Carlo Goldoni IL TEATRO COMICO con un saggio di Enrico Bernard TEATRO, LINGUA, LETTERATURA di Enrico Bernard Fra qualche decennio la lingua italiana compirà un millennio di vita. Com'è noto diversi fattori hanno contribuito alla formazione del "volgare" prima, e del "dolce stil novo" verso la fine del XII secolo e, tra questi, il teatro ha indubbiamente rivestito un ruolo importante. In particolare mi riferisco alla trasformazione delle Sacre rappresentazioni tardomedievali nelle laudi teatrali del '200: processo culturale, spettacolare, e linguistico stimolato dalla necessità di rendere comprensibile, con l'uso del "volgare", che sostituisce il latino, il contenuto morale e religioso delle sacre rappresentazioni. "Perché un autentico dramma sia possibile, è necessario che il latino della liturgia faccia luogo ad una lingua magari rozza ed elementare ma più in grado di aderire al reale... Sicché l'avvento del dramma in volgare si delinea come fatto inevitabile e necessario" (Agostino Lombardo, "Storia del Teatro", Eri edizioni Rai, Torino 1962 pp. 50-51). Il testo drammaturgico ha dunque una certa importanza non solo nella formazione del "volgare", ma anche nel processo di affinamento quale lingua "dolce" e nell'evoluzione della letteratura nazionale. L'italianista Eugenio Ragni, al quale ho sottoposto queste mie osservazioni preliminari, mi scrive: "La diffusione del volgare NON letterario (da cui poi deriverà quello letterario) presso un pubblico che lo parlava quotidianamente, ebbe come veicolo primario una serie di fattori eminentemente teatrali, che vanno appunto dalle sacre rappresentazioni “volgarizzate” ai Cantari, cioè all’opera benemerita dei cantastorie che andavano nelle piazze nelle giornate di mercato e non solo diffondevano il volgare, ma le storie bibliche, gli eroi delle saghe classiche (Enea, Ulisse, le storie “de Troia e de Roma”, quelle dei cavalieri della Tavola Rotonda, ecc.): il tutto “teatralizzando” la materia non soltanto con la recitazione delle battute versificate, ma soprattutto con cartelloni su cui erano disegnate le scene relative al racconto che andava narrando. Senza dire che lo facevano su un palco più o meno grande, ma pur sempre un palco, anche se ancora poco scenico." (Lettera ad Enrico Bernard del 22 maggio 2009). Sottolineo con particolare enfasi - data la mia militanza teatrale - questo merito della drammaturgia italiana che pure fornisce a Dante molti elementi dell'impalcatura della "Divina Commedia" che innegabilmente presenta una struttura teatrale, "modificata precisa Ragni - ma non estranea a quella delle sacre rappresentazioni". Va anche detto che l'intuizione della valenza teatrale del poema dantesco non è mia e non è neppure nuova. E' di Niccolò Machiavelli che nel "Dialogo intorno alla lingua" (Dialogo, si noti bene, più che discorso) del 1515 cioè pochi mesi prima di iniziare la stesura de "La mandragola", scrive: "Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire "egli disse" ed "io risposi", noterò gl'interlocutori davanti." Così Machiavelli imposta un vero e proprio dialogo teatrale sull'origine del "dolce stil novo". La questione strettamente linguistica (e la polemica di Machiavelli con Dante sull'origine del dolce stil novo con relativa accusa di "plagio") non è in discussione: qui infatti sto "solo" cercan-do la radice teatrale della letteratura italiana. E mi par bene che l'autore del Principe colga appieno la struttura drammaturgica della "Divina Commedia" sottolineando quel "Egli disse ed io risposi" che sostituisce teatralmente con gl'intelocutori a recitar battute per meglio comprendere i termini della questione. Luigi Blasucci (in "La letteratura italiana" vol. 6, pag. 76, Milano 2005) commenta il passo del "Discorso": "Sottolineiamo quel 'un poco', che è la spia più significativa della metamorfosi concettopersonaggio. Il dialogo che segue non è affatto un espediente didascalico, come si può ritrovare in tanti trattatisti del tempo, ma ha i caratteri di un vero colloquio tra persone vive". L'intuizione di Machiavelli ha naturalmente stimolato un'analisi approfondita, non solo della teatralità di Dante - su cui molto si è scritto, - ma anche sul rapporto di Dante col teatro del suo tempo. Su