01 Quaderno N. 28

annuncio pubblicitario
28-10-2008
10:55
Pagina 1
ISBN 88-86704-38-0
ISSN 1826-7882
28
SERIE 3: ATTI. N. 13: MUSICA E INTERNET
00 COP. pant.1575+IV COP n. 28
ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.)
con il patrocinio del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo e lo Sport
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali
QUADERNI
DELL’I.R.TE.M.
28
SERIE 3: ATTI
N. 13: MUSICA E INTERNET
PUBBLICAZIONE
NON IN VENDITA
RISERVATA
ALLE BIBLIOTECHE
AGLI ARCHIVI
E AGLI STUDIOSI
RIPRODUZIONE E DIFFUSIONE,
UN PROBLEMA DI QUALITÀ?
ROMA, 8-9 DICEMBRE 2001
ROMA
2005
01 Quaderno N. 28
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Pagina b
I.R.TE.M.
ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE
COMITATO DEI GARANTI:
CARLO MARINELLI, presidente
ENNIO MORRICONE, vicepresidente
LAMBERTO MACCHI, consigliere
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Pagina I
ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.)
con il patrocinio del
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo e lo Sport
Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali
QUADERNI
DELL’I.R.TE.M.
28
SERIE 3: ATTI
N. 13: MUSICA E INTERNET
RIPRODUZIONE E DIFFUSIONE,
UN PROBLEMA DI QUALITÀ?
partecipano
BASSETTI - BENEDETTI - BURNETT
DE BERNARDINIS - LANDINI - LONG
LUDOVICO - MARINELLI - RAMELLO - RUBINI
ROMA 2005
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Pagina II
© Copyright 2005 by I.R.TE.M.
Grafica Cristal s.r.l.
Via Raffaele Paolucci, 12/14 - 00152 Roma
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Pagina III
BASSETTI - BENEDETTI - BURNETT
DE BERNARDINIS - LANDINI - LONG
LUDOVICO - MARINELLI - RAMELLO - RUBINI
MUSICA E INTERNET
RIPRODUZIONE E DIFFUSIONE,
UN PROBLEMA DI QUALITÀ?
ROMA, 8-9 DICEMBRE 2001
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redazione a cura di
LAURA NICOLETTA COLABIANCHI
VERA ALCALAY
I testi di Sergio Bassetti, Robert Burnett, Flavio De Bernardinis e Carlo Marinelli sono
stati revisionati dagli autori. Agli altri sono state apportate solo correzioni redazionali.
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Indice
p.
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CARLO MARINELLI
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SERGIO BASSETTI
La fonoteca di Babele
14
MARCO BENEDETTI
Qualità sonora dell’audio compresso, considerazioni
oggettive e soggettive
21
ROBERT BURNETT
Music, Internet and Mobile Telephones
34
MARIA CARLA CAVAGNIS SOTGIU
44
FLAVIO DE BERNARDINIS
Immagini e suoni: transiti reticolari
49
GIANCARLO LANDINI
Opera e Internet: un’indagine e una valutazione
61
GIOVANNI RAMELLO
Il mercato discografico tra presente e futuro tecnologico
71
STEVE LONG
Classical Music on the Internet: the Expectations and
the Reality
82
ALESSANDRO LUDOVICO
Frequenze anomale e opportunità mediatiche: le nuove
connotazioni dei file musicali
V
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Pagina VI
90
ODERSO RUBINI
Rumore di fondo
98
STEFANIA DI BLASIO
107
SERGIO BASSETTI
Conclusioni
109
ELENCO ALFABETICO DEI NOMI DI PERSONA CITATI
VI
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sabato 8 dicembre 2001
ore 9
IL LUOGO DELLA MUSICA
via de’ Delfini 20
presiede
Carlo Marinelli
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CARLO MARINELLI
Dichiaro ufficialmente aperti i lavori del Convegno «Musica e Internet. Riproduzione e diffusione: un problema di qualità?».
Questo Convegno vede la presenza di un numero ristretto ma molto qualificato di esperti italiani e stranieri. Saluto innanzitutto il professor Burnett, canadese che insegna all’Università di Karlstad, che non ha bisogno di alcuna
presentazione perché è internazionalmente noto come esperto del settore e
come autore di libri che sono di fondamentale lettura per chiunque vi si voglia
introdurre. Il dottor Steve Long viene invece dall’Inghilterra e la sua ricerca è
volta più al campo pratico che a quello teorico. Il Convegno sarà introdotto dalla relazione del professor Sergio Bassetti, esperto di problemi cinematografici
oltre che «internettistici». Il dottor Marco Benedetti, insieme ai suoi colleghi
della rivista AudioReview, ha effettuato alcuni esperimenti nel campo della certificazione di qualità attraverso i diversi gradi di compressione del suono per
l’immissione e la trasmissione nella Rete. Partecipano al Convegno anche il
professor De Bernardinis dell’Università di Roma «La Sapienza», il dottor
Alessandro Ludovico della rivista Neural.it, il professor Giovanni Ramello
dell’Università LIUC di Castellanza, il dottor Oderso Rubini del Centro Musica Moderna, con il quale ho avuto i primi scambi di idee per organizzare questo Convegno. Siamo inoltre in attesa del dottor Giancarlo Landini della rivista
Opera, che è stato uno dei primi in Italia ad adoperare Internet ai fini della ricerca critica nel settore, e della dottoressa Cavagnis Sotgiu, direttrice della Discoteca di Stato. Per gli interventi sono presenti la dottoressa Stefania Di Blasio di 4e40, il dottor Francesco La Camera della «Sonus», a cui sono affidati
tutti gli impianti videosonori dell’Istituto, la dottoressa Chiara Sirk della Discoteca dell’Università di Bologna e il professor Gianluca Tarquinio, che ha insegnato Discografia e Videografia musicale all’Università di Bologna. Un graditissimo e imprevisto arrivo è invece quello della dottoressa Anita Pesce di
Napoli, che si è molto occupata di ricerche per uno degli ambiti più sconosciuti
della discografia, quello delle case produttrici napoletane negli anni che vanno
dall’inizio del secolo XX e la fine degli anni Venti.
Fatte le dovute presentazioni, vorrei precisare che da parte mia non ci sarà
alcun intervento introduttivo; mi limiterò a presiedere i lavori e a intervenire,
se lo riterrò opportuno, nel corso della discussione.
Mi fa estremamente piacere avervi qui e spero che siate ben alloggiati; e
mi fa piacere soprattutto che abbiate trovato «una Roma che più Roma non potrebbe essere», visto che il colore e la trasparenza del cielo di oggi sono tipicamente romani: evidentemente anche Roma vi ha accolto volentieri!
Augurandovi buon lavoro, cedo la parola per la sua relazione introduttiva
al professor Sergio Bassetti.
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SERGIO BASSETTI
La fonoteca di Babele
Sospeso tra la realtà storiografica, antica più di duemila anni, della biblioteca di Alessandria d’Egitto, che coi suoi 700.000 documenti, cartacei e non, si
pone al centro del nostro immaginario come emblema ineguagliato dell’archivio universale, e il mito della borgesiana Biblioteca di Babele, labirintica, inconoscibile nella sua interezza e potenzialmente infinita, il web, la Rete Internet,
porta in sé, tra molte e spesso imprevedibili potenzialità, anche l’utopia della
fonoteca assoluta, nella quale potrebbero trovare sistemazione e classificazione
virtuale tutti i suoni esistenti e possibili. In realtà, nelle sue strutture reticolari e
ipertestuali, il web già accoglie, sotto forma di file informatici, una gran parte
delle manifestazioni foniche conosciute, intese tanto come suono organizzato –
musica, quindi – che come suoni semplici, tanto naturali che di sintesi: la Rete
pullula letteralmente di siti che mettono a disposizione sonorità di ogni carattere e natura, e il modello di offerta e scambio inaugurato da Napster, e oggi tramandato da un buon numero di eredi più o meno naturali e variamente illegali,
ha moltiplicato in misura esponenziale la banca-suoni potenzialmente disponibile online. Accertata la vastità dell’offerta – facilmente verificabile da parte
di qualunque utente di Internet –, l’autentico problema del rapporto tra musica
e Rete sembra annidarsi semmai nelle modalità di deposito, transito e infine
fruizione, da parte della collettività, dei testi e contenuti sonori in essa custoditi, e dunque nelle procedure di codifica e successivo prelevamento e decodifica
di questi suoni dalla virtualità smisurata e collettiva della Rete sino a consegnarli alla non meno virtuale individualità del Personal Computer casalingo, e
poi dei riproduttori in commercio. Quello che appare più affascinante, in questa
prospettiva di libero e indisciplinato scambio, è come in tale, incalcolabile,
magmatica ricchezza sonora sia, di nuovo in potenza, attingibile da parte di
chiunque e ovunque si trovi, purché dotato di PC e di una linea telefonica o di
un collegamento satellitare e presto di un semplice collegamento elettrico: una
democratizzazione della conoscenza e una capillarizzazione del consumo che
non hanno precedenti, tanto per vastità della materia disponibile quanto per bacino d’utenza potenziale, cui il miliardo e ottocento milioni di file musicali
scambiati in Rete, più o meno legalmente, nel solo mese di ottobre 2001, potrebbe dare una misura di traffico attendibile, benché presumibilmente approssimata per difetto. E che il mondo dei mass media sia in balìa di rivolgimenti
continui e di norma incontrollati e indisciplinabili è dato ormai acquisito: è giusto di queste ore la notizia, peraltro preconizzata già da qualche tempo, della
sensibile crisi del supporto Compact Disc rispetto agli andamenti di mercato
delle stagioni passate; le stime parlano, per il 2001, di una flessione globale di
vendite pari al 20%, come conseguenza – e a tutto vantaggio – della voga planetaria dei file musicali mp3, il cui cammino di crescita, secondo gli osservatori, sarebbe quantificabile a sua volta in un incremento di diffusione del 20%:
dati coincidenti che non sembrano privi di nessi di causalità né di significati
più generali. La già smisurata e nondimeno crescente comunità degli utenti di
Internet sembra aver trovato, e spesso accolto, della Rete, le potenziali implicazioni rivoluzionarie che tendono a proporre questa immensa e immateriale
struttura di comunicazione, e sempre più di febbrile scambio, non tanto in veste
di replica e specchio dei modelli di società entro cui tutti, pur con varianti localistiche, ci troviamo ad agire, quanto piuttosto con funzione di laboratorio nel
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quale si postulano strutture e si elaborano formule sociali e fruitive differenti,
affrancate da codici e modelli socio-economici che regolano la nostra esistenza
«reale». E benché talvolta spinte «eversive» degenerate abbiano guadagnato visibilità a danno di modelli etici e sociali universalmente e liberamente condivisi, altre volte la «libertà online» – se così possiamo convenzionalmente definire
l’impulso alla autodeterminazione che resta il propellente più fecondo e innovativo di Internet – ha spontaneamente prodotto ricette che negavano e addirittura ribaltavano i rapporti di scambio e le liturgie di consumo tradizionali: tra
le nuove consuetudini, come è ben noto, la facoltà individuale di accedere, a
costo irrisorio e con relativa facilità, ad un patrimonio tecnico e culturale, sia in
forma di testo sia di suoni – e presto, audiovisivo tout court –, sino all’altro ieri
inconcepibile se non nelle utopie collettivistiche più sbrigliate e visionarie. Fatalmente, in questo processo di riappropriazione, di nuovo spontanea, di una
cultura in primis sonora, le leggi economiche che regolano diffusione e consumo musicali sono state aggirate e/o infrante, col risultato che i signori del mercato appunto culturale, rianimatisi dopo lo shock iniziale, non hanno potuto che
sferrare un’offensiva furente contro il nuovo sistema, cercando altresì di fagocitarne strumenti di trasmissione e arsenali tecnici.
Ma se già le major della musica e del mercato culturale non avessero portato una prima serie di attacchi al sistema di diffusione musicale «selvatico»
sino a ieri adottato sul web, soprattutto da Napster, e oggi disperso in mille rivoli più o meno clandestini e pirateschi, l’idea oggi in trasformazione di una
fonoteca universale e onnicomprensiva, economica e facilmente attingibile, ha
sin qui preteso e continua a pretendere dall’utente musicale un prezzo non indifferente. La Rete ha in altri termini un conto da presentare in cambio di pluralità, accessibilità ed economicità pressoché incondizionate dell’offerta: un
conto espresso in termini di precarietà della qualità sonora, di compromesso tra
sacrifici necessari e integrità facoltativa del messaggio, tra standard ideali e
condizioni oggettive – tutt’altro che ottimali – di fruizione e quindi di ascolto;
un ripiego o, meglio, una serie di ripieghi in assenza dei quali, peraltro, l’uso
della Rete per acquisizione e ascolto di file sonori sarebbe assai meno conveniente, più macchinoso, e dunque assai meno collettivizzabile e democratico. I
molteplici standard di trasferimento dei file sin qui proposti hanno puntualmente implicato una serie di rinunce più o meno dolorose in termini di fedeltà ai
valori sonori, e i protocolli più comunemente adottati – soprattutto il cosiddetto
mp3 – non fanno eccezione, avendo semmai ottimizzato (si fa per dire, e ne vedremo le ragioni) il rapporto tra soglia di qualità sonora non transigibile ed
economicità e praticità indispensabili per ambire a una popolarità del metodo
di trasferimento degna di questa qualifica. Ma in ultima analisi, sulla Rete è
sempre l’utenza a decidere quale sia lo standard più idoneo alle esigenze generali, e ciò avviene anche a costo di smentire, e poi ribaltare, il senso di marcia
che storicamente ha sempre siglato l’evoluzione qualitativa delle tecnologie di
cattura e riproduzione del suono. Per meglio dire, più che a favore della crescita degli standard qualitativi di acquisizione e riproduzione dei suoni, l’utenza
sembra aver mostrato maggiore interesse per la individualizzazione del consumo, per la personalizzazione della sfera d’uso, ovvero quello che appare come
il vero obiettivo prioritario della ricerca tecnologica da qualche decennio a questa parte. Non ci sembra, in altre parole, l’incremento della qualità di codifica e
decodifica di suoni e immagini il traguardo cui la ricerca tecnica devolve i suoi
sforzi maggiori – o quantomeno non soltanto né soprattutto questo – quanto
piuttosto la graduale trasformazione di ciò che tradizionalmente è stato concepito come esperienza collettiva (cinema, ascolto di musica, consumo di cultura
e arte, ecc.) in esperienza privata: dapprima domestica e familiare, e poi via via
sempre più individualizzata e «libera», cioè priva di vincoli tanto di natura so5
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cio-culturale che fisica; un’esperienza quindi da consumare in una sfera di intimità, in qualunque momento e in concomitanza con qualsivoglia altra attività –
l’ascolto distratto di Adorno, se vogliamo trovare un riferimento –, senza alcuna distinzione di status generazionale o sociale (di qui la progressiva «popolarizzazione» dell’accessibilità tanto ergonomica che economica), e con vincoli
fisici dell’apparato (cioè peso, ingombro, cablaggio, ecc.) sempre più contenuti
e trascurabili. Tutto ciò anche a costo di un sensibile stallo, se non una regressione, degli altri parametri qualitativi. E dunque, praticità, semplicità d’uso ed
economicità degli standard, ampiezza e accessibilità dell’offerta, individualizzazione crescente, libertà e persino arbitrarietà del consumo sembrano essere le
parole d’ordine che determinano oggi anche gli atteggiamenti dell’utenza
nell’acquisizione e consumo di musica tramite Rete. Non è insomma il perseguimento di qualità e fedeltà foniche negli standard di compressione e decodifica adottati, a giocare un ruolo decisivo tanto nell’elaborazione che nell’accoglimento di sistemi per il consumo musicale tramite Internet: è bene sgombrare
il campo da questo possibile equivoco, che delineerebbe un identikit del consumatore musicale online del tutto inattendibile. E d’altra parte sin troppe sono
le evidenze a sostegno di quanto appena affermato: basterebbe la consapevolezza della povertà, perlomeno in termini statistici, dei sistemi fonoriproduttivi
di serie allocati nei PC, o il riscontro della parallela proliferazione inarrestabile
e variopinta di kit sonori (diffusori, equalizzatori, subwoofer sempre più estremi) che nella manipolazione arbitraria e soggettivamente edonistica del suono
individuano il loro principale motivo di seduzione nei confronti dell’utente musicale: obbedendo a una logica degli eccessi di segno opposto, alla spartana
inadeguatezza sonora dei fonosistemi residenti dei PC fanno da controcanto
estetiche individualistiche e scombiccherate come il bass boosting (cioè il
«pompamento» nelle tonalità gravi), l’equalizzazione selvaggia, l’enfatizzazione «creativa» delle frequenze; in altre parole, manipolazioni arbitrarie e personalizzate del suono. In questo scenario, parlare di fedeltà della fonotrascrizione
e fonoriproduzione sembra, di nuovo statisticamente, un problema para-filosofico per cenacoli di audiofili eccentrici e giansenisti. Un problema, insomma,
tanto capzioso e di nicchia da essere a dir poco trascurabile. Statisticamente.
Ma questa consapevolezza non deve, io credo, suonare come una resa spontanea e incondizionata a uno stato delle cose musicali online patologico e inaccettabile, benché percepito come tale da pochi o da pochissimi. E c’è da domandarsi se anche questa larvale corrente di opinione – e di ribellione – di cui
siamo testimoni e portavoce, che vorrebbe ricondurre il suono online a una sua
originaria, ipotetica purezza e ricchezza, non possa aspirare presto o tardi a una
presa di coscienza più generalizzata da parte di una fascia di utenza che al momento sembra più che altro allettata dalle fonomanipolazioni casalinghe e comunque distratta da problemi in apparenza più pressanti, come la contesa sulla
gratuità dell’acquisizione della musica dal web. Lo svolgersi stesso di questo
Convegno aspira, credo, non tanto a una ormai acquisita consapevolezza delle
«menomazioni» variamente sensibili cui il suono musicale è di regola sottoposto nel suo transito in Rete, quanto piuttosto a precisare, di tali menomazioni,
l’entità, l’incidenza oggettiva su percezione e ascolto consapevole, il tasso di
tollerabilità e, eventualmente, i possibili rimedi per emendare questo status
quo. Senza tuttavia nasconderci che non di un tabù stiamo parlando ma comunque di una verità «scomoda» sulla quale nessuno ha interesse a far vera luce,
tanto più che la consapevolezza di tale imperfezione sonora resta saldamente al
di sotto della soglia di sensibilità della stragrande maggioranza di consumatori
musicali online. In fondo, lo ribadisco, il fastidio dell’ascolto di file prelevati o
trasmessi tramite Rete non sembra far parte della storia ufficiale del rapporto
fra musica e Internet, quanto piuttosto della storia privata e soggettiva di un
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manipolo di audiofili piantagrane spesso già «segnati» da trascorsi di contestazioni e polemiche nei confronti del suono digitale e da altre battaglie elitarie ed
esoteriche incomprensibili alla maggioranza. Senza darci da noi stessi la patente di sacerdoti del verbo sonoro e della sua interpretazione ortodossa – improbabili talebani dell’audio – io credo che chi ne ha consapevolezza e competenza abbia il dovere di segnalare comunque, senza reticenze né sconti, e di
circostanziare – come certamente non mancheranno di fare i colleghi di più
stretta competenza tecnica – una condizione di appiattimento, se non di degenerazione, del suono compresso, trasferito e poi prelevato online.
Qui mi sarei lanciato in una pericolosa rassegna dei metodi di compressione che peraltro non mi appartengono, visto che sono un «orecchiante» in questo ambito, ma non vorrei rubare il lavoro ai tecnici.
CARLO MARINELLI
La pregherei di non saltare questo passaggio perché ritengo sia molto utile
per il Convegno avere proprio l’opinione di una persona che non sia strettamente legata alle rilevazioni tecniche.
SERGIO BASSETTI
Avrete allora una versione volgarizzata degli aspetti tecnici del tema che
stiamo trattando.
Oggi, dunque, il format mp3, benché adottato non in regime di monopolio,
sembra nondimeno il solo a raccogliere quei consensi che altri standard di compressione non sono riusciti neppure lontanamente a sfiorare; e ciò a dispetto
delle sue accertate manchevolezze e malgrado in tempi recenti siano stati proposti protocolli di qualità superiore, cui però non ha mai arriso un’accoglienza
autenticamente di massa. L’enorme diffusione dello standard mp3, raggiunta
soprattutto in virtù di una condizione «non proprietaria» – cioè libera da vincoli
di copyright sul brevetto –, condizione ora contestata dal Fraunhofer Institut tedesco con rivendicazioni la cui fondatezza mi è difficile valutare, può essere
fatta ragionevolmente risalire anche alle ragguardevoli capacità di compressione del messaggio che questo formato esercita in ragione di un rapporto estensibile sino a 12/1. Tale contrazione ottimale, pari a oltre il 91% del volume dei
dati, determina un alleggerimento dei pesanti file musicali e una inedita, collegata «agilità» del loro transito in Rete, ma produce altresì effetti collaterali variamente avvertibili e al momento del tutto inevitabili, giacché proprio in essi si
identificano a un tempo causa ed effetto dell’agognato «dimagrimento» dei
file. Semplificando in massimo grado, credo sia lecito affermare che è principalmente grazie a un algoritmo denominato perceptual coding che l’mp3 aggira e supera, a mo’ di cavallo di Troia, i «controlli di qualità» del sistema di ricezione sonora dell’uomo. Le osservazioni della psicoacustica in tema di
deficienze percettive dell’orecchio, come il fenomeno dell’auditory masking –
il mascheramento acustico di cui diremo –, sono state, in questo senso, di grande aiuto nella elaborazione della formula algoritmica decisiva. Del meccanismo
di percezione acustica, il perceptual coding soddisfa – di nuovo semplificando
– le esigenze più basilari e «grossolane», sacrificando al contrario le altre che
la fisiologia stessa relega in ruoli ancillari, giacché la loro incidenza sull’articolato processo di apprezzamento dei suoni sembra accessoria, marginale. Non va
dimenticato che, al di là di capacità individuali eccedenti la norma, l’orecchio
umano è organo relativamente rudimentale che può essere «ingannato» con una
certa facilità, e comunque assai più dell’occhio, organo già di per sé non infallibile. Sfruttando la violabilità inerente dell’orecchio, lo standard mp3 attua
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quella che ho denominato una procedura di «trompe l’oreille», ovvero l’equivalente acustico di quell’inganno visivo, detto trompe l’œil, in cui la pittura,
eminentemente cinque e seicentesca, era solita prodursi soprattutto in termini
di prospettiva e tridimensionalità, allestendo artifici figurativi illusionistici di
effetto sbalorditivo, come nel Palazzo Te di Mantova, per fare un solo esempio.
Ma per beffare la percezione acustica di un ascoltatore medio non sembrano
necessarie tecniche altrettanto raffinate: i diagrammi prodotti dagli studi psicoacustici rivelano infatti nell’uomo molteplici talloni d’Achille fonopercettivi,
oltre ad aree di non-discriminabilità e ridondanze del messaggio in presenza
delle quali è lecito – e dunque favorevole – intervenire in senso compressivo
senza alterare in misura sensibile il messaggio sonoro. Malgrado estesi test di
ascolto effettuati secondo specifiche «vantaggiose» per la salvaguardia della
qualità audio originale dimostrino una impercettibilità delle differenze tra segnale originale e segnale codificato statisticamente significativa, nondimeno lo
scadimento della qualità difficilmente potrà passare del tutto inavvertito in presenza di condizioni di codifica meno favorevoli, dimostrandosi al contrario variamente apprezzabile a seconda dell’esperienza d’ascolto e delle capacità di
analisi acustica del soggetto coinvolto. Così se la trasformazione in mono di segnali stereofonici relativi a frequenze gravi non provoca alcun tipo di allerta
qualitativo anche nell’ascoltatore smaliziato, giacché tali frequenze, appunto,
non rispondono per loro natura alle leggi di rigida spazializzazione della fonte
sonora, non sempre ugualmente esente da ripercussioni tangibili potrà dimostrarsi il cosiddetto effetto di mascheramento di cui avevamo parlato, ulteriore
risorsa della compressione mp3 per cui taluni segnali audio deboli vengono
soppressi selettivamente quando in fasce dello spettro ad essi contigue coesistano segnali più forti che renderebbero i primi comunque non apprezzabili. Ammettere senza eccezioni l’indifferenza di tale procedura sottrattiva sarebbe un
po’ come concedere che, nel riprodurre una tela di Seurat, massimo esponente
del Pointillisme francese, sia possibile eliminare impunemente i punti di colore
più diafani e delicati senza alterare in nulla l’effetto d’insieme delle migliaia di
segni cromatici stesi a comporre il dipinto stesso. Certo, l’alterazione sarebbe
di difficile riscontro, almeno entro certi limiti d’intervento, e tuttavia potrebbe
essere comunque documentata oggettivamente, e con buona probabilità percepita soggettivamente da più di un osservatore. Atteggiamento non diversamente
scettico mostrerei per quel che riguarda la postulata inavvertibilità dei «tagli»
al di sotto e al di sopra delle soglie di udibilità, anch’esse non sempre così costanti nell’individuo, o per gli effetti della codifica di Huffman, un altro procedimento grazie al quale le ridondanze più accentuate – ripetizioni, ricorrenze
strumentali, da capo e ogni altra forma di iterazione – possono essere «semplificate», ridotte ai minimi termini, comprimendo i dati ad esse relativi in misura
tanto più radicale quanto maggiore è la regolarità con cui tali dati tendono a ripresentarsi uguali a se stessi. Un procedimento di questa fatta può rivelarsi economico e provvidenziale nel caso, che so, della trance music o della techno
music, linguaggi che della ripetizione ipnotica e ossessiva fanno la loro cifra
in-espressiva; non altrettanto accadrebbe, credo, in presenza di tassi di variabilità dei caratteri musicali maggiormente accentuati e quindi di una mole di dati
poco incline alla ridondanza. La compressione mp3 mette in atto anche ulteriori procedure di snellimento acustico, con effetti soggettivi variamente apprezzabili: a completare un quadro sonoro che definirei di «vizi privati e pubbliche
virtù», dove autenticità e integrità del contenuto musicale, soprattutto in termini timbrici e dinamici, finiscono per impoverirsi, se non smarrirsi, tra stringhe
di dati e protocolli algoritmici. E tale fenomeno, lasciando da parte in questa
sede la sua pur pesante incidenza su dinamiche e costumi del mercato musicale
(altro fenomeno assolutamente rilevante), sembra in grado – e questa, dal mio
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punto di vista, è la cosa significativa – di plasmare intere generazioni di consumatori musicali i cui desiderata, sotto il profilo genericamente sonoro, sarebbero infine il risultato perverso dell’assuefazione a quelle denaturazioni e alterazioni acustiche necessarie per lo scambio di contenuti musicali in Rete. Pur
senza voler peccare di catastrofismo, sono convinto che il compromesso timbrico, dinamico, di intensità relativa, e dunque in qualche misura espressivo,
che si annida in gran parte dei file sonori compressi in transito sul web, rischi
di produrre una mutazione strisciante della percezione e poi del gusto musicale:
mutazione in parte già consumata presso ampie fasce d’utenza e che conterrebbe in sé i germi della propria irreversibilità. I futuri consumatori di musica e,
per adeguamento, anche coloro che la producono – penso a Walter Benjamin,
quando parla dell’adeguamento degli standard delle forme al mezzo e alla platea d’ascolto, dunque niente di strano che anche chi produce musica lentamente
adegui il proprio modo e le proprie forme alla Rete – guarderanno forse all’orchestra tradizionale, e soprattutto alla genuinità incorrotta dei suoi timbri, allo
stesso modo in cui certe nuove generazioni metropolitane trasecolano alla vista
di qualche comune pennuto da cortile, quasi si trattasse di reliquie di civiltà
scomparse. Com’è noto, diffusione e incidenza statistiche di un fenomeno ne
determinano in qualche misura l’assunzione a norma, e dunque la ricezione di
esso in termini di comune sentire: così, alla luce della crescente rilevanza numerica – e quindi statistica – degli utenti musicali della Rete rispetto al bacino
d’utenza musicale globale della nostra civiltà, non è difficile profetare il giorno
in cui la definizione stessa di normalità e naturalezza del suono sarà prerogativa pressoché esclusiva di coloro che si sono «formati» acusticamente su Internet. La capacità di fagocitazione e dominio che il web esercita su moltitudini di
utenti – musicali e non –, soddisfatti del contenuto mediato con la realtà che la
Rete offre e ormai indifferenti a una esperienza fisica diretta con questa stessa
realtà, sembra rientrare nella più ampia casistica dei rapporti tra individuo e
virtualità, dove quest’ultima tende a guadagnare progressivamente terreno sulla
vita reale e quotidiana, finendo poi, in taluni soggetti, per sostituirla pressoché
integralmente e patologicamente. Pur al riparo dalle drammatiche ricadute esistenziali che casi come questi ultimi possono portare in dote, la crescente popolarità del Personal Computer come strumento di acquisizione, scambio e ascolto di registrazioni sonore – quando non di produzione musicale – fa, e sempre
più farà, dell’ambito informatico e del Web, che ne è strumento comunicativo
essenziale, un fertile territorio di evangelizzazione acustica: su questo terreno
virtuale potrebbe in tempi non lontani combattersi una battaglia cruciale per la
sopravvivenza di una verità sonora sempre più obsoleta e minacciata di estinzione a tutto vantaggio di suoni alterati e rimodellati, che con quelli naturali
d’origine vantano parentele ormai lontane e via via meno necessarie. Sottolineo
che stiamo continuando a parlare non di sonorità di sintesi o nate artificiali,
quanto di suoni naturali, dello strumentario tradizionale, che a causa di compressioni variamente alterative e attualmente pressoché inevitabili, si stanno allontanando gradualmente e sempre più sensibilmente dalla oggettività e genuinità del suono, appunto, naturale. Al punto che questi suoni corretti e corrotti
sempre più spesso ed estesamente vengono percepiti come normali, senza che
contro le procedure adulterative della compressione si levino voci critiche e
neppure allarmate, giacché – come s’è sostenuto – il decremento di qualità della riproduzione sonora online non viene neppure avvertito dalla stragrande
maggioranza degli utenti. In attesa del giorno in cui tecnologie e protocolli di
trasmissione dei file consentiranno un traffico in Rete adeguatamente veloce
anche ai messaggi musicali più complessi e «pesanti», lasciandoli così almeno
parzialmente al riparo, se non del tutto indenni, da procedure di compressione e
codifica funeste per purezza e qualità del suono, in attesa di questo giorno non
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ci resta che guardare con qualche motivata preoccupazione al moltiplicarsi di
joint ventures e accorpamenti tra major musicali storiche e aziende leader dei
settori Internet e informatico; intese che ratificano indirettamente una politica
commerciale dei consumi musicali che riconosce ormai nell’online il canale di
distribuzione e vendita privilegiato e sempre più gradito, tanto per l’ascolto in
streaming che per l’acquisizione definitiva di canzoni e brani musicali. Questa
alleanza tra le presunte, postulate custodi della fedeltà sonora, ovvero le major
della musica, e gruppi industriali specializzati tanto nell’elaborazione di
software che nell’Internet providing, sembra configurare un paradossale patto
scellerato tra norma e infrazione, tra ortodossia ed eterodossia sonore, sotto
l’egida di una posta in gioco ultramiliardaria capace di mettere d’accordo termini dialettici ben più estremi e tra loro antinomici di quanto non siano la fedeltà acustica e il degrado informatico del suono. E il recente annuncio di misure anti-pirateria fondate su «marchiature» e codifiche criptate, inoculate ad
arte nei file musicali, non può che generare ulteriori perplessità in quanti si
chiedono quali altri fardelli e corruzioni il suono musicale originale – o quel
che ne resta – dovrà sopportare prima di collassare definitivamente.
Avviandoci a una conclusione, la Rete sembra sempre più votata alla trasmissione e all’acquisizione – a pagamento o meno, fa poca differenza – di
contenuti non più soltanto testuali, ma oggi musicali, domani audiovisivi e in
futuro sempre più orientati verso la pienezza integrata dell’esperienza multimediale e plurisensoriale. A compensare le provvisorie ma emendabili imperfezioni dei suoi meccanismi di comunicazione, il web presenta «valori aggiunti» che
l’offerta tradizionale non è in grado di fornire, gran parte dei quali genericamente riconducibili a una crescente esigenza di partecipazione dell’utente
all’evento proposto (concerti online, webjams, ecc.), compresa quella che oggi
si è soliti denominare interattività, cioè rapporto interattivo tra utente e macchina. Oltre a questo tipo di plus-valore – peraltro spesso del tutto illusorio, nella
sua virtualità –, la Rete può assicurarne altri, come l’ineguagliabile capillarità
di diffusione, accessibilità e manualità adeguate a livelli minimi di scolarizzazione, economicità, un’offerta che sfiora l’illimitatezza, e una sicurezza del sistema mantenuta entro limiti accettabili. Tra i non pochi pedaggi che la Rete
esige in contropartita dai suoi utenti c’è anche un generico scadimento qualitativo di parte dei contenuti compressi che in essa transitano, soprattutto di quelli
all’origine più «voluminosi» e complessi; un’alterazione oggettiva del messaggio che gli operatori stessi del web tendono a minimizzare, se non a tacere del
tutto. E con successo, visto che il problema della qualità di riproduzione e diffusione musicale online sembra non riguardare altri che uno sparuto manipolo
di visionari, o meglio «audionari», parte dei quali oggi qui presenti. A questo
punto la domanda che ciascuno ha il dovere di porsi – al di là della legittimità
della causa che ci vede riuniti a dialogare – è se un problema così inapparente,
così poco «problema» da non essere neppure preso in considerazione dai più,
possa, e persino debba, essere trasferito con successo di fronte a una platea più
estesa – ed eventualmente con quali mezzi e argomenti – oppure se il senso di
marcia dell’evoluzione tecnica non sia davvero irresistibile e lo smarrimento
della verità acustica, della fedeltà dei suoni – a favore di una «verità» alternativa, modificata e bugiarda ma ufficiale – non sia dopotutto altro che un danno
collaterale necessario reclamato da un progresso tumultuoso, né più né meno
come l’inquinamento dell’aria, i conservanti nei cibi e il degrado dei rapporti
umani.
In previsione e attesa del giorno in cui i procedimenti alterativi di tal fatta
verosimilmente riguarderanno, con risultati di ben più apprezzabile evidenza,
non più solo contenuti musicali ma massicci file multimediali o interi film trasferiti sul web con gran dispendio di Gigabytes, non ci resta che affidare le no10
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stre speranze residue alle proprietà lenitive di qualche software «di restauro»,
come quel Vinyl recentemente messo a punto per ricreare, negli asettici file di
musica digitalizzata, i fruscii del vinile, i tic e toc dei graffi e della polvere, i
rumori elettrostatici e tutti quei segni, propri di registrazioni e supporti analogici, la cui scomparsa era stata salutata anni addietro con autentico sollievo; salvo poi pentirci e rimpiangerli con nostalgia non appena ben altre imperfezioni e
magagne avevamo scoperto annidate tra le algide frequenze del suono digitale.
Ennesima variante delle contraddizioni di una società schizofrenica abituata a
procedere con la testa volta all’indietro, nell’irrisolvibile dilemma tra conservatorismo e progressismo, tra certezze di segno involutivo e incertezze del cosiddetto progresso, tra impulsi di crescita e voglia di grembo: non semplici dicotomie ma sintomi – ancorché minimi – di un malessere ben più profondo e ben
altrimenti lacerante. E la nostra fonoteca di Babele, con la sua indeterminatezza
sonora e la disponibilità acritica a ogni innesto, a ogni manipolazione, a qualunque eugenetica del suono? Limitiamoci a prendere atto di essa, per oggettiva impotenza più che per difetto di intenzioni riformatrici, nella speranza che
la già smarrita e rimpianta genuinità dei suoni musicali, allontanata dalla porta, possa rientrare domani dalla finestra, come tante altre «cose buone d’una
volta»…
(applausi)
CARLO MARINELLI
Sono particolarmente contento di aver chiesto al professor Bassetti di leggere la parte della sua relazione che aveva intenzione di omettere e, poiché
abbiamo a disposizione un quarto d’ora prima della pausa per il caffè, vorrei
fare una notazione da un punto di vista ancor più esterno rispetto a quello della
tecnica.
Si potrebbe dire che siamo allo stadio del «quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini» ma a mio avviso c’è qualcosa di più. Fenomeni di questo genere, infatti, si sono già verificati e, forse, se il mondo di oggi avesse la capacità
di concepire il passato come storia, in modo da poter pensare anche il futuro,
non si troverebbe nelle condizioni in cui è attualmente. Ma facciamo un boeing
(come, secondo gli americani, fanno i cantanti quando si presentano per la prima volta davanti a una platea) all’attualità nella sua accezione più banale, quella che vediamo dall’11 settembre in poi nella sua rappresentazione televisiva.
Da quel momento in poi abbiamo assistito al fallimento totale di Echelon, strumento che consentiva di intervenire su qualsiasi comunicazione esistesse tra
qualsiasi persona, perché esso non è riuscito, secondo il famoso detto «tanta informazione nessuna informazione», a operare una selezione e, quindi, a cogliere i
movimenti che si sono verificati e che hanno portato alla nota tragedia. Siamo
di fronte a una società che non è più in grado di selezionare e di scegliere, che
non ha più il senso del passato e della storia, che permette di prendere atto del
presente non come un tutto compiuto, non influenzabile e colpibile, ma come
qualcosa che è in divenire verso un futuro che non riusciamo più a pensare.
Il suono è stato nel passato uno dei grandi modi di concepire, conoscere e
pensare la realtà circostante. Vivendo nella natura, l’uomo era in grado di usare
il suono non soltanto come veicolo di parole ma anche come veicolo di informazioni dirette, esclusivamente sonore e non articolate verbalmente, sulla conoscenza della realtà che lo circondava, selezionandolo ai livelli più intimi e
particolareggiati: se sentiva il rumore di una tigre che si muoveva nella giungla, era in grado di stabilire quanto veloce fosse la sua andatura, in quale direzione si muovesse e, addirittura, se fosse vecchia o giovane. Nella realtà odierna non è più possibile percepire il suono come un elemento discernibile e
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scomponibile, come forse era ancora in parte all’epoca della mia infanzia, perché esso ha subìto un processo di massificazione dovuto alla digitalizzazione,
non già alla Rete. Il digitale ha distrutto la possibilità di una percezione del
suono come informazione diretta e non mediata: il digitale è una mediazione. Il
digitale compie un’operazione fondamentale, partendo dal seguente concetto:
tutti i suoni che non fanno parte dell’area di udibilità, dal basso all’alto, sono
inutili. I tecnici hanno dimenticato che questo non corrisponde al vero: se alcune frequenze non sono percepibili, il fatto stesso che esse esistano fa sì che le
frequenze percepibili, in quanto prodotti complessi, siano modificate dall’esistenza di quei suoni non direttamente percepibili; di conseguenza, se non si tiene conto di questo fatto si afferma il falso. Tutto quello che è numerico è di per
sé falso – sia ben chiaro che non parlo di matematica superiore ma del nostro
settore –, perché concepisce il suono non come una continuità ma come una serie di punti disgiunti l’uno dall’altro che vengono uniti dalla vicinanza e non
dalla continuità. Una registrazione analogica prende della realtà sonora il 10 o
il 50%, mantenendo tuttavia la continuità. Una registrazione digitale prende il
100% della realtà sonora ma di una serie di punti disgiunti e non di una continuità. È la creazione di una realtà diversa. Questo fenomeno non investe solo il
suono ma la nostra società nel suo complesso, che ha perso il senso della storia,
il senso della memoria e il senso del futuro. La massificazione dei rapporti implica la solipsizzazione dei rapporti e la realtà non è più oggetto di conoscenza
e di percezione ma qualcosa da inventare, perché il presente, che non ha futuro
e non ha passato, è costretto a inventare se stesso per perpetuarsi: o si ripete
all’infinito come un automatismo (e ciò non è vitale e quindi non può essere
accettato) oppure si inventa. Di conseguenza, anche il suono va inventato, e allora il problema non è più percepire e conoscere qualcosa che esiste al di fuori
di noi ma inventare qualcosa che noi prendiamo dall’esterno semplicemente
per farlo diventare parte di noi. Questo problema non è risovibile sul piano tecnico ma sul piano politico-sociale, ed è questo di cui bisogna essere consapevoli per combattere la nostra battaglia, la quale riguarda ovviamente soltanto quei
suoni che sono nati, creati e pensati come pre-digitali o extra-digitali. Non può
riguardare i suoni pensati come digitali perché questi sono altri suoni originali,
naturali, se e in quanto pensati come digitali.
Come ha detto giustamente Sergio Bassetti, ciascuno di noi in fondo percepisce il suono in modo diverso dagli altri, e questo è vero nella realtà quotidiana come nella contemporaneità del momento in cui ci stiamo ascoltando, ed è
vero anche in senso storico. È evidente che, non avendo più la capacità di percezione del suono come elemento di informazione diretta, come avveniva nelle
società semplici, è anche vero che non possiamo ascoltare una musica del
Quattrocento perché non abbiamo più né gli strumenti né gli ambienti di allora
e, anche se li avessimo, li fruiremmo in modo diverso; né possiamo ricostruirli,
perché la ricostruzione ha lo stesso carattere che ha la copia della Gioconda di
Leonardo. Sulla Gioconda posso fare tre operazioni: distruggerla (e ritorno alla
incapacità di Echelon che ha consentito la distruzione delle Torri Gemelle);
cercare di conservarla e tentare di percepirla attraverso una prospettiva storica,
senza con questo riuscire a conoscerla interamente, ma resta pur sempre una
acquisizione positiva perché saprò conoscerla attraverso tutta la sua storia, attraverso ogni momento del modo in cui è stata conosciuta, quale che sia la sua
pertinenza e la sua collocazione e anche se è stata spostata di destinazione e di
luogo, poiché la storia di tutte queste conoscenze determina la storia di
quell’elemento che desideriamo conoscere; in ultimo, si può trasformarla completamente in qualcosa di contemporaneo, distruggendola così non fisicamente
ma «psicologicamente», come percezione e come conoscenza. In queste condizioni trovo assolutamente ovvio che il ragazzo di oggi, al quale non è stato mai
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insegnato che esiste una storia, che esiste una differenza tra la fisicità di un
qualsiasi evento e la sua riproduzione e la sua rappresentazione, se ascolta dei
suoni manipolati in un certo modo possa desiderare di ascoltarli in altro modo.
Trovo anzi che egli sia portato a crearsi una realtà propria, distruggendo così la
possibilità di costruire una realtà comune. Il problema è enorme e appartiene
all’intera civiltà occidentale, non già agli afgani o ai minatori delle miniere di
stagno della Bolivia, i quali hanno mantenuto la possibilità di ascoltare il suono
nella sua qualità naturale senza manipolazioni. La questione investe la sopravvivenza stessa della civiltà occidentale. Pare non sia bastata la lezione di Echelon e del vecchio spione, che almeno funzionava, poiché i potenti di turno, i finanzieri, i «manovratori di capitali» non capiscono che le loro azioni stanno
portando la nostra civiltà verso la distruzione. Stiamo distruggendo tutto il nostro patrimonio. Quando ciò è accaduto in passato, il senso del passato e del futuro non è stato compromesso, ma questo è quanto avviene oggi, rendendoci
estremamente fragili e vulnerabili, perché se continuiamo a vivere in una realtà
puramente individuale basta un nulla a farla crollare interamente. Mi rendo
conto che quando parliamo di realtà comune parliamo di una collazione di
realtà individuali ma è essenziale che esse abbiano un contatto.
