetranti e distruttive rispetto ai pensieri, che per
loro natura sono invece più facilmente controllabili). Una consapevolezza e un conseguente controllo sull’aspetto cognitivo dell’ansia incidono sulle manifestazioni somatiche, smorzandone gli effetti.
L’autoconsapevolezza come capacità di esplicito riconoscimento del
proprio stato psicofisico, è una modalità di introspezione attiva, che
aiuta a gestire e contenere stati emozionali alterati. L’autoconsapevolezza è perciò elemento fondamentale e a disposizione per il controllo
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di ansia e paura. È necessario essere consapevoli degli stati emotivi
alterati, addestrandosi a individuare precocemente i loro segnali e
sintomi e a dirigerne costruttivamente il flusso, mettendo attivamente
in discussione immagini e pensieri negativi.
Secondo Charles Darwin4, la libera manifestazione di un’emozione
utilizzando segnali esterni contribuisce a intensificare l’emozione stessa, cioè l’emozione è intensificata dall’azione che la esprime.
Per William James5 le emozioni dipendono dalla percezione di una
condizione fisica: modificare la percezione o la condizione significa
agire sull’emozione.
Studi sviluppati a partire dagli anni sessanta (PNL di Bandler e Grinder6) sostengono che essendo mente e corpo inscindibilmente connessi, a ogni stato mentale corrisponde una specifica condizione fisica e
ad ogni condizione fisica corrisponde uno specifico stato mentale.
Questi concetti non fanno altro che rimarcare la potente e continua
comunicazione tra corpo e mente, tra azione ed emozione, ipotizzando
la possibilità di incidere su una facendo leva sull’altra.
Ogni volta che la mente si pone in una determinata condizione (concentrazione, rilassamento, agitazione, divertimento), il nostro corpo si
adegua, assume specifiche posizioni e attiva determinati processi fisici.
Il corpo reagisce in modo specifico e individuale agli stati mentali, come
pure è vero il contrario, di conseguenza porre il corpo in determinati
atteggiamenti aiuta l’accesso a correlati stati d’animo. Queste contaminazioni tra corpo e mente sono un’importante risorsa. Agendo cognitivamente su una si può ottenere un “riflesso” anche sull’altra. È possibile indurre nel sistema “corpo” un comportamento più efficace facendo leva sul sistema “mente”, e viceversa. Il cantante può sfruttare
questa risorsa per aiutarsi nella gestione delle ansie da performance e
dei sintomi a essa legati.
Per una performance efficace è necessario innanzitutto individuare
quali sono i segnali corporei che attivano uno stato di eccellenza, e di
conseguenza implementare gli stessi, usando il corpo, per ricreare la
situazione di eccellenza. Indurre nel corpo comportamenti che si sa
essere comuni a stati di benessere, contribuisce a distogliere l’attenzione dallo stato d’ansia e a orientare anche la mente in senso più
costruttivo. Durante lo studio in aula, ma anche durante una performance, è importante notare e avere consapevolezza di quali siano le
sensazioni fisiche di benessere che generano il risultato vocale deside130
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rato: orientamento spaziale (postura), percezione acustica, attività
muscolari efficaci, sensazioni vibratorie, percezione di energia interna
ecc. È così possibile indurre uno stato ottimale ricreandolo artificialmente, prima della performance, allenandosi anche lontano dal palco,
imparando a ricostituire lo stato di eccellenza semplicemente rimodellando nel corpo gli specifici segnali fisici individuati.
Automotivazione
Studi condotti su personaggi di successo del mondo artistico e atletico,
hanno evidenziato che una componente comune a tutti è la capacità di
sopportare duri programmi di formazione oltre a una spiccata tendenza all’automotivazione. Si tratta di soggetti capaci di alimentare il
proprio entusiasmo e di perseverare nonostante gli insuccessi. In altre
parole, difficoltà, frustrazioni e ansie possono essere un potente stimolo per creatività e determinazione, trasformando il fattore emotivo
in potente carburante per alimentare la crescita. Una spiccata forma
d’intelligenza emotiva, intesa come capacità di controllo e gestione
delle emozioni, è dunque un elemento importante non solo ai fini artistici e interpretativi ma anche come stimolo e supporto a un percorso di studio e di fatiche in costante sviluppo e realizzazione. L’intelligenza emotiva è in grado di influenzare le altre componenti d’intelligenza, favorendole o meno. Una buona strategia per il cantante potrebbe essere gestire l’ansia usandola come leva per favorire e stimolare la concentrazione, invece di permetterle di interferire. Per contro,
gran parte degli insuccessi professionali sono conseguenza di false
convinzioni autolimitanti, come: “Io sono fatto così… Io sono sensibile e mi emoziono facilmente”. Gli stessi insuccessi possono essere aggravati da abitudini inefficaci.