questo tema specifico si è espressa un'ampia letteratura critica ("Dante e il teatro" è ad esempio il titolo di una conferenza del 7 febbraio 2006 di Pier Mario Vescovo dell'Università di Venezia Ca' Foscari incentrato sulle messe in scena del divino poema) che qui non posso che esemplificare con una citazione delle fonti a cui attinge Dante stesso. Mi riferisco ad una delle Laudi delle Sacre rappresentazioni Umbre dell'inizio del XIII secolo: "La discesa di Cristo all'Inferno": un testo drammaturgico complesso che tematicamente, figurativamente, metaforicamente e linguisticamente non può non rientrare nel back ground culturale di Dante. L'INFERNO, A Cristo: Chi se' tu, che me descioglie Quil che, 'l mortal peccato lega? Chi se' tu, che 'l Limbo spoglie. Enverso te ciascun sì priega? Chi se' tu, tal combattetore, Ch'hai vinto el nostro gran furore? Chi se' tu, che tanta luce Daie a quiste scure parte? Chi se' tu, che mo' conduce sopra de noi aie tal carte? La breve citazione bene illustra come in questa "Discesa di Cristo all'Inferno" in qualità di "estraneo" vi sia teatralmente già l'essenza drammatica della "Divina Com-media" che quindi è commedia dialogata (come asserisce Machiavelli) sulla base della grande spiritualità e forza immaginativa espressa dal teatro tardomedievale. Tema, questo del rapporto tra Dante e il teatro medievale, già trattato comunque dagli studi di Mario Manlio Rossi ("Il lato drammatico della Divina Commedia" in Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, tomo CXXI, 1962-63, pp. 391-441), di Umberto Bosco ("Dante e il teatro medievale" in Studi filologici e letterari, Padova, Antenore, 1977 vol. I pp. 135-147) nonche' di Rino Mele in "Nel giallo della rosa sempiterna, sulla teatralità di Dante" (2006), nonché da Paolo De Ventura in "Dramma e dialogo nella Commedia di Dante" . Chiamo in causa la bibliografia poiché un saggio in particolare mi ha incuriosito per la sua apertura all'attualità, che è il punto cui voglio arrivare in breve. Mi riferisco allo studio di Peter Armour dal significativo titolo "Comedy and the Origins of Italian Theatre around the time of Dante" che sta incluso in "Writers and Performers in Italian Drama from the time of Dante to Pirandello" (The Edwin Mellen Press, 1991, pp. 1-32). In qualche modo ecco che la teatralità di Dante si pre-senta come un argomento che, al di là dell'interesse filolo-gico, interviene nella questione della grande drammaturgia italiana il cui filo rosso è tracciabile attraverso Machiavelli-Goldoni-Pirandello-Eduardo. E per rafforzare la tesi della teatralità della letteratura, narrativa e poesia, aggiungo Petrarca, che in qualche forma di sintonia con la "Divina commedia", in cui sono protagonisti Dante e Virgilio, affida ad un corposo testo teatrale "Il segreto" (Secretum, 1342-43) il suo incontro filosofico, teologico ed esistenziale con Sant'Ago-stino. Del resto "Il Canzoniere" stesso non è anche un ideale dialogo con Laura? Nonostante ciò, il teatro non è più oggetto principe della critica letteraria. Un rammarico mi accomuna ad altri studiosi e appassionati di drammaturgia come ad esempio Domenico Pietropaolo che lamenta: "Purtroppo la disciplina degli studi teatrali fa ancora molta fatica a conquistarsi lo statuto di autonomia scientifica ed istituzionale che ad essa compete, vedendosi costretta nella maggior parte delle nostre università a farsi spazio all'interno di rigide strutture concepite per lo studio della letteratura". (D. Pietropaolo, "Regia e Filologia negli studi teatrali" incluso in p. 1492) Il discorso di Pietropaolo sulla doppia natura, lette-raria e scenica, del testo teatrale, può essere a sua volta ampliato sul tema della tetralità del testo letterario. E va da sé, in quest'ottica, un accenno all'unidimensionalità della critica letteraria che, confinando spesso e volentieri il testo teatrale in una una nicchia, trascura di fatto l'essenza drammaturgica della letteratura non destinata immediatamente alla rappresentazione. Di questa trascuratezza si fa ad esempio portavoce un personaggio di Eduardo, il Capocomico Campese, che ne "L'Arte della commedia" sostiene di sentirsi "escluso" dalla vita civile e non solo culturale del Paese in quanto, appunto, uomo