La crisi che stiamo vivendo porta a una chiusura rapidissima di tutte quelle
iniziative produttive di nicchia sulle quali contavamo; se non riusciremo a ripristinare l’opera dei monaci del Medioevo, veri garanti della continuità storica, non garantiremo il passaggio dal concetto di passato e futuro attraverso un
momento buio della nostra civiltà in decadenza.
SERGIO BASSETTI
La chiusa filosofica alla mia relazione aveva proprio l’intenzione di segnalare questo problema.
CARLO MARINELLI
Il mio era appunto un ampliamento del suo discorso.
Adesso interrompiamo i lavori per un caffè, non prima di ricordare che abbiamo ricevuto un telegramma da parte del Ministro dei Beni e delle Attività
Culturali, il professor Giuliano Urbani, che ci augura buon lavoro.
(pausa)
Signori, vi prego di accomodarvi per la ripresa dei lavori. Posizioniamo la
lavagna luminosa per il dottor Benedetti, prossimo relatore.
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MARCO BENEDETTI
Qualità sonora dell’audio compresso, considerazioni oggettive e soggettive
Rappresento la rivista di alta fedeltà AudioReview. Mi permetto di modificare rapidamente l’intervento che avevamo preparato perché credo siano prioritarie alcune precisazioni in merito ad alcune considerazioni che sono state fatte
sul suono digitale e che, a mio avviso, non corrispondono a realtà. Se è vero,
infatti, che le frequenze molto alte non vengono riprodotte dal suono digitale, è
anche vero che fisicamente l’analogico non è in grado di incamerare queste
informazioni. Bisognerebbe stare bene attenti a non semplificare troppo i discorsi, magari per il desiderio di demonizzare qualcosa, perché si corre il rischio di prendersela col soggetto sbagliato. In altre parole, dovremmo evitare
di fare come quel famoso ricercatore che asporta le zampe alla pulce e, quando
la pulce non risponde al suo ordine di saltare, egli pensa che sia diventata
sorda.
Fatta questa premessa, passiamo al mio intervento in cui, con alcuni colleghi, ho cercato di evidenziare da un punto di vista oggettivo i problemi del suono compresso.
I sistemi di misura delle apparecchiature audio vengono solitamente messi
in crisi, imbrogliati se vogliamo, dal suono compresso: se inviamo un classico
segnale di misura, questo viene riprodotto perfettamente dal sistema di compressione. Per ingannare questo sistema abbiamo dovuto inventare un segnale
complesso che qui vediamo rappresentato dall’apparecchio di misura e che è
composto da 40 toni sovrapposti. In questo caso, il sistema di compressione riceve più informazioni di quanto sia in grado di immagazzinarne e, quindi, è costretto a operare delle scelte. Quello che vediamo è un segnale originale, con
toni a -30Db e con il rumore di fondo a -120. La compressione è a 256 Kb, cioè
di 6 volte, paragonabile a quella del minidisc che è di 5 volte. A questo livello
di compressione il segnale viene riprodotto in maniera più o meno corretta ma
al contempo aumenta il rumore: quei punti che vedete tra i 70 e gli 80 Db rappresentano il rumore ovvero un suono che non era presente in origine. Tengo a
precisare che questa compressione non è quella tipicamente usata su Internet,
dove girano file compressi a 64 Kb. Questo è probabilmente il miglior compromesso, che è 128 Kb, la compressione di 12 volte di cui si parlava poco fa. In
questo caso il segnale che va oltre i 16 kHz viene perso, poiché il codec deve
eliminare i toni che stanno oltre questo limite. Vediamo allora che il livello di
rumore è un po’ più alto rispetto a prima (siamo fra i 60 e i 70 Db).
Quello che vedete rappresentato è lo stesso segnale con un diverso tipo di
compressore. Abbiamo provato diversi sistemi ma ne abbiamo portato un solo
esempio per dimostrare che, usando un programma piuttosto che un altro, in
sostanza il problema non cambia. Questo è ab trate variabile. In questo caso il
sistema è molto più intelligente perché riesce a riprodurre i toni che superano i
16 kHz e che con ab trate fisso andavano persi. Dal punto di vista dell’ascolto
suona peggio ma va bene per le misure. È quello che normalmente si scambiano i ragazzi su Internet. In questo caso il file è 1/24 dell’originale; siamo a 64
Kb e possiamo constatare che oltre i 10 kHz c’è veramente poco, per intenderci
superiamo di poco la qualità del 78 giri. Vediamo inoltre che il rumore ha picchi che vanno oltre i 60 Hz.
Questo dal punto di vista delle misure oggettive. Ci sarebbe anche altro,
che tuttavia è più difficile da rappresentare. Ho provato a fare delle acquisizio14
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ni e a confrontare l’originale col file elaborato. Possiamo notare delle microoscillazioni sull’asse del tempo (parliamo di millisecondi, chiaramente), il suono non viene riprodotto perfettamente nella sequenza temporale giusta. Questo
è il lato oggettivo della faccenda.
COLLABORATORE AUDIOREVIEW
Solo una breve considerazione sul rumore. Vorrei mostrarvi lo spettro del
segnale originale, dove il livello del rumore è tra i -110 e i -120 Db. Cosa significa? Le informazioni a questo livello nel segnale originale non vengono riprodotte, perché sono al di sotto del tappeto di rumore che è molto più elevato.
Perdiamo quindi tutte le informazioni a basso livello di intensità.
VOCE DAL PUBBLICO
Il segnale originale è puro, creato ad hoc, o un segnale riprodotto, per
esempio, da un disco?
COLLABORATORE AUDIOREVIEW
Sono segnali sinusoidali puri, a varie frequenze equispaziali tra loro.
VOCE DAL PUBBLICO
Dunque la comparazione avviene fra un segnale puro originario e riproduzioni digitali, non tra forme di riproduzioni digitali e non.
MARCO BENEDETTI
Esattamente. Il problema è che non tutto si misura. Personalmente sono un
sostenitore dell’analogico perché ritengo suoni meglio del digitale, ma se si
parla di misure non è così perché secondo gli strumenti è migliore il digitale.
Di questo potremmo parlare all’infinito ma limitiamoci a dire che non siamo
riusciti ancora a inventare dei sistemi per misurare determinati valori. Per
esempio, abbiamo dovuto inventare noi – lo dico con estrema modestia – il sistema di segnale multitono per mettere in difficoltà il codec, perché diversamente non avremmo potuto effettuare queste misure. Tornando per un momento alla diatriba tra il digitale e l’analogico, operando una leggera forzatura,
potremmo affermare che il digitale è più democratico, nel senso che con un impianto di basso costo la qualità è superiore. Con l’analogico si ha invece bisogno di un impianto stereo di qualità piuttosto elevata. Personalmente produco
dischi, registro e ho un’attrezzatura che costa grosso modo quanto un’automobile. Lo stesso livello di qualità in analogico probabilmente mi costerebbe trequattro volte tanto.
Abbiamo fatto anche delle prove di ascolto, il cosiddetto «ascolto doppio
cieco»: un operatore alterna originale e file compresso in maniera ignota non
solo all’ascoltatore ma anche a se stesso, secondo una procedura che porti a
verificare i risultati. Ovviamente queste prove vengono effettuate con ottime
registrazioni di musica acustica non amplificata. Abbiamo constatato che la
compressione determina principalmente una perdita delle informazioni di ambienza ovvero della localizzazione virtuale degli strumenti sul palcoscenico.
Con un buon impianto siamo in grado di sentire il violino in prima fila e il
timpano in fondo ma con la compressione questo genere di informazioni vanno perdute, come perdute sono anche quelle che ci danno un’idea della dimen15
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sione della sala da concerto in cui è stata effettuata la registrazione. Si verificano delle perdite anche dal punto di vista timbrico, nel senso che viene meno
la caratterizzazione dello strumento: nell’originale posso sentire la pelle del
tamburo ma nel file compresso ho l’impressione che il tamburo sia di plastica.
Potremmo dire che il risultato è quello di un suono leggermente più «volgare»
ma, attenzione, parliamo sempre di ottimi impianti stereo. In altre parole, se
riproduciamo un file compresso a 256 Kb con un impianto di media qualità, è
molto probabile che molti dei presenti non siano in grado di riconoscere l’originale dalla copia. In effetti, i file compressi si comportano molto meglio di
quanto si voglia dire o di quanto piaccia anche a quanti, come noi, difendono
l’audio di massima qualità. Dobbiamo anche riconoscere che i risultati
dell’mp3 sono miracolosi: il 256 Kb ha una compressione superiore a quella
del minidisc e suona meglio.
Credo di essere stato piuttosto sintetico e di aver detto tutto. Sono pronto a
rispondere alle vostre domande.
FRANCESCO LA CAMERA
Vorrei sapere qual è il rapporto fra le misure che avete effettuato e la sua
esperienza d’ascolto in quanto redattore di AudioReview o, comunque, persona
che lavora nel campo pratico dell’audio e che ha vissuto il passaggio dall’analogico al digitale. Mi spiego meglio. Quelli che ci ha mostrato sono i risultati di
misurazioni scientifiche, che dimostrano il verificarsi di un aumento del rumore che va a coprire tutta una serie di informazioni, quelle a basso livello, quelle
di natura ambientale e via dicendo. Vorrei sapere qual è la corrispondenza tra
queste misure e quello che lei ha poi effettivamente ascoltato, magari prendendo dei CD e operando compressioni di questo tipo.
MARCO BENEDETTI
La prova viene effettuata con dei CD: prendiamo il file originale, lo comprimiamo e, dal file compresso, ricaviamo un nuovo wave, un nuovo file che
viene poi stampato su CD-ROM, in modo da utilizzare lo stesso lettore ed essere certi che non vi siano elementi esterni che modifichino il risultato. Le differenze, come accennavo prima, sono principalmente di ambienza, e questo perché si tratta un suono mascherato che sta a -80 Db. Il dottor Bassetti ha fatto
una giusta osservazione sul mascheramento: in teoria l’orecchio dovrebbe essere ingannato dai suoni nascosti ma non è così perché un ascoltatore esperto,
con un buon impianto, sicuramente avverte la mancanza dell’ambiente. Se dovessi esprimermi con un’immagine, mi viene in mente la differenza tra pesce
fresco e pesce surgelato, una differenza difficile da definire, nel senso che si
avverte che manca qualcosa, nel nostro caso l’ambienza. Ci sono poi le alterazioni timbriche che snaturano lo strumento. Alcune persone sono in grado di
distinguere uno Stradivari da un Guarneri con estrema facilità ma diventa molto più difficile con un mp3. Le micro-oscillazioni sull’asse del tempo sono invece molto più difficili da individuare all’ascolto.
Per rispondere alla sua domanda potrei dire che viene a mancare un po’ di
impatto. È difficile da spiegare: si intuisce che c’è qualcosa che non va ma siamo in grado di capirlo solo riascoltando l’originale, mentre è più difficile intuire che c’è qualcosa in meno ascoltando direttamente il suono compresso.
CARLO MARINELLI
Lei non ha smentito affatto la mia riflessione precedente.
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MARCO BENEDETTI
L’ho smentita solo sul taglio delle frequenze acute che, in realtà, è maggiore nell’analogico: il nastro analogico a 20 kHz perde già qualcosa.
CARLO MARINELLI
Non sono d’accordo con lei perché l’analogico riproduce il suono nel suo
insieme, così com’è nell’ambiente, tanto è vero che si avvertono l’ambienza, il
timbro e via dicendo. Di conseguenza, riproduce l’effetto che la non ascoltabilità delle frequenze più basse e più alte produce sulle frequenze ascoltabili; in
altre parole, riproduce il suono così come arriva all’orecchio. Al contrario, il
digitale usa le frequenze una per una ma non ha la possibilità della ricompattazione d’insieme. Lei diceva che è difficile riconoscere le differenze ma non è
così per i primi CD. Nessuno aveva pensato di inserire numeri anche per l’ambiente: si sentiva il suono che si interrompeva d’improvviso e laddove c’era
una pausa c’era silenzio, perché i tecnici avevano dimenticato che il silenzio è
in realtà abitato da un suono che è d’ambiente, suono che esiste e che fa parte
della musica.
MARCO BENEDETTI
Quel che dice è verissimo ma non è in contrasto con le mie argomentazioni. In realtà il digitale non suona male per quel che lei pensa ma per motivi pratici molto diversi.
CARLO MARINELLI
Il problema fondamentale è il seguente. Da che l’elettronica è entrata nella
musica tutti i musicisti, compresi quelli che non usano effetti elettronici, tengono inconsciamente in conto che questi nuovi mezzi sono entrati nel patrimonio
delle disponibilità. Di conseguenza, dagli anni Cinquanta in poi, chiunque scriva musica, a meno che non abbia intenzioni ricostruttive del passato, usa un
suono che è più o meno «digitalizzato», perché l’orecchio si sta abituando al
suono digitale. Voi potete fare esperimenti scientifici che io non sono in grado
di fare ma personalmente ho sperimentato dal vivo questo fenomeno. Come
mai i cantanti non riescono più a tenere la messa di voce? Come mai non riescono più a cantare sul fiato? Come mai non riescono più a fare dei veri e propri legati? Perché?
MARCO BENEDETTI
Forse perché conducono una vita dissennata!
GIANCARLO LANDINI
La smentisce qualsiasi cronologia di cantante. Lei pensi che il celebre
Adolphe Nourrit, solo nel 1836 fece all’Opéra di Parigi cinquanta recite degli
Ugonotti. Nel mese in cui l’Opéra fu chiusa andò a Bruxelles, dove tenne concerti al Conservatorio, e le cronache dell’epoca parlano di risultati artistici di
alto livello. Nel 1900 esemplare è la cronologia di Richard Tucker, che cantava
un giorno sì e uno no opere come La cavalleria rusticana o La forza del destino. La questione del super-lavoro dei cantanti moderni è una favola che non sta
in piedi!
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CARLO MARINELLI
Sono perfettamente d’accordo. Per Tucker va detto che molto ha contato la
sua iniziale esperienza nel coro, molto formativa in questo senso, ma vorrei
fare un altro discorso.
Mi sono accorto che i cantanti invece di appoggiarsi sul diaframma hanno
cominciato a spingere la voce in alto. Anche un certo modo di scrivere musica
ha una sua influenza, che possiamo attribuire al Verismo ma che fa parzialmente parte dell’ultima produzione verdiana: si scrive musica non più con accenti a
grande respiro (Bellini) ma con accenti ripetuti a breve distanza di tempo. In tal
modo, l’accentazione deve essere ripetuta spesso e il tipo di musica prescrive
che il cantante non canti col fiato. Questo è un discorso di carattere generale,
perché gli interpreti della prima metà del secolo sapevano cantare sul fiato, legato ecc. malgrado cantassero anche secondo le modalità che ho prima citato.
Ho notato una tendenza tipica dei cantanti (ma anche degli archisti) a sostituire
al respiro, sul quale si può cantare a lunga gittata, l’intensificazione degli accenti. Ciò comporta per forza di cose il fatto di portare il canto più in alto, proprio perché si ha bisogno di più forza. A ciò si unisce il fatto che gli interpreti
non cantano più sotto l’arco scenico, per cui al fondo della platea si sentiva
come se ci si trovasse accanto al cantante, ma in zone arretrate del palcoscenico. Dissi questo nel corso di uno dei Seminari organizzati ad Ascona da Kurt
Deggeller, quando dirigeva la Fonoteca svizzera di Lugano. In quella circostanza la platea rimase alquanto sbigottita da questa affermazione ma, tornato in
Italia, mi trovai per caso con alcune cantanti giovani, le quali confermarono
quello che andavo dicendo. I cantanti oggi tendono a riprodurre il suono a cui
la massa è abituata. Lo stesso vale per i violinisti, i quali non tengono più l’arcata lunga.
Quando andai a insegnare all’Università di L’Aquila mi trovai di fronte a
una dialetto parlato meraviglioso: gli aquilani cantavano parlando. Tentai invano di trovare un allievo che facesse una tesi di laurea su questo argomento.
Passati gli anni, l’unica volta in cui ho sentito parlare il dialetto in questo modo
è stata ascoltando un ubriaco abbandonato sui gradini di una chiesa. Questo
modo di recitare il dialetto è ora del tutto scomparso, il che ha un suo significato. Passiamo dal manoscritto alla stampa e dalla stampa al fenomeno-chiave
della riproduzione. Nel momento in cui l’umanità arriva a riprodurre visivamente e auditivamente cambia la prospettiva. Questo non è un elemento determinante, naturalmente, ma la concausa e la conseguenza di un cambiamento di
prospettiva della società. Se ci pensiamo fino in fondo, segna l’inizio della
realtà virtuale: il fatto di poter riprodurre significa che non si tiene più conto
del luogo, dell’ambiente, del tempo, dello spazio ma della riproduzione di tutto
questo, comportamento analogo a quello di un giapponese che guarda le fotografie quando torna a casa da un viaggio ma non guarda l’originale di quello
che fotografa. Per quel che riguarda la musica, teniamo conto che, nella riproduzione dei suoni, l’originale non esiste se non è registrato, perché quel che si
scrive sulla partitura deve essere eseguito e ogni esecuzione sarebbe un originale a se stante. L’originale vero, pertanto, non esiste; esiste solo quello fattuale, quello fisico, non quello che si legge sulla partitura. Tutto il resto viene da
sé: se si riproduce si crea una realtà virtuale, alla quale si dà sempre maggior
importanza. La gente non è più abituata alla realtà fisica e, in questo senso, il
digitale è ideale proprio perché consente di avere una realtà individuale e non
più collettiva. Ovviamente ciò comporta anche dei vantaggi: non si conoscerebbero, per esempio, i canti popolari della Transilvania se Kodály e Bartók
non li avessero registrati all’inizio del secolo passato. Entrambi hanno rivoluzionato il canto popolare perché lo hanno storicizzato, mentre prima si conosceva solo il prodotto di una elaborazione per varianti e cambiamenti sottilissi18
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mi attraverso la tradizione orale; quello registrato dai due musicisti era allora il
canto popolare dell’inizio del Novecento, non più quello di tutti i secoli.
Questo rende le nostre diatribe sull’analogico e il digitale del tutto secondarie, sebbene abbiano importanza per la portata del fenomeno. Teniamo presente che ci sono forze straordinarie che la civiltà occidentale sta tentando di
distruggere ma che è ancora possibile recuperare: il senso dell’originale del
suono, il senso dell’originale delle cose che si vedono, il senso della possibilità
di colloquiare tra uomini e con le cose. Quando ho visto le immagini delle Torri gemelle ho avvertito l’odore delle case bruciate dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Io ho l’età per ricordarmene ma gli altri hanno semplicemente visto un film: questa è la profonda verità! È un’esperienza tragica ma
si è persa la capacità di stare accanto alla realtà cercando di capirla. Di conseguenza, nel nostro ambiente l’originale è l’ottimo perché permette questo modo
di essere. Non dico che per questo bisogna ingaggiare una lotta contro la civiltà
occidentale; dico invece che bisogna prendere atto di questa realtà per capire.
Noi abbiamo sostanzialmente due compiti: uno è quello di cercare di capire
perché il digitale è il modo di far suono della realtà contemporanea; l’altro è di
far sì che la realtà contemporanea non distrugga il passato ma ne recuperi la
possibilità di conoscenza storica e lo salvi, come fecero i monaci del Medioevo.
VOCE DAL PUBBLICO
Per quanto riguarda i vari sistemi di compressione, avete avuto modo di
valutarli? Ci sono differenze significative?
MARCO BENEDETTI
Abbiamo provato quasi tutti questi sistemi e posso dirle che grosse differenze non ci sono. Differenze ci sono semmai nelle filosofie in base alle quali
questi algoritmi sono progettati. Per esempio, il sistema sviluppato da Microsoft WMA ha una qualità superiore a mp3 a 64 Kb, cioè con una riduzione di
24 volte; se però andiamo a 128 mp3 funziona molto meglio. Questo vuol dire
che il WMA è stato ottimizzato per avere delle buone prestazioni a livelli molto alti di compressione e non migliora significativamente raddoppiando il numero di campioni. Mp3, invece, raddoppiando fino a 384, continua a migliorare qualitativamente. La settimana scorsa ho visto un nuovo sistema
all’Università di Pisa, mp3 Pro, e francamente ho avuto difficoltà, pur essendo
esperto di questi ascolti, a riconoscere l’originale dal file compresso con i 64
Kb. Tornando a quanto dicevo prima, quello del file compresso è un falso problema nella misura in cui si dice, a mo’ di formula pubblicitaria, che c’è una
qualità CD, il che non è vero; il problema è semmai il messaggio sbagliato che
afferma che una cosa è uguale a un’altra quando non lo è. Per quello a cui servono, invece, questi sistemi vanno anche troppo bene: per trasmettere file via
Internet e per ascoltare il suono con le casse collegate al computer o con le cuffiette portatili, la qualità mp3 è finanche ridondante. Quel che è sbagliato è invece affermare che è uguale al CD.
VOCE DAL PUBBLICO
Vorrei fare una riflessione sul percorso che ha spostato la percezione musicale. Il processo di adulterazione non comincia col digitale ma con la riproduzione, come ha opportunamente notato il professor Marinelli. Se ci basiamo sui
numeri, bisogna osservare che la musica classica riguarda il 5% della musica
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registrata e scambiata internazionalmente. Le considerazioni che facciamo valgono allora per una minoranza che non fa testo all’interno di questo processo
fondamentalmente economico ma anche sociologico. Ciò costituisce indubbiamente una difficoltà e quello che si osserva riguarda solo una piccola fetta di
appassionati.
CARLO MARINELLI
Non riguarda solo gli appassionati ed è per questo che ho parlato dei monaci del Medioevo. L’influenza della civiltà greco-romana era allora ben più limitata, visto che l’analfabetismo era più o meno generale e solo i monaci sapevano leggere. Quanti erano gli stregoni nelle società semplici? Eppure la loro
influenza era molto superiore alla percentuale. Analogamente dovremmo avere
la speranza che l’influenza di questo 5% si riveli molto superiore a quella della
massa e riesca a garantire la sopravvivenza della nostra civiltà dal Rinascimento all’Ottocento, in modo da trasmetterla agli altri nel futuro.
VOCE DAL PUBBLICO
Mi pare di ravvisare nell’intervento del professor Bassetti l’esistenza di un
conflitto di valori: da una parte ci sono i valori economici che hanno una certa
forza, dall’altra ci sono valori diversi che oggi si scambiano male sui mercati.
Forse bisognerebbe riequilibrare questa situazione.
CARLO MARINELLI
Per questo occorrerebbe organizzare un altro Convegno!
Adesso abbiamo bisogno dell’ausilio delle nostre bravissime collaboratrici.
Voi non avete idea di cosa sia questa squadra di fanciulle che lavora
all’I.R.TE.M.: possiamo ritenerci dei miracolati! Se poi teniamo conto del reale
compenso che hanno e dell’impegno che profondono per tutto l’anno non c’è
che da ringraziare Dio e di augurarci che rimangano. Vorrei che vi rendeste
conto che sono cinque in tutto. Adesso è necessario il loro intervento per predisporre l’attrezzatura necessaria a Robert Burnett per il suo intervento. Ringrazio ancora il professor Burnett per essere qui con noi perché sono ben consapevole di poter ascoltare una celebrità internazionale e uno degli studiosi più
acuti del nostro settore.
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ROBERT BURNETT
Music, Internet and Mobile Telephones
Introduction
The years 2000 and 2001 will be remembered by information technology
observers for the explosion of two seemingly unrelated Internet-driven
phenomena: NTT DoCoMo’s i-mode mobile Internet service in Japan, and
digital music file-sharing services such as Napster.
I argue in this essay that the fundamental forces driving these two trends
might well pull each other into a powerful synergy, creating opportunities for
content and service providers, music artists, music consumers, and major music
labels. I first discuss features of i-mode that account for its popularity in Japan
and potentially in other markets.
Next I outline the challenges posed by digital file sharing to existing music
industry distribution practices, and propose a scenario for how mobile Internet
and digital file sharing services might merge to leverage their strengths and
generate new opportunities. Finally, I outline some of these new opportunities
including mobile telephone ring signals, after discussing the needs of artists,
consumers, and major labels in the era of digital music.
A Mini-Net Called «i-mode»
NTT DoCoMo’s i-mode mobile data service, launched in February 1999,
has become a cultural phenomenon in Japan. Observers attribute i-mode’s
popularity to a variety of factors, but three are particularly significant. Perhaps
most important is the convenient billing system devised by NTT DoCoMo, in
which all costs associated with third-party content access and data transmission
are included in the monthly DoCoMo telephone billing statement. I-mode users
pay on average 1,500 yen (US$ 15) per month for i-mode content or services
from vendors approved by DoCoMo. That 1,500 yen is comprised on average
of 300 yen (US$ 3) for basic i-mode service, 100-300 yen (US$ 1-3) for
content service subscriptions, and 900 yen (US$ 9) for data traffic fees. Credit
card or online micropayments are not popular in Japan due to security concerns
among consumers, and to cultural preference, so the opportunity to pay for imode content services through a trusted telecommunications company is
attractive.
Second, all third-party content available to subscribers from the i-mode
content menu has been carefully selected and, in some cases, shaped by
DoCoMo’s content gatekeepers and strategists to meet certain rigid standards
of quality. For example, hyperlinks from official i-mode content pages to
external sites are not allowed, sex-related content is banned, and until recently
banner advertising also was not allowed. The result of such controlled content
is that subscribers know what to expect and can conveniently locate content
from the well-organized content menu page.
Finally, aside for a limited number of content services targeting English
speakers in Japan, i-mode content and the service menu used to access content
are in Japanese. This linguistic factor is critical for removing the barrier to
Internet use experienced by the great majority of Japanese. A related
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convenience is freedom from the tyranny of non-intuitive «qwerty» keyboards,
because i-mode is navigated via dual thumb dexterity on the handset control
buttons.
But will the i-mode Internet business model catch outside Japan? The
technology that supports i-mode and the HTML-friendly mark-up language
used to write content is easily exportable, but cultural factors will force service
and content providers to pay attention to market-specific telecommunication
environments and needs of consumers. In the next section I discuss one
potentially powerful mobile Internet application for many youth-driven Internet
markets worldwide: digital music access and file sharing.
Music Industry: Big Market, Big Questions
Despite complaints and panic-indices lawsuits against file-sharing services
such as Napster by major music labels in the United States, the US and global
music markets are flourishing. The global market has grown by 3.4% annually
since 1991.
More importantly, Napster use appears to be boosting music sales both
online and offline. One study, commissioned by Napster and prepared by Peter
S. Fader, associate professor of marketing at the Wharton School of the
University of Pennsylvania, found that «over 91% of Napster users buy as
much or more music than before they used Napster, with 28% purchasing
more». Even so, the major music labels and their mouthpiece the Recording
Industry Association of America (RIAA) appear to be frantically searching for
a strategy to maintain control and revenues. The industry is being challenged
not only by technology innovators such as Napster, Gnutella, and MP3.com,
but also by alliances of music artists and supporters such as the Future of
Music Coalition.
Internet research firm Jupiter Communications suggests that if the music
industry were to let players like Napster stand it would drive incremental sales,
but if the industry partnered with the networked music-sharing technology
companies through licensing schemes, the benefit would be exponentially
greater. Jupiter also proposes that «a subscription service to an online music
community with high-quality digital music, virus protection, and a wide variety
of content could eventually be a more successful driver of revenues for
recorded music than individual downloads sold through an online store».
The big question still remains: will partnerships such as those engineered
by Napster and Bertelsmann or MP3.com and Universal actually generate
revenues? A July 2000 essay in the Economist argues that if the music labels
can put their songs online in a format that is more organized and more
appealing than their illegal competitors can, fans will be willing to pay
something for that privilege.
The online music file access strategies as currently conceived by the major
labels, including the two joing initiatives with Napster and MP3.com, are likely
to fail for three main reasons. First, few music consumers purchase music of
only one particular label, so until the major labels create some form of lowpriced, comprehensive access from one website to all of the songs in their
combined catalogs, any consumer response will be tepid at best. Separate
subscriptions or memberships to each of the four big labels will not be an
attractive option. More importantly, BMG’s current per-song or per-CD
download model is priced at levels similar to CD costs in a physical store,
giving consumers little incentive to move from existing no-cost file-sharing
services.
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Second, streaming of music as planned by Universal will not replace the
appeal of downloading song files because the ability of consumers to share
music appears to be a major motivation behind current use of Napster,
MP3.com and similar services.
Finally, current industry initiatives appear to make no concessions to music
artists’ increasing dissatisfaction with recording contract restrictions enforced
by major labels and what many artists and supporters consider to be
unreasonable percentage takes of sales revenue. Although it is not clear, given
the popularity of free file-sharing services, if music consumers feel compelled
to pay artists for their music, should paid subscription access become the
dominant model in the future, there may be increased interest among
consumers in seeing that artists get a better deal from the labels that in the past.
Put differently, if consumers are forced to pay for digitally downloaded music,
many probably will demand that artists get a fair deal. In fact, some wellknown artists have declared a kind of unilateral divorce from the labels, and
have pledged to support innovative schemes by entrepreneurs that give artists
more control and compensation for their art, and give consumers the flexibility
and convenience of digital downloading.
To compound RIAAs’ headaches, researchers at Xerox PARC, Princeton,
and Rice Universities recently claimed to have cracked four digital watermark
technologies created by RIAA’s Digital Music Initiative (SDMI) encryption
scheme. Following this claim, the five major music labels driving the SDMI
announced the results of a challenge posed by SDMI in which two of its five
copyright protection technologies were apparently thwarted. Critics on all sides
are attacking SDMI as a waste of time and resources. In the next section I
describe some of the possibilities for music experience innovation using mobile
Internet business models and technologies.
Music Industry Meets Mobile Internet
Noted UC Berkeley economist Hal Varian argued in a recent New York
Times essay that to encourage consumers to pay for music, current music
industry distribution practices will need to change to offer more value to
consumers. Varian suggests that the music industry could, for example, adopt
the strategy (recently employed by author Stephen King) of releasing just ten
seconds or so of a new song, and delivering the entire song for digital
download only after receipt of a certain fee sent by a minimum number of
consumers. Motivation could take the form of artist T-shirts, autographs, or
some kind of interaction with artists. A survey of young Americans reveals
another potential strong motivator: mobility. The study found that among those
young people who do not use online file-sharing services, one key reason is
lack of portability.
Enter the mobile Internet. Although mp3 players such as Diamond
Multimedia’s Rio have been on the market for years, until now the
convenience of one easily portable unit with digital telephone, e-mail, Web
browsing, music download, and music-file playback capabilities has been
denied consumers due to technological challenges and uncertain market
conditions. But Japan’s Sanyo and Sony, as well as Sweden’s Ericsson and
Finland’s Nokia have all launched mobile Internet units for mp3 playback.
It is not clear, therefore, when music downloading and sharing via some
kind of mobile Internet telephone device in Japan or elsewhere will actually
attract significant numbers of users. What is certain is that telephone service
data storage capacity will increase, and data transmission costs will drop.
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Despite these problems, music over mobile Internet is a compelling
proposition. The main significance of mobile Internet digital music access is
the new level of flexibility and convenience afforded the consumer. The digital
music revolution has shown that music consumers want music quickly, any
time, in any configuration, and at minimal or no cost. Add «music any place»
to the formula, and the ability of consumers to beam music files quickly
between mobile units via infrared (IrDA) or Bluetooth, and the value of digital
music distribution strategies using mobile Internet services is clear.
This question brings us full circle to NTT DoCoMo’s i-mode service. I
believe that the success of the i-mode model or any other mobile Internet
service will depend largely on two factors:
1) pricing structures low enough to attract users accustomed to low, flat
monthly fees for wired Internet use;
2) consumers’ perception of content value.
As noted earlier, data transmission costs will need to be low enough to
support consumer downloading and sharing of relatively large digital music
files. Advances in compression technology and data transmission rates
hopefully will help to keep costs down. For music services, content providers
should consider how to reduce relational distance between music artists and
music consumers through strategies such as fan-to-fan communication forums,
concert ticket contest prizes, and e-mail dialogue opportunities.
Regarding content, the animation characters or telephone ring melody
selections so popular in Japan may or may not persuade many European and
North American consumers to reach for their wallets. In a very short time
ringsignals/ringtones for mobile telephones have become a new goldmine for
music companies, artists and signal makers. Ringtones have also become the
«soundtrack of our lives» for many Scandinavian teenagers. Mobilehits.com is
one such site for the Internet and mobile phones. They have the latest ringtones
and also offer exclusive sound clips, music mp3, videos, icons, etc. from the
most popular artists. The ringtones are often produced in cooperation with the
artists and the record companies for results more faithful to the original.
While most popular artists are jumping on the ringtone bandwagon as a
way of making more money, some artists have said no to hearing their music
reduced to the quality of a digital mobile telephone ringtone.
Music Industry Needs and Opportunities
The coming possibilities of digital music over mobile Internet create
excellent opportunities for music artists, entrepreneurs and especially the major
labels to consider reforms in existing music industry practices. Unlike in Japan,
where prohibitively high wired Internet access costs controlled by NTT have
encouraged a quantifiable split between the wired Internet and mobile Internet
user populations, mobile Internet users in the United States and Europe are
more likely to use wired Internet for some purposes and mobile Internet for
others. To envision how mobile Internet services might bring value to digital
music practices, it is necessary to consider some of the apparent needs of the
music industry, music consumers, and music artists.
Music Industry Needs
– Must create viable revenue model or models for digital music
downloading;
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– Must retain collaboration with artists (or artists might go directly to
consumers);
– Must relax artistic control over artists and copyright control over
consumer activities enough to satisfy the critical needs of both groups.
Music Consumer Needs
– Music any time, anywhere;
– Lower than CD prices for music if forced or motivated to pay for online
access;
– Access flexibility;
– To connect more closely with artists.
Music Artist Needs
–
–
–
–
–
Greater ownership of music;
Greater percentage of music revenues;
Greater contract flexibility;
Greater marketing options (e.g. direct access to consumers via Internet);
Greater control over quality of sound.
Given the various needs suggested above, questions to address in any
effort for meaningful music distribution reforms include:
– What added value can consumers be given to motivate them to pay for
access to music?
– How can major music labels regain the trust of artists and consumers
through more equitable revenue-sharing schemes and a music access
environment that goes beyond the advantages of current file-sharing service?
Mobile Internet will add value to wired Internet digital music services
because it will increase music access and purchasing convenience to consumers
while enhancing e-commerce opportunities for service providers and artists by
untethering music consumers from desktops. Importantly, mobile Internet will
also create opportunities for consumers to communicate with each other at
work, school, or on the street about favorite music artists and songs and to
share song files, effectively contributing to the marketing of music. In addition,
the lure of increased music revenues potential of mobile Internet services might
encourage the music labels to open their music catalogues to downloading with
pricing structures that satisfy both users and artists. If the big labels resist they
may find that enterprising businesses step in quickly with valuable services to
take at least some of the revenues pie from them.
Above all is the need for recognition by all concerned parties that what
underlies the new digital economy and prospects for mobile Internet music is:
not things as possessions but, rather, relationships and synergies.
The collaborative opportunities available to visionary mobile Internetrelated businesses during this chaotic transition are suggested by a speech
music artist Courtney Love delivered May 2000 at the Digital Hollywood
conference. Proclaimed an exasperated Love: «I’m looking for people to help
me connect to more fans [...] there’s an unbelievable opportunity for companies
who dare to get it right [...] I’m leaving the major label system and there are
hundreds of artists who are going to follow me». Momentum for change seems
to be building, with the Future of Music Coalition whose stated goal is to
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«draw together the strongest voices in the technology and independent music
communities» to discuss how both groups can work together.
Conclusion
The introduction of mobile Internet music access and file sharing likely
will be met with considerable skepticism in many markets, particularly in the
United States where mobile Internet as a concept has been slow to excite
consumers. But just as the remarkable success of NTT’s DoCoMo’s i-mode
mobile Internet service eventually caused consumers in the United States to
take notice, Japanese technological and market innovations will spur
tremendous growth in mobile Internet music in both countries.
Globally, increasing consumer enthusiasm over digital music file-sharing
likely will force monumental changes in existing relationships between artists,
music companies, and consumers. The upheaval in the music industry will create
huge opportunities for entertainment-related content providers and application
developers, and force major music labels to loosen certain copyright restrictions
on selective downloading and sharing of music materials and performances.
Mobile Internet devices will not replace the wired Internet in most markets
any more than mobile telephones have replaced wired telephones. The two
platforms will coexist in various configurations and ratios depending on local
telecommunications infrastructure, applications development, and consumer
demand. More certain is the flexibility and empowerment millions of users will
gain from any time any place access to information and services such as digital
music. How and when we get there will largely depend on the imagination of
technologists and entrepreneurs, the wisdom of regulators, and the willingness
of currently antagonistic parties to collaborate to realize an exciting new social
possibility.
[Introduzione
Gli anni 2000 e 2001 passeranno alla storia presso gli osservatori dell’informazione tecnologica a causa dell’esplosione di due fenomeni dovuti a Internet,
all’apparenza privi di alcun nesso: in Giappone, il servizio di Internet mobile NTT
DoCoMo i-mode, e i servizi di condivisione di file musicali digitali, quale Napster.
Nella presente relazione sostengo che le forze fondamentali che sospingono entrambi i fenomeni potrebbero entrare in sinergia e creare occasioni per i
provider di contenuti e servizi, per musicisti, fruitori di musica e per le principali case discografiche. Comincerò con una spiegazione del perché l’i-mode
riscuote tanto successo in Giappone e successivamente farò una valutazione
del rapporto esistente fra file-sharing di materiale digitale e politica di distribuzione musicale da parte dell’industria, per arrivare a ipotizzare uno scenario in cui Internet mobile e servizi di condivisione di file musicali digitali si
uniscano per potenziare le forze e generare nuove opportunità. Infine, farò una
rapida carrellata delle nuove opportunità esistenti, comprese le suonerie dei
telefoni cellulari, dopo aver discusso le rivendicazioni da parte di artisti, consumatori e case discografiche nell’era del digitale.
Una Mini-Rete chiamata «i-mode»
I-mode mobile data service della NTT DoCoMo, lanciato nel febbraio del
1999, è diventato un fenomeno culturale in Giappone. Gli osservatori attribui26
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scono la popolarità di i-mode a una serie di fattori, di cui tre sono particolarmente rilevanti. Forse il più importante è il conveniente sistema di fatturazione
ideato dalla NTT DoCoMo, in base al quale i costi degli accessi e la trasmissione di dati sono compresi nella tariffa mensile. Gli abbonati di i-mode pagano in media 1,500 yen (US $ 15) al mese per i servizi i-mode ricevuti da venditori approvati dalla DoCoMo. Nei 1,500 yen sono compresi 300 yen (US $ 3)
per i servizi di base i-mode, 100-300 yen (US $ 1-3) per l’abbonamento e 900
yen (US $ 9) per il traffico. I pagamenti online, tramite carta di credito, non
sono molto usati dai consumatori giapponesi a causa delle preoccupazioni relative alla sicurezza, quindi l’opportunità di pagare i servizi i-mode attraverso
un’affidabile compagnia di telecomunicazioni è assai attraente.
In secondo luogo, tutti i contenuti messi a disposizione degli abbonati dal
menu i-mode vengono selezionati accuratamente e, in alcuni casi, forgiati dagli strateghi della DoCoMo in modo da aderire a rigidi standard qualitativi.
Per esempio, i hyperlink dalle pagine ufficiali dei contenuti i-mode verso siti
esterni non sono permessi, i contenuti relativi ad argomenti sessuali sono vietati e fino a poco tempo fa persino i banner pubblicitari erano vietati. Il risultato di un tale controllo sui contenuti è che gli abbonati sanno esattamente
cosa aspettarsi e possono trovare facilmente i contenuti desiderati nell’organizzatissima pagina del menu.
Infine, a parte un ristretto numero di servizi mirati agli anglofoni in Giappone, i contenuti e il menu di servizio i-mode vengono forniti in giapponese. Il
fattore linguistico è cruciale nel rimuovere il principale ostacolo nei confronti
di Internet da parte di molti giapponesi. Un’altra comodità è data dalla libertà
dalla tirannia imposta dalle tastiere cosiddette «qwerty», non «intuitive», poiché i-mode consente la navigazione tramite l’uso dei due pollici sui pulsanti di
controllo.
Avrà successo il modello i-mode al di fuori del Giappone? La tecnologia
che lo supporta, nonché il linguaggio HTML utilizzato per la scrittura dei contenuti sono facilmente esportabili, tuttavia vi sono fattori culturali che costringeranno i fornitori di servizi e contenuti a prestare attenzione agli specifici
contesti delle telecomunicazioni e alle esigenze dei consumatori.
Ora passerò a descrivere uno degli usi di Internet mobile di grande potenziale per quanto riguarda il mercato giovanile in tutto il mondo: l’accesso alla
musica digitale e il file sharing.
L’industria musicale: grande mercato, grandi quesiti
Nonostante le lamentele e le cause legali contro i servizi di file-sharing
quale Napster da parte delle principali case discografiche degli Stati Uniti, il
mercato musicale in rete statunitense e quello mondiale sono in pieno sviluppo.
A livello mondiale, tale mercato è cresciuto del 3.4% annuo dal 1991.
È ancora più significativo osservare che Napster sembra avere dato una
spinta alle vendite di musica, in rete e non. Uno studio commissionato da Napster e svolto da Peter S. Fader, professore associato di marketing alla Wharton School dell’Università della Pennsylvania ha riscontrato che «più del 91%
dei fruitori di Napster acquista altrettanta, o addirittura più, musica di prima;
fra questi il 28% ne acquista di più». Nonostante ciò le case discografiche e il
loro portavoce, la Recording Industry Association of America (RIAA), sembrano essere alla ricerca disperata di una strategia per mantenere il controllo e
gli introiti. L’industria si sente sfidata non solo dagli innovatori tecnologici
quali Napster, Gnutella e MP3.com ma anche da alleanze di musicisti e loro
sostenitori, quale il Future of Music Coalition.
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La Jupiter Communications, una società che conduce ricerche riguardo
Internet, sostiene che se l’industria non si interessasse a realtà quale Napster,
potrebbe usufruire di un incremento nelle vendite, tuttavia se l’industria si associasse alle società fornitrici di tecnologia per condividere file musicali in
rete attraverso protocolli di licenze, gli utili risulterebbero esponenzialmente
più elevati. La Jupiter sostiene inoltre che «l’abbonamento a una comunità di
musica online che offre musica digitale di alta qualità, protezione da virus, e
un’ampia gamma di contenuti potrebbe portare più utili alla musica registrata
che i download individuali venduti in un sito online».
Rimane aperto il grande quesito: le grandi affiliazioni, quali quelle fra Napster e Bertelsmann, oppure fra MP3.com e Universal, generano realmente
utili? Un articolo sull’Economist del luglio 2000 sostiene che se le case discografiche riuscissero a mettere in rete le canzoni in un formato più organizzato
e attraente della concorrenza illegale, i fruitori sarebbero disposti a spendere
pur di avere il privilegio di possederle.