Osservando artisti di successo, è probabile ritrovarvi delle abitudini
particolarmente efficaci, come è verosimile che non facciano appello a
scuse autocastranti. È necessario uscire dall’“area di comfort”, sia fisica sia mentale, in cui ci si sente a proprio agio, e costruire invece una
routine positiva alimentata da regole efficaci anche se non propriamente confortevoli. Innanzi tutto è importante individuare la presenza di
eventuali abitudini che potrebbero essere un ostacolo al raggiungimento dei risultati professionali desiderati. Va valutata la correttezza delle
abitudini di preparazione tecnica e di studio messe in atto (modalità e
tempistica del lavoro, routine di preparazione, gestione del tempo).
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Vanno trovate e soverchiate le abitudini che rubano tempo, energia e
denaro. Non ultimo, è il caso di domandarsi se esistono relazioni affettive/professionali che condizionano le nostre abitudini. A volte bisogna avere il coraggio di scoperchiare dinamiche emotive inefficaci,
tendendo alla massima sincerità con se stessi e con il mondo professionale e affettivo che ci circonda. Se si desidera vivere con professionalità la dimensione artistica del canto, diventa necessario abbandonare
ogni forma di autogiustificazione e d’indulgenza con se stessi. È necessario cercare un allineamento tra ciò che si pensa di sé, ciò che si
desidera e ciò che si fa realmente.
Rinvio delle gratificazioni
Altro elemento importante è la capacità di rinviare le gratificazioni, di
accettare le frustrazioni considerandole temporanee e transitorie, e
ancorarsi a sentimenti costruttivi come la “speranza” e l’“ottimismo”.
Di grande aiuto è fare propria la convinzione di avere a disposizione
sia i mezzi sia l’energia necessari. L’artista dovrebbe intuire il proprio
potenziale, senza fare appello a false illusioni. Dovrebbe lavorare e
dedicarsi con costanza e determinazione, accettando anche momenti
di prestazioni insufficienti, come tappe obbligatorie e necessarie (ma
non castranti) all’interno di un articolato percorso.
Gli ottimisti risultano meglio performanti dei pessimisti, proprio
perché ansie o frustrazioni sono interpretate come momenti transitori
che non demoliscono consapevolezze e aspettative. “Siamo ciò che
facciamo ripetutamente. L’eccellenza, dunque, non è un’azione, ma
un’abitudine”, insegna saggiamente Aristotele, e il raggiungimento di
un obiettivo artistico passa certo attraverso talento personale ma anche
e soprattutto attraverso fatica e lavoro inquadrati in sane e costanti
abitudini.