di teatro. Esclusione che, alla luce di quanto detto - ossia che il teatro è il motore da cui scaturiscono la lingua e la letteratura nazionale, compreso il divino poema dantesco - è causa di una lacuna nella cultura italiana. La questione della nascita della letteratura e della poesia come forme di rappresentazione (orale, scenica ecc.) permette di ampliare il discorso di Pietropaolo, circa la ne-cessità di una analisi non solo letteraria e testuale dell'opera drammatica, ma pure come forma per la scena, proponendo una piccola rivoluzione copernica: si può leggere in chiave teatrale un poema o un romanzo? La risposta a questa domanda sarà come vedremo - che la letteratura è di per sé una forma di rappresentazione teatrale. Un fare teatro con un "medium" diverso: la pagina stampata e rilegata al posto del palcoscenico o della parola recitata. Molti dei romanzieri italiani del '900 si sono cimentati col teatro raggiungendo risultati importanti come Pasolini, Sciascia e Savinio, di buon livello drammaturgico come Moravia e Bernari, o di non eccelso valore come Za-vattini, Umberto Eco e Camilleri o più scarsi come Corrado Augias e Claudio Magris. In questi casi tuttavia abbiamo a che fare sempre con narratori che una, due o tre tantum hanno tentato la drammaturgia come percorso alternativo, cioé come una forma di "toccata e fuga" in un mondo estraneo alla propria ispirazione. Più interessanti sono invece quei fenomeni in cui il narratore si è fuso col drammaturgo: penso a Pirandello ed Eduardo. Anche qui già mi sento obbiettare: ehi, passi per Pirandello il cui corpus di opere anche narrative è attraver-ato dalla "forma drammatica" e viceversa. Ma che c'entra Eduardo che non si mai cimentato nella narrativa? Rispondo osservando che la drammaturgia così for-temente teatrale - mi si conceda il pleonasmo - di Eduardo rimanda ad una forma di romanzo nel teatro, proprio così come la "Commedia" di Dante è una rappresentazione lirica nell'ambito di una metafora teatrale. Mario Mignone nel suo saggio su Eduardo (Twayne Publishers, Boston 1984) indica la presenza di una prima forma neorealista letteraria in "Natale in casa Cupiello" del 1932. Ma c'è anche il fatto che la stessa forma stliistica delle opere di Eduardo allude, per esempio nelle didascalie, ad una letterarietà che va oltre la semplice indicazione per la scena. L'incipit de "L'arte della commedia" è in questo senso illuminante: "Fa freddo. Lungo il cortile della Prefettura, ancora immerso nella caligine livida di un' alba invernale, si intravvede come in un barlume la sagoma di un uomo in età avanzata che cammina avanti e indietro, battendo il passo e tutto raggomitolato in se stesso per difendersi dal freddo. Di tanto in tanto si ferma per guardare ansiosamente verso i piani superiori del palazzo, nella speranza che qualcuno si accorga di lui e metta fine a quella lunga attesa. Non si affaccia nessuno, non una sola testa spunta dai finestroni, non appare anima viva... Oreste Campese, tale è il nome del personaggio, è un uomo di circa cinquantacinque anni. Veste abiti modesti e lisi ma puliti e in ordine. Ha il viso segnato dagli stenti di una vita miserabile, gli occhi però sono dolcissimi e ancora pieni di speranze. Tanto per ingannare il tempo, introduce la mano infreddolita in una tasca del vecchio cappotto, fruga e tira fuori una misera borsa di pegamoide giallo, da cui estrae la pipa e qualche pizzico di tabacco ridotto a polvere dal fred· do secco. Caricata la pipa, si mette a cercare i fiammiferi e ne trova uno sperduto in un'altra tasca. L'accende stru· sciandolo sotto la scarpa. Due o tre boccate l'aiutano a darsi l'illusione di poter ancora resistere nell'attesa. Riprende a camminare con rinnovata energia, contando a uno a uno i passi che muove. Come si fa, in questo caso, a non parlare di narrativa - anche se siamo alle prese con un'opera teatrale? Il confine tra i generi è come si vede sottilissimo, e il trapasso dall'uno all'altra, dal teatro alla narrativa - ossia due generi che hanno il dialogo come base comune- , non solo dovrebbe risultare automatico, ma intrinseco all'opera stessa. Poco importa che Dante usi l' "egli disse ed io risposi" al posto della struttura teatrale del personaggio