La strategia di accesso ai file musicali in rete così com’è attualmente concepita dalle case discografiche, comprese le iniziative di Napster e MP3.com,
sono destinate al fallimento per tre ragioni. In primo luogo, pochi fruitori di
musica acquistano soltanto una particolare etichetta, quindi finché non ci
sarà un accesso a basso costo a un catalogo onnicomprensivo, la risposta dei
consumatori sarà a dire poco tiepida. Abbonarsi a ognuna delle quattro
«major» (principali etichette discografiche, n.d.T.) non rappresenta un’alternativa attraente. Inoltre, il prezzo attualmente imposto dalla BMG per canzone o per CD è simile a quello dei negozi, quindi i consumatori non hanno alcun incentivo ad abbandonare i servizi di file-sharing a costo zero, già
esistenti.
In secondo luogo, lo streaming così come è stato pianificato dalla Universal non potrà rimpiazzare il fascino esercitato dallo scaricare file di canzoni,
perché la possibilità di condividere musica sembra essere una delle maggiori
attrattive di Napster, MP3.com e servizi analoghi.
Infine le attuali iniziative da parte dell’industria non fanno concessioni
alla crescente insoddisfazione degli artisti riguardo i contratti discografici restrittivi imposti dalle «major», e alle percentuali sulle vendite considerate irragionevolmente basse. Sebbene non sia chiaro – vista la popolarità dei servizi
di file-sharing gratuito – se i consumatori di musica si sentano in dovere di pagare gli artisti per ascoltare la loro musica, qualora l’abbonamento pagante
dovesse diventare il modello prevalente del futuro potrebbe esserci un maggior
interesse fra i consumatori affinché gli artisti ricevano un trattamento migliore
che in passato. In altre parole, se i consumatori sono costretti a pagare per la
musica scaricata digitalmente, molti reclameranno un miglior trattamento per
gli artisti. Di fatto, alcune celebrità hanno già dichiarato una sorta di divorzio
unilaterale dalle loro case discografiche, e hanno promesso di dare sostegno a
schemi innovativi da parte di imprenditori che diano agli artisti maggior controllo e compensi per la loro opera, e che diano ai consumatori la convenienza
e flessibilità del download digitale.
Per aumentare i grattacapi della RIAA, alcuni ricercatori delle università
di Xerox PARC, Princeton e Rice hanno recentemente annunciato di avere decifrato il linguaggio criptato che funge da protezione digitale creato dalla RIAA
– Digital Music Initiative (SDMI). Successivamente due delle cinque case discografiche a capo dello SDMI hanno ammesso che le loro tecnologie di protezione erano state sconfitte. I critici da tutte le parti accusano lo SDMI di avere
sprecato tempo e risorse. Nella sezione successiva descriverò alcune delle possibilità innovative per fruire di musica utilizzando modelli e tecnologie che si
rifanno al commercio in rete.
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L’industria musicale incontra Internet mobile
Il noto economista di Berkeley Hal Varian ha recentemente sostenuto, in
un articolo apparso sulle pagine del New York Times che, per incoraggiare i
consumatori a pagare la musica che scaricano, l’attuale politica di distribuzione da parte dell’industria musicale dovrà cambiare per offrire loro un valore aggiunto: Varian suggerisce che l’industria musicale potrebbe, ad esempio, adottare la strategia (recentemente utilizzata anche dallo scrittore
Stephen King) di mettere a disposizione circa dieci secondi di una canzone, e
di rendere possibile il download della canzone completa solo dopo che un
certo numero minimo di consumatori ha pagato una determinata tariffa. I
consumatori potrebbero essere allettati inoltre da T-shirt raffiguranti gli artisti, autografi o altri tipi di interazione con i loro beniamini. Un’inchiesta
svolta fra i giovani statunitensi ha rilevato un altro fattore di grande importanza: la mobilità; lo studio ha infatti riscontrato che fra quei giovani che non
utilizzano servizi di file-sharing in rete, una delle principali ragioni è la scarsa mobilità.
Entriamo dunque nel mondo di Internet mobile. Sebbene lettori mp3 quale
Rio della Diamond Multimedia siano sul mercato da anni, finora la convenienza di avere un’unica unità facilmente portatile con telefono digitale, posta elettronica, navigazione, download di musica, e la capacità di riprodurre file musicali è stata negata ai consumatori a causa di difficoltà tecnologiche e delle
incerte condizioni del mercato. Tuttavia le giapponesi Sanyo e Sony, così come
la svedese Ericsson e la finlandese Nokia hanno tutte lanciato lettori mp3 che
sono anche unità di Internet mobile.
Non è chiaro, quindi, quando il download e la condivisione di musica attraverso un qualche congegno telefonico con Internet mobile, in Giappone o
altrove, risulterà attraente per molti consumatori. Ciò che è certo è che la capacità dei telefoni di memorizzare dati aumenterà e i costi di trasmissione dati
diminuiranno.
Nonostante tutte le difficoltà, la musica via Internet mobile risulta assai allettante. La principale attrattiva dell’accesso a musica digitale attraverso Internet mobile è rappresentata dalla maggior flessibilità e convenienza offerte
al consumatore. La rivoluzione digitale, in musica, mostra che i consumatori
vogliono la musica in fretta, in qualsiasi momento, in qualunque configurazione, a costo minimo o nullo. Se alla formula si aggiunge «musica in qualsiasi
luogo», e la capacità di inviare file musicali a un altro cellulare via infrarossi
(IrDA) o Bluetooth, il valore delle strategie di distribuzione di musica digitale
usando servizi di Internet mobile è chiaro.
Tale constatazione ci riporta al servizio i-mode della NTT DoCoMo, il cui
successo, così come quello di qualsiasi altro servizio Internet, credo dipenderà
da due fattori:
1) prezzi abbastanza bassi da attrarre consumatori abituati a tariffe mensili basse e fisse per l’utilizzo di Internet da casa;
2) la percezione del valore dell’operazione da parte del consumatore.
Come si è già detto, i costi di trasmissione dati dovranno essere abbastanza bassi da consentire ai consumatori di scaricare e condividere file musicali
digitali relativamente grandi. Si spera che i progressi nelle tecnologie di compressione e trasmissione dati aiutino a mantenere i prezzi bassi. Per quanto riguarda i servizi musicali, i fornitori di contenuti dovrebbero prendere in considerazione l’importanza di ridurre le distanze fra musicisti e consumatori di
musica attraverso strategie quali forum per i fan, concorsi a premi in cui si
vincono biglietti per i concerti, e opportunità di dialogo per posta elettronica.
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Per quanto riguarda i contenuti, i cartoni animati e le suonerie, tanto popolari in Giappone, forse non riusciranno a convincere i consumatori europei
e statunitensi a tirare fuori il portafoglio. In breve tempo le suonerie dei cellulari sono diventate una miniera d’oro per l’industria musicale, per gli artisti e
per i fabbricanti; per molti adolescenti scandinavi sono diventate inoltre la
«colonna sonora della loro vita». Mobilehits.com è un sito Internet che si occupa di telefoni cellulari, in cui si trovano tutte le suonerie più recenti e, inoltre, clip sonori, musica in formato mp3, video, icone, ecc. degli artisti più popolari. Le suonerie vengono spesso fabbricate in collaborazione con gli artisti
stessi e le loro case discografiche in modo da ottenere risultati il più possibile
vicini all’originale.
Mentre molti artisti di successo stanno cogliendo questa opportunità per
ottenere maggiori guadagni, altri si oppongono a ridurre la qualità d’ascolto
della loro musica a una suoneria digitale di telefonia mobile.
Le necessità e le occasioni dell’industria musicale
Le possibilità future della musica digitale via Internet creeranno un’eccellente opportunità affinché musicisti, imprenditori e specialmente case discografiche prendano in considerazione l’ipotesi di modificare l’attuale prassi vigente nell’industria musicale. A differenza del Giappone, dove gli altissimi
costi di Internet via cavo, controllati dalla NTT, hanno favorito un divario fra i
fruitori di Internet via cavo e quelli di Internet mobile, i consumatori statunitensi ed europei tendono a utilizzare Internet via cavo per alcune funzioni e
quello mobile per altre.
Per immaginare come i servizi di Internet mobile possano dare un valore
aggiunto alle pratiche di musica digitale, è necessario prendere in considerazione le necessità dell’industria musicale, dei consumatori e degli artisti.
Necessità dell’industria musicale
– creare un modello perseguibile per i download di musica digitale;
– mantenere la collaborazione con gli artisti (altrimenti questi potrebbero
rivolgersi direttamente ai consumatori);
– allentare il controllo dei diritti artistici nei confronti dei artisti, e dei diritti d’autore nei confronti dei consumatori, in modo da venire incontro alle richieste di entrambi i gruppi.
Necessità dei consumatori di musica
– musica in qualsiasi momenti, in ogni luogo;
– prezzi inferiori a quelli dei CD se costretti o incentivati ad acquistare
musica online;
– flessibilità di accesso;
– un rapporto più stretto con gli artisti.
Necessità degli artisti
– maggiori diritti di proprietà sulla musica;
– una percentuale più alta degli introiti;
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– maggior flessibilità contrattuale;
– maggiori possibilità di marketing (per esempio, accesso diretto ai consumatori via Internet);
– maggior controllo sulla qualità del suono.
Date le diverse esigenze sopraelencate, i problemi da affrontare in una
riforma valida del sistema di distribuzione musicale potrebbero essere:
– quale valore aggiunto si può offrire al consumatore per indurlo a pagare l’accesso alla musica?
– Come possono le principali etichette discografiche riconquistare la fiducia di artisti e consumatori attraverso una diversa redistribuzione dei profitti e
un tipo di accesso alla musica che offra maggiori vantaggi degli attuali servizi
di file-sharing?
Internet mobile aggiungerà valore ai servizi di musica digitale in rete perché aumenterà il numero di accessi e renderà più conveniente l’acquisto; nel
contempo aumenterà le potenzialità del commercio elettronico per i service
provider e per gli artisti, svincolando i consumatori dalle loro scrivanie. Ancor
più importante, Internet mobile renderà possibile la comunicazione fra consumatori dal posto di lavoro, da scuola o dalla strada per scambiare opinioni sui
loro beniamini o per inviare file musicali, contribuendo a favorire il mercato
della musica. Il miraggio di ottenere maggiori introiti, insito nei servizi di Internet mobile, potrebbe inoltre incoraggiare le case discografiche ad adeguare
i loro cataloghi a prezzi che soddisfino consumatori e artisti. Se le case discografiche oppongono resistenza, potrebbero riscontrare che società più intraprendenti si intromettono offrendo servizi vantaggiosi e sottraendo loro una
parte degli introiti.
Vi è soprattutto, da parte di tutti, la necessità di riconoscere che ciò che
sottende la nuova economia digitale e le prospettive per la musica su Internet
mobile non è di «possedere delle cose» ma piuttosto, di creare rapporti e sinergie.
La possibilità di stabilire collaborazioni, offerta alle società che si occupano di Internet mobile in questo caotico periodo di transizione, sono state
enumerate con esasperazione da Courtney Love alla conferenza di Digital
Hollywood nel maggio del 2000: «Cerco qualcuno che mi metta in contatto
con un maggior numero di fan [...] questo offrirebbe immense possibilità alle
compagnie che siano in grado di farlo [...]. Lascio il sistema delle ‘major’ e
centinaia di artisti seguiranno il mio esempio». I tempi sembrano maturi per
un cambiamento, che viene riassunto dall’obiettivo dichiarato del Future of
Music Coalition: «riunire le migliori forze in campo in materia di tecnologia
e comunità musicali indipendenti» per stabilire come i due gruppi possano lavorare insieme.
Conclusioni
L’introduzione di un accesso alla musica via Internet mobile e la condivisione di file verranno accolti con notevole scetticismo in molti mercati, specie
negli Stati Uniti dove il concetto di Internet mobile non ha incontrato l’interesse dei consumatori. Tuttavia, così come il grande successo del servizio di Internet mobile di NTT DoCoMo (i-mode) ha, nel tempo, incuriosito i consumatori
statunitensi, la crescita tecnologica e le innovazioni giapponesi incentiveranno
la diffusione di musica attraverso Internet mobile in entrambi i paesi.
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A livello globale, un crescente entusiasmo da parte dei consumatori per il
file-sharing di musica digitale provocherà cambiamenti epocali nei rapporti
esistenti fra artisti, industria musicale e consumatori. La «rivoluzione» dell’industria musicale aprirà immense possibilità ai provider di contenuti relativi
all’intrattenimento e sviluppatori di applicazioni, costringendo le principali
case discografiche ad allentare le restrizioni sui diritti in caso di download selettivo e condivisione di materiali ed esecuzioni musicali.
Le apparecchiature di Internet mobile non sostituiranno Internet via cavo
nella maggior parte dei mercati, così come i telefoni cellulari non hanno ancora rimpiazzato i telefoni domestici. Le due piattaforme coesisteranno in diverse
configurazioni e in proporzioni variabili secondo le infrastrutture di telecomunicazioni, lo sviluppo degli applicativi e le necessità dei consumatori. Ciò che
è certo è che milioni di utenti avranno da guadagnare in termini di flessibilità,
tramite un accesso all’informazioni e a servizi quale la musica digitale, in qualunque luogo e in qualsiasi momento. Come e quando ci arriveremo dipende in
gran parte dalla fantasia di tecnologi e imprenditori, dalla saggezza dei mediatori e dalla disponibilità da parte di gruppi attualmente contrapposti a collaborare per offrire una nuova ed entusiasmante possibilità sociale.]
CARLO MARINELLI
Ringrazio moltissimo il professor Burnett per questa stupenda relazione,
che ha il pregio di una chiarezza adamantina e non lascia dubbi né nella sostanza né nella forma. Permettetemi solo una breve osservazione.
Sono d’accordo con tutto quello che è stato detto ma bisogna trarne le conseguenze. L’avvicinamento tra l’artista e il consumatore è avvenuto al livello
del consumatore, deprimendo cioè la qualità dell’artista. Inoltre stiamo parlando di musiche che sono di breve durata, che non arrivano neanche alla durata di
una jam session jazzistica; domandiamoci allora se vi sia stato un altro periodo
nella storia occidentale in cui questo sia avvenuto. La risposta e sì, nel Medioevo, a eccezione di alcune parti della liturgia ma, anche in questo caso, normalmente quelle che venivano in contatto con il pubblico (non quelle dei monaci:
le liturgie delle ore erano molto lunghe) erano brevi. Non solo. Abbiamo scarsissime documentazioni relative alla musica per danza, che era considerata musica del diavolo, tanto che chi la eseguiva in pubblico era scomunicato e non
veniva seppellito nel cimitero ma in terra sconsacrata. Le poche che ci sono
pervenute sono di brevissima durata e hanno carattere ripetitivo. L’analogia, da
questo punto di vista, è molto intrigante, perché ci pone a confronto con una
società in cui la musica di un certo sviluppo temporale era riservata a questa famosa minoranza assoluta costituita dalle comunità monastiche. Dall’altra parte,
troviamo una massa fatta di analfabeti, con una vita media che non superava i
trent’anni, che andando a coltivare i propri campi poteva essere improvvisamente prelevata e arruolata a forza in qualche banda per non fare più ritorno in
famiglia, con una mortalità femminile sui vent’anni. Ebbene, in questo ambiente troviamo musica breve. Non abbiamo alcuna testimonianza di melodie non
liturgiche, venute più tardi con i trovatori, e tuttavia siamo già all’inizio di una
sorta di Rinascimento. La situazione è analoga a quella di oggi, perché il fatto
che la musica possa essere usata per un ring toon implica brevità e ripetitività.
Cosa sta venendo meno, per cui parlo di abbassamento del livello dell’artista al
livello del consumatore? La musica considerata come ragionamento, che pensa
se stessa e racconta se stessa, che non è momento episodico, epidermico, che
tutt’al più può esprimere una sensazione, ma processo, che è caratteristica
esclusiva del mondo occidentale, creazione dei meccanismi ragionativi basati
soltanto sul suono, senza riferimenti né a processi verbali né a processi visivi.
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È una musica che si innesta su un processo storico che va verso l’età della ragione. Nella civiltà medievale la «brevità» era compensata da una percezione
del presente in cui esisteva un futuro, che non era storico ma meta-storico in
quanto teleologico: l’aldilà faceva premio all’aldiqua, poiché dopo una vita di
sacrifici si pensava di ricevere il premio di una vita di delizie spirituali o fisiche. Per converso, una società che non ha più alcuna teleologia, cioè alcuna
idea su quello che può essere l’aldilà, corre il rischio di non sopravvivere perché non ha alcun ancoraggio; il che dovrebbe preoccuparci perché fa parte di
quel processo di abbandono della ragione e di capacità di ragionamento, che
sono alla base delle capacità di scelta e di distinzione. La musica intesa come
organismo razionale, che spiega se stessa e nient’altro che se stessa ed è, quindi, un modo di pensare la vita attraverso il suono oggi è improvvisamente venuta meno. Ciò vale per tutte le altre arti e per tutta l’odierna concezione della
società. La concentrazione delle case produttrici di dischi ha portato come conseguenza una incapacità di reggere le dimensioni del mercato; le case discografiche sono entrate tutte in crisi, con l’eccezione di qualche deformazione, come
quella della Universal Vivendi, che dichiara esplicitamente di preferire spendere otto miliardi per produrre un disco di brani di tre minuti per incassarne dieci
piuttosto che spendere cinquecento milioni per un disco, per esempio, di Cecilia Bartoli, per incassare due miliardi. Va scomparendo la capacità imprenditoriale, sostituita da un movimento delle finanze fine a se stesso. Ciò spiega anche quanto ci ha riferito così bene il professor Burnett. Perché si chiudono
l’Erato a Parigi e la Teldec ad Amburgo per riunire tutto a Londra, quando il
mondo globalizzato di oggi andrebbe verso il decentramento? Per necessità di
controllo. Questo sorvegliare continuo diminuisce la capacità produttiva e il finanziamento del repertorio. Le ricerche inoltre diminuiscono sempre più, sono
puramente tecnologiche e, quindi, moltiplicative o puramente assemblative di
elementi già esistenti e per nulla innovative. È una crisi di ipertrofia della civiltà occidentale che si verifica anche nell’industria della musica e del disco.
Dovremmo fare i monaci per preservare anche la possibilità di continuare a
fruire della musica che pensa se stessa e pensa la società sub specie sonus. Teniamo presente che organismi musicali complessi nelle musiche delle altre civiltà sono rari, forse esistono solo in Indonesia, Giappone, Cina e Cambogia.
La dottoressa Cavagnis Sotgiu, Direttrice della Discoteca di Stato, vuole
intervenire.
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MARIA CARLA CAVAGNIS SOTGIU
La Discoteca di Stato è la collezione nazionale dei documenti sonori: abbiamo dischi, nastri, cassette, cilindri, CD e quant’altro. I nostri compiti sono
sostanzialmente due: uno è quello di raccogliere e conservare il patrimonio di
registrazioni che viene prodotto in Italia, registrazioni sul campo, non commerciali, di tradizione popolare, eventi musicali, interviste a personalità politiche,
della cultura ed altro; essendo poi una istituzione pubblica del Ministero dei
Beni Culturali e, quindi, mantenuta con i soldi dei cittadini, abbiamo anche il
compito di rendere fruibile questa collezione nel modo migliore per i ricercatori
italiani e stranieri.
Come potete immaginare, il punto di svolta che, in qualità di gestori di
questa collezione, stiamo vivendo è il problema della conservazione delle registrazioni analogiche. È un problema drammatico perché, a fronte di una grande
quantità di registrazioni (la Discoteca di Stato conserva 25-30.000 nastri di tipo
tradizionale, più 250.000 documenti, in massima parte LP e 78 giri) dobbiamo
pianificare una conservazione in formato digitale in tempi ragionevoli, in relazione al fenomeno della scomparsa dal mercato di una serie di attrezzature per
la riproduzione di questi documenti. Per farvi un esempio, alla fine dello scorso
settembre una casa produttrice di registratori professionali ha fatto sapere che
chiudeva la produzione e ha chiesto, attraverso l’Audio Engineering Society e
l’Associazione Internazionale degli Archivi Sonori e Audiovisivi, chi fosse interessato a ordinare per l’ultima volta i suoi prodotti; noi abbiamo raccolto
l’appello, ordinandone più d’uno per conservare anche i pezzi di ricambio. Un
altro esempio. Un archivio importante come quello della Radio Finlandese ha
fatto una consistente scorta di testine, temendo che escano dal mercato. Questo
è il contesto in cui ci muoviamo. Per affrontare questo problema abbiamo fatto
una ricerca anche fuori dall’Europa e siamo arrivati a definire un modello di
conservazione che è quello che si sta diffondendo ovunque, il Digital Mass
Storage. Noi abbiamo scelto e stiamo implementando il sistema della RAI. Ovviamente la conservazione che realizziamo è in formato non compresso, dunque i problemi che sono stati fin qui discussi non ci riguardano, se non per quel
che concerne la fruizione di questo materiale. Per ottenere finanziamenti, infatti, che devono essere molto consistenti per realizzare questo tipo di conservazione, abbiamo bisogno di aumentare la fruizione del nostro patrimonio per dimostrare che tutta la nostra attività abbia un ritorno. Siamo dunque spinti,
credo giustamente, a considerare nuovi tipi di servizi da offrire ai nostri utenti
e, a tal fine, ci siamo riuniti in gruppo con due importanti biblioteche italiane
che possiedono preziosi manoscritti musicali, la Biblioteca Nazionale di Torino
e la Biblioteca Marciana di Venezia. Abbiamo così ottenuto un finanziamento
per la creazione di una rete di informazione per la musica, che partirà da un primo nucleo in corso di realizzazione, denominato «Archivio digitale della musica veneta». Realizzeremo una rete che renderà accessibili le immagini dei manoscritti di Vivaldi, cominciando da un primo nucleo dedicato a Benedetto
Marcello a Venezia. Da parte nostra, metteremo a disposizione tutte le registrazioni delle opere di Vivaldi e di Benedetto Marcello che possediamo e che riusciremo ad acquisire. Ovviamente esiste il limite oggettivo che la quantità di
esecuzioni sia dei due fratelli Marcello sia di Vivaldi non è enorme, perché
molta parte di questo patrimonio è scarsamente eseguita e, comunque, molto
poco registrata, ma questo è un altro aspetto del problema. Per noi è fondamentale distribuire il servizio in Rete, perché istituzioni come le nostre possono so34
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pravvivere in futuro solo se riescono a far conoscere il loro patrimonio e a renderlo fruibile utilizzando tutti gli strumenti che la tecnologia offre.
Per la fornitura di questi servizi dobbiamo risolvere due problemi, entrambi importanti ma tendenzialmente in conflitto tra loro: se da un lato dobbiamo
fornire ai nostri utenti una buona qualità di ascolto e di visione, dall’altro dobbiamo raggiungere accordi con i detentori dei diritti affinché ci consentano di
distribuire questa qualità in Rete, cosa niente affatto facile! Non è nostra intenzione fornire un servizio che, allo stato attuale delle tecnologie, si sostituisca
all’ascolto diretto dell’originale, anche nella sua versione digitale di alta qualità; vogliamo solo far conoscere quello che è possibile ascoltare e consultare
nelle nostre istituzioni e, eventualmente, fornire delle copie di buona qualità,
non sfruttando i canali di accesso online diretto in Rete ma spedendo il CD al
destinatario. Questo pone problemi di qualità tutt’altro che trascurabili, perché
più alta è la qualità più difficile è ottenere le autorizzazioni necessarie dai detentori dei diritti ma anche perché non ci sembra ipotizzabile che un nostro
utente possa ascoltare tutto l’Otello «incollato» al PC: la cosa diviene ancor più
complicata perché, in tal caso, gli si dovrebbe concedere l’autorizzazione di
scaricarlo e farne una copia. In attesa di raggiungere degli accordi con i detentori dei diritti, di là del materiale di nostra proprietà, offriremo come primo servizio la consultazione per la durata di un minuto, garantita dal diritto di informazione, mettendoci a disposizione di chi desiderasse un ascolto più lungo nei
limiti e nei modi che il copyright consente.
Esiste inoltre anche un problema che investe il servizio che offriamo ai nostri utenti in sede, perché l’accesso alla copia di alta qualità rimanda alla qualità della postazione finale e ai tempi: abbiamo un numero limitato di postazioni ed è impossibile consentire a tutti di scaricare un file di alta qualità di un’ora
e mezza. Questo aspetto non è stato ancora del tutto definito e, per quanto siamo in grado di offrire in sede un ascolto di alta qualità, stiamo cercando di offrire anche un ascolto di qualità di tipo mp3 per rendere molto più agile il servizio, avendo presente che la nostra utenza è molto varia e che la richiesta di
qualità ottima è limitata a un’utenza molto specialistica: abbiamo utenti che
ascoltano i 78 giri o registrazioni effettuate sul campo di canti di tradizione popolare, dunque anche con una qualità di partenza non eccelsa che rende l’ascolto in mp3 accettabile.
Chi ha il compito di conservare il patrimonio di registrazioni musicali va
nella direzione di un continuo miglioramento della qualità dei servizi che possono essere distribuiti in formato digitale. Attualmente, abbiamo un quantità
consistente di materiale nato in digitale che dobbiamo conservare e far conoscere. Penso che questo sia un terreno di ricerca e di impegno molto importante. Noi abbiamo interesse a rendere accessibile – e il digitale finalmente ci permette di farlo – questo enorme patrimonio, in gran parte sconosciuto, attraverso
un meccanismo di nuovi servizi, che non sono soltanto l’ascolto diretto ma anche l’offerta in una forma più ragionata e colta di esempi delle nostre collezioni
corredati da documentazioni varie: abbiamo fatto con grossa soddisfazione un
lavoro di questo tipo sulla tarantella, utilizzando i fondi di un progetto europeo;
attualmente si trova su un sito francese e, quando questo chiuderà, verrà trasferito sul nostro sito. Personalmente credo che questo sia un valido canale per far
conoscere a un pubblico sempre più vasto, a vari livelli e in vario modo, proprio la tradizione musicale italiana, che va dalle tradizioni popolari alla canzonetta, per arrivare alla musica colta. Abbiamo cominciato nel 1993 con un progetto europeo, primo esempio di distribuzione in Rete di suono proveniente da
tre Archivi, uno italiano, uno inglese, uno danese, a cui se n’è aggiunto uno
norvegese come utente. Il successo che questo progetto ha riscosso ci ha fatto
comprendere quanto una fruizione della musica così diretta, a casa propria,
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possa contribuire alla conoscenza del patrimonio musicale. La prima richiesta
che ci è pervenuta dagli utenti, che venivano intervistati, era di avere più informazioni sul suono: qualcuno ci ha richiesto uno spartito, altri la copertina di un
disco e così via. Abbiamo così scoperto un ventaglio enorme di fruizione del
patrimonio musicale. Per questa ragione concordo perfettamente con quanto diceva il professor Burnett: la frontiera è migliorare la qualità e gestire il problema dei diritti in maniera equa per l’utente.
In ultimo, vorrei poi porre una domanda al professor Burnett: ha parlato di
un facile modo di marcatura, di un watermarking dei file digitali sonori; vorrei
sapere qual è, visto che noi non siamo riusciti a trovarlo.
ROBERT BURNETT
I was referring to the industry’s response to the problem, and so far every
system that has been found has been hacked within a week.
[Io mi riferivo alle soluzioni proposte dall’industria ma, allo stato attuale,
ogni tipo di marcatura è stata oggetto di pirateria da parte degli hackers nel
giro di una settimana.]
CARLO MARINELLI
Vorrei dare il benvenuto al dottor Ludovico che è finalmente giunto.
Grazie alla dottoressa Cavagnis Sotgiu. La parola al professor Ramello.
GIOVANNI RAMELLO
Rilevo una contraddizione non in quello che la dottoressa Cavagnis Sotgiu
dice ma nel sistema generale, un sistema che, per un verso, finanzia gli archivi
perché custodiscano e diffondano un patrimonio culturale e che, per l’altro,
blocca tale diffusione con il sistema dei diritti della proprietà intellettuale. È
forse giunto il momento di distinguere tra settori e tra cose. I diritti di proprietà
intellettuale, per buona parte del patrimonio custodito nella Discoteca di Stato,
suppongo che in realtà non abbiano alcuna funzione di remunerazione e che gli
autori, laddove esistano, siano estinti da tempo o non siano individuabili. Quel
che è certo è che questo sistema legale blocca la diffusione di un sapere: da una
parte, lo Stato finanzia l’istituzione per diffondere questo sapere e schizofrenicamente, dall’altra, applica delle leggi che bloccano tale diffusione.
CARLO MARINELLI
Stia tranquillo, professor Ramello, lo Stato ha già deciso di rendere tutto
omogeneo perché privatizzerà tutto! Di conseguenza, non ci sarà più questa
contraddizione perché tutto quello che i privati non vorranno acquistare perché
costoso e non redditizio sparirà. Sapete l’ultima? Sono stati tagliati 400 miliardi al FUS del prossimo anno.
Cedo la parola alla dottoressa Tuzi.
GRAZIA TUZI
Ieri il telegiornale ha dato notizia che le case discografiche hanno problemi
con i sistemi di protezione applicati ai Compact Disc, che rendono difficile
l’ascolto anche agli utenti cosiddetti «normali». Vorrei sapere se qualcuno può
approfondire questo tema.
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MARCO BENEDETTI
Questa casa discografica ha commesso un vero e proprio abuso perché,
senza avvertire gli utenti, ha inserito alcuni errori volontari, che vengono corretti da un apposito circuito del lettore ma che rendono impossibile la riproduzione col masterizzatore. Il guaio è che alcuni lettori di Compact Disc vengono
messi in seria difficoltà.
GRAZIA TUZI
La ringrazio. Vorrei fare una domanda anche al professor Burnett. Vorrei
sapere quanto le case discografiche traggano dei vantaggi dall’utilizzo della
musica via telefono e quanto invece questa non sia a vantaggio delle case produttrici di cellulari e dei provider telefonici; quanto la casa discografica abbia
ceduto anche in termini di profitti, di qualità del suono e di immagine della
produzione musicale e quanto sia subordinata ai guadagni dei provider telefonici e dei nuovi sistemi di telefonia.
ROBERT BURNETT
I can tell you that nobody will tell me how they share the money, but what
I do know is that the telephone providers take the biggest share. But, I think
the artist or the record company don’t mind if their song that’s on the hit
parade is on the ring tones being heard everywhere in public spaces all the
time.
[Le posso dire che nessuno mi rivelerà come avviene la ripartizione dei
soldi ma, senz’altro, i provider telefonici sono quelli che si accaparrano la
fetta maggiore. Però posso anche dirle che sono certo che né gli artisti né le
loro case discografiche si dispiacciono se la loro canzone che è in classifica
nella hit parade diventa una suoneria e viene continuamente trasmessa in spazi
pubblici.]
ODERSO RUBINI
Solo una nota sul mercato italiano. Il business delle suonerie è già andato
perduto, nel senso che sicuramente le case discografiche e gli artisti non hanno intascato quasi nulla. Chi ci ha guadagnato sono le compagnie telefoniche
ma, in linea di massima, è un business in fase calante, quanto meno in Italia.
Quest’ambito non è quindi particolarmente interessante: quello che poteva essere sfruttato è già stato sfruttato e le case discografiche, gli addetti ai lavori,
gli editori e la SIAE non sono stati capaci di far fruttare anche questa parte di
business.
ALESSANDRO LUDOVICO
Secondo una notizia dell’altro ieri, la Rough Records, un’etichetta americana che produce musica rap, è stata probabilmente la prima a diffondere suonerie tratte da brani musicali di alcuni artisti in anticipo di qualche giorno
sull’uscita dell’album. In particolare, nel caso di due gruppi rap abbastanza famosi, i Mob Deep e i Bhutan Crane, quattro giorni prima dell’uscita dei rispettivi album, sul sito di un fornitore sono state pubblicate le suonerie tratte da alcuni brani degli album, dunque una sorta di anticipo a bassa tecnologia rispetto
al lavoro finito.
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A proposito delle protezioni dei CD audio, secondo me l’elemento di
perversione sta nel fatto che i CD audio protetti su un normale lettore trovano
una compensazione degli errori inseriti per proteggerli ma altrettanto non avviene sui lettori CD-ROM dei PC, perché tali errori vengono interpretati
come errori di dati. L’uso dei CD audio viene in tal modo scoraggiato all’interno dei PC, medium che può servire a riprodurre e che viene per questo motivo incriminato.
In ultimo, una domanda, una semplice curiosità. Vorrei chiedere al professor
Burnett quanto costa l’abbonamento mensile per i sistemi i-mode giapponesi.
ROBERT BURNETT
Nine dollars a month.
[Nove dollari al mese.]
GIORGIO ADAMO
Vorrei chiedere al professor Burnett se sono stati fatti degli studi sulla scelta dei ring tones, sul gusto, sui generi musicali che vi sono rappresentati, anche
in riferimento ai copyright: da una parte c’è questo mercato in contemporanea
con le novità discografiche ma può esserci anche un uso delle musiche senza
copyright o con diversi livelli di copyright, dalla musica classica a musiche
molto datate.
ROBERT BURNETT
The answer to that is that there are no studies yet, but I can tell you a little
bit of what I know. One major company, which is called «mobilehits.com» –
you can look up their website – started with the specific idea of doing topforty music hits. In Scandinavia and Japan, at least, you can download hits
through the Internet or on your mobile by phoning a certain number. What’s
happened, since «mobilehits.com» has grown is that, like in most of the music
industry, there are niche groups starting to do the same thing with classical
music in the public domain, but we don’t know the percentage yet, in terms of
figures.
[La risposta è che non esistono ancora studi in materia ma le posso raccontare ciò che so. Una delle principali società produttrici di suonerie, la
«mobilehits.com», di cui potete visitare il sito web, ha preso le mosse
dall’idea di rendere accessibili i primi quaranta titoli delle classifiche. In
Scandinavia, e anche in Giappone, è possibile scaricare le suonerie da Internet oppure telefonando a un numero specifico. Allo sviluppo della «mobilehits.com» è seguito, come sempre accade nell’industria musicale, un proliferare di gruppi di nicchia che tentano di replicarne il successo con specifici
generi di musica classica di pubblico dominio, ma non si conoscono ancora
cifre e percentuali.]
CARLO MARINELLI
Visto che non ci sono più domande o interventi cerchiamo di pianificare i
lavori del pomeriggio, poiché a quelle in programma si aggiunge la relazione
del professor Ramello, che è costretto a partire questa sera. La mia idea – che
tuttavia è suscettibile di qualsiasi variazione voi voleste suggerire – sarebbe
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quella di seguire le indicazioni del programma per le relazioni di Flavio De
Bernardinis e di Giancarlo Landini, di sopprimere la parte dedicata ai chiarimenti e interventi e sostituirla con le relazioni di Steve Long e del professor
Ramello. Vorrei chiedere al dottor Long se abbia qualcosa in contrario a cedere
il turno della sua relazione al professor Ramello, in modo da concedergli più
tempo per l’organizzazione della partenza. Vedo che il dottor Long è d’accordo
e lo ringrazio.
Detto questo, interrompiamo i lavori per la pausa pranzo. Ci ritroviamo qui
alle 15.00 per la ripresa dei lavori.
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sabato 8 dicembre 2001
ore 15
IL LUOGO DELLA MUSICA
via de’ Delfini 20
presiede
Carlo Marinelli
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CARLO MARINELLI
Buonasera a tutti e grazie per la puntualità.
Chiamo il professor De Bernardinis dell’Università di Roma «La Sapienza» per la sua relazione.
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FLAVIO DE BERNARDINIS
Immagini e suoni: transiti reticolari
Vorrei ringraziare innanzitutto l’I.R.TE.M. e il professor Marinelli per l’invito. Devo dire senza retorica alcuna che sono venuto principalmente per imparare, perché il mio campo di interesse non è né musicale né rigorosamente tecnico o tecnologico. Per questa ragione propongo semplicemente qualche spunto
che spero possa essere utile per la discussione, cominciando col riprendere una
osservazione del professor Marinelli a proposito della musica di breve durata:
finora in Rete vanno per la maggiore brani che non sono particolarmente lunghi, proprio come nel Medioevo parte della liturgia a contatto col pubblico era
piuttosto breve. Scartabellando tra i miei libri che parlano di musica ne ho trovato uno di Manlio Sgalambro (filosofo che collabora con Franco Battiato alla
stesura di testi e che di recente si è messo anche a cantare), che si intitola Teoria della canzone, dove l’autore tesse l’elogio della forma-canzone e della sua
brevità come immagine del mondo della nostra epoca. Secondo Sgalambro, la
canzone è infatti l’arte della decadenza della nostra epoca. Poiché la nostra
epoca e la nostra cultura hanno introiettato il concetto di morte termica, nel
senso che tra alcuni milioni di anni il sole si spegnerà (e per il filosofo questo
prendere coscienza dell’evento è già partecipare all’evento), ecco che la diretta
conseguenza di questa presa di coscienza è l’istigazione, l’istinto di vivere le
nostre vite nella maniera più breve ma più intensa possibile, come se le nostre
vite fossero le vite di tanti insetti, di farfalle; e la forma-canzone, soprattutto
quella rock, è proprio l’immagine del mondo perché fa dilagare i cinque minuti
(in rapporto alla morte del sole) della nostra vita. Pertanto, sempre secondo il
filosofo, la civiltà occidentale è giusto che finisca in musica, è giusto che finisca canticchiando, così come mostrava il film Last Night, in cui si immaginava
l’ultima notte della storia del pianeta terra, dove i giovani di tutto il mondo si
preparavano a vivere le ultime ore dell’apocalisse radunati in stadi come se assistessero a un concerto rock. Ovviamente noi non possiamo accontentarci di
queste seppure affascinanti o divertenti osservazioni del filosofo, ma il fatto
che la musica abbia a che fare con l’aria, che la musica abbia questa destinazione, questo destino di non avere supporto se non appunto l’aria (Sgalambro in
uno dei punti in cui suddivide il libro dice che l’unica vera esecuzione originale
di un brano musicale è il disco, non un concerto dal vivo; la musica nasce per il
disco), ecco che la sua destinazione all’aria ci riporta all’argomento del nostro
Convegno, che è la musica in Rete. Basta leggere quanto è stato scritto su la
Repubblica alcuni giorni fa da Gino Castaldo, il quale, commentando la nuova
offerta di Tiscali per quanto riguarda la musica in Rete, dunque la gestione dei
file mp3, affermava che la musica stava andando verso il proprio destino di disincarnazione: finisce l’oggetto disco, si passa alla fase della gestione dei file;
la musica è quindi destinata a essere astratta, nel senso appunto di «disincarnata», di prelevata dai suoi supporti. A questo risultato siamo giunti per i motivi
descritti questa mattina: la civiltà occidentale in qualche modo sembra destinata a questo esito finale.
Vorrei citare un altro filosofo italiano, Mario Perniola, il quale ha scritto su
questo argomento facendo riferimento ai rapporti tra forme di pensiero nella
cultura contemporanea e forme di organizzazione culturale. Qual è il rapporto
che si instaura oggi fra il pensare e l’organizzare praticamente le cose che una
cultura pensa? Perniola dice che si tratta di un rapporto vuoto. Un tempo questo
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rapporto era garantito, per esempio, dall’istituzione monastica, come questa
mattina è stato ricordato. Personalmente ho scritto: «Il filosofo monastico e il
filosofo, pur attraversando esperienze diversissime, partecipavano dello stesso
mondo: il mondo dello spirito, della cultura, della conoscenza. Il pensiero di
ogni singolo studioso era garantito dalla esposizione diretta e senza rete – ironia della sorte! – col mondo empirico ossia dalla mancanza di presupposti di riferimento sicuri: la Chiesa, il Partito, la Professione. La Chiesa, patrimonio
dottrinale condiviso, il Partito, patrimonio ideologico coerente, la Professione,
sapere sistematico, oggi non mediano più l’attività né dei sacerdoti né dei politici né dei professionisti». Ecco che il rapporto che si instaura tra forme di pensiero e l’organizzazione di esse nell’atto pratico della cultura è «senza rete», un
rapporto che ha a che fare direttamente con il dato empirico delle cose. Questo
fa sì che oggi il filosofo non possa sottrarsi al dilemma che il suo lavoro sia paragonabile a un innocente trastullo, dice Perniola; oppure l’organizzatore (che
in questo contesto forse ci interessa di più) al sospetto che il suo lavoro non
differisca poi tanto da quello di una qualsiasi mafia o cosca. La possibilità di rivolgersi direttamente, attraverso la televisione, a milioni di persone anziché a
poche migliaia di buona volontà, come era prima, appare la tanto attesa realizzazione della vocazione universalistica della filosofia, da un lato (e sembra che
la filosofia in tal modo trionfi), ma in realtà parlando a tutti il filosofo non parla
più a nessuno. Dal canto suo, l’organizzazione culturale diventa manager di
faccende spirituali (quel che prima faceva la Chiesa), culturali (il Partito) e
scientifiche (la Professione). Oggi le istituzioni culturali sono forme vuote, suscettibili di essere riempite di qualsiasi contenuto. Prendiamo l’esempio del
consumo del tempo libero, in particolare del settore di cui mi occupo, il cinema. Cosa è cambiato nella sostanza tra la dimensione della fruizione di un film
in una sala cinematografica, così come l’ho conosciuta nella mia adolescenza,
cioè la sala «teatrale», rispetto a quelle che oggi si chiamano «multisale»? Se
esaminiamo la dimensione del consumo, possiamo concludere che oggi siamo
passati, per quanto riguarda l’acquisto del tempo libero, alla dimensione del
«noleggio»: oggi non si compra, si noleggia. In che senso? Divertiamoci ricordando che la parola «noleggio» deriva dal tardo latino «naulum», che ha come
significato «prezzo del trasporto per mare delle merci». Cosa mi ha impedito
oggi la multisala rispetto alla sala teatrale della mia adolescenza? Quello che ha
raccontato Ferreri nel suo ultimo, straordinario film Nitrato d’argento: mi ha
impedito di rivedere il film; io devo entrare, vedere il film e uscire, non posso
stazionare nella sala, cosa che era possibile fare prima. Non solo. Mi metto in
coda per arrivare alla cassa della multisala, poniamo di tre sale, partendo
dall’idea di vedere il film proiettato nella sala 1; a metà fila i posti della sala 1
si esauriscono e devo decidere se andare a vedere il film della sala 2 o della
sala 3. Insomma, alla fine arrivo al botteghino per vedere un film per il quale
non sono uscito di casa, non ho parcheggiato la macchina, non ho iniziato a
fare la fila. Compro un film? In realtà non si compra più nulla, si noleggia il
tempo della durata del film. Con il biglietto prendo a prestito le due ore del
film che mi trovo a fruire e che può essere benissimo un altro film rispetto a
quello che mi ha convinto a uscir di casa. È questo il senso di spaesamento della cultura contemporanea di cui si è tanto discusso, della de-territorializzazione.