Stato di flusso
Gli atleti chiamano “the zone” (la zona) o “trance agonistica” l’area
all’interno della quale tutto diventa semplice e altamente gratificante,
dove anche le emozioni si esprimono pienamente e in sintonia con la
capacità di controllo del corpo, ove le componenti dell’intelligenza
emotiva, cognitiva e procedurale si integrano virtuosamente e tutto il
territorio estraneo alla performance non interferisce con il sistema: “the
zone” è uno stato di flusso. L’eccellenza è perciò il risultato anche del
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raggiungimento di uno stato di flusso o viceversa: uno stato di eccellenza innesca uno stato di flusso. Si tratta del risultato di una profonda
coordinazione di azioni fisiche complesse in sintonia con la componente emozionale: un senso di galleggiamento, una perdita di peso
inteso come fatica di lavoro, in condizioni di perfetta concentrazione
mentale e di assoluta libertà emozionale. Lo stato di flusso è il territorio ideale per l’artista della voce, è l’opportunità per galleggiare nella
dimensione temporale distribuendo e organizzando al suo interno un
incontrastato flusso d’arte. In particolare questo stato si raggiunge
quando si ha sufficiente tecnica per affrontare quel particolare atto
performativo che tuttavia richiede grande concentrazione, cioè quando
si è di fronte a un compito difficile e stimolante ma non irraggiungibile. Meno probabile è infatti innescare uno stato di flusso confrontandosi con una performance ritenuta comoda e facile, in tale caso viene
a mancare una parte degli stimoli alla concentrazione con limitazione
dell’accesso allo stesso. È proprio quando ci si confronta con un progetto ritenuto ambizioso, ma per il quale possediamo risorse sufficienti, che diventa possibile accedere allo stato di flusso. Dice Mihály
Csíkszentmihályi: “Il flusso è possibile in quella fragile zona che si
trova tra la noia e l’ansia”7. Chi si trova in uno stato di flusso appare
rilassato e senza segni di sforzo, questo perché possedendo padronanza degli schemi motori necessari, la mente è soggetta a un minor sforzo cerebrale e può essere più efficiente.
Presupposti per l’accesso allo stato di flusso sono:
•possedere grande motivazione;
•possedere chiarezza d’intenti;
•avere consapevolezza sulle personali capacità;
•essere completamente coinvolti e concentrati nell’azione
creativa;
•essere in sintonia assoluta con il presente, attimo per attimo.
Sintomi della presenza dello stato di flusso sono:
•sensazione di serenità e di piacere;
•sensazione di estasi scissa dal quotidiano e dal reale;
•perdita di cognizione spazio-temporale;
•senso di espansione del proprio io;
•assenza di fatica fisica e/o emotiva.
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Lo stato di flusso crea una coincidenza tra emozioni e performance
permettendo di raggiungere, e tal volta superare, i limiti personali: da
uno stato di flusso si esce arricchiti.
Conclusioni
Da ultimo ricordo che utilizzare un abbigliamento che dà gratificazione personale, prepararsi con cura attraverso dei gesti rituali, dedicare
attenzione a piccoli dettagli, serve a scaricare la tensione, a predisporre corpo e mente e a dare più valore alla performance. Al rito vengono
delegate alcune responsabilità, così la mente può dedicarsi ad altro.
Determinante è sempre il pensiero positivo e quindi l’energia a esso
legata. Il pensiero positivo è un potente carburante. Rabbia e aggressività non appartengono al pensiero positivo, non sono energia costruttiva, non sono un fattore che può aiutare. Un eccesso di competizione
sottolinea il bisogno di opposizione e può indicare un inconscio senso
d’inferiorità. Mentre una sana ambizione è auspicabile e va sostenuta
con obiettivi a lungo termine. Occorre desiderare una performance
perfetta per se stessi e non per superare in bravura un collega. È importante trasformare pulsioni d’invidia in desiderio di crescita.
Per un’eccellenza emozionale della performance vocale artistica ecco
la catena dei comportamenti virtuosi:
Compren- Controllare, Accettare Sviluppare Ambire
dere
regolare e
superare
stati emotivi
ansia e paura,
impulsi aggressivi,
invidie
studio e
costanza,
rinvio delle
gratificazioni,
limiti personali
motivazioni,
stato
consapevolezza, di flusso
ottimismo
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G. Rohmert, Sistemi funzionali aperti e
chiusi in relazione alla voce parlata e cantata, capitolo 7.3, in Il cantante in cammino verso il suono. Leggi e processi di autoregolazione nella voce del cantante, Diastema Libri, Treviso 1995.
2
Citazione dal chimico francese Antoine
Lavoisier 1789 (Parigi 1743-1794), che
enunciò la prima versione della legge di
conservazione della massa (in una reazione chimica la massa dei reagenti è esattamente uguale alla massa dei prodotti). Più
di cent’anni dopo, Albert Einstein riformulò in altri termini questa legge, come
legge di conservazione dell’energia (primo
principio della termodinamica), dimostrando che il principio di conservazione
coinvolge la materia-energia, intese non
più come due realtà separate bensì unitariamente, dato che l’una può trasformarsi
nell’altra secondo una precisa relazione
matematica.