dialogante: come dice Machiavelli nel "Dialogo" sempre... dialogo è, dunque teatro. Teatro che è, da sempre, la radice quadrata di ogni forma di espressione artistica dell'uomo, pittura, canto e danza inclusi. Ad esempio, è proprio nella "teatralità" che Dante e Giotto trovano e sviluppano, influenzandosi a vicenda, un terreno comune sulla base della rappresentazione e della "messa in scena" delle vicende umane. Ma tornando alla modernità, il ragionamento mi porta a dire che Pirandello è "narratore" quando fa teatro e, al contempo, è drammaturgo quando scrive prosa, proprio come accade ad Eduardo che è un drammaturgo-narratore per eccellenza. Nessuno del resto pensa che Eduardo avrebbe avuto la benché minima difficoltà a scrivere una novella o un romanzo anziché una commedia sull'idea di "Natale"! Naturalmente non voglio sostenere la tesi estrema che non vi siano differenze sostanziali tra narrativa e drammaturgia. Il romanzo (e la sceneggiatura, che a sua volta rappresenta una forma di prolungamento del teatro con altri mezzi) sottostanno a regole meno rigide rispetto al teatro, ovvero consentono rapidi passaggi di scena, salti temporali e di luogo, digressioni eccetera, tutti meccanismi insomma che il testo teatrale nato per la scena può supportare con minor elasticità. Tanto per fare un esempio, il romanzo solitamente fornisce una serie di dettagli descrittivi che in una commedia, recitati, sarebbero mortali di noia Ma, ciò nonostante, non è sbagliato attribuire una drammaturgia ad un romanzo, - oppure una struttura narrativa ad un testo per la scena: un romanzo può e deve essere tanto drammatico (e drammaturgico) quanto un dramma od una commedia non possono sottrarsi a regole narrative affini al romanzo: e mi riferisco alla suspence, la sorpresa, la struttura del "plot" narrativo. Richiamo l'attenzione anche su una forma di letteratura che è identica ad un genere drammatico: il monologo. L'intero corpus dell'Ulisse di Joyce è fondato sul monologo interiore che ha - ovviamente - equivalente scespiariano nel mologo di Amleto, per fare un esempio semplice. E la tradizione letteraria del monologo interiore ha avuto nella narrativa italiana una grande e ancor oggi vivissima suggestione e tradizione. Di fronte ad un monologo, come si fa dunque a dire se siamo nel campo della letteratura o in quello teatrale? Certamente, pochi narratori italiani riescono a tradurre la propria forza espressiva nell'atto teatrale immediato, così come pochi drammaturghi sono in grado di tradurre in prosa la lora capacità drammaturgica. Ma ciò non deve distogliere l'attenzione dal fatto che invece, spesso e volentieri dell'ottimo teatro si fa in prosa e che, altrettanto spesso la narrativa stessa è una forma teatrale "in essere". Questo perché l'atto originario creativo è la "Rappresent-Azione", cioé la riproduzione, ripetizione e imitazione di un'azione per scopi dapprima sacrali e poi ludici. All'inizio dicevo che la letteratura e la lingua italiane hanno genesi dal teatro delle sacre rappresentazioni e delle laudi sacre e profane dell'XI, XII e XIII secolo. La domanda che bisogna ora porsi è se sia possibile forzare ancor di più questa affermazione sostenendo che in queste forme di teatro viene a costituirsi il genere romanzesco stesso, - non solo italiano, dato che queste "forme" teatrali sono comuni al resto d'Europa. Quello che infatti colpisce scorrendo i testi della Sacre Rappresentazioni e delle Laudi è il piano narrativo che si sovrappone al cosiddetto "recitativo". I personaggi infatti non sono soltanto nominati all'inizio delle battute come coloro che parlano, ma ne è evidenziata anche l'azione (come in Dante, si noti bene) che non è solo didascalica, ma anche appunto narrativa: dice uno di quelli poveri, dice il cavaliere, un altro povero dice, risponde il povero, la Madre bacia le piaghe del figliolo e dice così, Ora si suona e balla e Uno dice questa stanza in sul suono... ecc. Questa caratteristica narrativa del teatro sacro si concentra e si sviluppa in un nucleo di testi tardomedievali ("La storia del Re superbo", "La rappresentazione di Santa Uliva" ed altri) che formano la tradizione del Teatro Sacro Ro-manzesco. Scrive Mario Bonfantini (in "Le sacre rappre-sentazioni