È l’esperienza del «non-luogo» di cui ha parlato l’antropologo Marc Augé: la
nostra vita, dal punto di vista dello spazio, del territorio, è all’insegna dei nonluoghi, in cui noi siamo riconosciuti senza tuttavia essere identificati. Le accezioni in cui Augé parla del non-luogo sono tante ma quella che interessa noi è
la seguente: noi siamo riconosciuti senza essere identificati, proprio come
quando usiamo il bancomat. La Rete non è una rivoluzione epistemologica ma
sembra veramente l’ultimo atto di un processo che ha avuto inizio quando è co45
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minciata la riproducibilità tecnica delle opere d’arte; l’ultimo fenomeno a cui
noi stiamo assistendo in questo territorio di generale spaesamento, che è stato
l’humus del cosiddetto «pensiero debole» in Italia oppure della cultura postmoderna in Europa e negli Stati Uniti. In questo territorio, come scriveva Castaldo, non abbiamo più a che fare con oggetti ma con gestioni; l’esempio del
nolo va in questo senso, il passaggio dall’acquisto, dunque da una situazione
che ha ancora a che fare con l’oggettualità, al noleggio, che invece ha a che
fare con la gestione.
A questa dimensione gestionale il mercato si è prontamente adeguato, e
non ci sarebbe altro da aggiungere a quello che è stato detto questa mattina e a
molto di quello che presumibilmente si dirà alla fine del mio intervento. Non
vengono più proposti degli oggetti ma delle versioni di oggetti. Nel campo del
cinema questa è già materia di teoria ufficiale: è notizia recente che la cineteca
di Bologna sta approntando un documento intitolato «Carta del restauro cinematografico», che è ovviamente un’operazione analoga alla «Carta del restauro» di Cesare Brandi nel campo delle arti figurative, visive e dell’architettura; e
uno dei punti della «Carta», ovviamente di derivazione francese e cinefila, è
che non si restaurano film ma versioni di film. Un esempio. Se devo studiare la
Nouvelle Vague cinematografica francese, registi come Jean-Luc Godard e
François Truffaut, devo fare un lavoro non accademico ma che sia destinato al
DVD, perché sappiamo che la soglia contemporanea della cinefilia è il DVD,
luogo in cui testo e contesto sono assolutamente compresenti e vanno in transito fra di loro. È veramente il luogo dove la suoneria dei telefoni cellulari, il
brano originale e una versione da osteria potrebbero coincidere, in nome
dell’impero del valore del contesto a cui la cultura semiologica ci ha fatti crescere: per tutta la giovinezza sono vissuto a pane e contesto. Accade che se un
responsabile di cineteca abbia come obiettivo la ricostruzione del contesto storico-sociale della Nouvelle Vague francese dovrebbe restaurarlo: nel caso del
Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, non ne dovrebbe restaurare la versione tedesca ma la versione tedesca che la cineteca Langlois possedeva all’epoca
di Tuffaut e Godard, perché i due film non sono la stessa cosa.
Ormai ci muoviamo nel campo del restauro permanente: gli oggetti della
cultura audiovisiva sono sottoposti a una operazione che tanto dal mercato
quanto dalla cultura sono di restauro permanente, il luogo che – per riprendere
il dilemma di Perniola, il rapporto tra forme della cultura e organizzazione di
queste forme – ci consente di dare senso a ciò a cui assistiamo. Perniola propone, per quanto riguarda questa dimensione di cui ci stiamo occupando, una sua
visione delle cose, che ha raccontato molto bene in un libro intitolato Transiti:
non ci sono più oggetti ma versioni, non ci sono più acquisti ma noleggi, non
c’è più l’esperienza del consistere ma quella del transito, del passare, del fluire,
dell’attraversare territori, del vivere esperienze di metamorfosi, che è un po’
quello di cui la cultura post-moderna si è nutrita e che probabilmente ha portato
al collasso di cui si parlava questa mattina. La proposta di Perniola, che rasenta
i territori dell’utopia ma pur sempre l’unica che ho trovato nelle mie magre ricerche, è quella di rivalorizzare la nozione di transito, inquadrandola in una
sorta di «illuminismo dal basso»: bisogna recuperare tutto ciò di cui si parlava
questa mattina, saper discernere, saper selezionare, saper separare, ma questo
non può più essere fatto dalle istituzioni, quanto meno non dalle macro-istituzioni, in cui pubblico e privato oggi si fondono e non si sa più quali siano gli
scopi dell’uno e le speranze dell’altro. Non c’è niente da fare: il lavoro sul fruitore, tutto il grande carico di cultura, di immagini, di suoni di società che è stato scaricato sull’individuo-massa che si chiama fruitore non può essere cancellato con un colpo di spugna; bisogna che l’individuo, la persona, il fruitore, lo
spettatore, l’ascoltatore si faccia carico di un illuminismo che parta innanzitutto
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da se stesso. Questo può avvenire attraverso il vivere alla radice l’esperienza
del transito, del passaggio attraverso territori diversi, la musica, la telefonia, il
cinema, la televisione, in cui non tutto è uguale a tutto, anzi, bisogna combattere il naufragio di omologare tutto con tutto: bisogna saper distinguere, anche in
maniera impercettibile, ciò che separa A da B, da C, da D. Siamo quasi nei territori dell’utopia, perché deve essere una forma di pedagogia che non viene
dall’esterno (dall’esterno arriva solo un’alluvione di dati) ma che le istituzioni
e le persone che vogliono e sono in grado di farlo devono recuperare dall’interno. A questo proposito, ritorna la citazione di Cesare Brandi. I sistemi di pensiero che si sono accavallati in questi anni (il Marxismo, prima ancora l’Idealismo, lo Strutturalismo, la Semiologia, il Decostruzionismo, l’Ermeneutica) non
possono dare una risposta a quello che diciamo. Si sente da più parti che si ritorna a pensare entro un orizzonte che fa parte di un sistema di pensiero chiamato fenomenologia, un orizzonte ontologico. Cesare Brandi, in un libro del
1966 che dovrebbe essere assolutamente ristampato, intitolato Le due vie, invitava tutti a prendere la via dell’arte e non della semiosi o della comunicazione.
D’altronde la comunicazione è il grande mito della cultura del Novecento che
ha collassato in maniera clamorosa. Brandi sostiene che l’Arte, di fronte al collasso della cultura, al rapporto mancato tra forme del pensiero e forme di organizzazione culturale, ha fatto un passo indietro e ha eliminato da sé il momento
formale. L’Arte non è più capace di produrre oggetti che abbiano una forma
compiuta, nel senso che le veniva attribuito dalla cultura del primo Novecento;
una forma organica, in cui le parti collaborano per dare appunto forma a una
totalità. È come se gli artisti fossero oggi costretti a lanciare degli input che
tocca poi allo spettatore raccogliere per avviare un’attività che Brandi definisce
«di integrazione»: Brandi chiama «spettatore integrato» il fruitore-tipo della seconda metà del Novecento. Tocca allo spettatore intervenire attivamente nella
formulazione dell’opera d’arte, perché gli artisti di per sé non sono più in grado
di arrivare al livello della forma. Cinema e fotografia sono esempi di arti i cui
prodotti, senza l’integrazione dello spettatore, non possono aspirare alla condizione della forma. A questo proposito, volevo far vedere delle immagini tratte
da un film che, in maniera spettacolare, esemplificano e chiudono questo mio
intervento. Si tratta di un film hollywoodiano, dunque un film-rete che entra
nel circuito della mondializzazione, intitolato Contact e interpretato da Jodie
Foster, con la regia di Robert Zemeckis, probabilmente l’unico regista in grado
di seguire il maestro Spielberg. Vediamo semplicemente la gestione di un’inquadratura. La protagonista è una scienziata che ha subìto un trauma adolescenziale, la morte del padre, e che ha come missione nella vita quella di captare suoni che vengono dallo spazio e di riuscire a captare un suono extraterrestre
di vita intelligente. Qui vediamo un flashback, il momento del ricordo in cui il
personaggio rievoca la terribile sera della morte per infarto del padre.
(esempio audiovisivo: Robert Zemeckis, Contact)
Avete visto che la protagonista ha captato un suono fuori campo, quello del
tonfo del padre che cade per terra. Abbiamo a questo punto un carrello che anticipa il personaggio, che sale le scale e che è seguito da un rallenty. Ebbene,
perdonate la brutalità ma qui siamo alla follia. L’immagine ci si rivela come riflesso nello specchio dell’armadietto dei medicinali e scopriamo che il personaggio non è di fronte a noi ma alle nostre spalle. Il momento in cui compare la
mano è quello della vertigine. Questa è un’immagine che, a mio avviso, cambia
l’immaginario cinematografico ed è un chiaro esempio dell’immagine di transito di cui parlavo in precedenza. Accade che salta completamente il senso della
cornice: qui non ha più senso il quadro, l’immagine è il recto e il verso di se
stessa. Peraltro, a differenza della musica, in questo contesto, il digitale entra
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nella fattura dell’immagine in maniera soft, non in maniera dura, perché questo
è un trucco reso possibile solo dal digitale, il quale tuttavia non si esibisce in
quanto tale, visto che non si tratta degli effetti speciali di Guerre stellari. Questa scena sarebbe stata risolta da un regista classico con una figura di campo e
di contro-campo: il campo sulla bambina che corre e il contro-campo, l’immagine che si ferma, si stacca e va a inquadrare l’armadietto con lo specchio. Qui
la scena si risolve invece nella fluidità della visione, per cui non si può parlare
di campo e contro-campo ma, per mutuare un termine dall’informatica, di
un’interfaccia: è un’immagine che interfaccia con se stessa, in cui il transito tra
un’inquadratura e l’altra è assolutamente impercettibile pur essendoci. Questa è
una forma di «illuminismo dal basso»: il film non esibisce una grammatica,
una norma, ma scorre, fluisce, aderisce pienamente al contenuto della sequenza, provocando subito una vertigine fra le due facce della stessa immagine. Se
seguissimo il film fino alla sua conclusione vedremmo che la figura dell’interfaccia è quella che accompagna la protagonista in tutto il corso della sua avventura; se poi vedessimo in particolare Cast away, anche questo con la regia
di Zemeckis, ci accorgeremmo di un’interfaccia fra civiltà e natura, e Le verità
nascoste, in cui l’interfaccia fra la moglie di Harrison Ford e la presenza fantasmatica che infesta la casa è assolutamente presente.
Prima di vedere il secondo e ultimo esempio, anticipo le conclusioni del
mio intervento. È stato detto che non è possibile vedere integralmente l’Otello
sul PC. Il problema, a questo proposito, è che forse manca la consapevolezza
del transito. In questo senso, l’Otello va assolutamente visto su PC. Il DVD va
assolutamente visto sul monitor del computer e non sul televisore, proprio perché bisogna evitare – e qui bisogna essere più reticolari della Rete – di considerare il PC territorio degli elettrodomestici. Spero che qualche industriale di
buona volontà faccia un giorno uscire suoni dal forno della cucina, e non è una
battuta: il determinismo dei mezzi di comunicazione di massa deve essere combattuto con l’esperienza della decontestualizzazione del transito, per cui l’esperienza della fruizione o musicale o audiovisiva non deve essere l’esperienza
dell’utente da elettrodomestico ma quella del fruitore delle istallazioni nelle
gallerie d’arte. Deve essere un rapporto di interfaccia attivo, illuminato e illuminante, in cui se non possiamo fruire dell’oggetto in quanto tale, perché ormai
l’oggetto è gestito, facciamo noi un oggetto della situazione che fruiamo. Facciamo sì che la situazione sia il supporto dell’esperienza. Facciamo sì che il
computer, o il forno della cucina da cui escono suoni, siano istallazioni della
nostra casa.
Concludo con un altro esempio di interfaccia. È un film di David Linch,
Strade perdute, un thrilling-fantastico-horror. Il protagonista è un sassofonista
jazz che ha subìto un misterioso furto in casa. Vedrete l’incontro tra il protagonista e un essere misterioso, chiaramente all’insegna dell’interfaccia, questa
volta non visivo ma sonoro.
(esempio audiovisivo: David Linch, Strade perdute)
In questa vertigine, in cui il protagonista parla al telefono con qualcuno che
ha di fronte, in questo interfaccia, in questo caso sonoro, c’è una condizione di
transito per cui tocca allo spettatore integrare non solo il senso dell’opera ma
anche quello delle proprie esperienze sotto la valanga di immagini, di suoni, di
segnali che il mercato, la Rete o quant’altro riversa su di lui. Grazie.
CARLO MARINELLI
Grazie a lei, professore. La parola al dottor Landini.
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GIANCARLO LANDINI
Opera e Internet: un’indagine e una valutazione
Nella mia ventennale attività di critico musicale sono incappato a un certo
punto nella Rete. Nella mia relazione riferirò semplicemente le mie impressioni
sull’argomento, limitandole al genere dell’opera lirica perché mi occupo esclusivamente di questo.
Il rapporto tra l’opera lirica e i supporti tecnici hanno inizio sul finire del
XIX secolo con l’invenzione delle macchine sonore per la riproduzione delle
voci (giradischi, grammofoni, ecc.). È un inizio stentato e faticoso, che fece disperare coloro che vi si accinsero ed ebbe, come diretta conseguenza, la perdita
delle testimonianze dirette di buona parte di una generazione di cantanti che si
accostarono al disco poco e male, poiché all’ascolto delle lacunose registrazioni si ritraevano inorriditi: il celebre Hans von Bulow non poté far altro che svenire quando Edison, nei suoi stabilimenti americani, gli fece sentire il risultato
di un’incisione. La riprova ci è offerta da un curioso esperimento che il celebre
soprano svedese Birgit Nilsson volle tentare nel nostro Dopoguerra: incidere un
brano con la tecnica utilizzata per gli acustici a 78 giri; l’effetto fu disastroso e
la Nilsson, pur non svenendo, si ritrasse dal ritentare. Al di là della precarietà
del suono, risulta evidente che la documentazione offerta non poteva che essere
parziale: nel vinile, registrato a velocità di circa 78 giri al minuto, entrava solo
una pallida eco dell’opera. I limiti di durata imponevano una barbara selezione
e spezzavano la continuità dell’ascolto con non poco danno per l’integrità; favorivano una lettura antologica, che è il primo passo verso le moderne compilazioni: un’opera ridotta a una collana di pezzi celebri, a romanze per la gioia e
il consumo del grande pubblico di tutto il mondo; non entrava l’orchestra, che
negli acustici fu sostituita dalla banda; non entravano i cori. Il rapporto è andato via via migliorando nel corso del Ventesimo secolo. Le incisioni elettriche
hanno raggiunto una fedeltà che gli acustici ignoravano e il long playing ha superato il limite della durata. Dagli anni Cinquanta in poi si assistette alla produzione di registrazioni sempre più affascinanti, che marciava di pari passo col
mercato dei riproduttori: apparvero i complessi ad alta fedeltà costruiti per dare
credibilità alle voci e all’orchestra. In questo settore la ricerca della perfezione
porta a evidenti fenomeni di esasperazione e a soluzioni tecniche sempre più
sofisticate, non privi di aspetti esoterici se non patologici.
Questo accenno storico non è senza importanza per il tema che sto trattando, quello del rapporto tra opera e Internet. Presso l’utenza più giovane,
infatti, aperta all’uso della Rete, si assiste a un innegabile calo di sensibilità e
interesse verso la fedeltà della riproduzione. Senza cedere ad alcun atteggiamento di tipo moralistico, senza demonizzare alcun tipo di musica, va da sé che
alle nuove musiche si richiedono altre caratteristiche, diverse da quelle della
cosiddetta «musica colta» occidentale e, in particolare, dell’opera; lo stesso
spiegamento di mezzi sonori necessari alla realizzazione di un’opera lirica ben
difficilmente si comprime nella Rete. Non possono bastare alla bisogna i miserabili apparati riproduttori che corredano i Personal Computer di uso quotidiano e domestico e che certo non garantiscono neppure una pallida idea del prodotto. Essi però – ironia della sorte! – permettono un’ottima fruizione
dell’elemento video che oggi, grazie alla presenza del DVD, può essere goduto
con una definizione di immagine appagante. Il DVD supera ed elimina il VHS.
A sua volta – ironia dell’ironia! – il video di un Personal Computer permette di
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osservare un’opera con una definizione d’immagine che nessuno schermo televisivo tradizionale rende possibile. Oggi si affacciano sul mercato televisori ad
alta tecnologia che vi garantiranno la nitidezza del video del computer. In attesa che la situazione si riequilibri, l’opera ne discapita ed entra male in Rete; un
guaio non indifferente, se si considera soprattutto che esso avviene in un momento davvero critico per il mercato discografico operistico: dati alla mano ricavati dalle informazioni diffuse dalle case discografiche attive sul territorio
italiano, possiamo affermare con certezza che un buon DVD di opera – dove
per buono si intende con la presenza di artisti popolari – vende circa cinquecento pezzi. I CD sono crollati, fatta eccezione per Maria Callas e per Andrea
Bocelli: pare che il primo anno La vestale della Sony diretta da Riccardo Muti
non andò oltre i centocinquanta pezzi. Come si vede, si può dire che non esista
neppure un mercato. È vero però che il disco costituisce uno strumento che ha
sempre destato diffidenza nel melomane e che una larga parte del pubblico che
frequenta i teatri non ha mai voluto prendere sul serio; al contrario, si è sempre
opposta al disco, considerandolo oggetto di mistificazione, una delle cause implicite, se si vuole, ma sempre delle cause che hanno provocato il deterioramento dell’importanza delle voci. Il disco, invece, permette l’affermazione di
voci diverse, meno dotate ma più fonogeniche, di carriere parallele che non
avrebbero avuto lo stesso splendore se avessero dovuto affidarsi solo alle esibizioni pubbliche; permette aggiustamenti: sono ben noti i do della Schwarzkopf
prestati alla Flagstad nel Tristano e Isotta e il taglia e cuci dell’edizione integrale della Sonnambula cantata dalla Callas; casi gravi, ai quali si aggiungono
quelli meno gravi: le incisioni iniziate oggi e finite tre mesi dopo, le incisioni
realizzate part-time, con turni che non coincidono e con partner che non si incontrano. In realtà, pur all’interno di platee alquanto risicate (almeno rispetto a
quelle che fruiscono altri fenomeni musicali), l’opera lirica attira un pubblico
più vasto di quello che abitualmente acquista i dischi. Questo pubblico diventa,
o potrebbe diventare, il potenziale fruitore della Rete, alla quale però non accede la considerevole parte anziana degli spettatori che non ha dimestichezza con
il computer e con la Rete stessa. Questa è un’osservazione da non sottovalutare, perché oggi l’opera è spesso e volentieri un intrattenimento per la terza età:
lo dimostrano, per esempio, moltissimi turni operistici dei teatri, in particolare i
turni pomeridiani, dove l’età media va dai cinquant’anni all’epoca della morte,
che oggi arriva attorno agli ottant’anni per il sesso maschile e ai novanta per
quello femminile. A sua volta, però, Internet accoglie la corte dei miracoli degli interessati a vario titolo all’opera e al suo mondo; l’espressione «corte dei
miracoli» non paia eccessiva, essa non contiene alcuna sfumatura moralistica.
È vero che l’accesso, attraverso un motore di ricerca, al settore che risponde
all’indicazione «opera lirica» ci fa entrare in un vero e proprio guazzabuglio,
dove si trova tutto e il contrario di tutto. Nella Rete è come se vivessimo in un
mondo talmente democratico da essere anarchico: la caduta di ogni gerarchia di
valori, presenti invece nel mondo della carta stampata, non esiste in Internet.
La casa editrice che ci presenta il libro e la collana in cui viene editato sono già
di per sé motivazioni del valore del testo che andremo a leggere, sono la garanzia scientifica del testo stesso. Non è così in Rete, dove i siti si affastellano
l’uno dopo l’altro, dove i siti ufficiali si sommano a quelli amatoriali. Les amateurs, i dilettanti dell’Ottocento, quelli di stendhaliana memoria, non hanno
creduto ai loro occhi nel poter disporre di uno strumento che li equipara agli
studiosi, che umilia i critici musicali, quelli iscritti alle associazioni nazionali,
ai pubblicisti di lungo corso con le carte in regola per poter svolgere una professione. Tutti costoro hanno trovato in Rete lo spazio negato dall’editoria,
hanno riversato in Rete le loro ricerche, dove il meglio si assomma al peggio e
dove – mi sembra da come è costruita la maggior parte dei siti – non si sa nep50
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pure che cosa sia un apparato critico vero e proprio e quasi mai si cita la fonte
di quello che si dice. La situazione è alquanto caotica e, per giunta, manca al
momento una indicizzazione sistematica ragionata dei siti dedicati all’opera,
con una descrizione attendibile.
All’interno di un simile contesto, ho identificato alcuni tipi di siti che rientrano sotto il capitolo «opera lirica». Vi sono siti che rispondono al termine
«opera», siti che rispondono al nome di un compositore, siti che rispondono al
nome di un cantante, che, a loro volta, possono essere parte di siti che rispondono a nomi di riviste o di istituzioni musicali. Tutti i siti hanno una costante,
la scarsità di musica: pochi sono i siti che offrono la possibilità di ascoltare musica, numerosissimi quelli che permettono di osservare immagini, specie per
quanto riguarda i cantanti. Le gallery dei diversi siti sono infatti delle vere e
proprie miniere di immagini, tant’è che, per venire incontro a questa esigenza
generata dalla consultazione in Rete e dalle possibilità del supporto informatico, la Decca ha recentemente immesso sul mercato un CD con la possibilità di
utilizzo quale CD-ROM: all’ascolto dei brani si aggiunge un piccolo menù che
permette di consultare alcune utili rubriche, la migliore delle quali è certamente
la gallery contenente una serie di foto di grande interesse, fruibile nello splendore della definizione dello schermo del PC. Talvolta si incontrano interessanti
filmati, ai quali si accede direttamente con un piccolo esborso economico per
procedere all’istallazione del programma necessario: tra i molti casi, il sito
dell’INA francese, che permette di usufruire di una serie di interviste video della durata di un minuto ciascuno. Non mancano le eccezioni, per esempio, quella del Dizionario dell’opera registrata. Questo esempio è assai emblematico
della condizione della musica operistica su Internet. I brani offerti sono di breve durata. In questo, come in molti altri casi, trattandosi di materiale coperto da
diritti, viene trasmessa la manciata di secondi dovuta al diritto di informazione,
in genere incipit di arie. La qualità della riproduzione è carente, almeno per me,
con quella sensazione di prosciugamento del suono già lamentato in questo
Convegno. La funzione meramente esemplificativa della musica operistica in
Internet è confermata da tutta un’altra serie di siti. Tra i vari esempi, quello che
vorrei portare è offerto da un sito di grande consultazione, www.vitaminic.com.
Entrando in questo sito si ha la possibilità di accedere ai diversi generi musicali. L’opera è catalogata sotto la dicitura «musica classica»; individuati rapidamente gli autori, per ognuno di essi si può selezionare una serie di pezzi musicali relativi ai diversi titoli scelti. La prima caratteristica che balza all’occhio
selezionando, per esempio, Giacomo Puccini è l’evidente opinabilità delle scelte, delle quali anche il più abile affabulatore ben difficilmente riuscirebbe a
comprendere la logica. Faccio un altro esempio. Della Turandot si può ascoltare il coro del I atto, «Là sui monti dell’Est», al quale è toccato l’onore di rappresentare nel sito l’estremo capolavoro del musicista lucchese. L’ascolto,
come quasi sempre nella musica che compare in Rete, non va oltre una manciata di secondi. È impossibile, inoltre, risalire alla fonte della registrazione, il che
mette in drammatica evidenza un altro problema della musica operistica in Internet: la musica operistica che va in Rete è spesso di bassissimo livello; ragioni di diritti d’autore, legati allo sfruttamento delle registrazioni, che oggi si
estendono a quasi tutti i paesi civili a cinquant’anni dalla data di produzione,
sconsigliano l’uso di registrazioni di altro tipo, sulle quali sarebbe necessario
pagare i diritti e, di conseguenza, dare vita a siti a pagamento per l’ascolto della
musica. Quest’ultima osservazione ci permette di introdurne un’altra: il basso
livello della musica operistica che va in Rete ci spinge a pensare che l’utilizzo
di questo materiale non sia legato alla conoscenza di un titolo, dello stile
dell’autore o della sua evoluzione; mi sembra che emerga in questo caso quella
che è la vocazione della Rete e, in fondo, degli strumenti informatici: essere un
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data-base. Che cosa significa? Significa che il frammento della Turandot può
essere consultato come una citazione in un catalogo di pezzi che possono essere utilizzati da chi ha bisogno di un’informazione rapida, da usarsi al di fuori di
un contesto o di un percorso storico-critico; da usarsi come esempio musicale
da aggiungere a una video-presentazione. Un utilizzo spiccatamente commerciale è invece quello che si può osservare in un sito frequentatissimo come
www.promoart.it. Esso è utilizzato come un ampio portale dedicato alla musica
in genere. Si possono ricavare informazioni di vario tipo e trovare anche la possibilità di scaricare della musica. C’è, per esempio, un settore dedicato agli interpreti della lirica, dove la scelta è riservata a un numero limitatissimo di cantanti, i soliti noti: la Callas, la Tebaldi, Corelli, Pavarotti e pochi altri. Di
ognuno di loro viene fornita una discografia e, accanto ad alcuni titoli di essa,
compare il simbolo del diffusore che ci indica la possibilità di ascoltare musica
per una manciata di secondi. La scelta è condotta in maniera più organica che
non nel sito precedente; per esempio, se ci riferiamo alla Norma della Callas si
ascolta l’incipit di uno dei brani più celebri dell’opera. Rispetto agli esempi
musicali dei precedenti siti, abbiamo l’indubbio privilegio di sapere di quale incisione si tratti, di conoscere i cointerpreti del passo, la sigla della registrazione
originale da cui è tratto l’ascolto. Non è un privilegio da poco. Quale utilità ha
questo frammento di musica operistica che possiamo ascoltare? Ne individuo
due: una, informativa, permette di fornire al curioso un’idea, seppur generica,
di come fosse la voce di Maria Callas; l’altra, commerciale, permette di invogliare il navigatore verso l’acquisto dell’edizione integrale dell’opera di cui si è
ascoltato il frammento. Vero è che in questo sito è presente anche qualche intento nobile. Rimanendo sempre a Maria Callas, ci accorgiamo infatti che possiamo ascoltare non soltanto frammenti di edizioni EMI, la casa con la quale la
Callas ebbe un contratto esclusivo, ma anche di edizioni live. Si tratta di registrazioni piratesche che violano la legge sui diritti, dal momento che rientrano
nello spazio dei cinquant’anni. Non vi è dubbio che chi ha operato le scelte lo
ha fatto anche con intelligenza. Abbiamo, per esempio, la facoltà di ascoltare
un frammento dell’Andrea Chénier scaligero che la Callas eseguì nel 1955,
esecuzione di massimo interesse captata e diffusa da etichette live. È vero che
di questa esecuzione esistono dischi live che circolano nel mondo, specie negli
Stati Uniti, ma è anche vero che, in questo caso, l’obiettivo dell’informazione
sembra prevalere su quello commerciale. Perché allora non mettere tutta l’opera in Rete?
I problemi dei diritti sono noti: la vicenda di Napster, della quale ci hanno
informato i giornali, è sotto gli occhi di tutti. D’altronde i navigatori a oltranza
sanno che in Rete c’è tutto e che nei suoi anfratti più nascosti vanno in circolo
incisioni complete non solo sonore: interi DVD navigano da un punto all’altro
del mondo. La loro fruizione però richiede competenze informatiche che vanno
al di là delle capacità di un normale utilizzatore di PC, presuppongono la messa
a punto di programmi e la capacità di usare con vera competenza lo strumento.
Si rivela anche in questo caso lo spirito degli hacker e la loro filosofia eversiva,
che è il punto forte della Rete, che distrugge il concetto di proprietà artistica, di
diritto d’autore, con tutto quello che questo comporta. Proviamo a girare il problema della musica operistica in Rete agli esperti del settore, cioè a coloro che
hanno gli interessi maggiori, vale a dire i discografici. Rivolgiamoci pure agli
uffici della Universal della sede di Milano, il colosso che riunisce ben tre etichette fondamentali: Deutsche Grammophon, Decca e Philips. Niente di certo
viene da loro, se non progetti in ampio stato di avanzamento. Il settore trainante è la musica che – perdonatemi – qui definisco pop, rock, ecc., giusto per determinarne il modello. È prevista dunque la possibilità di entrare nei siti ufficiali
delle diverse case discografiche, che creeranno, tra i molti, due tipi di utenza
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musicale della Rete: un primo sarà determinato dalla possibilità di offrire agli
eventuali acquirenti una newsletter mensile, corredata da brevi promo del prodotto che andranno poi ad acquistare in CD presso i rivenditori; un secondo
tipo di utenza è determinato dalla possibilità di acquistare direttamente dalla
Rete i brani di un CD virtuale o di tutto il CD; l’acquisto dovrebbe essere reso
possibile da un sistema che, dopo aver permesso di scaricare il brano, garantisca che si possa arrivare ad attirare ad una copia del prodotto senza ulteriore
possibilità di duplicazione, pena il suicidio della casa discografica stessa
(hacker permettendo). Un problema da superare è quello del prezzo. Negli Stati
Uniti il prezzo del brano si aggira sui due dollari. Ciò significa che il costo di
un brano andrebbe attorno alle quattromila lire circa (due euro). Cosa significa?
Che il corso di recite al Lirico di venti tracce potrebbe arrivare attorno alle ottantamila lire, prezzo assurdo e colpo micidiale per un mercato, quello classico
in generale e quello lirico in particolare, ridotto già al lumicino. E il costo di
un’intera opera lirica quale sarebbe? Una ulteriore difficoltà mi sembra sorgere
ogni volta che ci si allontana da un utilizzo della Rete che non sia quello informativo di un data-base: una volta acquistato un brano, di che cosa sono padrone? Di un pezzo di musica che potrò con qualche fatica trasferire su un CD di
mia produzione. Ma l’editoria non è in ogni caso capace di offrirmi un prodotto
migliore da un punto di vista tecnico e più completo da quello editoriale, per la
grafica di presentazione, il corredo di notizie e di immagini, la componente feticistica che è propria di ogni collezione e che giustifica l’esistenza stessa di
una collezione? Quanto dovrebbe essere il tempo che dovrei impiegare per
confezionare il mio prodotto? E con quali risultati oggettivi? C’è poi un altro
problema di carattere artistico, che mi sembra utile sollevare dal momento che
non è superfluo: il disco, come il libro, nei casi migliori non è una compilazione di brani che si affastellano gli uni sugli altri senza una logica bensì un percorso. Cito un esempio. Quando Carlo Bergonzi incise il celebre album di tre
long playing, contenente tutte o quasi tutte le arie per tenore di Verdi, non fece
una compilation ma offrì all’ascoltatore un percorso che aveva come scopo
quello di dimostrare la fondatezza del concetto di voce verdiana e la possibilità
di disporre in una sola voce di tutti i requisiti per affrontare un repertorio
che andava da Oberto a Falstaff. Il valore di quell’incisione consiste nell’idea
che racchiude: la possibilità di accedere a una collana di pezzi incisi da Bergonzi in tempi diversi e disposti in ordine alfabetico di pezzo o di autore non è
di per sé un ulteriore impoverimento? La risposta sembra immediatamente individuabile, anche se a qualcuno una simile preoccupazione di natura schiettamente critica può apparire eccessiva. In realtà non lo è affatto. Ogni antologia che si rispetti ha una logica editoriale, che è già di per sé la prima e spesso
più importante chiave di lettura dell’antologia stessa, che è appunto quanto dovrebbero ricordare i recensori. D’altronde, devo lamentare che sul mercato di
veri e propri recensori ce ne sono pochissimi: molti scambiano la recensione
per un saggio musicologico (e non lo è), altri per uno sfoggio di vociologia (e
non lo è). Si dovrebbe parlare del disco e della filosofia che sta sotto all’idea
stessa che ha portato a quel progetto e a quella realizzazione. Ciò vale anche
per il disco, che nella musica classica colta, strumentale e operistica, si configura sempre come uno strumento culturale e non solo come momento di evasione, magari anche alta. Purtroppo questa caratteristica del disco di musica
colta ha sempre stentato ad essere riconosciuta, specie in Italia; il disco di musica colta ha sempre stentato a essere collocato sullo stesso piano culturale del
libro. Vero è, tornando all’esempio del sito www.promoart.it, che la selezione
dei frammenti della discografia di un interprete indica semmai un potente utilizzo del mezzo informatico, Rete o non Rete che sia, laddove si trovasse chi
voglia utilizzarlo bene: la creazione di una banca-dati di voci che potrebbe di
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volta in volta diventare sterminata, fino ad assommare la maggior parte delle
voci che si sono accostate al disco. Penso a cosa potrebbe essere un lessico
come il celebre e, allo stesso tempo, famigerato – chi lo usa sa il perché – Kutsch & Riemens, se a ogni voce riguardante i cantanti elencati nei sei volumi
comparisse anche un esempio musicale della voce stessa. Ancora più interessante sarebbe poi selezionare gli esempi non in base al principio di offrire una
pagina ben cantata da quel cantante ma in base alla possibilità di individuare le
caratteristiche peculiari della voce stessa, secondo i parametri dell’estensione,
dei colori, dello squillo, della penetrazione dei gravi, della dizione. Lo stesso limite della manciata di secondi potrebbe persino diventare un pregio, e un pregio di grande efficacia, dal momento che il tempo limitato lo trasformerebbe in
una sorta di lente di ingrandimento.
Tutti sappiamo quale magnifico risultato si possa ottenere dal connubio
suono/parola attraverso lo strumento informatico: la possibilità di veder scorrere una partitura mentre ne ascoltiamo l’esecuzione; oppure di procedere
all’analisi dei pezzi osservando e ascoltando: è stato fatto egregiamente negli
ottimi CD-ROM che Umberto Eco ha curato per la Mondadori; penso all’anatomia di taluni passi, come quelli del Combattimento di Tancredi e Clorinda di
Monteverdi. In questo caso, però, il problema è di ordine diverso, cioè di compressione degli spazi e di occupazione dello spazio sullo strumento informatico, che costringe, almeno finora, a limitare il tipo e la durata di esempi di questo genere. C’è poi da considerare che un simile tipo di prodotto interessa un
pubblico ristretto, non credo che potrebbe interessare i ragazzini che girano per
strada «incollati» al telefono cellulare. Ha poi bisogno di una equipe fortemente specializzata per essere costruito a dovere, una equipe competente sia dal
punto di vista informatico sia musicale, con le necessarie garanzie scientifiche
che un prodotto di questo genere comporta. Se rimaniamo ancora ai siti che
veicolano musica in Rete, dobbiamo necessariamente fare un terzo esempio,
quello delle radio. Come tutti sanno, attraverso la Rete è possibile sintonizzarsi
su radio e, nella spaventosa miriade di emittenti che si offrono al navigatore,
alcune sono specializzate in musica colta. Non sono a conoscenza di emittenti
specializzate solo in musica lirica. In questo caso, però, trattandosi di emittenti
che trasmettono musica senza legare i diversi pezzi in trasmissioni ragionate,
ritornano, come è evidente che sia, gli stessi problemi che abbiamo già messo
in evidenza nei casi precedenti in merito ai criteri di selezione e di affidabilità.
C’è poi da considerare un altro aspetto del rapporto opera/Internet. Esso riguarda i siti che offrono informazione e non musica o che, offrendo anche musica,
non hanno in questo servizio il requisito principale. Anche in questo caso bisogna fare alcune distinzioni, che producono una notevole differenza sulla valutazione dei siti stessi.
Sarebbe utile e interessante poter arrivare a una mappa generale dei siti
presenti in Rete; al di là dell’evidente difficoltà per il numero e per la descrizione di ognuno di essi, la catalogazione deve fare i conti con il problema della
mortalità dei siti stessi. La scomparsa di un sito determina la sparizione del
sito, che è un fenomeno ben diverso dall’uscita di un libro dal catalogo: il libro,
mi sembra, lascia più traccia, finisce in una biblioteca, risulta conservato; chiedo in questa sede se esista l’analogo di una biblioteca dei siti di Internet, un
luogo virtuale dove tutti i siti possano essere conservati nei secoli. Al di là di
questo fatto, i siti di carattere meramente informativo offrono materiale di diversa natura e, come abbiamo avuto modo di notare in apertura di questa relazione, possono essere legati a un autore, a un cantante. Spesso queste informazioni sono contenute in un unico sito e nelle diverse configurazioni dello
stesso; così come nei siti dei principali teatri d’opera di tutto il mondo si trovano stratificate informazioni di carattere diverso. Faccio un esempio abbastanza
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emblematico di questa particolarità. In tempi recenti è ritornata alla ribalta in
Europa un’opera lirica della prima metà del XX secolo. Si tratta dello Sly di Ermanno Wolf-Ferrari, compositore eclettico per formazione e stile. Ermanno
Wolf-Ferrari è per metà italiano e per metà tedesco, eppure la rinascita del suo
capolavoro è dovuta a un artista spagnolo, José Carreras, che ha fornito un’apprezzata interpretazione del personaggio. Troveremo numerose informazioni
sul sito degli Amici dell’Istituto di Barcellona o sul sito del Teatro stesso; vi
compare in una doppia versione spagnola e inglese, una sorta di programma di
sala con studi sull’opera. Accanto si trovano informazioni sulla cronologia della rappresentazione dell’opera e poi si passa a informazioni sul protagonista
della ripresa, José Carreras. Poiché l’allestimento dello Sly è andato in scena a
Barcellona (proveniva da Zurigo), nel sito si è aggiunta una serie di recensioni
su Carreras che offre, accanto alle informazioni musicologiche, anche una sorta
di rassegna stampa. Tutto questo, ma in maniera più compendiata, si può trovare anche sul sito dell’Opernhaus di Zurigo, dove quel che sul sito spagnolo occupa uno spazio di sei pagine è ridotto allo spazio di una sola pagina. A chi è
deciso a scaricare il materiale e a stamparlo poco importerà; per chi, invece, intende limitarsi a leggere l’intervento direttamente sullo schermo fa una certa
differenza, poiché il sito di Zurigo sarà preferibile. Come si può vedere da questo esempio, un sito d’opera sì fatto permette un itinerario formativo che è più
libero e sciolto di quello di un libro, che è concepito secondo la logica tradizionale: in questo caso è più immediato il passaggio tra diversi tipi di informazione e, laddove ci siano anche dei piccoli esempi musicali, è più immediato il
passaggio dalla parola alla musica. Come sempre – e il sito in questione ce lo
mostra in modo abbastanza evidente – la carta della Rete è vincente nella sua
funzione di data base. Se per le lunghe riflessioni di carattere critico, che richiedono altre modalità di lettura, non ci sembra che la Rete sia la sede adatta,
per la rassegna stampa dell’edizione di Carreras diventa utilissima, dal momento che permette di raccogliere, in poco tempo e in uno spazio relativamente
breve, una serie di dati provenienti da fonti diverse difficilmente raggiungibili
altrimenti. Per non parlare delle cronologie… La Rete diventa un insostituibile
strumento di lavoro per chi concentra l’attenzione sulla raccolta dei dati, sempre però nell’ambito di una concezione anarchica della diffusione del sapere,
affastellato in una sorta di biblioteca che richiama quella dove finisce i suoi
giorni il povero Mattia Pascal. A questo proposito, vorrei fare un altro esempio.
Immaginiamo di accingerci alla ricerca in Rete di notizie su Rossini, iniziando
da quelli che dovrebbero essere i due siti deputati, quello della Fondazione
Rossini di Pesaro e quello del Rossini Opera Festival. Dovremmo trovare molto e invece troviamo poco, per pigrizia forse o per gelosia di rendere disponibili
a tutti i preziosi materiali scientifici che specie la Fondazione produce. Andiamo, allora, alla home page della musica italiana che fa capo al CILEA (Consorzio Interuniversitario Lombardo per l’Elaborazione Automatica). Da qui si procede per approssimazione attraverso rami diversi: gli studiosi alla ricerca di
materiale per prove di alto livello finiranno sul sito del Sistema bibliotecario
nazionale e, da lì, su quello dell’Istituto centrale per il catalogo unico; gli altri,
magari semplici curiosi, visiteranno altri siti, per esempio quello prezioso di
Opera Glass, che fa capo all’Università di Stanford; si troveranno infatti sul
sito Opera Stanford, nella sezione «Opera», e qui troveranno libretti di opere
rossiniane, trame e altre notizie utili; oppure vireranno sul sito www.opera.com
e qui troveranno notizie di ogni genere, dalle recensioni ai dati sui cantanti. Si
dovrebbe dire che chi si dedica a questo particolare tipo di ricerca attende
all’aggiornamento soprattutto del teatro moderno, più che di notizie storiche, e
la Rete risulta indispensabile. Troveremo trame, troveremo notizie di vario genere e troveremo anche ascolti, seppur limitati, che all’interno di un sito come
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questo hanno un senso e una collocazione che altrove non abbiamo trovato. A
chi però daranno soddisfazione? E a chi serviranno? A un nuovo tipo di fruitore, che concentra tutta la sua attenzione sul computer e ha dimenticato i precedenti strumenti di riproduzione? Se così fosse, si tratterebbe di un nuovo tipo di
consumatore di musica e notizie usa e getta, che ha ben poco a che vedere col
vecchio e ormai obsoleto cultore dell’alta fedeltà, in cui il disco trasformava
l’accostamento all’opera lirica in un’avventura personale preziosa, proprio
come la lettura di un libro. Questo è un particolare che in fondo non è mai stato
sufficientemente compreso; voglio dire che si è capito poco che il disco andava
a configurarsi come un’avventura culturale a latere di quella di assistere a uno
spettacolo d’opera: si ascolta una sinfonia di Beethoven o un’opera di Verdi
come si legge un romanzo, e il fatto di poter interrompere l’ascolto dopo una
romanza può essere dovuto non solo allo squillo del telefono ma anche a una
intima necessità di meditazione che porta, per esempio, a una sorta di monologo interiore o a un altro tipo di collegamento; ed è un’avventura spirituale – per
chi la pratichi ancora – non indifferente ed estremamente importante. Oppure
siamo di fronte a un consumatore così vorace che, non contento dei normali
strumenti editoriali, vuole avere una sempre più ricca messe di notizie? È
un’ipotesi.