3
Motto iscritto sul tempio dell’Oracolo
di Delfi, che sintetizza e semplifica il pensiero di Socrate secondo il quale la verità
va cercata dentro di sé e non altrove.
4
Charles Robert Darwin (Shrewsbury, 12
febbraio 1809 - Londra, 19 aprile 1882),
biologo, geologo, zoologo e botanico britannico, ha formulato la teoria dell’evoluzione delle specie animali e vegetali per
selezione naturale (origine delle specie),
e ha teorizzato la discendenza di tutti i
primati (uomo compreso) da un antenato
comune (origine dell’uomo). L’origine
delle specie (1859) è la sua pubblicazione
più nota.
5
William James (New York, 11 gennaio
1842 - Chocorua, 26 agosto 1910) psicologo e filosofo statunitense e presidente
della Society for Psychical Research dal
1894 al 1895.
Nella sua opera Principles of Psychology,
enuncia l’importante “Teoria periferica
delle emozioni” (legata al sistema nervoso
periferico), capovolgendo l’idea comune
1
secondo la quale alla percezione di uno
stimolo segue un’emozione, sostenendo
invece che la manifestazione somatica
precede l’emozione, che solo successivamente viene riconosciuta a livello “cognitivo”.
6
Richard Wayne Bandler (Jersey City, 24
febbraio 1950) è uno psicologo, saggista
e linguista. Negli anni settanta, insieme al
linguista John Grinder (Detroit, 10 gennaio 1940), è stato il co-fondatore della
Programmazione Neuro Linguistica. La
PNL è un approccio alla comunicazione,
allo sviluppo personale e alla psicoterapia
ideato in California. L’idea fondante è
basata sul principio che ci sia una connessione fra i processi neurologici, il linguaggio e gli schemi comportamentali appresi
con l’esperienza. La PNL afferma che
possono essere organizzati degli schemi
specifici per ogni obiettivo. Oggi la PNL
non ha validità scientifica ed è considerata una pseudoscienza.
7
Mihály Csíkszentmihályi: nato a Fiume
(oggi Rijeka) nel 1934, professore di psicologia di origini ungheresi, emigrato
all’età di ventidue anni negli Stati Uniti, è
stato capo del dipartimento di Psicologia
dell’Università di Chicago e del dipartimento di Sociologia e Antropologia al
Lake Forest College, attualmente alla Claremont Graduate University, oggi riconosciuto come importante ricercatore della
psicologia positiva. Il concetto di stato di
flusso fu introdotto da Csíkszentmihályi
nel 1975 nella sua Teoria del flusso e successivamente si diffuse in diversi ambiti,
tra cui psicologia, sport, spiritualità, educazione ecc.
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Ultimo pensiero
Con questo libro ho voluto dimostrare l’inscindibilità di corpo e anima.
Corpo e anima si proiettano interamente e pienamente nella voce.
La voce è una, ed è l’espressione di un unicum corpo-anima.
A ogni voce corrisponde un’unità inscindibile.
Solo la morte, spegnendo la voce, scinde il corpo dall’anima.
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Bibliografia
F. Ambrosio, Il metodo Feldenkrais, Xenia,
Milano 2004.
R. Celletti, La grana della voce. Opere,
direttori e cantanti, Baldini & Castoldi,
Milano 2000.
P.G. Concone, Introduzione all’arte per
ben cantare ossia Metodo elementare di
canto contenente le regole ed i principii più
essenziali seguito da esercizi di vocalizzazione tratti da opere di Rossini…, Giudici e
Strada, Milano 1872 circa
M. De Santis, F. Fussi con la collaborazione della dott.ssa A. Ricotti, La parola e
il canto. Tecniche problemi, rimedi nei professionisti della voce, Piccin, Padova 1993.
L. Fedele, Il canto: appunti di viaggio; considerazioni e consigli sul canto moderno;
Edizioni Curci, Milano 2005.