italiane", Bompiani, Milano, 1942, p. 619) "Anche il metro dell'ottava, che domina ovunque, ed era tipicamente narrativo e proprio dei poemi romanzeschi, è indizio significativo... Chiamiamo più propriamente "romanzesco" quel tipo di Sacra Rappresentanzione nel quale l'elemento profano ormai predomina: perché il miracoloso è quasi completamente trapassato in meraviglioso, e l'interesse per gli strani casi dei protagonisti e per le trovate sceniche viene a soffocare quasi del tutto lo scopo edificante del dramma". E' nella natura stessa dei testi drammatici dell'XI, XII e XIII secolo essere destinati alla lettura più che alla rappresentazione - così come da secoli erano destinate esclu-sivamente alla lettura, non alla recitazione, commedie e tragedie del teatro latino classico. Il che comporta, come sostiene Agostino Lombardo (cit. p. 54) che essi "appartengono alla letteratura, non al teatro". Ecco dunque che tutto parte e torna al teatro, come appunto Pirandello che - sia in prosa che in drammaturgia - opera sempre all'interno di uno stesso percorso narrativo. Ripetendomi: egli è infatti narratore quando scrive teatro ed è, al contempo, drammaturgo quando fa prosa. Potrei insi-stere con qualche esempio sulla congenita "teatralità" d'ogni prodotto pirandelliano, portando ad esempio una novella in paragone con la commedia che Pirandello ne ha tratto in séguito: tutta la narrativa di Pirandello è peraltro un dialogo diretto fra personaggi raccontati: e infatti ha fatto quasi sempre pochissima fatica a trasferire in commedia quello che aveva concepito e pubblicato inizialmente come scritto narrativo. S'intende che Pirandello è un caso praticamente uni-co se non eccezionale di Giano bifronte, cioè un grande romanziere che è nel contempo anche un grande dramma-turgo. Ma il trucco c'è e sta nel teatro che l'Agrigentino ha nelle vene, sangue che costituisce l'essenza "drammatica" della sua opera complessiva. Con questo voglio dire che in Pirandello non avviene mai un passaggio netto da un genere all'altro, dal teatro alla narrativa, poiché egli resta sempre e comunque fedele al proprio DNA drammaturgico. Ecco allora i casi (numerosi) di narratori che, cambiando genere e tentando la strada del palcoscenico ra-ramente danno vita a frutti sostanziosi drammaturgicamente parlando. Certo, Pasolini scrive teatro interessantissimo, ma, se non fosse per la narrativa, per la poesia e il cinema, al "vero" Pasolini che conosciamo mancherebbe qualcosa. Parimenti l'opera teatrale di Sciascia ("L'onorevole") - sia pur molto valida - passa in secondo piano rispetto alla sua narrativa. Questo perché Pasolini e Sciascia sono dramma-turghi (nel senso completo e classico del termine) non tanto quando scrivono per il teatro, bensì soprattutto quando scrivono teatro nella forma a loro congeniale, la prosa. Prosa che, come ho cercato di dimostrare, è una forma di pro-lungamento del dramma, un prolungamento che muta forma ma non la sostanza teatrale. Tralasciando d'Annunzio, notevole poeta ma dram-maturgo discutibile (è un caso opposto a Pirandello: continua a far poesia spesso retorica - anche quando si cimenta nel teatro), non posso non fare retromarcia e parlare in breve di un "caso" teatrale della letteratura italiana: Italo Svevo. "La rigenerazione", "Con la penna d'oro" e gli altri suoi drammi sono capolavori del teatro italiano del '900, e solo la morte improvvisa in un incidente automobilistico ha probabilmente impedito a Svevo di rappresentare un'alternativa validissima allo scrittore Agrigentino, cui sette anni dopo, nel 1934, andrà il Nobel. Ma è stata mai condotta a tutt'oggi un'analisi critica seria del rapporto fra il teatro e la narrativa di Italo Svevo? Ha scritto Odoardo Bertani: "Povero invece è tutt'ora il lavoro critico sull'opera teatrale di Svevo... accenni alla produzione drammaturgica si trovano in molti - ma non in tutti - gli studi dedicati allo scrittore triestino, mantenendosi una separazione di ben relativa plausibilità tra i due campi, quasi che l'autore avesse un doppio e non comunicante cervello creativo". (Odoardo Bertani in Italo Svevo, Teatro, Garzanti Milano 1986, p. LXIV). Va da sé che per Svevo vale il discorso fatto per Pirandello a proposito della capacità