Diffusione e riproduzione: così recita la prima parte del titolo di questo
Convegno. Siccome, insegnano i manuali, il titolo è una soglia, un accesso al
luogo che intendiamo visitare e scoprire, il rapporto fra opera e Internet si riassume solo ed esclusivamente nel termine «diffusione». La Rete è uno strumento che permette di diffondere una serie di notizie che ruotano attorno all’opera,
ai suoi contenuti e a i suoi interpreti, lasciando per ora in ombra il contenuto
stesso dell’opera, cioè la musica; essa nella Rete recita un ruolo secondario e,
dal momento che stiamo parlando di diffusione, c’è da chiedersi se non dovrebbe invece essere la Rete lo strumento di diffusione e di distribuzione della musica stessa. Abbiamo già accennato nel corso della mia relazione – giova ribadirlo adesso – che la Rete contiene questa potenzialità di diffusione anche della
musica, cioè del contenuto dell’opera. Oggi, nelle comuni modalità di ascolto,
cioè nell’uso casalingo e quotidiano della musica, il trasferimento della musica
operistica, in particolare di un’intera opera, dalla rete al CD è operazione da
scoraggiare qualsiasi utente sano di mente, che non sia votato alla consolle del
PC per il gusto di trafficare e di divertirsi proprio nella parte tecnica, cioè nel
trasferimento stesso. Deve prima essere rimossa una serie di ostacoli tecnici
non secondari. Tuttavia, non mi sembra questa la strada intrapresa dal PC e
dall’industria che lo sostiene, non mi sembra che questa vada con la determinazione necessaria verso quel processo di semplificazione utile, ammesso che sia
possibile, che rende lo strumento alla portata di tutti come un frullatore o un
aspirapolvere. C’è poi l’altra parte del titolo, quella che recita in maniera interlocutoria «un problema di qualità?». Senza assumere atteggiamenti moralistici
che – devo confessarlo – sono propri di chi ascolta la musica colta nei confronti
di chi ascolta altri generi musicali, e senza addentrarmi in ragioni tecniche che
non mi competono, sulle quali altri oggi in questo Convegno ci hanno intrattenuto, il termine «qualità» mi sembra l’ultima preoccupazione di chi oggi immette musica operistica nella Rete. Il termine «qualità» presuppone che si concentri l’attenzione sul contenuto, cioè sulla musica. In realtà – lo abbiamo visto
e mi sembra ampiamente condivisibile – per l’ascoltatore d’opera la Rete si offre come il completamento di un ascolto che deve avvenire in altro modo: o
nella modalità più tipica, che è quella del teatro, o nella modalità più corrente,
che è quella del disco. Nel primo caso, la Rete non ha mancato, non ha cercato
e non cerca di catturare anche gli spettacoli: vale la pena di ricordare le messe
in onda di interi spettacoli operistici in Rete, come la Carmen ravennate di
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qualche anno fa, con José Cura, in diretta dal Pala De André. Lo sforzo di simili iniziative è lodevole e notevole, perché ripropone la necessità di sposare assolutamente l’opera al mezzo televisivo, salvo accorgersi ogni volta che l’opera
nel mezzo televisivo non ci sta per una somma di motivi che sappiamo, a cominciare dai diversi tempi; né mai ci starà. Nel secondo caso, la Rete si propone come succedaneo: in fondo, qual è la funzione della Rete rispetto al disco?
Nessuna, almeno mi pare, se non quella di fornire la possibilità di procurarsi il
materiale sonoro da una fonte di distribuzione diversa rispetto a quella del negozio di dischi. Non mi sembra che la Rete cambi le modalità della fruizione
dell’opera rispetto a quanto si è verificato nel XX secolo e, laddove la cambi, la
cambia in peggio, perché fa precipitare in maniera definitiva e clamorosa la
sensibilità della musica e, poiché parlo di opera, la coscienza della voce, che
oggi va addirittura completamente perdendosi: sessant’anni fa tutti distinguevano perfettamente la diversità tra una voce di cantante d’operetta e la voce di un
cantante d’opera; oggi è già dubbio che un giovane che si accosti alla musica
abbia idea che possa esistere un concetto di voce impostata diverso da quella
che normalmente fruisce, specie se la fruisce attraverso un telefonino.
Nel XX secolo il disco ha sostituito l’ascolto teatrale e creato un parallelo rispetto alla diretta presenza in teatro o alla presenza mediata ma in tempo reale della diretta radiofonica o televisiva. In ultima analisi, proprio alla luce di quanto appena affermato, in fondo al critico d’opera la Rete non porta nulla di nuovo e
rimane per ora uno strumento di diffusione decisamente imperfetto. Su questo
punto non dobbiamo disperare, perché abbiamo visto come il 78 giri abbia saputo
redimersi. Così farà anche la Rete ma il guaio è che essa produrrà il disastro definitivo della percezione d’ascolto o, almeno, la modificherà definitivamente con la
perdita di una sensibilità che è in atto, la perdita della qualità del suono: la possibilità di costruire suoni virtuali costruirà un’immagine virtuale del suono stesso.
Qualcuno dirà che era così anche all’epoca del 78 giri ma non mi troverà d’accordo, perché il melomane-tipo di allora conosceva l’opera dal vivo e aveva conoscenza e coscienza della voce, di cui a casa cercava l’eco nel disco, che riconosceva imperfetto. Oggi, invece, avviene l’esatto contrario: il melomane (non oso
pensare il ragazzo che si imbatta casualmente nel sito, ammesso che nelle nuove
fasce di utenti, soprattutto dei giovani, ce ne siano) conosce l’opera dalla Rete,
forse andrà a teatro e forse non ci andrà mai; forse avrà coscienza della voce senza
microfono e forse non l’avrà mai. Avrà coscienza della voce filtrata da altrettante
coscienze della voce, che sono quelle dei diversi generi musicali: questo è estremamente importante, e mi capitava di meditarci stamattina assistendo a una messa
nella chiesa di Santa Maria in Monterone, dove cantavano delle suore africane di
lingua francese. Cantavano benissimo, ovviamente una musica loro; e pensavo
che la presenza di queste suorine in quella chiesa, che dava un risultato buonissimo, distruggeva l’opera lirica: cosa ne sanno queste suorine di voci impostate?
Cosa ne sanno della nostra tradizione liturgica? Eppure, probabilmente, se ci fosse
stato un coro a cappella che eseguiva Palestrina avrebbe potuto infastidire qualcuno, sarebbe potuto sembrare un’anticaglia, mentre le suorine che cantavano in
quella maniera sono una testimonianza bruciante del mondo moderno, sono sostanzialmente un uso della voce che, al di là dei melomani e degli specialisti, è altrettanto valido. D’altronde – riprova didattica – tutte le volte che mi capita, per
esempio nei seminari universitari, di fare ascoltare loro l’opera, i ragazzi sono interessatissimi a una mole enorme di problemi, come il rapporto con la tragedia
shakespeariana, la drammaturgia, ecc. ma, alle domande «che cosa vi infastidisce?», «cosa vi è più difficile da capire?», la risposta è immancabilmente «l’uso
della voce», il fatto che questi signori cantino in quel determinato modo. E arriviamo così all’eresia di Battiato, il quale, nel corso di un’intervista che gli feci, affermò che forse La traviata circolerebbe nuovamente come testo assolutamente
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popolare, laddove venisse cantata da voci che non siano più impostate, dal momento che l’impostazione della voce (era una provocazione) costituisce il muro
invalicabile oltre il quale difficilmente si riesce ad andare. Il guaio è che i generi
occidentali, orientali, africani non colti hanno oggi maggior presa e più mercato
dell’opera lirica, destinata a mutarsi come tutto e a perdere la maggior parte del
suo fascino, che risiedeva proprio nella qualità del suono, nella sua sensualità.
Purtroppo la Rete non può veicolare tutto questo e, se mai lo farà, sarà troppo tardi. Penso a un tipo di voce alla quale ho dedicato molto studio, quella russa della
prima generazione di cantanti che si sono ascoltati in disco. Cantavano in maniera
assolutamente diversa ma, come è stato ricordato oggi, vivevano anche in una società diversa, dove la percezione del suono e del rumore era assolutamente diversa; e diverso era cantare di fronte allo zar al Palazzo d’inverno, dove quelle che
oggi sono svenevolezze facevano parte della raffinata educazione all’etichetta di
corte. Faccio un ultimo esempio. Pensate a una frase come quella di «L’amor ti
vieta» della Fedora di Giordano. Questa frase viene cantata, all’interno di un
Grand Salon parigino, da un signore in abito da sera che si accinge a fare la corte
a una dama russa. È ovvio che poteva essere cantata dai primi esecutori in maniera
estenuata, ma quel modo di fare la corte, il vestirsi da sera, il presentarsi in una
certa maniera, con la marsina, a un ricevimento era assolutamente normale, mentre oggi sarebbe quanto meno ridicolo. Quelli che oggi passano per raffinati signori sarebbero in realtà accolti come autentici buzzurri e probabilmente messi alla
porta in un Grand Salon dell’Ottocento parigino. Di pari passo va la voce.
All’utente medio non interesserà nulla di tutto questo, come nulla interessa
alle multinazionali del disco, che sono strutture finanziarie preoccupate di dare
dividendi agli azionisti, non già mecenati e protettori dell’arte, soprattutto di
quella operistica, il cui mercato non rende nulla.
CARLO MARINELLI
Grazie, dottor Landini. Marco Benedetti vorrebbe fare una domanda.
MARCO BENEDETTI
Se ho capito bene, lei ha affermato che ci sono melomani sulla Rete.
GIANCARLO LANDINI
Traggo l’osservazione da una pratica di frequentazione dei teatri e del pubblico teatrale ma anche dell’acquirente medio del disco operistico. Si tratta di
un pubblico estremamente ristretto e, all’interno di esso, il cosiddetto pubblico
tradizionale, quello che devo ancora constatare se verrà sostituito da un pubblico giovane, è senza dubbio una minoranza, tanto è vero che questa crisi già si
avverte nel mercato del disco. Come lei sa meglio di me, le case discografiche
danno dischi da recensire solo a testate che abbiano un sicuro impatto sul mercato; se i cofanetti sono composti da molti dischi vengono distribuiti in numero
limitato, con passaggi personali, a mano, e a condizione che vengano recensiti.
All’interno di questo panorama, mi chiedo quanto un fruitore della Rete potrà
costituire un pubblico vero, un pubblico che giustifichi un mercato.
MARCO BENEDETTI
Stando alla mia esperienza, i siti operistici amatoriali sono frequentati da
melomani assolutamente sfegatati, i quali usano questo canale per scambiarsi
discografie, informazioni, ecc.
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GIANCARLO LANDINI
Capisco cosa intende dire, ma io parlo del melomane che non fa parte del
pubblico «ammalato». Frequentando i teatri della penisola troverà una fetta di
pubblico che si sposta di città in città e che frequenta ossessivamente tutti gli
eventi. Personalmente, non giudico questo un pubblico normale.
MARCO BENEDETTI
Se fossero tutti come me o il professor Marinelli forse il mercato del disco
non sarebbe in crisi!
GIANCARLO LANDINI
Mi perdoni, per me il professor Marinelli non è un feticista ma uno studioso, cosa ben diversa. Personalmente, poiché da quando è stata fondata gestisco
la rubrica discografica della rivista L’Opera (in precedenza scrivevo per Musica), possiedo tra vinile e CD diecimila dischi d’opera, visto che tutto quello
che viene prodotto mi viene dato in duplice copia. Ma questo non ha molto a
che fare con il discorso che facevamo.
CARLO MARINELLI
Landini, il problema è un altro. Carlo Marinelli Roscioni non possiede
neanche un disco perché ritiene – giustamente – che l’opera vada ascoltata in
teatro. Gira per i teatri e, in genere, ascolta solo le novità, non certo la venticinquesima Norma. È vero tuttavia che i problemi che lei ha posto esistono, ma è
altrettanto vero che ci sono sempre stati. Lo ha detto lei stesso: ai suoi inizi il
disco non poté testimoniare le qualità di una certa generazione di cantanti, perché questi non ne volevano sapere. Per quanto riguarda il suo studio sui primi
russi, le suggerirei, in aggiunta a quanto sta già facendo, un altro elemento.
Quella situazione ambientale consentì ai cantanti russi di conservare una relazione col canto ottocentesco che si era cominciata a perdere e si era persa del
tutto nel resto d’Europa. Questo è preziosissimo e si avverte ancora nei dischi
della Melodija fino alla fine degli anni Quaranta. L’apertura all’Occidente di
Chruπ≈ëv diede poi spazio ai Vladimir Atlantov – per limitarci ai tenori –, i
quali presero tutto il peggio della tradizione italiana distruggendo la tradizione
russa, che altro non era che la tradizione europea.
Personalmente, non credo nel futuro dell’opera in Internet. L’opera è destinata a sopravvivere come museo perché non è più attuale: oggi nessuno
scrive un’opera con i criteri di un tempo. Nuove opere vengono composte ma
con criteri del tutto diversi, e se si mette in scena The Death of Klinghoffer o
Nixon in China di Adams si ha bisogno di cantanti diversi; se poi si mettono
in scena opere interessantissime come la Trilogia di Glass si ha bisogno di
cantanti ulteriormente diversi, perché il Minimalismo richiede un certo tipo
di impostazione della voce. Ci saranno sempre meno interpreti in grado di
cantare la Norma o un’opera di Mozart e, di conseguenza, l’opera finirà in
museo. E qui veniamo a un altro discorso. Il discorso di fondo della Rete – e
significativa e centrale a questo proposito è stata la relazione di De Bernardinis – è fondato su una concezione totalmente privatistica del rapporto con
l’arte e con l’informazione di carattere artistico. Per converso, la storia
dell’opera è fondamentalmente statalistica. Nata come opera di corte, è continuata come tale anche quando è diventata opera borghese del teatro borghese:
se lo Stato rinunzia alla sua funzione di garante della cultura della collettività
l’opera è morta.
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GIANCARLO LANDINI
Oppure si riduce ai miserabili prodotti dell’impresariato privato, con costi
che, peraltro, l’impresariato privato non è in grado di sostenere.
CARLO MARINELLI
Le esperienze più interessanti vengono oggi realizzate da entità statuali locali, regionali, provinciali e così via, sulla base di rivendicazioni campanilistiche, magari per celebrare glorie locali. Solo in questo caso i soldi vengono spesi ma l’oggetto non è più l’opera, è la rivendicazione di una identità locale.
Facciamo una pausa per il caffè.
(pausa)
Grazie alla cortesia del dottor Long, possiamo esaudire il desiderio del professor Ramello di parlare questo pomeriggio. Do la parola al professor Ramello
dell’Università LIUC di Castellanza.
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GIOVANNI RAMELLO
Il mercato discografico tra presente e futuro tecnologico
Devo innanzitutto ringraziare il professor Marinelli per l’invito e l’ospitalità nonché tutto lo staff dell’I.R.TE.M. che ha fatto miracoli per permettermi
di partecipare a questo Convegno. Ringrazio anche Mr. Long per la cortesia e
mi scuso per l’imprevisto che mi costringe a partire questa sera.
Rispetto a quelli aulici che sono stati finora affrontati, i temi di mia competenza riguardano la «bassa cucina», in quanto mi occupo di economia dei mercati dell’informazione e della comunicazione. Di conseguenza, non starò a valutare i criteri estetici che riguardano la musica e la sua diffusione attraverso i
nuovi media e mi limiterò a dar conto di qualche aspetto dell’organismo economico che si chiama «mercato discografico» ed, eventualmente, del suo divenire
ancora un po’ confuso nell’era di Internet e della telematica in generale.
Come sappiamo, il mercato discografico non è un’entità che ha una storia
assoluta ma nasce in un certo contesto storico dal binomio tecnologia-diritto.
La fisionomia del mercato fonografico o discografico nel suo carattere attuale
nasce da un preciso evento storico, l’invenzione del fonografo. Questo strumento consente di reificare i suoni, cioè di trasformare il suono, che ha una natura fluida, in un oggetto tangibile, concreto, che nella società può essere scambiato con altri oggetti. Questo evento ha una portata eccezionale. Prima di
allora, infatti, l’informazione, per propria natura, aveva una dimensione pubblica, collettiva, e poteva essere prodotta e fruita (non uso la parola «consumata»,
almeno non per ora) dagli individui in un ambito comunque collettivo. La reificazione dei suoni, invece, ha portato alla sua trasformazione in un bene privato
o, per lo meno, privatizzabile. Ovviamente questo fenomeno ha conseguenze di
vasta portata e di diversa natura, anche sociologica. Un esempio spesso citato è
quello della cosiddetta «schizofonia»: la reificazione dei suoni fa sì che un suono possa essere estrapolato da contesti collettivi e inserito in ambiti diversi.
Non tratterò questo argomento perché non fa parte del mio intervento.
Eloquentemente la definizione migliore della fonografia viene data da Edison, l’inventore del fonografo, il quale parla della sua invenzione come di un
canned sound, cioè di suono in scatola. L’idea di Edison è proprio quella di inscatolare i suoni e pare che essa sia stata accolta con un certo slancio dall’industria che ne è nata successivamente. La tecnologia permetteva di inscatolare i
suoni ma non era di per sé sufficiente a dare impulso vitale al mercato, impulso
che è invece nato da un mastice giuridico, il diritto d’autore o copyright, a seconda del sistema giuridico che si considera: quello dei paesi cosiddetti di civil
low, tra i quali l’Italia e la Francia, o quelli di common low, come l’Inghilterra
e gli Stati Uniti. Tra i due esistono alcune differenze normative che trascurerò
in questa trattazione. Si può dire che, se la fonografia fornisce la tecnologia per
inscatolare i suoni, la legge del copyright permette poi di chiudere bene il coperchio della scatola, di dare l’avvio e di far funzionare il mercato fonografico.
Vorrei sottolineare un passaggio importante in questo divenire degli eventi: la
sfera pubblica della musica viene frammentata in tanti prodotti privati o privatizzabili, nel senso che il diritto d’autore o copyright è una categoria di proprietà molto specifica, quella intellettuale, che permette a qualcuno di diventare
titolare di una informazione. Questa novità (che ha in realtà una storia lunga
ma che viene applicata con determinazione solo a partire dall’inizio del Ventesimo secolo) è molto importante, perché altera il rapporto che gli individui han61
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no con le informazioni e le idee di vario genere, tra le quali la musica. Paradigmi simili a quelli che sto descrivendo si possono riscontrare in molti settori diversi, non soltanto in quello musicale, ma, in un certo senso, il mercato fonografico è un po’ il modello al quale si ispirano i mercati successivi
dell’informazione. È importante soffermarsi sul diritto d’autore e sulla logica
che lo sottende, perché permette di capire gli elementi portanti dell’attuale mercato discografico.
Quando parliamo di informazione come bene pubblico diamo ovviamente
una portata sociologica a questo tipo di definizione ma esiste anche una portata
di tipo economico. Per definirsi tale, un bene pubblico deve avere alcune caratteristiche, tra le quali la non esauribilità e la cosiddetta «non escludibilità» al
consumo: l’aria, ad esempio, in questa accezione è un bene pubblico, nel senso
che il suo consumo da parte dell’individuo (almeno per ora!) non esclude il
consumo da parte degli altri individui; e, allo stesso tempo, essa (sempre per
ora, poi vedremo che cosa succederà) non dovrebbe esaurirsi. Ciò detto, non si
vede perché, se non sorgono problemi di offerta, come direbbero gli economisti, si debba accettare un mercato che scambi un bene pubblico come l’aria.
Dietro le idee e le informazioni, l’arcano che dà origine al copyright è semplicemente questo: produrre le informazioni, secondo la letteratura corrente, ha un
costo elevato, mentre il consumo e l’appropriabilità di queste idee e informazioni costa molto poco; dobbiamo garantire un sistema che permetta ai creatori
di queste idee e informazioni di appropriarsi dei benefici economici di quanto
da loro prodotto; se così non fosse queste persone non si dedicherebbero alla
creazione delle idee e delle informazioni (quindi alla creazione di musica). La
questione è discutibile, se vogliamo, e probabilmente alcune evidenze di tipo
storico e antropologico mostrano che, in realtà, gli incentivi economici non
sono un male necessario per la produzione di informazioni. Per ora non approfondiamo l’argomento ma limitiamoci a registrare il fatto che, secondo una
certa teoria economica, il diritto d’autore viene concesso agli autori come «incentivo alla creazione»: questa è la definizione che viene normalmente utilizzata. Se così non fosse, secondo questa definizione, avverrebbe quello che in gergo tecnico viene definito «fallimento del mercato» ovvero il mercato non
produrrebbe la quantità ottimale di questi beni o ne produrrebbe solo una parte.
Faccio notare che, in realtà, questo tipo di argomentazione è già di per sé alquanto fallace, perché parliamo di mercato ma non necessariamente quanto attiene alla musica deve entrare nel mercato: l’idea che un mercato non funzioni
presuppone l’esistenza di un mercato. Questo è un problema causale di non
poco conto ma anche in questo caso non ne posso trattare tutti gli aspetti come
vorrei. Il mercato fonografico si nutre comunque dell’esistenza di un diritto
forte che viene applicato, perché il mercato è un organismo che, nonostante i
flussi e riflussi della storia degli ultimi cento anni, ha funzionato con regolarità,
permettendo a determinati soggetti di lucrare elevati profitti, e che fino a oggi
(il futuro è difficilmente prevedibile) ha goduto di una buona salute. La questione fondamentale che sottende questo mio racconto è se i problemi attuali di
salute del mercato discografico dipendano dalle tecnologie, da comportamenti
più o meno devianti dei consumatori o piuttosto dal fatto che, essendo tale mercato un organismo che nasce in un contesto storico e tecnologico preciso, al divenire della tecnologia magari cessi di esistere per ragioni connaturate alla contingenza storica.
Torniamo al mercato discografico attuale e alla questione dell’incentivo
alla creazione. Anche in questo caso sarò molto rapido, domandandomi se tale
incentivo funzioni effettivamente o meno, perché sebbene stiamo parlando del
passato più o meno recente e del presente ma non del futuro, cerchiamo di capire il senso di questo incentivo, se valga la spesa di estenderlo al futuro e, in
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qualche modo, di dirigere lo sviluppo del mercato futuro. L’evidenza empirica
ci dice che l’incentivo a creare è modesto ed è percepito da un numero di soggetti piuttosto limitato. Con Francesco Silva ho studiato il mercato italiano, lavorando su dati della SIAE, e ho scoperto, ad esempio, che più dell’80% degli
iscritti e dei soci SIAE guadagna nulla o poche lire all’anno e solo un migliaio
circa di persone ha profitti significativi derivanti dal diritto d’autore; se tuttavia
restringiamo il campo a coloro che percepiscono un reddito che permetta di vivere (dunque dai venticinque milioni in su), il numero si riduce a poche centinaia. Se l’idea è che il diritto d’autore debba garantire ai creatori di continuare
a creare le loro opere, è evidente che c’è qualcosa nel sistema attuale che non
funziona. Tengo a precisare che un economista inglese ha fatto uno studio analogo su altri paesi e ha confermato esattamente i dati che riferisco; le cifre possono in parte differire ma il valore finale non cambia. Se il diritto d’autore è
l’elemento portante per stimolare la creazione – per lo meno questa è la storia
che si racconta – posso dire con una certa sicurezza che non è così. Il fatto di
premiare pochi individui non vuol dire stimolare ad ampio raggio le attività
creative. Piuttosto, l’analisi dei dati mostra un interessante fenomeno: il mercato discografico assomiglia sempre più a una lotteria.
Due economisti americani, Cook e Frank, hanno definito questo fenomeno
in senso ampio «winner takes all market»: si riscontrano sul mercato alcuni
soggetti che, per qualche particolarità, diventano winner e si separano dalla
massa dei partecipanti, gli users. Per questa ragione, la popolazione delle persone creative è divisa in due gruppi ben distinti: da una parte, un gruppo molto
numeroso e popolato, che è sostanzialmente escluso dal mercato; dall’altra, un
numero ristretto di soci che ottengono invece profitti elevatissimi. Pongo anche
in questo caso una questione che non posso approfondire e che rimando a un
eventuale prossimo dibattito: forse nelle attività creative, comprese quelle musicali, è più facile riscontrare una continuità di talento (concedetemi il termine)
artistico; in altre parole, diverse persone sono più o meno dotate di capacità oggettive ma normalmente la distribuzione di talento è continua, nel senso che, ad
esempio, esistono un cantante bravissimo e un cantante un po’ meno bravo e
via discorrendo. Il sistema «winner takes all market» separa nettamente il bravissimo (ammesso che sia così) da quello marginalmente inferiore di qualità.
Mi domando se un sistema siffatto non faccia perdere qualità ed espressioni artistiche elevate alla società che le ha prodotte o che potrebbe produrle, perché è
chiaro che se un artista che produce qualità elevate ma non elevatissime non ha
profitti si dedicherà a qualche altra attività e la società perderebbe questo tipo
di servizio. Questa ipotesi richiederebbe un approfondimento della conoscenza
dei processi creativi, che nella letteratura è scarsamente affrontato: prima di costruire gli incentivi bisognerebbe vedere chi sono i soggetti che dovrebbero essere incentivati e quale sia la maniera migliore di incentivarli.
Dal contesto generico degli artisti spostiamoci al contesto industriale. Il
meccanismo «winner takes all market» funziona anche nel settore produttivo:
come tutti sappiamo, il mercato fonografico è altamente concentrato, poiché è
dominato per oltre l’80% da cinque produttori mondiali che controllano la produzione e la distribuzione della maggior parte dei fonogrammi. Questa concentrazione è avvenuta sulla scia dei meccanismi precedentemente descritti, perché
quando si partecipa a una lotteria chi ha maggiori risorse finanziarie può accaparrarsi il maggior numero di biglietti ed è più facile che vinca. In questo tipo
di argomentazione potrebbero inserirsi studi di tipo statistico che vi risparmio.
Immaginate comunque di organizzare una lotteria con cento biglietti, dei quali
novanta sono acquistati da cinque soggetti; per gli altri la probabilità di diventare winner è molto inferiore. La fisionomia del mercato fonografico è attualmente piuttosto stabile. Questi cinque soggetti, infatti, da un bel po’ di anni
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controllano il mercato in modo stabile ma resiste la cosiddetta «frangia indipendente», che è invece popolata da miriadi di piccole etichette che magari si
danno molto da fare, normalmente senza riuscire mai a fare il salto e a passare
dall’altra parte della barricata. Ci sono differenze da paese a paese. In alcuni
paesi i mercati sono più vivaci, come nel Regno Unito, dove alcune etichette
indipendenti riescono a ritagliarsi nel mercato uno spazio un po’ più consistente. In relazione ai flussi mondiali dei CD prodotti e scambiati, invece, queste
realtà sono del tutto trascurabili; tutt’al più – e nuovamente la storia del mercato fonografico ci racconta qualcosa di interessante – le etichette indipendenti
fungono da laboratorio di ricerca e sviluppo: se un’etichetta nasce e produce un
prodotto che, per una ragione qualsiasi, viene apprezzato dal mercato, in qualche modo il prodotto o l’etichetta o entrambi vengono acquisiti dalle grandi
major; e ciò fa sì che l’esistenza di questo settore non abbia una influenza apprezzabile sulla situazione economica del mercato.
Quel che ho riferito finora è un po’ un «Bignami» del mercato discografico
così com’è, come funziona e come è strutturato. Passiamo al presente e al futuro. Non è mia intenzione affrontare questioni di tipo tecnologico, perché la tecnologia attuale, digitale e telematica, è per sua stessa natura fluida: quel che
oggi è impossibile domani lo sarà e dopodomani diverrà banale. Credo pertanto
che oggi il problema della qualità sia subordinato a questioni economiche. Più
che altro, riscontro nel divenire tecnologico un fenomeno interessante. Abbiamo parlato di separazione tra sfera pubblica e sfera privata, che si sostanzia con
la separazione tra la sfera della comunicazione e la sfera della riproduzione. Le
nuove tecnologie fanno di questi due atti un tutt’uno e, di conseguenza, alterano lo scenario che ho appena descritto. Forse ho trascurato un elemento che sarebbe invece importante riferire adesso. La stabilità sul mercato discografico,
così come oggi si configura, è stata favorita anche dalle difficoltà del canale distributivo. Spesso accade che in molti settori produttivi, non soltanto in quello
fonografico, la distribuzione funziona come barriera all’entrata; in altre parole,
si può anche realizzare un disco splendido ma se non si riesce a distribuirlo in
tutti i negozi di un paese o in tutte le nazioni è come se non si fosse fatto. Il
controllo di questi canali è stato rigidamente osservato dalle major e, secondo
l’analisi storica, dagli anni Cinquanta in avanti è addirittura progressivamente
aumentato; la concentrazione di cui parlavo è quindi propria non soltanto
dell’ambito produttivo ma anche di quello distributivo. Cosa fa la Rete? Spezza, per così dire, il legame tra informazione e contenitore, cioè fra disco e musica, fa tornare la musica a uno stato fluido, riportandola allo stato di informazione, e concede inoltre a tutti, in modo democratico, la possibilità di
distribuire tale informazione. Il legame tecnologico, che era una delle due componenti dell’esistenza del mercato, viene spezzato, e il legame giuridico da solo
non si presta a funzionare correttamente; anche perché, nell’accezione anglosassone, copyright è un diritto di copia, dunque se dalla riproduzione, cioè dalla creazione di copie, ci spostiamo alla diffusione e alla comunicazione ci troviamo in un ambito tecnologico ben diverso. Si può dire che il cyberspace
abbia rimesso in discussione il rapporto pubblico/privato, che prima era stato
alterato in un certo modo e adesso viene nuovamente modificato. Ovviamente,
se questo sistema rimette in discussione quello tecnologico e giuridico attuale,
mette di fatto in discussione il sistema economico che poggia su questo assetto;
ma fino a ora la risposta a questo cambiamento è stata quella di mettere toppe
al vecchio sistema in modo tale che possa estendersi. C’è una sclerotizzazione
degli strumenti normativi, quelli applicati al settore fonografico, che viene
mantenuta nonostante il cambiamento tecnologico. Semplificando, la questione
può essere formulata come segue: ci si pone la domanda se il nuovo sistema
possa minare alla base l’edificio economico, quello del mercato discografico;
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la risposta può essere affermativa o negativa, ma la prima affermazione importante da fare è che non è scopo delle società mantenere a qualsiasi costo un assetto produttivo ed economico, poiché l’eventuale cambiamento di un mercato
non implica di per sé il malessere di una società; certamente favorirà alcuni
soggetti e ne penalizzerà altri ma questo è nel divenire delle cose, è accaduto
anche con la rivoluzione industriale eppure non ha fermato il cambiamento. La
metamorfosi tecnologica sta cambiando le regole del gioco ma questo non vuol
dire che non si possa più proseguire nel percorso. Non è negli obiettivi di una
società quello di mantenere il gioco sclerotizzato in un determinato assetto.
Vengo al caso Napster e alla cosiddetta retorica della pirateria online, perché questo è un elemento cruciale della discussione. Se posso permettermi, si
registra da parte dei produttori fonografici – parlo soprattutto delle major perché gli altri non hanno il peso necessario per imporre il loro parere – un atteggiamento di prevenzione. La pirateria viene spesso definita come un atto illegale e criminale ma la pirateria online, secondo i dati riscontrabili, che sono
anche quelli della sentenza Napster rilevati dal tribunale americano, è compiuta
da giovani studenti, da professionisti, cioè da persone che sono tutt’altro che
criminali, come li definisce il gergo giuridico, che approfittano semplicemente
delle nuove possibilità non soltanto di consumo ma anche di comportamento,
che le nuove tecnologie offrono in modo genuino. Riflettiamo, per esempio,
sull’abitudine alla copia privata. Intorno agli anni Settanta apparvero i primi registratori a cassetta che permettevano a chiunque di duplicare un disco. Questa
operazione è stata definita (come diceva il professor Burnett) «la morte del
mercato fonografico», eppure il mercato non solo non è morto ma è cresciuto
floridamente. Di fatto, tuttavia, i consumatori sono stati abituati a duplicare i
loro dischi, e questa possibilità non solo non era illegale ma era favorita dalle
stesse case discografiche, alcune delle quali producevano anche l’hardware per
l’ascolto musicale. La riproduzione era quindi un comportamento lecito, corretto, che peraltro ha favorito in qualche modo la crescita del consumo di dischi:
chi oggi duplica un disco domani ne comprerà un altro. Anche in questo caso
esistono sofisticati studi economici che parlano di appropriabilità indiretta. Non
vi annoio con i particolari, ma l’idea sostanziale che questa ipotesi sottende è
che quando una persona consuma un’informazione la sua domanda aumenterà
domani, secondo un effetto moltiplicativo. Quello della copia privata è stato un
comportamento accettato e, tutto sommato, legittimo perché amplificava i consumi futuri. Quel che accadeva allora è che gli amici si scambiavano la copia di
un disco per conoscere una certa musica; quel che avviene oggi sulla Rete non
è altro che un’amplificazione di quel comportamento. Gli studiosi di comunicazione parlano di intelligence amplification, il che significa che i nuovi strumenti della comunicazione permettono di amplificare l’intelligenza degli individui.
Tuttavia amplificazione non vuol dire cambiamento del comportamento; più
semplicemente la portata di questi comportamenti è più ampia di quanto non
fosse in passato, perché gli strumenti tecnologici danno loro ben altra forza. La
risposta di una certa parte di chi partecipa al mercato è quella di dire «siete tutti
pirati», cioè criminali, poiché quel che ieri era un comportamento legale oggi è
diventato illegale semplicemente perché è mutato l’assetto tecnologico. È come
se si dicesse che è possibile uccidere con un coltello ma non con una pistola, il
che è un atteggiamento che personalmente trovo quanto meno schizofrenico.
Come tutti, mi sono allora preparato una frase che mi piace molto. È di Marshall McLuhan, riferimento imprescindibile per chi si occupi di comunicazione. Il saggio che citerò è il famosissimo Il medium è il messaggio, e la frase è
la seguente: «Le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni
estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni personali da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnolo65
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gia». Pertanto il consumatore è totalmente scagionato, a mio avviso, da responsabilità che ricadono sulla tecnologia e non sul comportamento.
Vorrei ampliare il campionario delle perversioni. Nella giurisprudenza
americana la copia privata è accettata sotto una certa denominazione, la «fair
use doctrine». Si riteneva un tempo, nell’assetto analogico, che in realtà in alcuni contesti fosse possibile la duplicazione delle informazioni e, quindi, infrangere il copyright quando essa soddisfaceva alcune funzioni di tipo sociale.
Oggi la tendenza normativa è la proibizione di qualunque tipo di copia, anche
in quei casi, perché pericolosa. È interessante notare che quella deroga a un diritto esclusivo non era una concessione che i titolari dei copyright facevano ai
consumatori bensì un limite che la società imponeva agli autori nel conferir
loro un diritto esclusivo. Un tempo il diritto di copia era conferito dai governanti come privilegio, una règia patente, e successivamente, nelle società democratiche, era conferito dalla collettività al creatore perché fosse incentivato a
creare, mantenendo qualcosa per sé. Ciò era sancito dai criteri di deroga sopra
ricordati. Oggi si ribalta il quadro ed è il creatore che decide quali debbano essere gli usi possibili delle opere nel contesto sociale. Questa è una perversione
piuttosto importante. Avrei molto da dire sulla sentenza Napster, che ho studiato con cura, e su come il divenire della tecnologia trasformi i comportamenti
delle persone, che in realtà rimangono le stesse. C’è un aspetto che mi preoccupa molto e che dovrebbe far riflettere: le leggi vengono via via emendate per
sostenere le ragioni di una sola parte dei partecipanti al mercato, vale a dire dei
produttori; noi consumatori diventiamo tutti pirati perché accediamo all’informazione gratuitamente. Alcuni interventi da parte dei produttori sono quanto
meno discutibili. La RIAA, l’associazione americana dei discografici, ha proposto di mettere in atto alcuni sistemi di controllo sui singoli computer degli
utenti collegati a Internet, in modo da monitorare cosa facciano. Capite bene
che qui non si invade più soltanto il diritto esclusivo conferito dalle società agli
autori ma anche i diritti di privacy, i diritti costituzionali di libertà e quant’altro: non è più l’autore che serve la società ma è la società che serve l’autore affinché lucri profitti.
Questa è solo una parte dei problemi. Nel pubblico dibattito, quando si parla della Rete e delle questioni che riguardano la pirateria, si dimentica di citare
alcuni altri effetti collaterali che hanno per lo meno eguale gravità e che invece
sono poco conosciuti. Ci sono fenomeni di crescente concentrazione dei conglomerati dell’informazione e della comunicazione che fanno legittimamente
preoccupare, perché si stanno affermando soggetti che controllano la produzione e la diffusione dell’informazione non a livello nazionale ma mondiale. Questi livelli sono molto elevati e tendono a divenirlo ancor più. Ancora una volta
intervengono questioni di tipo sostanziale, non soltanto economiche ma legate
alle libertà costituzionali, che bisognerebbe affrontare ma che nei dibattiti non
vengono neppure citate. Non solo attribuire a qualche soggetto questo potere
può essere pericoloso ma abbiamo anche la prova che questo potere viene
sfruttato in modo davvero illegale, come confermano svariate indagini anti-trust a livello nazionale, europeo e internazionale, che mettono in dubbio alcuni
comportamenti di questi conglomerati. Il più recente è quello avviato dal Department of Justice americano nei confronti delle cinque major concentrate in
due gruppi che operano su Internet, MusicNet e Pressplay, e che stanno adottando comportamenti lesivi della concorrenza. Mentre ampio spazio nel dibattito pubblico è stato dato al caso Napster, come vedete di queste cose per ora non
si parla, sebbene è altamente probabile che gli addetti ai lavori ne siano informati. Inoltre ulteriori elementi perturbano questo scenario. Parlavo della dinamica di concentrazione in atto. Napster è per ora il grande nemico delle case
discografiche e della sopravvivenza del mercato discografico; il fatto è che
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pubblicamente viene combattuto ma privatamente viene acquistato o acquisito
in una fusione: in un’alleanza con la BMG, Napster dovrebbe servire da strumento di distribuzione e marketing per i prodotti BMG e non solo. Questo mi
confonde un po’! Prima di decidere, la valutazione di un quadro richiederebbe
la disponibilità di tutti gli elementi. C’è una battaglia che viene combattuta
pubblicamente contro certi obiettivi ma sottobanco altre vicende mi creano
qualche confusione. Mi pare che, rispetto alla infrazione del diritto di
copyright, la fenomenologia citata rappresenti una incognita ben più preoccupante per i sistemi economici e per i sistemi sociali. Questi fenomeni non sono
stati descritti e sollevati con lo stesso slancio dato invece alla vicenda Napster.
Mi chiedo se nel sistema passato forse (e sottolineo forse) i benefici del diritto
d’autore superassero i costi della sua applicazione e se questa situazione valga
ancora per la preconizzata società dell’informazione e della comunicazione. A
mio avviso, il bilancio tra costi e benefici potrebbe non essere così favorevole.
Gli elementi per dubitarne esistono e riguardano il possibile freno al processo
incrementale della creazione, che potrebbe invece giovarsi di formidabili livelli
di comunicazione; riguardano i potenziali rischi sulle libertà individuali, che
l’istituzione di un esteso regime di polizia, come oggi viene proposto per tutelare il copyright sulle Reti, comporterebbe; riguarda, in una società che primariamente consuma informazione, l’inasprimento delle distanze e delle disparità
tra chi ha accesso all’informazione e chi non ce l’ha.
Quale potrebbe essere allora la conclusione? Ritengo che l’innovazione
tecnologica certamente comporterà dei cambiamenti e che la maniera più sincera per affrontare questi cambiamenti non sia quella di cancellare il passato. Pertanto, non propongo di cancellare il copyright ma neanche di estenderlo a oltranza. Propongo invece di far seguire all’innovazione e al variare dei
comportamenti la creazione di nuovi sistemi normativi, che non necessariamente mantengano in vita interessi pregressi ma che permettano alle società nel
loro complesso di esistere, di vivere in modo pacifico, se possibile, e in modo
florido. Siamo in un Istituto che si occupa di musica, anche di musica moderna
e contemporanea, e avrei piacere di concludere il mio intervento con una frase
del compositore francese Edgard Varèse. «Ogni giorno nuove invenzioni e
nuove scoperte modificano la nostra idea della vita e l’orizzonte delle nostre
possibilità». Ciò però, a mio avviso, non deve arrestare il cambiamento. Grazie.
ALESSANDRO LUDOVICO
A proposito di grandi concentrazioni, la BMG deve adottare MusicNet
come sistema di distribuzione, in quanto piattaforma funzionante.
GIOVANNI RAMELLO
Su questo si è avviata l’indagine anti-trust. In realtà le case discografiche,
per ora, non licenziano i loro prodotti per motivi tecnici. In ogni caso non è
un’acquisizione vera e propria ma una joint venture.
ALESSANDRO LUDOVICO
Per non seminare il terrore, vorrei fare un’altra osservazione. È vero che la
RIAA ha predisposto delle tecnologie per controllare direttamente gli utenti ma
è anche vero che la sua proposta di emendamento alle ultime leggi d’emergenza varate negli Stati Uniti dopo l’11 settembre, affinché potesse compiere questo tipo di monitoraggio, è stata fortunatamente respinta dal parlamento degli
Stati Uniti.
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GIOVANNI RAMELLO
Avevo trascurato di riferirlo: una parvenza di democrazia ancora resiste!
CARLO MARINELLI
Ci sono altre richieste di chiarimento o altri interventi?
MARIA CARLA CAVAGNIS SOTGIU
Non lo abbiamo ancora sperimentato e mi auguro che non si verifichi, ma le
case discografiche potrebbero chiederci un pagamento per la copia digitale di
conservazione. Questo avviene sicuramente in Inghilterra ma è una perversione
assoluta, a maggior ragione se si considera che molto del materiale che conserviamo è stato da loro buttato. Noi parliamo di copyright ma in realtà gli autori
sono davvero la parte più fragile. Non a caso sono anche i più disponibili a raggiungere un accordo, al contrario dei discografici che non ne vogliono alcuno.
GIOVANNI RAMELLO
Una breve postilla. I comportamenti del mercato sono molto cambiati. Nel
mercato fonografico e in tutto il mercato dell’informazione i titolari dei diritti, vale
a dire le imprese e non gli autori, perché spesso gli autori sono espropriati, si sono
accorti di possedere assett finanziari, cioè azioni, con delle cedole piuttosto consistenti; e oggi l’attività consiste spesso nel far fruttare queste cedole, cioè nel riproporre dei prodotti già cotti. È allora chiaro che il principio dell’incentivo non funziona più, perché anziché stimolare nuove creazioni si ripropongono le stesse
frittate. Le perversioni di cui lei parla le ho vissute personalmente nell’ambito di
una commissione tecnica della Conferenza dei Rettori alla quale ho partecipato. Si
volevano far pagare per le fotocopie dell’Università duecento lire per ogni pagina,
il che avrebbe comportato la paralisi delle Università italiane. La mia risposta, visto che lei rappresenta una istituzione, è quella di combattere proprio a livello istituzionale per rivendicare una deroga al copyright, visto che le pubbliche istituzioni diffondono il sapere e vanno quindi nella stessa direzione del diritto d’autore.
Se qualcuno deve perderci, che questo sia un privato e non la collettività.
CARLO MARINELLI
Il fatto è che oggi avviene il contrario: il privato deve sfruttare la società.
MARIA CARLA CAVAGNIS SOTGIU
È proprio sul terreno che lei suggeriva che ci si era mossi su tutta la questione della nuova legge sul diritto d’autore che recepiva la vecchia direttiva
CEE. Adesso bisogna recepire la nuova. Tutto quello che avevamo chiesto o
proposto per gli scopi educativi come Ministero dei Beni Culturali è stato quasi
interamente cestinato.
CARLO MARINELLI
Tutto questo è però contraddittorio. Proprio le major stanno piangendo, anche a suon di soldi, per aver distrutto il proprio patrimonio del passato, tanto è
vero che stanno comprando i propri vecchi archivi dai privati che li hanno invece
salvati. Pretendere un pagamento per una copia di salvataggio digitale è assurdo
perché è nel loro interesse, visto che diminuisce il costo di immagazzinamento.