M. Feldenkrais, Le basi del metodo, per la
consapevolezza dei processi psicomotori,
Casa Editrice Astrolabio – Ubaldini Editore, Roma 1991.
F. Fussi, S. Magnani, Le parole della scena.
Glossario della voce del cantante e dell’attore, Omega, Torino 2010.
F. Fussi, S. Magnani, Lo spartito logopedico. Ovvero la gestione logopedica della
voce cantata, Omega, Torino 2003.
D. Gaita, Il pensiero del cuore, musica simbolo e inconscio, a cura di A. Carotenuto,
Tascabili Bompiani, Milano 2000.
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F.E. Goddard, L’anima nella voce. Il canto come meditazione attiva e crescita interiore, Urra, Milano 2006.
L. Pigozzi, A nuda voce. Vocalità inconscio
e sessualità, Antigone, Torino 2008.
D. Goleman, Intelligenza emotiva, BUR,
Milano 1999.
C. Renard, Il gesto musicale: modelli di
gioco sonoro-musicali per bambini dai 3 ai
10 anni, Ricordi, Milano 1987.
L’infinito nella voce. Su poesia e psicoanalisi, a cura di F. Lolli, L. Santoni, F. Angeli, Milano 2004.
J.-C. Risset, Il suono e la mente: il timbro,
in Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino 2007.
A. Juvarra, Lo studio del canto. Tecniche
ed esercizi, Casa Ricordi, Milano 1999.
G. Rohmert, Il cantante in cammino verso
il suono. Leggi e processi di autoregolazione nella voce del cantante, Diastema Libri,
Treviso 1995.
F. Lamperti, Guida teorico-pratica-elementare per lo studio del canto, Ricordi, Milano [18..].
D. Lewis, Respirazione naturale. L’insegnamento taoista per il benessere e la crescita interiore, Tecniche Nuove, Milano
1999.
B. Liguori Valenti, La vocalità infantile.
Far musica con la voce, Casa Ricordi, Milano 1986.
A. Lowen, Il linguaggio del corpo, Feltrinelli, Milano 2000.
K. Mensah, L’arte di cantare, Volontè &
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J. Michelet, La strega, Stampa Alternativa,
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J.-J. Nattiez, Il discorso musicale. Per una
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A. Tomatis, L’orecchio e la voce, Baldini
Castoldi Dalai, Milano 2005.
E. Vivaldi, Metodo teorico pratico per il
cantante moderno, Carisch, Lainate 2008.
V. Vismara, L. Pierobon, Suoni dell’anima.
L’essenza nascosta della voce, Minerva
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P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, D.D.
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G. Zanarini, Il canto, il suono e la mente:
il suono, in Enciclopedia della musica, Einaudi, Torino 2007.
A. Oliverio, La vita nascosta del cervello,
Giunti Editore, Firenze 2009.
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Ringraziamenti
Grazie a Mary Lindsey, da sempre la mia paziente guida nel canto; Stefano
Battaglia, che mi ha permesso di allargare i confini della mia voce; Bruno Santori,
Franco Fussi, Silvia Infascelli, Caterina Scotti, Franco Mussida, Stefano Gervasoni,
Umberto Labozzetta, Tino Silvestri, Andrea Rodini, Silvia Aprile, per la premurosa
collaborazione e la generosità nella condivisione di esperienze personali; Lorella
Algeri, per la preziosa consulenza sul tema della psicoanalisi; Marco Tonini,
per le immagini scientifiche, Ljuba Bergamelli, Enrico Dondè, Nunzia Latini
per la disponibilità alla lettura e per gli indispensabili suggerimenti; Angelo Roma,
per avermi consigliata, spronata e iniziata al mondo editoriale; Roberto Gualdi
per la fiducia incondizionata; Antonio Marinoni, per la grande pazienza avuta
con me, la mia gatta Isidora e le mie galline Kappa e Drago da sempre grande fonte
di ispirazione.
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Mondadori Libri Illustrati
Tutti i diritti riservati
Prima edizione ottobre 2014
www.librimondadori.it
Published by arrangement with
DELIA AGENZIA LETTERARIA
Finito di stampare nel mese di ottobre 2014
presso Elcograf S.p.A., via Mondadori 15, Verona
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