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MARIA CARLA CAVAGNIS SOTGIU
Sono convinta che, almeno in Italia, tutto ciò che è pubblico sia difeso malissimo: noi siamo andati a mani nude a combattere contro i carri armati, perché in quella commissione eravamo rappresentati in modo molto ingenuo, per
usare un eufemismo. Quando abbiamo chiesto la consulenza di un legale per
essere maggiormente tutelati ci è stato risposto che non ve n’era bisogno, perché i nostri dirigenti amministrativi, essendo laureati in legge, erano per definizione dei legali. È il resoconto di una discussione che si è svolta in toni molto
accesi, è stato insomma un pomeriggio di rissa.
GIOVANNI RAMELLO
Penso che a livello istituzionale ci sia un problema generalizzato che non
riguarda soltanto l’Italia. In queste vicende ci sono almeno due parti, i produttori e i consumatori, secondo l’accezione economica. Parlerei più volentieri di
fruitori, perché quello di consumatore è uno stato dell’attuale società di mercato, non necessariamente uno stato assoluto. Il consumo della musica, in generale, nasce prima del mercato, per cui preferirei dire che il mio ruolo non è soltanto quello del consumatore in senso economico ma in senso lato: posso anche
compiere atti di natura economica ma non tutti sono di questa natura. Le parti,
tuttavia, sono mal rappresentate, ammesso che siano soltanto quelle che ho citato, consumatore e produttore: i consumatori sono frammentati per definizione, le istituzioni diventano un po’ consumatori, se pure più grandi, e vivono in
contesti locali; dall’altra parte, l’esistenza di questi conglomerati industriali fa
sì che a livello nazionale e internazionale ci siano invece dei soggetti forti che
hanno le risorse per fare un’attività di lobbing: potrei compilare una lista delle
persone che passano il tempo a Bruxelles o al Congresso degli Stati Uniti per
far emendare le leggi. È quindi una situazione assolutamente asimmetrica. Il
punto è che la reazione istituzionale è quella di seguire questo tipo di tendenza.
Se allarghiamo il campo, l’assetto attuale dei sistemi di proprietà intellettuale,
che è assolutamente sconvolgente nella sua ingiustizia, nasce negli anni Ottanta
e ha come tappa centrale gli «accordi TRIPS» di Marrakech nel 1994: tutti gli
osservatori sono concordi nel dire che la trattativa è stata condotta dalle multinazionali, soprattutto quelle americane, che hanno deciso che si doveva fare in
quel modo senza un contrappunto che abbia mosso qualche obiezione.
CARLO MARINELLI
Le multinazionali americane non esistono più, esistono quelle canadesi o
tedesche o giapponesi: la RCA Victor è stata comprata dai tedeschi, la CBS dai
giapponesi e via dicendo
GIOVANNI RAMELLO
Non esistono più come esclusivamente americane; ci sono i media conglomerate, ma in questo caso è il software che ha guidato gli accordi.
CARLO MARINELLI
Sul piano storico, quel che si sta dicendo non corrisponde completamente
al vero. Pensiamo a Lulli e alla nascita delle patenti per la pubblicazione della
musica. Lulli si impadronì dell’idea del suo predecessore, il quale aveva inventato l’opera: andò da Luigi XIV, che era notoriamente suo amico perché erano
stati allevati insieme, e si fece rilasciare le patenti. Quando il povero predeces69
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sore protestò andò a finire in galera, tant’è che poi dovette scappare in Inghilterra. Il diritto d’autore non è mai esistito prima se non sotto forma di patente,
ma la patente serviva per la pubblicazione non per la tutela dell’opera.
GIOVANNI RAMELLO
Questo è un malinteso della retorica del diritto d’autore. La storia del diritto
d’autore si sviluppa soprattutto in Inghilterra con gli editori inglesi, ai quali non
importava nulla degli autori ma che avevano il privilegio di stampare determinati libri. Se si facesse una indagine storica si scoprirebbe che è in realtà un
copyright e che serve esattamente gli obiettivi per i quali è stato creato.
CARLO MARINELLI
Serve solo gli editori e non gli autori; questi guadagnano molto solo nella
misura in cui interessa agli editori. Non dimentichiamo che, in molti casi, nella
musica popolare i diritti d’autore vengono ceduti all’editore all’inizio, quando
non si è ancora abbastanza sicuri che la carriera si sviluppi, e che anche nella
musica classica i diritti vengono spesso ceduti all’editore, il quale corrisponde
poi una percentuale o un forfait. In realtà, quando parliamo di autori si parla dei
diritti degli editori. L’autore, dal canto suo, ha tutto l’interesse alla pubblicizzazione dei propri diritti, come si usava un tempo in Unione Sovietica: gli autori
venivano stipendiati dallo Stato e gli unici musicisti tutelati dal diritto d’autore
erano quelli che scrivevano per il cinema, perché stranamente il cinema era
protetto secondo le norme internazionali. Infatti ∏ostakovi≈, che scrisse moltissimo per il cinema, si costruì una lussuosissima casa. Questo la propaganda di
allora non lo diceva, ma in Unione Sovietica esistevano delle cooperative di
muratori che costruivano case per i privati.
Stiamo vivendo in un periodo in cui il diritto sociale e il diritto pubblico
paiono essere superati. Di conseguenza, qualunque cosa possa andare, come sarebbe logico, in direzione di un interesse della società intera non ha più diritto
di esistenza. L’unica speranza che ci resta, visto il loro strapotere, è che i privati, che in questo caso sono i finanzieri, saltino su una mina!
GIOVANNI RAMELLO
Però siamo per lo meno spinti in modo schizofrenico, ne converrà. Da una
parte ci dicono che abbiamo nuove possibilità che dobbiamo sfruttare e dall’altra ci dicono che qualsiasi cosa facciamo è perseguibile legalmente.
Lei [riferito a Carlo Marinelli, N.d.R.] ha fatto un commento sottovoce
che è invece interessante riportare all’attenzione di tutti: questo sistema privilegia il controllo dell’informazione. L’origine dei privilegi sull’informazione era
proprio questa: prima di pubblicarlo l’autorità regnante controllava quanto veniva pubblicato. Oggi stiamo tornando a questo criterio.
CARLO MARINELLI
Purtroppo ci siamo già tornati. Se non ci sono altri interventi sulla interessantissima relazione del professor Ramello diamo la parola al dottor Long.
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STEVE LONG
Classical Music on the Internet: the Expectations and the Reality
It’s been a very long day, so the good news is that this is a short paper! My
background: I started out by running a recording company, I then branched out
into running a record company with which I still do an Internet music business.
We all know that the invention of the CD in the mid Eighties, and its
proliferation in the late Eighties, with the quality of the carrier, lent itself very
much towards classical music, so the late Eighties saw an unprecedented boom
for the classical music industry in terms of the recording aspect. This boom
was never sustained, and during the early and mid Nineties, the downturn in
the core classical music business kicked in. It was disguised by the «Three
Tenor» effect, and the Four Seasons with the Nigel Kennedy recording, as well
as the great upsurge in the budget labels, so there was actually a lot of money
being spent on individual recordings, but there wasn’t necessarily a very
healthy classical music industry. The output continued to rise, with the major
labels not wanting to admit that the industry was in crisis. Attempts were made
to address this recession in the industry with Sony 20-bit recordings, Deutsche
Grammophon 4D recordings, and other basically marketing tools that were
disguised as technological developments. It’s true to say that the technologies
were better, but no one had really ever complained about the quality of the
regular CDs, so it was an attempt to create a false market.
The fact is that the birth of CD had created artificial expectations about the
size and the scope of the market, since there was a desire for a new and better
format to replace the LP, but there wasn’t necessarily a «new» market for
classical music. The upsurge in the sales was mainly due to people replacing
their vinyl with CDs, with the «Three Tenors» and the Four Seasons as the big
exception to this. The classical music market did expand to fulfill the demand
for CDs. Existing labels expanded their output quite substantially, and new
labels were born in the hope they could get rich quickly. In the early Nineties
there were approximately 400 new CDs being released each month, and the
retail outlets could not even stock the product, let alone sell it. The result was
that most classical CDs being released were having very low sales figures;
unfortunately they still had very high costs of production, so this is what
resulted in the core classical business being eroded by the mid-price and
budget-price labels. If you remove the blockbuster albums from the sales
figures, it was clear that the major labels as well as the new independents were
suffering, and this general downturn continued through the mid- and lateNineties.
The result of all this was that the record companies were looking for new
opportunities. The late Nineties brought new hope with the Internet. The speed
with which the Internet blossomed around 1997 raised the hopes of many
businesses, but particularly those in the music industry. This was, after all, the
distribution of digital information. There was plenty of investment money
available for new enterprises – much of it from U.S. adventure capitalists, who
became known as «vulture capitalists» due to the downturn in the industry –,
and many of these companies had unproven business models built on nothing
more than hope. In fact these business models would have been laughed at if
mentioned at any business school, let alone on Wall Street, but still the funds
were made available to them. Alongside these new companies that were
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developing, the traditional major record labels also began to invest heavily in
the new digital age. To be fair, much of the hype and hope was centered around
the pop and rock industries rather than classical, with the classical department
standing in the wings waiting to see what was going to develop. It’s only now
that the pre-existing classical labels are beginning to adopt the Internet, with
the launch of Pressplay and MusicNet. These, however, are unproven models,
but with the support of the traditional music businesses behind the major
players, perhaps risks are not so great. Another factor is that much of the
investment is being done by the profitable division of the companies, and the
classical division is just riding on the back of these experiments.
Before the advent of the Internet, as I said, the two main problems with
classical CDs were marketing and distribution. There was no shortage of good
recordings, and it was thought that both of these areas could be addressed by
the Internet. Marketing through the web would be about writing information:
streaming audio, streaming video; distribution through the web would be
through digital downloads and e-retailing. For the Internet to successfully
address these two issues, it would have required the Internet to be everywhere,
and for broadband to proliferate. Experiencing the Internet on a 56k modem is
still very frustrating, and will continue to be so for quite some time. The slow
speed of the Internet isn’t such a problem for the pop and rock fans as it is with
classical, probably because the most popular tracks are only three minutes
long, the quality of the recording is not so exacting, and the fans want
gratification on the instant because of the short life span of a pop song. In
addition to this, pop fans usually have ready access to computers and the
leisure time to enjoy them as well. The unprecedented success of Napster is a
testament of the fact that there is a place for the Internet and the music business
to work together. Over the course of a year, they built up a user base of 90
million people – albeit operating illegally – but it did show that there was a
demand. Of all the file-swapping that was occurring on Napster, 4% of the
music was classical, which is perhaps surprising, but in keeping with the split
of classical versus popular music in traditional record shops.
What will be interesting to see is when Napster relaunches in early 2002,
with a different system which you have to pay for, if people are actually
prepared to pay for it. The economics are staggering: only 10% of the original
users are prepared to pay the $5 a month fees! In fact, only last night I signed a
contract with Napster to license them my entire catalogue for Beta test.
It remains to be seen whether people are willing to wait for a one-hour
symphony to download; the position we are in at the moment is that the Internet is
a promotional tool, but little more than that. Even when broadband does
proliferate, the other problem we need to overcome is the re-education of classical
music fans, and how they access their music. At the moment people are used to
getting their music from CDs or from the radio: there is something very pleasant
about having a CD in your hand and a booklet to leaf through, and collecting CDs
and expanding your shelf inches is still something that most classical music lovers
like to do. So the concept of listening to music on a computer, which is probably
in your study rather than your lounge, is a little bit alien. So it’s going to take quite
a bit of re-educating before people accept this as a new medium for music.
It’ll be interesting to see when web television takes off in the entertainment
system, combined with the computer, if this problem will be overcome.
However, it is fair to say that the expectations of what the Internet would do for
classical music have not been lived up to: there is no market for commercial
downloading, partly due to the speed issues but also because the culture of the
Internet is that everything on it should be free. If this continues to be the case,
then there is no incentive for the record companies to adopt the Internet.
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We have a very powerful marketing tool here, I think the invention of the
term «peer-to-peer marketing» is applicable to the music business, and will
filter down to the classical music industry as well, in time. It’s also useful for
previewing new releases and, because of the ease of putting content on the
Internet, individual artists can actually promote themselves, and don’t have to
rely on record companies any more, which is the reason why there are very few
record contracts. What used to be viewed as «vanity publishing» and was
looked down upon, is now becoming a norm for individual artists, but also for
major orchestras and opera companies. Certainly in the UK, with the changes
in the union strengths and weaknesses, now orchestras are investing their
money in making their own productions, and I think this is something the
record companies need to be very wary of.
My personal belief is that the Internet still has a lot to offer the music
business, some of which can be applied to the classical musical business. The
expectations were raised too high during the «.com» boom, and the reality was
never able to be delivered. That’s not to say it won’t be delivered in the future,
but a lot of people have learned a very difficult lesson.
The Internet is here to stay, and the music business needs to embrace it for
what it is, and not for what they want it to be. That way, no one will be
disappointed and as the Net matures further, the classical music business can
only benefit.
[La giornata è stata lunga, quindi vi do la buona notizia che la mia relazione sarà breve! Un cenno alla mia formazione: ho cominciato come direttore
di una casa discografica e ho proseguito dirigendo una compagnia discografica con cui lavoro anche in Internet.
Tutti noi sappiamo che il CD, inventato a metà degli anni Ottanta e diffusosi capillarmente alla fine del decennio, si addice particolarmente alla musica classica grazie alle caratteristiche del supporto. In quel periodo vi fu quindi
un boom senza precedenti di registrazioni prodotte dall’industria discografica
di musica classica. Tale boom, tuttavia, era illusorio di conseguenza dall’inizio fino a metà degli anni Novanta subentrò una fase di flessione nel mercato
delle vendite, che venne in parte mascherata dall’effetto dei «Tre Tenori» e
delle Quattro Stagioni nell’esecuzione di Nigel Kennedy, così come dalla crescita delle etichette economiche. Si spendeva molto per incisioni individuali
che tuttavia non rispecchiavano un’industria musicale sana. La produzione
continuava ad aumentare e le grandi etichette non volevano ammettere che
l’industria era in crisi. Vennero fatti diversi tentativi di affrontare la recessione con registrazioni a 20-bit, oppure con registrazioni a 4D della Deutsche
Grammophon, e anche mediante altri strumenti di commercializzazione che
vennero camuffati da «innovazioni tecnologiche». Bisogna riconoscere che le
tecnologie erano effettivamente più avanzate ma nessuno si era mai lamentato
della qualità dei normali CD, quindi si trattava di un tentativo di creare un falso mercato.
Il fatto è che la nascita del CD aveva creato aspettative eccessive riguardo
le dimensioni e la diffusione del mercato, visto che era nell’aria il forte desiderio di un formato nuovo e migliore che rimpiazzasse il vinile, ma questo non significava che vi fosse un vero e proprio «nuovo» mercato per la musica classica. L’aumento di vendite era dovuto per lo più al fatto che gli acquirenti
sostituivano il vinile con i CD, e i «Tre Tenori» e le Quattro Stagioni erano
l’eccezione che conferma la regola.
Il mercato di musica classica aumentò per soddisfare la richiesta di CD; le
etichette esistenti incrementarono la produzione e nacquero nuove etichette
che speravano di diventare ricche in breve tempo. All’inizio degli anni Novan73
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ta venivano pubblicati circa 400 nuovi CD ogni mese, e i negozi non avevano
lo spazio sufficiente per immagazzinare la merce, per non parlare di venderla.
Il risultato fu che la maggior parte dei CD di musica classica vendeva poche
copie, a fronte di spese di produzione ancora assai elevate, quindi l’industria
della musica classica venne scalzata dalle etichette a medio e basso costo. Se
si escludono gli album di grande successo dai bilanci, appare evidente che sia
le major sia le nuove etichette indipendenti erano sofferenti, e la tendenza discendente proseguì fino alla fine degli anni Novanta.
Il risultato fu che le case discografiche si misero alla ricerca di nuove opportunità e, alla fine degli anni Novanta, Internet alimentò le loro speranze
poiché la velocità con cui il fenomeno si diffuse intorno al 1997 fece ben sperare molte imprese, in particolare quelle legate all’industria musicale. Dopo tutto, si trattava della distribuzione di informazioni digitali. Erano disponibili capitali da investire in nuove imprese, molti dei quali provenienti da capitalisti
«di ventura» statunitensi (che vennero soprannominati «avvoltoi capitalisti»
quando vi fu una flessione nel mercato), e molte delle compagnie operavano in
base a modelli d’impresa mai sperimentati e costruiti sulla sola speranza. Di
fatto, tali modelli d’impresa sarebbero stati oggetto di scherno in qualsiasi
scuola aziendale, per non parlare di Wall Street, ma nonostante tutto vennero
finanziati. Mentre si sviluppavano le nuove compagnie, le principali etichette
discografiche tradizionali cominciarono a investire molto nella nuova era digitale. Per dirla tutta, gran parte dell’eccitazione e delle speranze erano incentrate sull’industria del pop e del rock più che sulla musica classica, il cui dipartimento se ne stava sugli spalti a seguire gli sviluppi. Soltanto adesso le
etichette preesistenti di musica classica stanno cominciando ad adottare Internet, con il lancio di Pressplay e di MusicNet. Si tratta di modelli non sperimentati, ma con l’appoggio delle imprese musicali tradizionali forse i rischi diminuiscono. Inoltre, la maggior parte degli investimenti viene sostenuta dai
settori più redditizi delle compagnie, e il settore della classica va al traino.
Prima dell’avvento di Internet, come ho già detto, i principali problemi legati ai CD di musica classica erano la commercializzazione e la distribuzione,
non una penuria di ottime incisioni; si riteneva che Internet potesse rivelarsi
decisivo in entrambi i settori. La commercializzazione attraverso la rete sarebbe passata attraverso lo streaming audio e video, mentre la distribuzione si sarebbe risolta mediante i download e le vendite in rete. Perché tutto ciò avvenga, sarebbe necessario rendere Internet accessibile ovunque e fare sì che la
connessione a banda larga si diffonda capillarmente. L’esperienza di Internet
attraverso un modem a 56k è tuttora assai avvilente, e continuerà a esserlo per
molto tempo.
La lentezza di Internet crea meno problemi agli appassionati di musica
leggera che a quelli di musica classica, probabilmente perché le canzoni durano mediamente solo tre minuti e i fan non sono molto esigenti in fatto di qualità di registrazione, facendo piuttosto prevalere l’immediatezza della gratificazione, vista la breve durata del successo delle canzoni. I fanatici del pop,
inoltre, hanno solitamente accesso all’uso di computer e tempo libero per usufruirne. Il successo senza precedenti di Napster testimonia la possibilità di interazione fra Internet e l’industria musicale: in un anno hanno creato un’utenza di circa 90 milioni di persone, sia pure illegalmente, tuttavia hanno
dimostrato che la domanda esiste. Di tutti gli scambi di file che avvenivano su
Napster, il 4% era di musica classica; la cifra può stupire ma è in linea con le
proporzioni di vendite di dischi nei negozi tradizionali.
Sono curioso di vedere, quando Napster riaprirà i battenti nel 2002 con un
nuovo sistema a pagamento, se il pubblico sarà disposto a pagare il servizio.
Le aspettative sono sbalorditive: sembra che solo il 10% degli utenti originari
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sia disposto a pagare l’abbonamento mensile di $5. E bisogna vedere se il pubblico sarà disposto ad aspettare il tempo necessario per scaricare una sinfonia
della durata di un’ora... Allo stato attuale Internet è poco più che uno strumento promozionale. Anche quando dovesse diffondersi la banda larga, bisognerà
affrontare il problema della rieducazione degli appassionati di musica classica
e il loro approccio alla musica. Attualmente questo pubblico è abituato ad
ascoltare musica da un CD o dalla radio. Non bisogna, inoltre, sottovalutare il
piacere che essi provano nel potere toccare con mano l’oggetto CD, sfogliare
le pagine del libretto e vedere crescere in centimetri la propria collezione. Di
conseguenza l’idea di ascoltare musica che proviene da un computer – situato
probabilmente sulla scrivania e non vicino al divano – risulta alieno, e ci vorrà
molto tempo prima che il pubblico accetti che si tratta di un nuovo medium per
veicolare la musica.
Quando si diffonderà la televisione in rete (web television) combinata con
il computer forse questi problemi verranno superati ma, in tutta sincerità, bisogna riconoscere che le aspettative dei presunti benefici che Internet avrebbe
apportato alla musica classica non si sono avverate: non esiste un mercato per
il download a pagamento, in parte a causa dei problemi di velocità di connessione ma soprattutto perché la cultura imperante su Internet è che tutto ciò che
vi si trova deve essere gratuito. Se non si cambia tale mentalità le case discografiche non hanno incentivi per adottare Internet.
Si tratta di un potente strumento di marketing e credo che l’invenzione del
termine peer to peer marketing si possa adattare all’industria musicale e, col
tempo, anche al settore della musica classica. È utile per conoscere in anteprima le novità in uscita e, grazie alla facilità con cui si possono immettere dati in
Internet, gli artisti possono promuovere se stessi autonomamente senza passare
attraverso le loro case discografiche, il che spiega l’esiguo numero di contratti
discografici. Ciò che un tempo veniva definito vanity publishing [pubblicizzare
la propria vanità n.d.T.] e, come tale, denigrato sta diventando la norma non
solo per i singoli artisti ma anche per le grandi orchestre e compagnie d’opera.
Di certo in Gran Bretagna le nuove orchestre preferiscono investire denaro
nell’auto-prodursi, cosa di cui le case discografiche devono tenere conto.
Sono convinto che Internet abbia ancora molto da offrire all’industria musicale e, in parte, anche all’industria della musica classica. Nel periodo del
boom delle società «.com» si sono create troppe aspettative che sono poi state
disattese. Ciò non vuole dire che la situazione non possa migliorare in futuro
ma molti sono rimasti scottati dall’esperienza fatta.
Internet non è un fenomeno passeggero, e l’industria musicale deve accettarlo e per quello che è, non per come vorrebbe che fosse. In tal modo nessuno
resterà deluso e, man mano che la rete matura ulteriormente, la musica classica ne potrà trarre soltanto beneficio.]
CARLO MARINELLI
Grazie al dottor Long anche per la parola di speranza!
Vorrei sottolineare che il mondo della registrazione o della riproduzione sonora ha conosciuto questo tipo di vicende diverse volte nella sua storia. I cilindri e
poi i dischi nacquero come riproduzioni di musica popolare, soprattutto bandistica, che all’epoca aveva un’importanza notevolissima. Nei primi anni del Novecento, quando il disco si afferma definitivamente sul cilindro, lo sviluppo è straordinario proprio nel campo della musica classica. All’epoca la musica classica era
il fiore all’occhiello della borghesia. Se guardiamo a certe pubblicazioni, fino al
1915-1916, cioè all’ingresso in guerra degli Stati Uniti, vediamo che sono in una
straordinaria sintonia con quello che accadeva nei teatri. Credo che nessuno di noi
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abbia mai ascoltato la musica del Chatterton di Leoncavallo, eppure quando il
compositore lo presentò apparve tutta una serie di dischi con i pezzi maggiori
dell’opera, che purtroppo sono tuttora gli unici perché non furono mai più pubblicati. Lo stesso avvenne per la Parisina di Mascagni, che tuttavia fu in seguito ripresa. Moltissime furono anche le selezioni da operette pubblicate attorno al 1910
e, anche in questo caso, moltissime non sono mai restate in repertorio. Questo primo boom si interruppe per la guerra e riprese con la comparsa dell’incisione elettrica. Non dimentichiamo che la Columbia organizzò addirittura un festival
beethoveniano nel 1926 e che per la prima volta furono registrate tutte le nove
sinfonie. Visto il successo di questa iniziativa, che si articolò anche in conferenze,
incontri e altre manifestazioni faraoniche, due anni dopo, in occasione del centenario di Schubert, fu organizzato dalle stesse case discografiche un concorso internazionale per il completamento della Sinfonia incompiuta ma, di fronte all’insurrezione dei musicologi contro l’atto di lesa maestà, fu sostituito da un concorso
per una sinfonia che fu vinto da Kurt Atterberg, la cui composizione fu perfino registrata in tre dischi 78 giri. Sopraggiunse la crisi del 1929 e negli anni Trenta la
pubblicazione di dischi fu estremamente ridotta rispetto ai periodi precedenti. Le
edizioni più importanti furono quelle delle society, un’invenzione inglese che fu
un grosso successo ma pur sempre di nicchia, realizzato con sottoscrizione preventiva. La EMI, per esempio, fece questa operazione, che continuò perché per
lungo tempo, almeno fino alla Seconda guerra mondiale, ebbe un settore, generalmente pubblicato nei cataloghi, di dischi venduti su ordinazione. Questi fenomeni
sono molto interessanti e, in un certo senso, potrebbero essere assimilati al disco
che ci si fa da soli tramite Internet. Le società continuarono a operare negli anni
Quaranta. C’era una sigla della His Master’s Voice destinata esclusivamente alle
pubblicazioni private e le prime pubblicazioni di musica rinascimentale sono state
realizzate per questa via. Il fatto che dopo il boom del CD sia subentrata una contrazione del mercato può essere considerato fisiologico, e poiché le grandi società
finanziarie non hanno memoria storica, non si sono ricordate di quello che avevano passato le loro antenate in tempi non lontanissimi.
Tornando alla relazione del dottor Long, sono molto contento che almeno
qualcuno di noi abbia una visione ottimistica, il che ci fa tirare un sospiro di
sollievo per il futuro. Teniamo presente che l’11 settembre ha segnato in qualche modo un altro Ventinove, tanto è vero che una casa inglese come la Nimbus ha chiuso dall’oggi al domani perché sono venute meno le ordinazioni da
parte degli Stati Uniti. Il mercato di lingua inglese è unico: gli inglesi hanno
sempre venduto moltissimo negli Stati Uniti e viceversa; se questo circuito viene interrotto subentra la crisi.
MARCO BENEDETTI
Sono fondamentalmente d’accordo con tutto quello che ha detto, soprattutto riguardo alle differenze fra musica classica e musica popolare. Dobbiamo
però tener presente che ormai non solo vi è la possibilità di stampare un disco
scaricando la musica da Internet ma si possono anche trovare la copertina e
l’etichetta a colori da incollare sul CD. È vero che l’appassionato di musica
classica è maggiormente interessato alla qualità del suono ma, una volta che ci
fosse la banda sufficiente a trasmettere un disco non compresso, il feticismo
del collezionista potrebbe essere tranquillamente soddisfatto da questo sistema.
STEVE LONG
I think that’s all true, but it takes time and effort to download the music
and print the booklet, and I think that most classical users aren’t really
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interested in that: they’d rather spend the extra money and buy it in the shop.
The way we got around this is if people want to buy music that’s not on a
commercial CD they can send us an order, and we will burn it on CD and mail
it out, like HMV used to do many years ago. But the reality of downloading is
that nobody will pay for it yet; I licensed some of my music to Vitaminic, and
after the first month they rang up, very excited, to say that 1200 tracks had
been downloaded, and I asked how many of these were paid downloads, and
how many were free downloads? The answer was that only 2 were paid
downloads, and I had paid for both, as an experiment.
[Questo è tutto vero ma è altrettanto vero che ci vuole tempo e un certo impegno per scaricare musica e stampare copertine, e ritengo che la maggior
parte dei fruitori di musica classica non sia interessato a questo aspetto: preferiscono spendere qualcosa in più pur di acquistare il prodotto finito in un negozio. Noi abbiamo aggirato l’ostacolo, laddove i clienti vogliano acquistare
musica non edita su supporti commerciali, facendo noi stessi il CD e inviandolo per posta, come faceva la HMV tanti anni fa. Tuttavia la realtà del downloading è che attualmente nessuno è disposto a pagare per scaricare musica; ho
messo parte del nostro catalogo a disposizione di Vitaminic, e dopo il primo
mese mi hanno telefonato, entusiasti, dicendo che erano state scaricate 1200
tracce. Ho chiesto quante fossero a pagamento e quante gratuite: la risposta è
stata che solo 2 tracce erano state scaricate a pagamento, entrambe da me, per
provare il funzionamento del sistema.]
SERGIO BASSETTI
Per rispondere a Marco Benedetti, io non credo che il collezionista si accontenterà di possedere la copia della copertina, così come il bibliofilo non scaricherà
mai da un CD-ROM i testi scritti per metterli su carta stampata considerandoli il
libro. Il collezionista considererà sempre ciò che scarica da Internet una copia da
sostituire il prima possibile con l’originale. Non credo sia una questione di prezzo.
GIANCARLO LANDINI
La mia osservazione segue la stessa linea di quella precedente. Per fare la
collezione di francobolli è necessario che i francobolli vengano emessi da un ente
che garantisca la collezione. Il collezionista non ha alcun interesse per un disco
diverso da tutti gli altri, perché vuole possedere la matrice 78 giri emessa in quel
momento e il possederla in poche copie le dà un valore. Il collezionista è disposto
a pagare quattro milioni per uno Zonofono azzurro perché ne esistono dieci copie
in tutto il mondo: questo fa la collezione, che è riconosciuta da tutti gli altri.
CARLO MARINELLI
A me sembra che Long, Bassetti e Landini abbiano perfettamente ragione
quando esprimono un principio molto semplice: non sono i collezionisti che
fanno il mercato di una multinazionale.
Abbiamo sforato di dieci minuti i tempi previsti per la chiusura dei lavori.
Poiché oggi abbiamo ascoltato una relazione in più rispetto a quelle in programma, domani potremo cominciare un po’ più tardi: che ne dite di aprire i lavori alle 9.30? Vedo che siete tutti d’accordo.
Vi ringrazio moltissimo non solo per l’interesse che i vostri interventi hanno destato ma anche perché i lavori si sono svolti in modo estremamente ordinato, tanto da rendere la presenza del presidente perfino inutile. A domani.
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domenica 9 dicembre 2001
ore 9.30
IL LUOGO DELLA MUSICA
via de’ Delfini 20
presiede
Carlo Marinelli
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CARLO MARINELLI
Buongiorno a tutti. Questa mattina, come sapete, ascolteremo due sole relazioni, quella del dottor Ludovico, Frequenze anomale e opportunità mediatiche: le nuove connotazioni dei file musicali e, dopo la consueta pausa caffè,
quella finale del dottor Oderso Rubini, Rumore di fondo.
Pregherei il dottor Ludovico di tenere la sua relazione.
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ALESSANDRO LUDOVICO
Frequenze anomale e opportunità mediatiche: le nuove connotazioni dei file
musicali
Vorrei innanzitutto ringraziare il professor Marinelli, lo staff e tutta l’organizzazione dell’I.R.TE.M.
Soprattutto nell’ultimo anno, mi occupo di raccogliere quotidianamente
una serie di notizie che riguardano tutti i fenomeni legati alla cultura digitale,
pratica che in realtà ho cominciato ben otto anni fa, appassionandomi poi anche
alla branca musicale. Questa mattina parlerò di tre fenomeni interessanti, quanto correlati non saprei dire, per comprendere alcune pieghe del mondo digitale
che, a mio avviso, riflettono nel bene e nel male alcune connotazioni della natura umana. Per questa ragione cercherò di fare la cronologia e la cronaca
dell’inserimento di frequenze anomale nei file musicali, di determinate opportunità mediatiche, che sono figlie della strutturazione di alcuni meccanismi,
nonché dell’uso artistico rispetto alla qualità, che è il tema conduttore di queste
due giornate.
Avevo sommariamente definito come «frequenze anomale» (argomento
abbastanza caldo e oltretutto recentissimo) l’inserimento di dati all’interno di
file musicali allo scopo di creare dei meccanismi di protezione; per protezione,
in questo caso, non si intende la salvaguardia del brano in senso lato ma l’impedimento alla duplicazione non autorizzata. Va ricordato che la versione 2.0
di Napster, quella successiva all’incredibile boom che ne ha fatto uno dei fenomeni mediatici dello scorso anno (versione, per la precisione, rilasciata a maggio di quest’anno), aveva un meccanismo chiamato finger printing. Questo programma faceva periodicamente, per chi lo installava sul suo computer, la
scansione dei brani che l’utente aveva sul suo computer, brani che ovviamente
venivano condivisi in Rete. In maniera casuale ne sceglieva alcuni da cui
estrarre il finger printing, che in italiano significa impronta digitale. Questa veniva rinviata all’azienda stessa, con lo scopo di cominciare uno studio sul rilevamento di una sorta di filigrana dei brani per poterli conoscere. Per attuare la
filigrana, questa tecnologia non inseriva solo il nome dell’autore e del brano,
cioè i dati opportunamente combinati, ma anche i dati dell’utente al fine di sapere che quel determinato brano musicale stava su quel determinato computer,
secondo l’azienda in maniera anonima. Tale sistema era fornito da una seconda
azienda. La storia di questi mesi continua esattamente nove giorni dopo, con
l’annuncio di un primo CD prodotto negli Stati Uniti e definito «incopiabile».
Si tratta di un CD di un’etichetta country di Nashville, la Music City Records,
che aveva prodotto l’album di Charley Pride intitolato A Tribute to Jim Reeves.
È stato prodotto grazie a un accordo con un’altra casa dedicata al diritto d’autore, che sosteneva appunto che questo CD non fosse copiabile. Teniamo presente che stiamo parlando di artisti che hanno una distribuzione mondiale, anche
se le etichette che li producono sono indipendenti e non fanno parte delle cinque major. Nell’arco di due giorni si è avuta notizia di tutte le tracce del CD disponibili in una home page di Yahoo, dunque in un posto che più pubblico non
potrebbe essere. Molti giornali si sono avventurati nell’ipotesi di famigerati
hacker che avessero sconfitto la tecnologia di protezione. In realtà, qualche
giorno dopo, si è scoperto che l’edizione protetta era stata quella distribuita negli
Stati Uniti e che nella edizione australiana non era stata inserita alcuna protezione, per cui erano state digitalizzate e rese disponibili le tracce. A luglio c’è un pri82
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mo annuncio della Liquid Audio, che è un altro standard per proteggere i file
musicali e distribuirli a pagamento. Si comincia a parlare di watermarking, di
inserire dei dati che non hanno nulla a che fare col brano musicale ma che in
qualche modo lo marcano, un’evoluzione della filigrana di cui parlavo prima.
Verso metà luglio viene annunciata una delle due tecnologie, la Safe Audio,
che effettua appunto il processo che dovrebbe rendere sicuri i brani con l’inserimento di frequenze anomale. Tale annuncio viene addirittura accompagnato
da alcune analisi di mercato commissionate dalla IFPI (International Federation
of Phonographers Industry), che affermano che entro il 2003 il 40% dei CD
sarà protetto. C’è da dire che, di norma, simili analisi di mercato spuntano
come i funghi quando c’è la presentazione di nuove tecnologie di protezione,
proprio per dare loro una sorta di appoggio morale, di legittimazione scientifica, sebbene in questo caso la scientificità sia opinabile. Quindici giorni dopo
questo annuncio, il 18 luglio, comincia a montare una serie di proteste velate
da parte di audiofili ed esperti di alta fedeltà, i quali affermano che questi dati,
lungi dall’essere trasparenti, possono provocare una distorsione della riproduzione in più di un disco. Questo è fortunatamente un primo, importante segnale. Passata l’estate, a settembre, avviene il primo accordo, non da parte della
Safe Audio ma del secondo standard, il Cactus Data Shield. Prodotto da una
casa di software israeliana, esso incassa un primo accordo con una major, la
BMG. Ovviamente le major continuano a sostenere che i dati di controllo sono
impercettibili nella riproduzione musicale ma le proteste continuano a serpeggiare. 23 giorni dopo, un annuncio porta la questione a dimensioni molto più
popolari: pop, infatti, è il nuovo album di Michael Jackson You Rock my World
che la Sony annuncia sarà protetto con una di queste tecnologie, non specificando quale. Viene inoltre annunciato anche l’album degli U2 – stiamo parlando di un artista e di un gruppo tra quelli che in assoluto vendono più copie –. A
questo punto, un’associazione inglese, la Compain for Digital Rights, comincia
a sostenere pubblicamente che i consumatori sono palesemente svantaggiati da
questo tipo di scelte, in quanto i codici di protezione, sottraendo dati musicali,
danneggiano la qualità dell’audio; le case discografiche, a eccezione dei due
casi clamorosi sopra citati, non hanno inoltre alcuna intenzione di svelare quale
sia l’elenco dei prodotti protetti, operando così a insaputa degli utenti. Ieri si
diceva che la protezione adottata per i CD fa in modo che questi non possano
essere ascoltati con un Personal Computer. Ciò magari può importare poco a
chi la musica la ascolta con tutta una serie di accorgimenti, ma il problema che
si pone è quello della criminalizzazione di un mezzo, il Personal Computer,
con gran danno degli utenti. A rincarare la dose, la Universal annuncia che entro la primavera del 2002 tutte le nuove uscite saranno protette. Dopo dieci
giorni avviene qualcosa che a me è piaciuto molto. La Compain for Digital Rights organizza delle manifestazioni pubbliche, non propriamente di piazza,
contro i tentativi di proteggere i CD dalla copia. La protesta si svolge davanti ai
negozi di dischi, a Londra, a Birmingham, a Leeds, a Glasgow, a Edimburgo, a
Brighton, a Cambridge e in diverse altre città inglesi. La stessa associazione rivendica un altro punto altrettanto importante: non solo c’è il diritto dell’utente
di sapere se il CD è stato protetto, non solo lo si danneggia sottraendo dati musicali per uno scopo che dovrebbe essere pensato in altri termini, quand’anche
sia giustificato, ma viene messa in discussione la durata nel tempo dei supporti
così fabbricati. La diatriba sulla durata nel tempo dei CD, del vinile, ecc. non è
certo una novità ma gli esperti della Compain for Digital Rights (certamente
esperti di parte ma a ragion veduta) avanzano il dubbio che questi supporti durino meno di quelli prodotti senza le tecnologie di protezione: secondo un ragionamento di buon senso, da uomo della strada, si può affermare infatti che,
quando si inserisce un disco siffatto nel lettore di un PC, il laser continua a cer83
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care di leggere determinati dati e il CD subisce pressioni meccaniche all’interno, subendo uno stress cui normalmente non sarebbe sottoposto. Cominciano a
verificarsi scelte contraddittorie. Il CD dei Gang Sink, gruppo pop tra i top ten
negli Stati Uniti, viene protetto nella distribuzione tedesca ma non in quella inglese. In questo mese, nella distribuzione tedesca compare per la prima volta
un bollino che riporta: «This CD is not playable on computers».
MARCO BENEDETTI
A mio avviso, il problema della lettura al computer non è stato previsto: è
stata inserita una protezione da copia digitale e, come sottoprodotto, ci si è trovati di fonte al problema dell’interfoliazione che non permette una lettura corretta. Adesso le major sono costrette a cavalcare questo cavallo, visto che lo
hanno scelto, anche perché ha sollevato più polvere di quanto avrebbero voluto. Mi perdoni l’interruzione.
ALESSANDRO LUDOVICO
Al contrario, la ringrazio, anche perché il suo intervento mi dà l’opportunità di arrivare all’ultimo punto che vorrei affrontare.
Il 12 novembre viene introdotto sul mercato il primo CD realmente di massa, protetto in tutta la sua distribuzione, che batte sul tempo quello di Michael
Jackson che era stato annunciato. Si tratta dell’album di Natalie Imbruglia,
White Lilies Island, la cui prima distribuzione è effettuata sul mercato britannico. La tecnologia di protezione è quella della Cactus Data Shield. Curiosamente pare non funzionare sui sistemi Windows, al contrario di altri sistemi operativi meno popolari, dove sembra creare meno problemi. Come una sorta di
contentino, la ditta mette su CD un programma che permette di ascoltare le
tracce su Personal Computer ma non dà la possibilità di duplicare. Sul CD, infatti, sono presenti anche le versioni delle tracce in mp3, dunque con un bitrate minore. Fatto sta che questa soluzione è naufragata molto più miseramente
delle altre, in quanto sono stati proprio gli utenti, senza la mediazione della
Compain for Digital Rights, a innescare un meccanismo di protesta. Qualche
manifestazione è cominciata nei Virgin Megastore, che in Inghilterra, insieme
alla HMV, costituiscono la maggior catena di distribuzione discografica. Vi
partecipano persone per nulla informate di tutta questa vicenda ma che dopo
aver comprato il CD di Natalie Imbruglia si sono accorte che non funziona. I
Virgin Megastore non sono stati avvertiti dalla BMG, che ha pensato bene di
far passare il tutto sotto silenzio. I Virgin Megastore aderiscono alla protesta
nei confronti della BMG, col risultato che, a due giorni dall’interruzione sul
mercato inglese, da parte della BMG viene attivata un’apposita linea telefonica
per raccogliere le proteste. Non solo. Nell’arco di una settimana la stessa BMG
decide di sostituire i CD protetti con CD non protetti a tutti gli utenti che ne
facciano richiesta. È emblematica la frase di uno dei rappresentanti dei Virgin
Megastore, il quale, in un comunicato ufficiale, afferma che, in qualità di rivenditore, supporta la lotta al furto del diritto d’autore ma mai a spese del consumatore, che in questo caso è chiaramente disorientato se non palesemente ingannato. Curioso e significativo è che questa protesta sia stata innescata non da
quanti hanno seguito la vicenda, non dalle parti in causa, ma dall’utente finale,
cosa assolutamente positiva.
Vorrei fare una semplice considerazione su Napster, che mi sembra argomento leggermente più umano rispetto a tutte le questioni industriali di cui si è
parlato negli ultimi mesi. C’è un fenomeno compulsivo cui ho assistito più volte, da parte di persone che, in buona parte, si sono ritrovate come dei bambini
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in una fabbrica di dolci. Hanno cominciato a scaricare sul proprio computer
svariate centinaia di tracce senza neanche ascoltarle, cercando di accumulare il
più possibile approfittando di quella che a me piace definire una sorta di «cassaforte aperta». Per molti, tuttavia, questo processo costituiva una sorta di tuffo
nella memoria, una riappropriazione dei propri ricordi musicali e, a mio avviso,
questa è stata una delle componenti più positive del fenomeno Napster: gli
utenti non andavano a ricercare l’ultimo album per evitare di comprarlo ma
spesso cercavano i brani che ascoltavano al liceo o in determinate fasi della
propria vita, dei quali era semplicemente complicato recuperare una copia
stampata. Sinceramente non vedo proprio nulla di male in questo. Abito a Bari,
dove esiste un florido mercato illegale di CD: proprio pochi giorni fa una fabbrica clandestina che aveva attrezzature per mezzo miliardo è stata sequestrata,
ma questo non ha nulla a che fare coi temi che stiamo trattando e riguarda semmai la malavita. Lo scambio gratuito delle tracce, invece, non finalizzato
all’accumulazione di denaro o al piccolo traffico illegale, costituisce forse una
sorta di necessità esistenziale, come avere certe foto o certi film che costituiscono un punto di riferimento, frammenti che si sono perduti nel tempo e che
grazie a uno scambio paritario si ritrovano. Questa pratica è tuttavia accompagnata da un senso di colpa, come quello che assale chi trovi appunto una cassaforte aperta e ne prenda parte del contenuto: si sa che c’è qualcosa di non
propriamente cristallino.
Un simpatico fenomeno si è verificato a giugno dello scorso anno: in un
comunicato un fantomatico gruppo affermava che il 4 di luglio – giorno
dell’indipendenza americana – tutti i computer della terra si sarebbero bloccati
grazie a un virus chiamato music panel, e che tutti i file mp3 contenuti nei computer, concernenti i primi cinquecento album più venduti, sarebbero stati danneggiati. Come alcune chiacchiere messe in Internet in posti strategici, il comunicato si è diffuso molto rapidamente, peraltro lanciato attraverso un provider
australiano. Si è trattato di un’operazione di istigazione al panico mediatico,
anche se, letta con un minimo di ironia, potrebbe rappresentare la risposta a un
analogo scherzo del 1998: un virus avrebbe quintuplicato la dimensione dei file
mp3 presenti nei computer, una sorta di ipertrofia che avrebbe dovuto far scoppiare le dimensioni dei dati sul computer. Rispetto al senso di colpa di cui parlavo, c’è da dire che i meccanismi mediatici dei file possono essere anche diversi. C’è un fenomeno di iperproduzione musicale, relativo soprattutto alla
musica elettronica, che è oggettivo. Strutture che amplificano ulteriormente
questo fenomeno sono i portali di file musicali liberamente scaricabili. Uno di
questi, mp3.com, è stato probabilmente il primo a essere dotato di una solida
struttura e a imporsi sul mercato adottando una serie di politiche, tra le quali si
distingue quella del pay back for play back. Nel novembre del 2000, prima che
emergessero tutte le questioni relative ad acquisizioni da parte di altre aziende,
mp3.com ha deciso di stanziare un milione di dollari al mese per ricompensare
le band e tutti i gruppi musicali che fossero riuscite a raggiungere i primi quaranta posti della classifica della popolarità. Questo sito era dotato di una sorta
di contatore: tante volte una traccia veniva scaricata, tanto più alto era il gradimento dell’artista, e i primi quaranta gruppi più scaricati venivano compensati
in proporzione al numero di persone che aveva scaricato il loro brano. Dopo
aver visitato il museo dedicato al muro di Berlino, mi sono definitivamente
convinto che qualsiasi limite si ponga alla libera espressione e alla libera circolazione degli esseri umani fa scattare una serie di processi mentali incredibilmente fantasiosi per superare tali limiti. Nel caso citato, qual era lo scopo? Riuscire a guadagnare soldi acquistando una certa popolarità. Quali meccanismi si
sono invece innescati? Uno vecchio come il mondo, quello sessuale. Sperando
di non scandalizzare nessuno, la signora Liz Galtney con il gruppo Erotic Tran85
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ce ha realizzato alcune canzoni di elettronica abbastanza semplice e con una serie di rime facilmente intuibili e parecchio sospirate; i titoli vanno da Guilty as
Sin a Sexual Fantasy, ma per promuovere la propria musica è andata oltre: insieme a suo marito ha girato un video definito «musicale» ma in realtà porno;
per accedervi bisognava scaricare le tracce. Questo l’ha portata nei primi quaranta posti della classifica con 2500 download al giorno, il che le ha permesso
di accumulare quotidianamente 100 dollari. Questo è il caso più clamoroso ma
ce ne sono stati altri. Un diciottenne, Alex Smith, produceva Trance Music, un
genere Techno molto ripetitivo e particolarmente ipnotico per chi l’ascolta. Da
un giorno all’altro si è ritrovato nella top forty. Ragionandoci sopra scoprì che
il motivo di tanto successo è che aveva intitolato il suo brano The Matrix prima
dell’uscita del film. Questa casualità gli fece guadagnare 78.000 dollari. Questi
due casi possono essere considerati comunque isolati ma hanno dato inizio alla
pratica delle liste di scambi download: la fantasia è cominciata a fervere nella
ricerca di opportunità mediatiche. Secondo il principio che la collaborazione è
la cosa che paga di più anche da un punto di vista economico, queste liste dicevano sostanzialmente: io scarico il tuo e tu scarichi il mio. C’è anche chi ha
tentato di proporre delle collaborazioni impari, affermando che avrebbe scaricato per cinque volte. Si sono allora creati dei download club, gruppi di persone che si supportavano a vicenda per scalare le classifiche.
Una delle prime protezioni di Napster è stata attuata sui nomi dei file: il
computer centrale di Napster bloccava, ad esempio, i file che cominciavano per
«Britney Spears». Un primo espediente per aggirare l’ostacolo fu quello di scrivere il nome al contrario. Sempre a proposito dei giochi di lettere, una serie di
band hanno cominciato a chiamarsi in maniera simile ai gruppi famosi per cercare di rientrare all’interno di questi download: troviamo allora «The Britney
Spears» o «Backstreet 98 Boys Degrees», con l’inserimento di una serie di elementi all’interno dei nomi delle band famose. Un altro caso si è verificato durante lo scorso Festival di San Remo. Secondo alcune voci non confermate, dei
bontemponi avevano messo su Napster alcuni brani col titolo delle canzoni in
gara che, come tutti sanno, per motivi di contratto non possono essere immesse
sul mercato prima del Festival. In realtà si rivelarono brani completamente diversi. Altro caso italiano di «furbata» è quello di tal Vittorio Merlo, che ha ottenuto centocinquantamila download (l’italiano più scaricato in assoluto su
mp3.com) perché ha composto un inno alla Ferrari, divenendo un fenomeno
mediatico e accumulando qualche soldino. Ha poi pensato di bissare il successo
con un CD che si intitola Io non sopporto i Berlusconi che, al di là della condivisione o meno del messaggio, è palesemente un ennesimo tentativo di rientrare all’interno della classifica.
Vorrei concludere con un’ultima questione che non mi sembra di secondaria importanza: il dibattito sulla qualità musicale. Alcuni fenomeni artistici
nell’ambito elettronico (che è anche quello più contiguo ai miei interessi e che
seguo maggiormente) sono a mio avviso interessanti proprio in termini di qualità. Mi riferisco in particolare a quegli artisti di musica elettronica che, soprattutto nell’ultimo anno, hanno cercato di comporre dischi con i primi computer
destinati al mercato domestico. Parlo per esempio del Commodore 64, che ha
venduto diciassette milioni di pezzi fra l’inizio degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Questo computer era dotato di un chip sonoro, peraltro molto
avanzato per l’epoca, sufficientemente duttile per fornire delle melodie che, per
quanto farebbero inorridire qualsiasi appassionato della purezza del suono, avevano delle qualità sorprendenti per il tipo di tecnologia che utilizzavano; avevano insomma una propria peculiarità artistica. Tra i quindicenni che sono cresciuti con il Commodore 64 comprato dai genitori o con i propri risparmi
(come è capitato a me), quelli che sono diventati musicisti si sono ritrovati die86
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ci anni più tardi a utilizzare queste apparecchiature come strumenti musicali.
Sono uscite due compilation di un’etichetta tedesca particolarmente sensibile a
questi prodotti: la prima è costituita da brani originali tratti da colonne sonore
di videogiochi, l’ambito in cui i musicisti elettronici si esprimevano maggiormente, la seconda remixava questi primi brani, tutti composti con il Commodore 64. Questi pezzi vennero definiti «classici del retrofuturo». In effetti, l’insieme dei cultori dei vecchi computer si chiama appunto «retrocomputing», una
sorta di modernariato. Questo fenomeno non è isolato, tanto che una casa di
produzione di strumenti musicali elettronici si è presa la briga di produrre una
macchina che si chiama SidStation, dove il sid non è altro che il chip del Commodore 64 e il SidStation un sintetizzatore basato su questo chip.
Sempre a proposito della qualità musicale e, soprattutto, della conservazione della memoria, volevo segnalare altri due fenomeni.
La Opcode, una casa di software, ha prodotto un programma che si chiama
Vinyl 1.0, che permette di simulare condizioni incredibilmente fedeli di polvere, elettricità statica, sibili, graffi e deformazioni. Questi programmi davvero
eccelsi non riproducono quei rumori come sovrapposizioni di campioni ma si
basano su algoritmi matematici che simulano il fenomeno; per capirci, non
vanno a sovrapporre un fruscio al brano ma a simulare il processo di degradazione in un determinato punto di un brano. Inoltre, tra le varie opzioni del programma ci sono anche gli inserimenti dei differenti brontolii emessi dal piatto,
a seconda che giri a 33, a 45 o a 78 giri, o condizioni assolutamente fantasiose,
per esempio come suonerebbe un brano su vinile se fosse stato lasciato in auto
al sole per un mese. Proprio rispetto alla degradazione, vorrei citare un progetto
annunciato cinque giorni fa da un coraggioso distributore di musica elettronica,
Microsuoni: in un ambito chiamato proprio «degradazione digitale», è stato
chiesto ad artisti famosi nella scena minimale elettronica di interpretare questo
tema.
Rispetto alla questione della copia, voglio semplicemente citare la frase del
fondatore della Greenwich, una delle prime Internet Radio: «Se puoi ascoltarlo
puoi anche copiarlo». Secondo le leggi della fisica, la musica non potrà mai essere protetta dalla duplicazione. L’ex paroliere dei Greatful Dead, altro gruppo
psichedelico degli anni Settanta, John Perry Barlow, è fondatore di una delle
associazioni per la difesa dei diritti del cittadino digitale. Già all’epoca dei loro
concerti, i Greatful Dead promuovevano presso i fun la registrazione e la diffusione dei loro concerti, i cosiddetti bootleg. Egli ha sintetizzato un concetto
fondamentale rispetto alle lotte alla protezione dei brani, e cioè che la musica
non è di proprietà delle major ma semplicemente patrimonio dell’umanità. Vi
ringrazio.
MARCO BENEDETTI
Solo una breve precisazione sui software di cui ha parlato. In realtà esistono prodotti professionali (fra questi, uno che uso personalmente si chiama Magneto) che simulano la saturazione del nastro analogico nella registrazione digitale. Qui però ci addentriamo in un discorso di costume. Viviamo un’epoca in
cui piace il suono caldo, l’imperfezione, mentre dieci anni fa piaceva qualcosa
di più freddo. Mi sembra che questo rientri in un fenomeno di moda. Più interessante è invece la questione della protezione col software ad alta qualità.
Si sta discutendo su due nuovi standard, il DVD Audio e il Super Audio
CD, che vengono molto incentivati dalle major. I motivi reali di questa incentivazione, soprattutto nel caso del Super Audio CD, risiedono nel fatto che, poiché stanno scadendo i diritti dei brevetti dei CD, la Sony e la Philips vorrebbero rinnovare questi introiti con una nuova apparecchiatura. Ma il problema vero
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riguarda la protezione da copia che all’epoca nel CD non era stata prevista, per
cui le major sono dovute ricorrere a quei mezzucci che, come abbiamo visto,
creano non pochi problemi.
CARLO MARINELLI
Personalmente non credo che il Super Audio CD avrà un gran successo
perché implica la necessità di comprare un lettore ad hoc, mentre il lettore
DVD è al contempo audio e video.
Quello che tuttavia mi interessa è altro. Traducendo in termini semplicistici
quel che mi state dicendo, siamo alla follia totale! Non ci piace più il suono
freddo proprio del digitale e vogliamo un suono caldo. Abbiamo distrutto il
suono caldo naturale e lo abbiamo sostituito con quello freddo del digitale per
motivi di convenienza economica. Tuttavia non torniamo indietro, non insegniamo nuovamente ai cantanti a impostare la voce in un certo modo, ai violinisti a suonare il violino come prima. No! Correggiamo il suono freddo perché
diventi caldo, facendo la falsificazione di una falsificazione. In questo modo
non avremo mai il suono caldo. Non riesco allora a capire per quale ragione
non si torni indietro.
SERGIO BASSETTI
Piuttosto che avere il panino di plastica che profuma di pane sarebbe meglio tornare al pane.
ODERSO RUBINI
Vorrei commentare brevemente la relazione di Alessandro Ludovico. Mi ha
divertito molto il racconto dell’episodio del gruppo Matrix salito in classifica su
mp3.com. Infatti mi faceva venire in mente che, più o meno una ventina di anni
fa, lo stesso meccanismo veniva adottato da alcune persone che operavano
all’interno della SIAE: gli ispettori, ad esempio, depositavano brani con titoli simili a quelli di successo già depositati; in tal modo, con i criteri di attribuzione
che aveva la SIAE, una parte dei soldi assegnabili agli aventi diritto finivano comunque anche agli altri. Il meccanismo più o meno è lo stesso, è la classica
«furbata», ma il fatto è che avveniva all’interno di una struttura pubblica.
CHIARA SIRK
A me sembra che tutti i discorsi fatti siano fortemente influenzati dal parametro dell’età. Ieri abbiamo parlato delle suonerie dei cellulari, moda soprattutto dei ragazzi molto giovani; oggi si è parlato di mp3 e di download, attività
prevalentemente giovanili. Chiedo conferma di questo.
Vorrei fare un’altra domanda relativa alla frase conclusiva dell’intervento di
Alessandro Ludovico: «Se puoi ascoltarlo puoi anche copiarlo». Mi ha fatto riflettere un episodio che tutte le storie della musica citano: il Miserere di Allegri veniva
cantato a memoria dalla Cappella Sistina perché era un’esclusiva che non si doveva eseguire altrove; arriva Mozart, lo memorizza, lo trascrive e risolve il problema.
Evidentemente questa questione affonda le radici in un passato molto remoto!
LORENZO TAIUTI
Una considerazione breve sulla fedeltà del suono. Un elemento poco considerato è la quantità del suono legata ad alcuni aspetti della qualità. La possibi88
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lità di registrare su vinile prima, su CD e DVD poi, è un elemento importante
nel senso della musica e del suo estendersi nel tempo. Così come anche il vinile, meraviglioso riproduttore, era anche il contenitore di una serie di suoni parassitari legati alla fragilità del supporto. Questa è una cosa che non dobbiamo
dimenticare quando parliamo di suono caldo o freddo.
CARLO MARINELLI
Più che alla fragilità del supporto quei suoni parassitari erano legati alla
lettura per fricazione che, per forza di cose, comportava dei rumori.
LORENZO TAIUTI
Credo che tutti noi abbiamo dovuto buttar via o mettere in cantina centinaia di vinili, oggi impossibili da ascoltare perché a suo tempo troppo amati e
ormai fruscianti.
Una considerazione sulla Rete. A parte i fenomeni divertenti che ci ha raccontato Ludovico, il processo si lega a fattori ultra-mediatici e ultra-consumistici (la pornografia, il nome simile, e così via); ci sono anche tutti gli esempi
di auto-costruzione e di auto-programmazione: in uno dei paesi baltici, dei giovani si sono collegati ad altri giovani di altre parti del mondo, creando una specie di radio privata via Internet.
Per quanto riguarda la questione dell’età, non credo che i mezzi informatici
aprano quel divario generazionale che nel passato caratterizzava altre forme di
comunicazione. L’unica differenza per cui certi mezzi sono maggiormente utilizzati dai giovani è semplicemente legata al tempo. Per il resto, ho l’impressione che il dato generazionale sia già venuto meno in alcuni campi della produzione culturale ed estetica, e ancora meno rintracciabile sia nell’uso dei mezzi
informatici.
CARLO MARINELLI
Grazie.
Cedo la parola a Oderso Rubini per la sua relazione Rumore di fondo.
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ODERSO RUBINI
Rumore di fondo
Per cominciare, vorrei fare una breve analisi dell’industria discografica.
È convinzione abbastanza diffusa all’interno dell’industria discografica che
oggi la musica sia fondamentalmente un medium utile a veicolare altri prodotti.
Questo assunto nasce dalla constatazione evidente che l’industria dell’entertainment, nel suo complesso, dovendo motivare e incentivare la vendita di sempre nuovi prodotti, ha trovato nella musica un vero content disponibile, pronto,
ideale per favorire in realtà la vendita di computer e accessori (per favorire
quindi l’industria dell’hardware e del software), per vendere tempo di connessione (per favorire le compagnie telefoniche), per promuovere o vendere prodotti generici (mi riferisco ai mezzi usati per la pubblicità). Tanto per fare un
esempio pratico, cito gli ipermercati. La politica dei prezzi di vendita dei CD
nei grandi centri commerciali, prezzi sensibilmente più bassi rispetto a quelli
dei punti vendita tradizionali, nasce dalla necessità di usare la musica come
elemento d’attrazione per vendere in realtà elettrodomestici. Questo mette in
crisi i punti di vendita tradizionali, che non riescono a sostenere i prezzi concorrenziali degli ipermercati, e riduce il numero di punti vendita, amplificando
sempre più il problema della distribuzione del supporto.
In realtà, la tanto invocata smaterializzazione della musica sposta semplicemente le risorse da un settore industriale all’altro: dalla plastica (CD e vinile)
al tempo di connessione, dai sistemi di riproduzione tradizionali al computer.
Pertanto, secondo me, l’idea che l’innovazione tecnologica diminuisca i costi
per il fruitore finale è una pura illusione, perché alla fine della festa i costi per
digitalizzare i brani, metterli in Rete, costruire meccanismi di vendita e di distribuzione sono pari, se non più alti, rispetto a quelli che si avrebbero continuando a stampare dei supporti fisici; e questo, purtroppo, avendo avuto esperienze dirette o conoscenze di esperienze poi miseramente fallite, temo che sia
ancora vero. Dal mio punto di vista, quindi, il problema non è mp3, che personalmente tendo a paragonare, pensando a un fenomeno vecchio, alle audiocassette. mp3 è un formato in teoria più povero rispetto all’originale, come più
povera era l’audiocassetta ai tempi del vinile. Oggi mp3 favorisce fondamentalmente la trasportabilità della musica, nel senso che ancora una volta l’industria dell’hardware sta producendo apparecchi o accessori che permettono di
portare in giro addirittura 340 CD con apparecchiature di dimensioni molto ridotte o grandi come i lettori portatili di Compact Disc. Qualche giorno fa ho incontrato il presidente della FIDI, la Federazione Italiana dei Discografici Italiani, il quale era molto felice di aver comprato il lettore della Creative con una
memoria di 20 Gigabyte perché, ovunque andasse, poteva portare con sé la sua
discoteca. In sintesi, il grande vantaggio di mp3 è la trasportabilità e la possibilità di ordinare il materiale: la catalogazione e la ricerca del materiale possono
essere molto favorite dall’uso di mp3. Se è vero poi che mp3 Pro ha qualità migliori, temo che questo effetto sarà ulteriormente amplificato. Il problema, inoltre, non è neanche Internet, che, dal mio punto di vista, è semplicemente un
nuovo medium che sta cercando il proprio spazio. Stando agli sforzi dei tanti
settori dell’industria che operano in questo ambito, è inevitabile che lo troverà
in tempi relativamente brevi. Internet dovrà trovare una sua identità ma non è
detto che questo farà sparire tutto il resto, come d’altronde non è sparito il libro: da due o tre anni a questa parte c’è anzi una ripresa, sia pur piccola, del
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mercato del vinile, tanto che sono stati ristampati vecchi vinili con un supporto
molto consistente di qualità e con tanto di copertine originali. Non credo che
Internet farà sparire tutto, diciamo piuttosto che pian piano entrerà e, quando
avrà trovato la sua dimensione, probabilmente si chiariranno un po’ di cose. In
questo momento c’è molta confusione. Non so come saranno i termini della
questione fra qualche anno; l’unica cosa che posso affermare con certezza è
che ci vorrà molto più tempo di quello che vorrebbero farci credere i dati statistici che vengono avanzati ogni qualvolta venga presentata una nuova apparecchiatura. Sono dati creati ad arte per dimostrare che quel tipo di tecnologia o di
supporto avrà in tempi brevissimi un grande successo, in modo da favorirne
l’entrata nel mercato. In realtà, nel corso degli ultimi dieci anni, di rivoluzioni
tecnologiche ne sono state annunciate quattro o cinque, salvo che poi sono tutte
fallite miseramente. I tempi saranno molto più lunghi e ci si arriverà pian piano. C’è allora ancora uno spazio per lavorare anche fuori da Internet o sulla
produzione musicale in senso lato.
Vorrei parlare brevemente di Vitaminic per chiarire un po’ più le idee rispetto a quanto è stato detto ieri.
Vitaminic è una Internet Company pura. Cosa vuol dire Internet Company?
Vuol dire che la musica e tutto quello che le gira attorno non hanno praticamente alcuna importanza! È un’operazione di tipo finanziario, sulla quale è stato fatto un grande investimento e che ha chiesto un grande investimento al mercato, che per il momento le ha dato ragione. La qualità non ha alcuna
importanza. Ieri il dottor Long diceva che, nell’ambito della musica classica, ha
ceduto i diritti a Vitaminic di una parte del suo catalogo e che non ha avuto alcun ritorno di vendite tramite download, se non per due brani su cento. Questo è
assolutamente vero per tutto il mercato. I promotori di questa operazione hanno
coscienza che non è il download che fa guadagnare soldi, e infatti non lavorano
su quello: nei dati di bilancio dell’anno scorso hanno denunciato un fatturato di
nove miliardi di lire, i quali non provengono se non in minima parte da download, sebbene in teoria sia il loro core business; in realtà il loro business principale è fare accordi con le compagnie telefoniche per cedere il loro repertorio o
accordi di tipo commerciale-pubblicitario con aziende che hanno dei prodotti da
veicolare. Il successo economico che stanno avendo sul mercato li ha indotti a
ipotizzare il pareggio operativo di bilancio per l’anno prossimo. Una prima parte
di utili per quanti hanno comprato le azioni di Vitaminic derivano da operazioni
che si svolgono su altri piani, non certo su quello della musica o della qualità
musicale, e questo deve essere molto chiaro. Come Vitaminic ci sono tante altre
strutture che operano in questo senso. Hanno fatto un lavoro di acquisizione di
musica, soprattutto di quella che non ha rapporti con la discografia, raggiungendo il numero di cinquantamila gruppi in catalogo. Come è successo al signor
Long, strombazzano grandi download gratuiti e pochissimi a pagamento, ma in
realtà si fanno forti andando dalle strutture come Omnitel e dicendo di avere
cinquantamila artisti in catalogo, più una serie di contratti con etichette per fare
le operazioni di download; così il venditore di tempo di connessione, che ha il
telefonino da riempire di contenuti, paga per avere accesso a tutto il repertorio.
Da questo punto di vista, credo che anche l’accordo con Napster annunciato
qualche giorno fa vada in questa direzione. Ritenevo opportuno chiarire bene la
questione per far capire quale sia l’atteggiamento dell’industria. In questo momento all’industria conviene avere contenuti, cose da veicolare, dunque per i
contenuti c’è molto spazio. Per chi abbia intelligenza, vitalità, capacità di inventare nicchie di mercato o di riprocessare cose vecchie, il mercato c’è sicuramente. Staremo a vedere come tutto si svilupperà nel tempo.
Fatta questa premessa, vorrei brevemente accennare al perché abbia intitolato il mio intervento Rumore di fondo.
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Da quando l’era industriale della riproducibilità ha avuto inizio (parliamo
quindi di un centinaio di anni) tutti i supporti che sono stati inventati e prodotti
hanno dovuto più o meno convivere con il problema dei rumori o della scarsa
fedeltà. L’avvento del CD ha migliorato la situazione da questo punto di vista
ma l’ha peggiorata da quello delle condizioni normali di ascolto. Se negli anni
Cinquanta, Sessanta o Settanta l’ascolto della musica era una sorta di atto «sacrale», man mano che la società ha introdotto bisogni nuovi e diversi è cambiato il tempo a disposizione e il modo di godere la musica. La produzione e il
consumo di musica sono notevolmente aumentati, non diminuiti, ma è cambiato radicalmente il modo di fruirla: l’ascolto avviene sempre più di frequente in
ambienti rumorosi o con apparecchiature che producono rumore; la musica si
ascolta in macchina, oggetto estremamente rumoroso; la musica si ascolta al
computer, cosa che personalmente non amo fare perché mi infastidisce il rumore della ventola; la stessa televisione non è il massimo per ascoltare la musica,
anche se la televisione di musica ne trasmette tanta. Vorrei raccontarvi un piccolo aneddoto che è accaduto a me personalmente quando producevo dischi.
Un giorno entro in un bar e, a volume molto alto, sento una musica che mi ricorda qualcosa che tuttavia non riesco a individuare. Dopo almeno due minuti
finalmente realizzo che si tratta di un pezzo che ho prodotto io stesso qualche
mese fa: l’ambiente in sé e il sistema di compressione dell’emittente radiofonica, che normalmente lavora molto sul rapporto di compressione, ha trasformato
completamente quel pezzo! È per questa ragione che parlo di rumore di fondo:
ci stiamo ormai abituando ad ascoltare la musica in condizioni un po’ particolari per non dire poco felici.
Per non vedere sempre tutto nero e per rimanere nel gioco delle citazioni,
vorrei parlarvi di due casi che riguardano il concetto di rumore di fondo. Innanzitutto un brano di John Cage intitolato 4’33”, dove il compositore, nel lasso di
tempo delimitato dalla durata indicata nel titolo, mostra ciò che è evidente: grazie al silenzio, non una selezione ma la molteplicità di tutti i rumori acquisisce
una propria dignità, e il caso e l’ascoltatore attento si incaricano di riempire il
vuoto lasciato aperto dal non volere del compositore. Mi sembra un modo intelligente di sfruttare una situazione che risulta evidente nella vita quotidiana
della realtà. L’altro caso è Music for Airports di Brian Eno. Anche qui il problema è legato alle zone di passaggio, cioè a tutte quelle zone, come aeroporti o
supermercati, dove non ci si ferma ad ascoltare ma si transita; in quei luoghi la
musica acquista un senso quanto meno strano, perché non è possibile fissare
niente, si sentono suoni indistinti, le coordinate dell’identità si perdono e i linguaggi diventano indistinguibili. Anche quella di Brian Eno è una modalità intelligente che la creatività mostra di essere in grado di dare quando si pone un
problema.
Per concludere questa parte del mio intervento, direi che al cambiamento
dei modelli di business dell’industria deve corrispondere anche un radicale
cambiamento dei modelli di fruizione. Forse sta già avvenendo o è già avvenuto. Non sono in grado di fare delle previsioni per il futuro ma so per certo che
cambieranno molte cose, anche perché si amplificherà una serie di aspetti che
oggi non prenderemmo neanche in considerazione. Faccio un esempio. La
grande potenzialità tecnica messa a disposizione di tutti permette a tutti di fare
musica, di suonare, di giocare con i suoni; avendo la possibilità di giocarci, a
tutti viene voglia di diffondere la musica in Rete. Credo quindi che il valore
che si sposterà ulteriormente in avanti sarà quello che permette alla gente di interagire molto di più con la musica, facendola e non fruendola soltanto come
ascoltatori passivi. Mi limito poi a segnalare, senza approfondirlo, il discorso
legato all’interattività e agli strumenti musicali che non si rinnovano da un po’
di anni, ma di questo parleremo in altra sede.
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Per avviarmi alla conclusione del mio intervento, faccio riferimento alla
netta distinzione che Burnett ieri faceva tra artisti, industria musicale e musica;
mi riferisco anche al sottotitolo di questo Convegno, «riproduzione e diffusione, un problema di qualità?». A questo riguardo vorrei farvi conoscere il mio
punto di vista. Partiamo dagli artisti.
Credo sia palese il fatto che qualunque artista lavori, operi o produca musica aspiri al massimo della qualità. Immaginate quindi con quale soddisfazione
un musicista ascolti la sua musica brutalmente compressa da mp3 dopo aver
fatto una seduta di registrazione, che magari è durata ore, per affinare il timbro,
per sistemare gli ambienti, per creare la giusta spazializzazione, per dare una
dimensione a tutto lo spazio sonoro. È alquanto frustrante. Tornando indietro
negli anni, ai tempi del vinile, era frustrante subire i danni del processo di industrializzazione. I vari step di produzione di un disco comportavano il rispetto di
alcune regole basilari dettate dalla fisicità del supporto, e se tali regole non erano rispettate, la qualità del disco, rispetto all’originale, era drammaticamente
più bassa. Realizzata la matrice, se l’industria che fabbricava i dischi voleva
stamparne più copie nell’arco di una giornata, doveva ridurre il tempo in cui il
vinile rimaneva sotto la pressa ma anche due secondi in meno erano sufficienti
a danneggiare il supporto; se poi la temperatura non era quella giusta si creavano ulteriori danni, e altri danni ancora, come tante volte è successo, derivavano
dall’uso della pasta in parte riciclata. Altro esempio. La matrice usata per stampare doveva essere cambiata ogni ventimila copie ma normalmente veniva usata per centomila copie. Se le prime ventimila copie erano buone potete immaginare come fosse la centomillesima! Dico questo per farvi comprendere quale
sia la frustrazione dei musicisti e di chi lavora per curare l’aspetto qualitativo e
sonoro. Per quanto riguarda l’aspetto creativo, il musicista, di fronte alla possibilità o alla necessità di poter vendere di più o «avere successo», concede molto all’industria e, in alcuni casi, è disposto a concedere quasi tutto, quindi a
modificare un progetto sonoro originale in funzione di quello che l’industria gli
richiede. Questa considerazione riguarda in maggior misura la musica pop ma
ultimamente è possibile riscontrare fenomeni analoghi anche nell’ambito della
musica classica. Sempre per essere più chiari, si pensa e si presume che quello
che in italiano si usa chiamare «il gancio» e in inglese hook, cioè il punto forte
di una canzone, deve arrivare al 40° secondo; se questo non accade può succedere che l’attenzione del fruitore si perda e si rivolga altrove. Per questa ragione, alcuni direttori artistici ascoltano i brani di un disco che devono produrre
con il cronometro in mano, per capire dopo quanto tempo arrivi il gancio, e se
questo arriva dopo un minuto viene chiesto al musicista di eliminare venti secondi di musica. Sebbene sia difficile da digerire il musicista, di fronte alla
possibilità di avere successo, concede tutto. Questa non è una critica ma quel
che normalmente accade.
Qualche parola sull’industria discografica.
Da quando è iniziata l’era industriale, la produzione musicale è sempre stata influenzata dai diversi mezzi di produzione e di riproduzione che la tecnologia mette di volta in volta a disposizione, sia dal punto di vista del formato
sia da quello del supporto: dal cilindro alla gommalacca 78 giri, dall’introduzione del microfono alla radio, al vinile, al CD, al DVD e adesso a Internet. Le
crisi dell’industria discografica sono cosa ricorrente nel corso degli anni; vorrei
parlarvi della prima, perché è singolare e perché mi dà modo di leggere uno
scritto di Edison. La prima vera crisi si è avuta nel 1919 con l’avvento della radio che, rispetto al grammofono, presentava due vantaggi in più: il servizio era
gratuito e la qualità sonora era migliore perché c’erano più bassi e perché il volume era regolabile. L’ultima crisi è generalmente attribuita all’avvento di Internet ma io non ne sono convinto: credo che il dominio dell’industria sugli ar93
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tisti e la musica ci sia sempre stato e che i motivi della crisi risiedano altrove.
Per fare un esempio divertente vi leggo una lettera del 1911 che Edison scrisse
a Thomas Graf:
Ho appena assunto personalmente la direzione musicale della società, anche perché l’uomo che si occupava dei repertori e della scelta delle voci e degli strumenti non era all’altezza. Abbiamo registrato bande e non orchestre e
usato strumenti nocivi all’esito generale. Abbiamo fatto accompagnare un cantante da suoni troppo forti, mentre i nostri musicisti non suonano a tempo. Un
nostro flautista produce suoni del registro acuto che sembrano macchine che
necessitano di essere oliate e questo perché da anni il suo flauto è difettoso.
Nessuno dei nostri sa distinguere un buon cantante d’opera da uno cattivo;
pensano che se uno canta al Metropolitan debba essere automaticamente bravo... Non si rendono conto che una canzone che «suona bene» su un palcoscenico grazie alle caratteristiche ambientali non necessariamente suonerà bene
anche su disco. Il fonografo esagera la resa del tremolo presente in ogni voce,
e non riproduce alcuni degli armonici che rendono bella una voce. Propongo di
dare priorità alla qualità dei dischi e non alla reputazione dei cantanti.
Ho voluto leggervi questo passo perché non è del tutto estraneo a quel che
sta succedendo adesso: i meccanismi sono esattamente gli stessi. Ancora una
volta c’è una ripetizione di fenomeni che avvengono più o meno nelle stesse
modalità. Ripeto, personalmente non credo che sia colpa di Internet se l’industria discografica è in crisi; credo piuttosto che l’industria sia incapace di gestire il cambiamento sia in termini di prodotto (e, dal mio punto di vista, questa è
la cosa più grave) sia in termini di distribuzione del supporto nei punti vendita.
Con Internet la questione potrebbe essere in parte risolta ma un ulteriore problema continua a sussistere. Pensate a quei cinquantamila gruppi che sono su
Vitaminic o a tutte le band che sono nei vari siti che si occupano di musica nel
mondo; questa quantità sconfinata di prodotto ancora una volta impone il fattore della casualità: come faccio a sapere che una determinata cosa è interessante
se qualcuno non me la fa conoscere? Posso pescare a caso oppure ho bisogno
di qualcuno. In questo senso credo che resti fondamentale il ruolo di strutture
piccole o medio-piccole che siano capaci di fare selezione, sebbene debbano
necessariamente relazionarsi con quelle strutture che detengono la stragrande
maggioranza delle risorse economiche, le nostre brave cinque sorelle. Da un
punto di vista estetico Internet introdurrà un cambiamento nella forma del prodotto. Uno dei motivi per i quali l’industria discografica è in crisi è che spesso
e volentieri si producono CD che durano trenta-quaranta minuti e che costano
da trentasei a quaranta mila lire, dove c’è un pezzo che ha un qualche senso e
altri che non ne hanno alcuno. Con Internet questo problema aberrante è in
qualche modo risolto: la gente acquista sempre più compilation perché è stanca
di comprare prodotti in cui è valida solo una canzone. Per lo stesso motivo c’è
stata anche una ripresa dei CD singoli. Internet aiuterà molto a definire una
nuova forma di prodotto. Quando il vinile a 33 giri è stato introdotto, molti artisti hanno sfruttato la dimensione che avevano a disposizione creando opere eccellenti. Con il CD questo non è accaduto, nulla di nuovo è stato pensato realmente per il CD, che è sempre stato usato per ripescare vecchio materiale.
Internet giustamente farà sì che un artista che produce un brano che ritiene valido possa metterlo in Rete, senza aver bisogno che sia accompagnato da altri
sei brani che valgono poco o niente.
Concludendo, se il rapporto tra chi ascolta e l’evento sonoro non genera
una forma di comunicazione, anche se di ottima qualità, non va da nessuna parte. Tendo quindi a pensare che la qualità non sia determinante: può essere importante, in certi casi aiuta ma conosco molti prodotti low-fi, accomunabili
quindi a un volgare mp3 o a una registrazione su musicassetta, che hanno al
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proprio interno un livello di comunicazione tale da raggiungere il fruitore comunque.
CARLO MARINELLI
È proprio questo il difetto del mondo presente, che ha solo sensazioni,
emozioni ed evocazioni ma non razionalità.
Prima di cedere la parola alla signora Di Blasio vorrei porvi alcuni problemi che riguardano l’organizzazione dei nostri lavori.
Vi sono alcune considerazioni che mi sono venute in mente mentre Oderso
Rubini parlava così acutamente. Ieri abbiamo commentato a lungo i «segnali
musicali» dei cellulari ma ricordate quali schifezze passavano sulle segreterie
telefoniche? Chi decide quale debba essere il pezzo sulla segreteria telefonica?
L’elettricista che la istalla! Niente di nuovo sotto il sole, quindi, si tratta solo di
vedere come il fenomeno sia cambiato. Nessuno tiene conto (ed è per questo
che c’è il problema della qualità, non già per l’emozione-sensazione-evocazione) del museo, cioè delle vestigia del passato che noi vogliamo conservare perché fanno parte della famosa memoria collettiva del passato. Ogni copia comporta necessariamente uno scadimento della qualità, anche se è fatta con tutti i
crismi della macchina «più perfetta». Se ci poniamo sul piano della conservazione, del museo, cioè della necessità di conservare le vestigia del passato (e
questo riguarda la musica classica ma anche la musica pop e rock), ci troviamo
di fronte allo stesso problema che ha dovuto affrontare mia figlia – la cito solo
perché ho acquisito queste informazioni attraverso di lei –, la quale si occupa
degli archivi di enti economici. Si è trovata di fronte a disonesti venditori di
prodotti informatici, i quali convincono i loro responsabili a spendere centinaia
di milioni, se non miliardi, per l’acquisizione di una rete informatica globale
che permetterebbe loro di liberare migliaia di metri lineari di spazio, il che non
corrisponde al vero. Non è vero innanzitutto per una semplice ragione. Ogni
tanto sento che qualcuno è disperato per aver perso un indirizzario che aveva
nella memoria del proprio computer: la memoria del computer non è poi così
affidabile ed è necessario conservare gli originali per avere la possibilità di ripristinare le informazioni perse. In un convegno che si svolse in Italia sui tranquillizzanti anni Cinquanta degli Stati Uniti, alcuni storici statunitensi testimoniarono la loro disperazione perché non riuscivano a trovare un apparecchio
che leggesse la memoria computerizzata del Pentagono; nessuno aveva pensato
infatti di conservare le vecchie apparecchiature. In questo senso, il problema
del museo diventa preminente: il museo non è soltanto il rudere, il quadro, la
statua, ecc., ma deve essere anche l’apparecchiatura. La Discoteca di Stato conserva i vecchi apparecchi grammofonici ma, chissà perché, per l’informatica
non lo ha fatto nessuno. Tornando al discorso precedente, malgrado gli interventi della Soprintendenza, che raccomandano di non buttare nulla, l’ENI,
l’ENEL e altri grossi enti stanno buttando tutto perché sono molto più potenti
dello Stato; in altre parole, stanno buttando via tutta la loro memoria. Questo
significa non poter conoscere neanche il presente. Esiste un archivio del sacco
edilizio di Roma. Quando Roma divenne parte dello Stato italiano, ci fu una
cordata di banchieri parigini e piemontesi che fondò quella che poi sarebbe diventata l’Immobiliare. Dal 1870 al 1970, approfittando degli interessi della cosiddetta «aristocrazia nera» romana, hanno fatto scempio di una città che sarebbe potuta diventare un esempio per il mondo, attraverso la distruzione totale
della prima periferia per ragioni di speculazione edilizia. Si è distrutta una capitale per mancanza di senso della memoria. Questo mi porta a dire che abbiamo bisogno della qualità per avere l’originale della riproduzione, che non è
l’opera originale, perché l’opera nella musica è sempre un testo di riferimento,
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in quanto esiste solo una partitura manoscritta che può essere interpretata. Nel
cinema, ogni film, ogni montaggio è un originale, e se si cambia anche una sola
inquadratura si produce un nuovo originale. Le copie della Gioconda con i baffi non sono tali ma nuovi originali. Noi parliamo della qualità della riproduzione, non della qualità della creazione. La Gioconda con i baffi e quella di Leonardo si pongono sullo stesso piano quando sono riprodotte. L’errore che si è
commesso, soprattutto nell’ambito della discografia, è stato proprio quello di
non capire che lo studio della riproduzione non si basa su criteri di qualità creativa ma solo su criteri di qualità riproduttiva.
Un punto di riferimento costante e di ottima qualità, che possa servire per
fare altre copie della riproduzione – il museo, appunto –, bisogna averlo per
scongiurare il rischio che un patrimonio vada perduto del tutto. Stiamo assistendo a un mutamento dell’orecchio, della sua capacità di quantità di percezione (stiamo diventando sempre più sordi) sia in senso qualitativo sia quantitativo. Janá≈ek diceva che la storia della musica occidentale è la storia
dell’acquisizione della dissonanza, io aggiungo come consonanza. Siamo passati da una concezione tonale, basata sulle distanze e non sulle vicinanze, a una
concezione frequenziale, che sarebbe giusta, perché le macchine sono basate
sulle frequenze, se non fosse che implica considerare consonante quello che è
vicino frequenzialmente e non più quello che è vicino armonicamente. È un
cambiamento fondamentale nella percezione sonora, ed è anche la ragione per
cui possiamo percepire bene i risultati del suono attraverso la macchina, mentre
abbiamo maggior difficoltà a percepire il suono attraverso l’ambiente naturale.
Abbiamo cambiato la modalità della ricezione. Potremmo dire che è il gatto
che si morde la coda, che cambia l’orecchio perché cambiano le macchine o viceversa, certo è che esiste un’interazione tra i due fenomeni. Anche questo processo non viene tenuto in debito conto. Stiamo diventando deficienti di udito e
abbiamo costantemente una sorta di rombo attorno a noi: tutto attorno strilla ed
è ad altissimo volume, il rumore cresce sempre più di intensità; è l’alone che
rappresenta la forza autonoma del suono. L’esperimento di Cage è proprio questo: il nostro sistema nervoso e il nostro sistema vascolare fanno rumore e, finché siamo vivi, viviamo costantemente nel rumore. Ma una cosa è il rumore
che non distrugge i nostri organi sensoriali e altra cosa è quello che li distrugge
o li menoma: i rumori della natura ormai ci sfuggono.
Veniamo a problemi un po’ meno gravi.
Rispetto alla distribuzione sono d’accordo con tutto quello che Oderso Rubini ci ha detto ma non è vero che non si possa avere un elemento selettivo. Nel
mondo di cui ci occupiamo – opera o «musica classica» – le informazioni esistono, ed esistono perfino in alcune riviste che cercano di non far cadere il consumatore nella trappola della ripubblicazione. Per esempio, Grammophone indica con una erre cerchiata che si tratta della ripubblicazione di un prodotto
precedente. Le informazioni esistono negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in
Germania e in Francia, anche quelle che riguardano pubblicazioni di altre aree,
ma in tal caso avete mai provato a procurarvele? Se scrivete alla casa produttrice non vi risponde affatto o vi risponde che non può vendere, indirizzandovi al
distributore. Vi rivolgete al distributore e non vi risponde oppure risponde che
non può spedire un unico disco ma minimo cinquanta copie. Se volete procurarvi qualcosa di interessante – e ce ne sono tante – che fa parte di un piccolo circuito di mercato dovete fare un lavoro che necessita di un’apposita segreteria. Nel mercato, inoltre, non troviamo soltanto dischi ma anche nastri
giacenti presso privati, i quali, coi sistemi attuali, mettono in funzione il masterizzatore e ne vendono le copie. Ci sono commercianti che hanno creato nuove
etichette o hanno acquistato etichette preesistenti: la Lyric Distribution, la Legato, la Standing Room Only, sono state condannate al fallimento dai tribunali
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ma hanno a lungo venduto prodotti di qualità molto scadente. Tuttavia se si desidera una determinata edizione di una certa opera realizzata al Metropolitan,
attraverso questi canali è possibile ottenerla, come si faceva con le Society della EMI negli anni Trenta.
Per concludere il mio intervento, non nego che esista un mondo della musica basato sull’emozione ma insisto sul fatto che anche nella canzone è possibile
riscontrare un processo razionale che deve essere considerato come l’acquisizione artistica, estetica fondamentale da parte del fruitore. Dobbiamo mettere
in moto le nostre capacità di ragionamento e non lasciare libero corso alle nostre capacità emotive poiché queste, peraltro, possono portarci anche all’omicidio. Il compito dell’arte è anche questo: insegnare all’uomo a ragionare per accostamenti intuitivi e non per deduzione o induzione logica; e anche la musica
ha questa capacità. Questa capacità la si salva soltanto attraverso la memoria
storica, cioè l’acquisizione della conoscenza di qualsiasi musica attraverso una
pluralità infinita di interpretazioni nel tempo e nello spazio. Sarò un illuso ma
in questo io credo e su questo mi sono sempre basato.
Dopo essermi così confessato do la parola a Stefania Di Blasio per la sua
comunicazione, dopo di che proseguiremo con la discussione finale, con la preghiera che gli interventi siano brevi.
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STEFANIA DI BLASIO
Colgo l’occasione per portare i saluti di Sergio Miceli che dirige la rivista
4&40. Il primo numero sotto la sua direzione uscirà alla fine di gennaio del
2002.
Personalmente mi occupo della rubrica dedicata all’informatica, alla telematica, alla musica informatica e telematica, e gestirò un centro di documentazione sul software didattico per il Comune di Firenze, che sarà inaugurato alla
fine del gennaio prossimo. A questo proposito vorrei fare una precisazione. Ieri
si parlava della necessità di modificare le leggi sul diritto d’autore per gli scopi
educativi. Lo stesso problema si verifica con il software. Penso che i giovani
abbiano il diritto di conoscere tutto quello che viene prodotto in questo campo,
anche per comprendere appieno le potenzialità dei computer, che sono macchine che consentono di fare molto e di sviluppare le capacità intellettive degli esseri umani. Oggi i computer riescono a fare operazioni che dieci anni fa erano
impensabili, a mettere insieme testi, suoni, immagini, video. È un mezzo logico-espressivo importantissimo e i giovani hanno tutto il diritto di appropriarsene. Cosa vediamo invece nelle nostre scuole? A fatica arrivano i computer, che
tuttavia giacciono inutilizzati perché non c’è denaro per comprare il software,
quello musicale in particolare, che è in genere molto costoso. Dovendo gestire
questo centro di documentazione mi trovo di fronte a un’ulteriore difficoltà:
esiste il prestito del libro ma non quello del software; la casa concede solo una
licenza d’uso che riguarda il computer, dunque il centro di documentazione
non può prestarlo, per esempio, a una scuola, e se questa ne facesse uso sarebbe fuori legge. La legge non prevede casi del genere e invece dovrebbe farlo.
Vorrei adesso affrontare il problema della formazione tecnologica dei
musicisti.
Sperimento l’uso delle tecnologie informatiche nella formazione musicale.
Lo sperimento con i bambini della scuola materna, elementare e media, dunque
con la fascia della scuola dell’obbligo. Tengo seminari agli insegnanti per far
loro conoscere il software didattico esistente, gran parte del quale, purtroppo,
non arriva in Italia per motivi commerciali: di origine prevalentemente anglosassone, in Italia non arriva perché le scuole italiane non hanno i soldi per comprarlo. In Italia non esiste dunque un mercato. Vi sono poi impedimenti di natura burocratica: una scuola italiana non può acquistare software didattico su
Internet perché ha bisogno di una fattura emessa da un ente italiano e non può
accettare in contabilità un documento che proviene da una ditta americana.
Sperimento l’impiego delle tecnologie informatiche con gli allievi delle
scuole di musica, nell’ambito di corsi di formazione musicale e anche di strumento, in particolare di pianoforte – sono una pianista e insegno anche pianoforte –; lavoro anche con docenti di conservatorio, perché esiste moltissimo
software di livello elevato, prodotto ad hoc per i futuri professionisti. Mi occupo di software didattico da quattordici anni, quindi dalle prime applicazioni
nate per i Commodore 64 che, negli Stati Uniti, hanno avuto larghissima diffusione in tutte le scuole. Non a caso esiste ancora un corposissimo catalogo di
software didattico per questo modello.
Per quale motivo personalmente penso che la formazione tecnologica dei
musicisti sia indispensabile? Per tanti motivi che sono stati ricordati oggi. In
primo luogo, perché tutta la musica che ascoltiamo passa attraverso un processo tecnologico, dunque la tecnologia può essere utilizzata nella composizione,
nella esecuzione con l’utilizzo di apparecchiature informatiche ed elettroniche,
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oppure nella riproduzione durante l’ascolto. I musicisti devono allora essere in
grado di controllare, gestire e decidere in queste diverse fasi ma questo presuppone che essi conoscano le tecnologie, altrimenti ne diventano succubi e le subiscono passivamente, danneggiando il loro fare. Nello stesso tempo la formazione tecnologica prepara gli studenti a integrarsi in una società che è sempre
più informatizzata e anche gli studenti musicisti devono in qualche modo attrezzarsi per non rimanerne esclusi.
Negli altri paesi accade che le principali istituzioni europee prevedano dei
corsi a due livelli. In primo luogo, utilizzano apparecchiature informatiche durante i corsi di studi e l’allievo impara a conoscerle perché le usa; nello stesso
tempo segue corsi di informatica per musicisti. Possiamo quindi trovare dei
corsi di tecnologia per musicisti che generalmente fanno parte delle materie
complementari oppure ci sono dipartimenti specializzati in musica e media, in
musica e tecnologia, con varie ramificazioni.
Ho consultato i programmi della Royal Academy of Music, dove troviamo
corsi di tecnologia come materia complementare di tutti i diversi indirizzi. In
altre parole, indipendentemente da quella che è la materia principale, il corso di
tecnologia è sempre presente come aggiunta. Alla Royal Academy c’è anche
un dipartimento di musica applicata e media, dove lo studente acquisisce tutte
le informazioni indispensabili per entrare nella produzione contemporanea. La
situazione americana è ulteriormente evoluta e soffre persino di una crisi da
ipertecnologia nella formazione. Le tecnologie vengono utilizzate nei laboratori e gli allievi vi entrano in contatto fin da bambini. Nelle università troviamo
corsi di computer «for musicians», obbligatori per tutti gli indirizzi, che ci si
laurei in musicoterapia o in uno strumento oppure in didattica. Ci sono indirizzi
specifici, come «music technology», con vari sbocchi, per esempio «electronic
performance», «electronic composition» o «sound recording». Recentemente
sono stati pubblicati i nuovi standard per l’educazione. Ogni Stato è autonomo
nell’organizzare la propria programmazione ma deve sottostare ad alcuni standard. La sesta categoria di apprendimento è la tecnologia, quindi in un curriculum si deve far uso della tecnologia corrente proprio per individualizzare ed
estendere l’apprendimento musicale. È interessante notare che tra questi standard ci sono nove aree di ambito musicale: cantare, da soli e con altri, diversi
repertori, eseguire su strumenti, da soli e con altri, diversi repertori, improvvisare melodie, variazioni e accompagnamenti, comporre e arrangiare musica secondo vari orientamenti stilistici, leggere e scrivere musica, ascoltare, analizzare e definire la musica, valutare la musica e l’esecuzione, comprendere le
relazioni fra musica e le altre arti e discipline, comprendere la musica in relazione alla storia e alla cultura. Per ognuno di questi punti sono previste le possibili applicazioni delle tecnologie, ed è previsto anche cosa spetta al docente,
al quale viene effettivamente chiesto moltissimo. Deve utilizzare gli strumenti
elettronici e midi e tutti i dispositivi, impiegare sequencer e software midi,
creare esempi complessi, quindi multitracce, mettendo insieme tracce audio e
tracce midi per preparare degli esercizi; lavori sui quali i ragazzi fanno, per
esempio, lettura cantata oppure improvvisano una melodia con una tastiera. Il
docente scrive con programmi di notazione e fornisce ai propri studenti testi da
lui scritti; seleziona il software didattico e multimediale per l’educazione
dell’orecchio e per lo sviluppo delle varie abilità che un musicista deve possedere; prepara lezioni multimediali, presentazioni, lezioni, mettendo insieme dei
testi, delle immagini, dei suoni e dei video, deve quindi essere in grado di utilizzare e di gestire programmi multimediali anche complessi; cerca informazioni e musiche su Internet, dunque la ricerca e la navigazione deve essere all’ordine del giorno; prepara pagine web e lezioni di ascolto, montando un insieme
di frammenti tratti da vari CD audio per evidenziare le caratteristiche di un mu99
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sicista, di un periodo storico, di uno stile, ecc. Negli standard americani viene
richiesto al docente persino di preparare la brochure di un programma di concerto dei propri allievi o di preparare delle dispense da distribuire loro, il che
comporta il saper utilizzare anche programmi di grafica. Questo ci fa comprendere come la preparazione tecnologica che viene richiesta ai docenti americani
sia veramente alta.
Cosa succede in Italia? Alcuni conservatori hanno corsi di musica elettronica o di informatica musicale ma i programmi sono strettamente legati alla composizione musicale, quindi si studia solo quello che aiuta lo studente a produrre
una composizione; tutto il resto non viene approfondito e non c’è un’impostazione anche didattica, che è un aspetto che moltissimi musicisti prima o poi devono affrontare. La formazione tecnologica viene praticamente affidata all’iniziativa individuale: se uno studente ha imparato a navigare su Internet, a
utilizzare un sequencer o un software di notazione, resta un suo problema personale, l’istituzione non se ne fa carico; non fa alcuna differenza che uno studente
utilizzi perfettamente le tecnologie e un altro non le usi affatto. A mio parere,
questo atteggiamento è assolutamente impensabile nell’epoca in cui viviamo.
In questo clima di riforme e controriforme dei conservatori, delle università e della scuola in genere, è auspicabile che si pensi anche a questo aspetto,
che attualmente è del tutto trascurato; che vengano istituiti corsi di formazione
tecnologica per musicisti e che la frequenza sia obbligatoria; che nei corsi di
didattica della musica i futuri docenti, che insegneranno a insegnare ai bambini
della scuola dell’obbligo, imparino a utilizzare le tecnologie e conoscano l’esistenza del software didattico. Grazie.
CARLO MARINELLI
Prima di passare alla discussione, chiederei a coloro che sono qui in forma
«ufficiale», cioè a Chiara Sirk e ad Anita Pesce, di intervenire.
CHIARA SIRK
Secondo me, in questo Convegno manca una figura essenziale, quella dello
psichiatra! Mi spiego. Il quadro che emerge da quanto si è detto è molto interessante: sembra che copiare, comprimere, scaricare siano attività fondamentali, quasi movimenti liberatori in cui, come è stato ampiamente sottolineato,
molto più della qualità del prodotto finale interessa la «possibilità di». Da quel
che mi sembra di intuire, c’è una specie di ribellione a un mondo dove si paga
tutto, dove tutto è commercializzato e nessuno pensa che per infrangere delle
regole, «per divertirsi», ci sia bisogno di regalarsi qualcosa senza spendere nulla; e nessuno pensa che questo regalarsi qualcosa in realtà comporta, come diceva Oderso Rubini, l’acquisto di macchine per vari milioni, dove alla fine la
convenienza è solo di chi queste macchine le produce e le vende. Il regalo,
quindi, in realtà non esiste ma c’è questa sorta di illusione. Per quanto riguarda
la musica, la realtà è che a una serie di riti (il concerto, l’ascolto rilassato davanti a un impianto di ottima qualità) se ne sono sostituiti altri: la fruizione solipsistica della musica con le cuffiette, il bagno di folla nei concerti allo stadio,
l’inseguimento dei brani top ten e la voglia, come diceva ieri il professor Burnett, di una suoneria del cellulare assolutamente originale e diversa da quella
che hanno tutti gli altri coetanei. Io credo che abbia ragione Ludovico quando
parla di un atteggiamento compulsivo: a cosa serve un’apparecchiatura che
contiene trecento ore di musica? Chi avrà mai il tempo di ascoltarla tutta? Anche questa è una forma di feticismo. Torno a sottolineare che, secondo me,
questo fenomeno riguarda principalmente una determinata fascia di età, anche
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perché personalmente non ho mai sentito parlare di qualcuno che insegue lo
scaricamento di brani di Nilla Pizzi o delle mazurke di Chopin.
Devo anche dire che a me risulta che, in alcune scuole medie, lo svolgimento delle lezioni di educazione musicale consiste spesso nell’insegnare agli
allievi a scaricare brani, il che mi sembra un fenomeno interessante. Io non so
se, come dice il professor Marinelli, dobbiamo tutti trasformarci in monaci medievali; certo è che a questo punto credo sia auspicabile e necessaria una riflessione puntuale e severa sulla situazione e sulla mistificazione attuale; una riflessione come quella avviata in questi due giorni. Grazie.
ANITA PESCE
Mi occupo di un settore molto particolare che, soprattutto in questi ultimi
tempi, ha un suo rapporto con le tecnologie, con Internet in particolare. Faccio ricerca sui vecchi 78 giri, soprattutto di area napoletana. Da parte mia, ritengo che
sia molto interessante il discorso della salvaguardia di questo materiale, perché
purtroppo, allo stato attuale, non esiste una istituzione che abbia archiviato e riversato su supporti meno deperibili del 78 giri questo enorme patrimonio; quanto
meno, non esiste a Napoli, che dovrebbe invece essere orgogliosa del proprio
passato musicale. Personalmente mi interessa il discorso della salvaguardia ma,
opportunisticamente, può anche interessarmi che essa avvenga attraverso successivi sbocchi commerciali, come in effetti sta avvenendo. Una società di produzione multimediale ha stipulato un contratto con la Phonotype Record (casa discografica napoletana nonché una delle prime case discografiche italiane) per
mettere in Rete tutta la sua produzione, consentendo naturalmente agli utenti di
scaricarla a pagamento. Questo comporta anche un’operazione di salvaguardia,
dunque meglio che niente! Attualmente è in corso un’operazione di recupero di
una collezione di circa novemila dischi da mettere in vendita su CD. All’accademico puro anche questa operazione può apparire orrenda e immorale ma, allo
stesso tempo, essa consente un recupero di materiale. È vero che a volte operazioni di questo tipo producono autentici mostri aberranti, poiché molto spesso i
tecnici che le eseguono, lavorando su materiali vecchi, non hanno le competenze
per fare riversamenti secondo i parametri più corretti. D’altra parte, anche questo
va bene a fronte del nulla più totale e, inoltre, offre la possibilità di accedere a
documenti che magari il collezionista tiene solo per sé per i più svariati motivi.
Mi trovo insomma in bilico: da una parte, sento che la digitalizzazione e, in particolare, l’utilizzo di Internet possano essere una garanzia e una tutela ma, allo
stesso tempo, ritengo che le sedi in cui ciò avviene non siano quelle più idonee
per salvaguardare, conservare e tutelare questo patrimonio.
CARLO MARINELLI
Qual è il repertorio della collezione di novemila dischi di cui parlava?
ANITA PESCE
È il repertorio classico della canzone napoletana. È già in commercio un
cofanetto della EMI che ne contiene una parte.
CARLO MARINELLI
Vorrei confortarla informandola che in Italia qualche tecnico capace di rispettare l’originale esiste; peraltro ne abbiamo uno fra noi, Francesco La Camera. Il problema di fondo è che il tecnico deve essere anche musicista.
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Il paese dove la salvaguardia dei 78 giri ha raggiunto l’acme assoluto è
l’Australia. Se scrive all’Institute for Recorded Sound and Cinema di Canberra
le verranno inviati anche degli opuscoli che descrivono i sistemi che seguono
per conservare, per esempio, i 78 giri che sono, come lei sa, fragilissimi. La
ringrazio.
FRANCESCO LA CAMERA
Concordo con Anita Pesce nel ritenere che qualcosa sia meglio di niente, e
anche con Steve Long quando dice che Internet, come mezzo di informazione
più che come mezzo di «scaricamento», possa essere comunque un inizio.
Rispetto a quello che diceva Oderso Rubini, è vero che Internet può diventare anche un mezzo creativo, come testimonia il lavoro di alcuni artisti; che
poi questi siano legati alla musica pop, per me non ha alcun rilievo.
CARLO MARINELLI
Anche per me questo non costituisce un problema perché sono convinto
che Internet possa legittimamente essere usato per la creazione. Alessandro Ludovico.
ALESSANDRO LUDOVICO
Per quanto riguarda la conservazione informatica, esiste un Computer Museum a Boston che raccoglie tutta una serie di vecchi macchinari; qualcosa di
simile è stato allestito da un dipartimento dell’Università di Pisa, che conserva
apparecchiature non più fruibili. Esiste poi il fenomeno del retrocomputing, cui
avevo accennato nella mia relazione, con una serie di appassionati che collezionano vecchie tecnologie informatiche. Anche nell’arte figurativa c’è chi si è
posto questo problema. Il Museum of Modern Arts di San Francisco dal 1996
ha cominciato a collezionare opere d’arte create con i protocolli di Internet e
oggi comincia a porsi il problema della loro fruibilità nel tempo, conservando
insieme all’opera tutto il macchinario hardware e software nella versione in cui
l’opera è stata realizzata. Il problema della conservazione per la memoria futura trova dunque felici riscontri anche in ambito informatico. La memoria serve
sempre per riuscire a progredire.
Rispetto al passaggio dal possesso all’accesso, un recente saggio dell’economista americano Jeremy Rifkin, che si intitola proprio L’era dell’accesso,
parla della trasformazione di un’era in cui si è considerata come paradigma
l’accumulazione di oggetti a un’era in cui il possesso degli oggetti comincia a
essere socialmente meno importante; importante comincia a essere il semplice
accesso a quello di cui si può fruire.
GUIDO MARINELLI
Mi occupo di Internet da quando nel mondo c’erano solo poche decine di
web server. Dico questo non per vantarmi ma per sostenere che bisogna capire
il mondo nelle sue evoluzioni. Anche Internet è un mondo in evoluzione per
quanta riguarda il problema della qualità e della creatività. Noi non abbiamo
idea della qualità che si potrà raggiungere su Internet, perché la tecnologia
(purtroppo e per fortuna, dipende se la si subisce o la si usa) ha delle potenzialità enormi; potenzialità che, se i nostri amici americani permetteranno di sfruttare non solo a scopi commerciali, potranno avere sviluppi determinanti anche
nell’ambito delle attività creative. Attualmente siamo abituati a lavorare in In102
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ternet a velocità che, rispetto a quindici anni fa, sono già molto elevate: prima
di mp3 un brano di 4 o 5 minuti solo quindici anni fa era scaricabile in 30 giorni di connessione. Magari fra un anno avremo decuplicato la velocità attuale, e
se questo oggi non è possibile è solo per motivi commerciali. Questo è un problema tecnologico importante ed effettivamente dovremmo ragionare su quello
che potremmo fare non oggi ma domani: quando la nostra mente ha cominciato
ad avere un’idea di uso e, quindi, ha cominciato a creare, ha cominciato a
creare qualcosa che probabilmente era già più vecchio di quello che stava pensando.
Per quanto riguarda l’informatica, in realtà noi non la vediamo come andrebbe vista. Si dovrebbe dividere in mezzi di produzione, progettazione e utilizzo. Non soltanto. C’è una progettazione dei mezzi di produzione, una progettazione dei prodotti sui mezzi di produzione, la creazione del prodotto e, solo
in ultimo, l’uso del prodotto. Nell’informatica bisogna tener conto del fatto che
il prodotto finale, a sua volta, è soggetto a evoluzioni, creazione e modalità di
utilizzo a seconda di quell’utilizzo. Se vogliamo fare un esempio forse un po’
limitativo per le potenzialità di questo mezzo, consideriamo una cinepresa. I
macchinari con i quali vengono prodotte le cineprese variano a seconda della
cinepresa, poiché non tutte le cineprese sono uguali. A seconda del progetto
della cinepresa si ottiene un macchinario di ripresa differente rispetto ad altri;
l’utilizzo di quel macchinario di ripresa, poi, crea opere d’arte. Riferendomi al
discorso del tecnico che deve essere anche musicista, anche in questo campo il
problema che ci si presenta è che il progettista di informatica deve essere anche
in grado di capire l’utilizzo finale che verrà fatto del suo prodotto, anche dal
punto di vista delle potenzialità creative. PC e analoghi sono ambienti di produzione. Il software prodotto che viene commercializzato è un’idea progettuale
e ha le stesse caratteristiche di una creazione artistica o letteraria. L’utilizzo
che viene fatto di questo prodotto software, a sua volta, può creare delle altre
opere d’ingegno, proprio come una cinepresa.
CARLO MARINELLI
Saluto Lamberto Macchi. Penso che tutti sappiate chi sia: socio dell’Istituto, figlio di uno dei soci fondatori, il musicista Egisto Macchi, e musicista egli
stesso. Ha seguito questi nostri lavori sia ieri che oggi con una assiduità di cui
gli sono grato. Vorrei chiedergli se vuole intervenire.
LAMBERTO MACCHI
Preferirei aspettare che finiate il giro di interventi.
CARLO MARINELLI
Allora do la parola a Oderso Rubini.
ODERSO RUBINI
Vorrei fare due ulteriori precisazioni su Internet.
È chiaro che più la tecnologia avanzerà più le potenzialità di utilizzo si amplieranno. Personalmente penso che questo senso di espropriazione dell’oggetto, dunque la non necessità di possedere qualcosa di fisico, in questo momento
sia avvertita dalle nuove generazioni. Man mano che le generazioni cresceranno questo fenomeno prenderà sempre più vigore. Che la tecnologia cresca in
modo graduale è un fatto altrettanto evidente, soprattutto perché è necessario
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sfruttare al meglio tutti gli investimenti per la ricerca: lo stesso DVD non regge
il confronto con la televisione digitale che ci sarà fra qualche anno ma, per
adesso, quello ci viene dato e non c’è niente da fare. Immagino che quando il
senso di possesso scomparirà del tutto non sarà più necessario neanche scaricare i brani, poiché faranno parte di grandi cataloghi cui si accederà pagando una
piccola quota.
In un articolo pubblicato su la Repubblica Gino Castaldo ha scritto che, in
base a una statistica, tutte le persone che comprano o scaricano un disco lo
ascoltano meno di una volta. Questo ha dato corpo all’ipotesi che alcuni dei
portali di download faranno pagare una piccolissima quota per scaricare un
brano, possibilità che durerà tuttavia solo un mese, dopo di che scadrà.
CARLO MARINELLI
Questo pone un problema gravissimo perché l’ipotesi che nessuno possieda
più nulla implica che chi fa ricerca debba accedere a una banca dati. Chi sentirà
un brano cento volte? Qualcuno che lo studia, il quale sarà allora costretto a pagarlo cifre assolutamente irragionevoli: l’INA francese chiede sessantamila lire
a consultazione. In questo modo si crea una ulteriore ingiustizia sociale.
ODERSO RUBINI
Per finire il ragionamento, se finora tutto è stato gratis è perché bisognava
aprire il mercato; adesso la tendenza dei gestori di software di connessione cercheranno di far pagare quanto finora è stato gratuito, ed essendo la gente abituata a non pagare niente sarà veramente dura per tutti. Tuttavia la strada che
prenderanno sarà inevitabilmente quella, perché in caso contrario la maggior
parte delle strutture che sono nate e cresciute in questi anni moriranno per mancanza di risorse economiche.
MARCO BENEDETTI
Mi dispiace che Landini sia dovuto partire, perché avrei voluto commentare alcune sue affermazioni su Internet e sull’opera che, a mio avviso, erano interessanti, ma sarebbe scorretto farlo in sua assenza, dunque prendo un’altra
strada.
Vorrei sapere se succede anche a voi, quando leggete un articolo che tratta
argomenti di cui siete esperti su un giornale generalista, di pensare che quelle
scritte siano delle stupidaggini spaventose. A me succede regolarmente. Ho
provato a porvi rimedio, scrivendo alcuni articoli per la Repubblica sugli argomenti di cui mi occupo, ma dopo che per tre volte è stato cambiato il testo, stravolgendone il significato e facendomi fare una pessima figura, vi ho dovuto rinunciare. Dopo questa esperienza mi sono convinto che siamo destinati a
subire una disinformazione spaventosa sulle questioni tecnologiche senza poter
fare niente. Le semplificazioni fatte dai giornalisti generalisti diventano verità,
soprattutto quando affrontano l’argomento Internet. Viene fatta una grande
confusione fra la Rete e il computer; l’audio digitale e l’audio al computer vengono visti come due cose diverse e in realtà non lo sono e, se lo sono, lo sono
per altri versi. Personalmente non vedo molto scampo.
CARLO MARINELLI
Non si può pretendere che tutti siano esperti di tutto: se si manda in stampa
un articolo sulla chirurgia del cervello sarà un po’ difficile che chiunque se ne
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intenda. Secondo me, invece, torniamo alla mancanza generale di una cultura
di base, che fornisce un metodo e consente di trattare i temi che non si conoscono in modo rispettoso, proprio perché si ha un quadro di riferimento in cui
inserirli. In mancanza di una cultura di base, necessariamente occorre che
ognuno sia specialista dell’argomento ma, in generale, tutto viene conosciuto
per «sentito dire». Vorrei sapere, per esempio, cosa può capire un giovane di
oggi quando Belcore si presenta sulla scena e dice «Come Paride vezzoso».
Oggi non si sa chi sia Paride mentre un operaio della fine dell’Ottocento lo
sapeva.
FLAVIO DE BERNARDINIS
C’è un fantasma che si aggira in questo Convegno, la scuola. Visto che
si parla di strutture di mediazione, di selezione, di filtri, il problema è come
attivare questi filtri, la selezione, la cultura del rispetto, la cultura di base, il
quadro di riferimento. Vorrei quindi segnalare alla vostra attenzione che,
come tanti miti di questi ultimi anni, a livello pedagogico credo che se ne
sia esaurito uno. Credo di parlare con cognizione perché solo di recente insegno all’università ma per anni ho operato nella scuola e tuttora vi lavoro.
Il trauma degli insegnanti italiani dagli anni Ottanta in poi era solo uno, che
i teenager ne capissero più di loro. Tutto il problema degli scarti generazionali, delle mode, delle tendenze era dovuto al fatto che il teenager – personaggio folcloristico e caratteristico, a cui Corrado Guzzanti ha dato voce in
una sua gag – era assolutamente un barbaro ma non privo di ingegno; di
contro, gli insegnanti erano assolutamente civilizzati ma terribilmente privi
di ingegno. Anche in quel caso mancava la struttura di mediazione, il punto
di incontro, e così si è andati avanti scambiando l’alunno per il professore e
il professore per l’alunno. Nella mia vita scolastica ho dovuto subire un’infinità di riunioni in cui si diceva che bisognava imparare dai nostri alunni.
Magari fosse stato così, ma dobbiamo riconoscere che questo è stato un
mito degli anni Ottanta cavalcato anche da chi avrebbe dovuto ragionarci
sopra. Il fatto che abbiamo perso l’udito è una questione bio-antropologica
che non può prescindere dal danno che è stato fatto: il teenager è più avanti
di noi perché è un campione della tecnologia ma non ha i quadri di riferimento. Come facciamo a fornirgli i quadri di riferimento, salvaguardando al
contempo la sua mutazione bio-antropologica e la nostra dignità e non calandoci in un complesso di colpa e di inferiorità che non ha senso? La cultura italiana, da ogni parte, non ha fatto nulla per modificare questo stato di
cose.
CARLO MARINELLI
Questo è accaduto perché i maestri già dagli anni Ottanta non avevano una
cultura di base. La parola a Steve Long.
STEVE LONG
Going back to the interaction between CDs and files on the Internet.
People have been happy to put CDs in record shops, where they can be bought
and subsequently bootlegged with no real concern, and just because there’s a
new way of delivering material it doesn’t necessarily mean that there’s going to
be more bootlegging going on. Second to this, if a fourteen-year-old kid can
hack into the FBI or the Pentagon, they’re certainly going to be able to get
around anything the record companies can do.
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[Volevo tornare all’interazione fra CD e file scambiati via Internet. Finora
è stato generalmente accettato che i CD venissero messi in vendita nei negozi,
dove potessero essere acquistati e successivamente duplicati senza troppi problemi; solo perché ora disponiamo di nuovi mezzi per diffondere il materiale,
non significa necessariamente che verrà fabbricato un maggior numero di copie pirata. In secondo luogo, se è vero che esistono quattordicenni in grado di
penetrare i siti dell’FBI o del Pentagono, saranno certamente in grado di aggirare qualsiasi dispositivo di sicurezza le case discografiche mettano in atto].
CARLO MARINELLI
Grazie!
Dottor Ludovico, vuole aggiungere qualche commento di carattere generale alle osservazioni che ha fatto poco fa, di carattere così particolare?
ALESSANDRO LUDOVICO
Vorrei ricordare un aspetto positivo di Internet che esiste da diversi anni.
Una comunità di diciassettemila musicisti si incontra periodicamente e ha sviluppato collettivamente uno standard di collaborazione per fare delle jam session. Questi musicisti sono sparsi per il mondo, molti di loro non si sono mai
incontrati mentre altri hanno cominciato a suonare insieme. Non parliamo di
suono di grande qualità ma di uno standard con cui si intendono in tempo reale.
Alcuni di loro si sono incontrati fisicamente dopo aver collaborato, proprio per
l’empatia che si era creata. Personalmente penso che sia una delle promesse
migliori per lo sviluppo di un mezzo che, per quanto mi riguarda, è soprattutto
un mezzo di comunicazione.
CARLO MARINELLI
Grazie. Se nessuno vuole aggiungere altro cedo la parola a Sergio Bassetti
per le conclusioni.
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SERGIO BASSETTI
Per creare un filo logico che leghi i temi finora dibattuti e le mie conclusioni, faccio riferimento al discorso di Guido Marinelli sulle potenzialità immense
di questo mezzo.
Che sia un fenomeno in progress è fuori discussione ma siamo obbligati a
seguire un discorso sincronico e non diacronico perché è necessario fare il punto della situazione sulla base della realtà più che su quella delle potenzialità. Mi
servo di un’immagine banale che molto probabilmente è impropria ma che cattura in parte quel che vorrei dire riguardo all’uso che si fa di Internet e delle
sue molteplici potenzialità. Se per ragioni rituali, di convenzione e di uso generazionale, una Ferrari Testa Rossa viene guidata fino alla seconda marcia dalla
maggioranza delle persone, possiamo dire che è una macchina potentissima ma
che, malgrado ciò, per andare da Roma a Milano consuma molta benzina e impiega dodici ore. La potenzialità del mezzo non è in discussione, in discussione
è l’uso che se ne fa.
Rispetto a quanto è stato detto ieri, personalmente ho trovato soltanto conferme a quel che avevo ipotizzato nella premessa. È fuori discussione, infatti,
che ci sia una perdita di qualità anche per il watermarking e le marcature varie;
Marco Benedetti ha parlato di compressione a 64 bit dei file che i ragazzi scambiano tra loro ma in senso statistico il download è un fenomeno davvero generazionale: a differenza di Chiara Sirk credo esista senz’altro un download di
Nilla Pizzi o della canzone napoletana ma credo anche che non sia statisticamente rilevante, che sia l’eccezione e non la regola.
La mia relazione introduttiva era forse pervasa da una pulsione apocalittica
che in realtà non mi appartiene e, d’altra parte, prendere atto di uno stato di
cose non significa sposarlo o non trovare rimedi. Prendo allora in considerazione un altro tipo di fenomeno, rifacendomi al discorso della ri-destinazione anche tecnica delle opere di cui parlava il professor Marinelli ma anche al discorso
dei monaci medievali che, vedo, rispunta puntualmente, tanto che dovremmo
prepararci a una conversione in massa!
Si parlava di tre possibilità rispetto all’opera del passato: ometterla, cioè
negarne l’esistenza; trasformarla in qualcosa d’altro, cioè risemantizzarla; ripristinarne il senso e i caratteri e rispettarla in questo senso. Superata la prima
possibilità, quella dell’omissione, il secondo caso, la trasformazione, è quello
di Duchamp e dei baffi alla Gioconda. Nel campo del cinema esistono alcune
drastiche risemantizzazioni, come il film What’s Up, Tiger Lily, che in italiano
è stato tradotto in Che fai Ruby. In origine era un film giapponese che riprendeva la moda dei film di James Bond ma non aveva alcuna possibilità di sfondare
sul mercato americano malgrado fosse stato acquistato con un pacchetto di altri
film. Venne quindi affidato a Woody Allen che, in sede di doppiaggio, cambiò
completamente i dialoghi trasformandolo in un film comico. Questo mi pare un
esempio addirittura violento di riconversione. Se vogliamo trasformare, ridestinare, ci sono i modi per farlo, l’importante è che il discorso sia aperto, che sia
dichiarato e che non sia strisciante.
Cosa ha a che fare tutto questo con i temi che andiamo discutendo? Passiamo dall’uso che si fa di Internet all’uso di un altro medium, la televisione. Mi
rifaccio a un’esperienza privata.
Alcuni anni fa ho partecipato a una «comunità monacense» che, scagliandosi
contro mulini a vento poderosi, scriveva lettere alla RAI e alle emittenti private
contro la messa in onda di film in formato cinemascope, soltanto previo scanning,
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che è l’adattamento dell’immagine alle dimensioni del cinescopio televisivo. Nei
casi peggiori il film si vedeva soltanto al 56% e ancora oggi il fenomeno non è superato. Quel che vorrei sottolineare è che allora si trattava di un movimento carbonaro poiché nessuno si ribellava a quello stato di cose, mentre oggi esistono le edizioni in wide screen, forse perché i «monaci» erano tanti. Non crediamo quindi di
essere i soli a parlare di musica e di qualità del suono su Internet perché non è impossibile che vi siano molte altre persone a farlo. Quando mandavamo lettere alla
RAI mai avremmo pensato di trovare un giorno videocassette o DVD che proprio
sul rispetto del formato giocano il loro appeal; o addirittura apparecchiature tecniche come i televisori a 16/9 che vivono proprio della possibilità di riprodurre un
film in formato originale, tradendo l’immagine televisiva che risulta invece piccola e che molti allargano fino a riempire lo schermo.
Il discorso si riferisce alla mia premessa di ieri rispetto alla cosiddetta domiciliazione dei consumi, questo è evidente: il cinema va visto in sala; e mi ricollego alla maggioranza degli utenti di Internet che sono giovani e che utilizzano la Rete in un certo modo per scaricare file con un certo suono. Tenete
presente che, per esempio, l’uso della videocassetta ha creato una intera generazione di giovani che si erano allontanati dal cinema e che, di conseguenza,
concepivano il cinema soltanto attraverso il medium televisivo. Si è verificata
una disintossicazione totale dalla sala che poi è stata disinnescata. Resta però il
fatto che il cinema veniva fruito prevalentemente in ambiente domestico, una
forma di aberrazione analoga a quella di coloro i quali non vanno più al teatro
d’opera e ascoltano le opere soltanto nel chiuso della propria abitazione, magari arricchendole con rumori di ambienza o col fruscio del vinile come semplice
tentativo di ricreare una realtà che è assente. Se in una videoregistrazione elettronica sovrappongo un software che crea dei graffi sto cercando semplicemente di ricreare la realtà, l’alea, un qualcosa che mi dica che non mi trovo in una
vasca come un pesciolino rosso.
Il mio è un grido di speranza perché non credo che tutto ciò che è Rete sia
un male ma sono convinto che la Rete possa dare molto più di quanto non faccia
attualmente. Più che alla Rete in sé mi riferisco all’uso che ne viene fatto per ragioni economiche, per ragioni rituali o generazionali. Ci sono ancora molti passi
da fare e la crescita non sarà soltanto tecnologica ma anche antropologica.
CARLO MARINELLI
Grazie Bassetti.
Nel dichiarare chiuso il Convegno, vorrei ringraziare di cuore tutti voi relatori, comunicatori e interventori, perché avete fatto sì – il mio non è un atto di
orgoglio ma di riconoscimento – che questo Convegno, nato tra mille dubbi e
anche con notevoli difficoltà, specie all’inizio, quando ci siamo trovati di fronte a un muro proprio perché volevamo parlare di qualità, riuscisse infinitamente
superiore a quello che io, forse errando, mi aspettassi. Di questo non posso che
essere infinitamente grato a tutti voi. È stato un Convegno all’insegna della
profondità, dell’acutezza, della concisione e anche della capacità di capirsi,
cosa assolutamente preziosa.
Voglio ringraziare nominativamente lo staff dell’I.R.TE.M., a cominciare
dalla dottoressa Giorgina Gilardi, capo degli uffici, e proseguendo con Laura
Colabianchi, Cecilia Montanaro, Alessandra Cavicchioli e Tiziana De Santis.
Vorrei poi ringraziare l’interprete Luisa Malentacchi, che è un prodigio, e anche
Francesco La Camera, che ha sovrinteso alle incombenze di carattere tecnico.
Non ci resta altro da fare che andare a pranzo, congratulandoci con noi stessi!
(applausi)
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ELENCO
ALFABETICO
DEI
NOMI DI PERSONA
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Adamo, Giorgio, p. 38.
Adams, John, p. 59.
Adorno, Theodor Wiesengrund, p. 6.
Allegri, Gregorio, p. 88.
Allen, Stewart Konigsberg (Woody), p. 107.
Atlantov, Vladimir, p. 59.
Atterberg, Kurt, p. 76.
Augé, Marc, p. 45.
Barlow, John Perry, p. 87.
Bartók, Béla, p. 18.
Bartoli, Cecilia, p. 33.
Bassetti, Sergio, pp. 3, 4, 7, 11, 12, 13, 16,
20, 77, 88, 106, 107, 108.
Battiato, Franco, pp. 44, 57.
Beethoven, Ludwig van, p. 56.
Bellini, Vincenzo, p. 18.
Benedetti, Marco, pp. 3, 13, 14, 15, 16,
17, 19, 37, 58, 59, 76, 77, 84, 87, 104, 107.
Benjamin, Walter, p. 9.
Bergonzi, Carlo, p. 53.
Bocelli, Andrea, p. 50.
Brandi, Cesare, pp. 46, 47.
Burnett, Robert, pp. 3, 20, 21, 32, 33, 36,
37, 38, 65, 93, 100.
Cage, John, pp. 92, 96.
Callas, Maria (vide Kalogeropoulos, Cecilia Sofia Anna Maria).
Carreras, José, p. 55.
Castaldo, Gino, pp. 44, 46, 104.
Cavagnis Sotgiu, Maria Carla, pp. 3, 33,
34, 36, 68, 69.
Cavicchioli, Alessandra, p. 108.
Chopin, Fryderyk Franciszek, p. 101.
Chruπ≈ëv, Nikita Sergeevi≈, p. 59.
Colabianchi, Laura, p. 108.
Cook, Philip, J., p. 63.
Corelli, Franco, p. 52.
Cura, José, p. 57.
De Bernardinis, Flavio, pp. 3, 39, 43, 44,
59, 105.
Deggeller, Kurt, p. 18.
De Santis, Tiziana, p. 108.
Di Blasio, Stefania, pp. 3, 95, 97, 98.
Duchamp, Marcel, p. 107.
Eco, Umberto, p. 54.
Edison, Thomas Alva, pp. 49, 61, 93, 94.
Eno, Brian, p. 92.
Fader, Peter S., pp. 22, 27.
Ferreri, Marco, p. 45.
Flagstad, Kirsten Malfrid, p. 50.
Ford, Harrison, p. 48.
Foster, Alicia Christian (Jodie), p. 47.
Frank, Robert H., p. 63.
Galtney, Liz, p. 85.
Gilardi, Giorgina, p. 108.
Giordano, Umberto, p. 58.
Glass, Philip, p. 59.
Godard, Jean-Luc, p. 46.
Graf, Thomas, p. 94.
Guzzanti, Corrado, p. 105.
Harrison, Love Michelle, pp. 25, 31.
Huffman, David Albert, p. 8.
Imbruglia, Natalie, p. 84.
Jackson, Michael, pp. 83, 84.
Janá≈ek, Leóπ, p. 96.
Kalogeropoulos, Cecilia Sofia Anna Maria,
pp. 50, 52.
Kennedy, Nigel, pp. 71, 73.
King, Stephen, pp. 23, 29.
Kodály, Zoltán, p. 18.
La Camera, Francesco, pp. 3, 16, 101, 102,
108.
Landini, Giancarlo, pp. 3, 17, 39, 48, 49,
58, 59, 60, 77, 104.
Leonardo da Vinci, pp. 12, 96.
Leoncavallo, Ruggero, p. 76.
Linch, David, p. 48.
Long, Steve, pp. 3, 39, 60, 61, 70, 71, 75,
76, 77, 91, 102, 105.
Love, Courtney (vide Harrison, Love
Michelle).
Ludovico, Alessandro, pp. 3, 36, 37, 67,
81, 82, 84, 88, 89, 100, 102.
Luigi XIV, p. 69.
Lulli, Giovanni Battista, p. 69.
Macchi, Egisto, p. 103.
Macchi, Lamberto, p. 103.
Malentacchi, Luisa, p. 108.
Mascagni, Pietro, p. 76.
Marcello, Benedetto, p. 34.
Marinelli, Carlo, pp. 3, 7, 11, 13, 16, 17,
18, 19, 20, 32, 36, 38, 43, 44, 48, 58, 59,
60, 61, 68, 69, 70, 75, 77, 81, 82, 88, 89,
95, 100, 102, 103, 104, 105, 106, 107, 108.
Marinelli, Guido, pp. 102, 107.
Marinelli Roscioni, Carlo, p. 59.
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McLuhan, Marshall, p. 65.
Merlo, Vittorio, p. 86.
Miceli, Sergio, p. 98.
Montanaro, Cecilia, p. 108.
Monteverdi, Claudio, p. 54.
Mozart, Wolfgang Amadè, pp. 59, 88.
Murnau, Friedrich Wilhelm, p. 46.
Muti, Riccardo, p. 50.
Seurat, Georges-Pierre, p. 8.
Sgalambro, Manlio, p. 44.
Silva, Francesco, p. 63.
Sirk, Chiara, pp. 3, 88, 100, 107.
Smith, Alex, p. 86.
∏ostakovi≈, Dmitrij Dmitrevi≈, p. 70.
Spielberg, Steven Allan, p. 47.
Nilsson, Birgit, p. 49.
Nourrit, Adolphe, p. 17.
Taiuti, Lorenzo, pp. 88, 89.
Tarquinio, Gianluca, p. 3.
Tebaldi, Renata, p. 52.
Truffaut, François, p. 46.
Tucker, Richard, pp. 17, 18.
Tuzi, Grazia, pp. 36, 37.
Palestrina, Giovanni Pierluigi da, p. 57.
Pavarotti, Luciano, p. 52.
Perniola, Mario, pp. 44, 45, 46.
Pesce, Anita, pp. 3, 100, 101, 102.
Pizzi, Nilla, pp. 101, 107.
Pride, Charley, p. 82.
Puccini, Giacomo, p. 51.
Urbani, Giuliano, p. 13.
Ramello, Giovanni, pp. 3, 36, 38, 39, 60,
61, 67, 68, 69, 70.
Rifkin, Jeremy, p. 102.
Rossini, Gioachino, p. 55.
Rubini, Oderso, pp. 3, 37, 81, 88, 89, 90,
95, 96, 100, 102, 103, 104.
Schubert, Franz Peter, p. 76.
Schwarzkopf, Elisabeth, p. 50.
Varèse, Edgard, p. 67.
Varian, Hal, pp. 23, 29.
Verdi, Giuseppe, pp. 53, 56.
Vivaldi, Antonio, p. 34.
von Bulow, Hans, p. 49.
Wolf-Ferrari, Ermanno, p. 55.
Zemeckis, Robert, pp. 47, 48.
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ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE
responsabile: CARLO MARINELLI
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Finito di stampare
nel mese di ottobre 2008
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