drammaturgica innata di inserire il dramma nel romanzo e la prosa nel dramma, quasi come se - e Bertani lo nota bene - il cervello creativo dell'autore funzionasse sulla base di una struttura teatrale comune a tutti i generi letterari. Quello che voglio dire è che in Svevo e in Pirandello è il teatro a smuovere tutta la forza creativa: e quanto più si ha nelle vene il dialogo, l'essenza del dramma, appunto il teatro, tanto più si è forti narratori. Anche per la generazione immediatamente succes-siva a Svevo e Pirandello, quegli autori che in parte ho citato prima (Betti, Pasolini, Sciascia, Savinio, Zavattini, Moravia, Bernari, Tullio Pinelli e - last but not least - Vincenzo Cerami) la teatralità, la coscienza del dramma come essenza del racconto, permettono il raggiungimento di traguardi espressivi non solo (Betti) e non tanto (gli altri) nel teatro stesso, ma addirittura nell'opera narrativa tutta. Con questo voglio dire che al di là della produzione drammaturgica in senso stretto (in qualche caso non rilevantissima), questi autori sono stati drammaturghi (e sceneggiatori, il che significa molto) realizzando opere letterarie il cui rapporto col teatro - di importanza fondamentale e sulla cui esisten-za non ci sono dubbi - è e resta da approfondire. Del resto, il fatto che autori teatrali contemporanei come Dario Fo (il cui teatro assume spesso la forma della narrazione) o di Celestini, Baliani, Paolini (la cui drammaturgia è sempre affine ad una forma narrativa, tanto che le loro opere sono anche dei veri e propri racconti) è un ulteriore colpo alla separazione dei generi e alla riduzione del teatro e della drammaturgia al semplice evento scenico, privo di valenza letteraria. Il caso di un autore teatrale affermato come Giuseppe Manfridi, che dopo aver realizzato una trentina di drammi rappresentati nei principali teatri europei sta per pubblicare il suo quarto romanzo, è oltremodo esemplare. Manfridi ha infatti nella letterarietà del proprio teatro un punto di forza: il suo è un teatro non solo di parola, ma anche un teatro di vere e proprie strutture narrative fondate sugli elementi che teatro e romanzo hanno in comune: cioé il dialogo e il senso della tragedia. Naturalmente quando Manfridi passa alla narrativa e si cimenta col romanzo non fa un salto in un genere nuovo, si tratta sempre sponta-neamente - automaticamente, ecco il pregio della sua narrati-va - di fare teatro abolendo la funzione rappresentativa del palcoscenico "fisico" per alzare il sipario su un altro palco-scenico: quello mentale di chi legge. Tuttavia, le differenze tra i due palcoscenici, quello delle tavole teatrali e quello della mente del lettore,- ed è questa la forza della dimostrazione di Manfridi che così si iscrive sulla scia pirandelliana - sono minime. Il risultato infatti, sia che la parola venga detta da un attore o che venga letta da un lettore, è sempre quello della RappresentAzione drammatica: cioè, nella mia definizione, di una rielaborazione della realtà attraverso lo strumento della dialettica, il dialogo. Dialogo che, fin da Platone che lo presecelse come strumento ideale di analisi critica della realtà e della ricerca del vero e del senso dell'umana tragedia, è indispensabile all'esercizio della dialettica, che è il fondamento da cui scaturisce il pensiero filosofico come ricerca del vero. Ma non fu Eschilo, e dunque ancora una volta, il Teatro ad inventare il dialogo? Un grande poeta contemporaneo, Antonio Porta, ha scritto: "Il senso del tragico è alla base di ogni mia possibilità di operazione poetica." (A. Porta su «Marcatré» 1 gennaio 1964 in un intervento sul Grado Zero della poesia) In conclusione, il pensiero di Porta sulla natura tea-trale e tragica della sua poesia può essere esteso ai diversi generi ed epoche della letteratura italiana: il senso del tragico è alla base di ogni possibilità di operazione poetica. 2 - GOLDONI E LA TRADIZIONE TEATRALE ITALIANA Goldoni rappresenta il passaggio della drammaturgia italiana dall'epoca moderna a quella contemporanea. Solo della drammaturgia, oppure anche della letteratura, quindi della narrativa? Naturalmente l'opera di Goldoni viene presa in considerazione dalla critica letteraria per la questione della lingua e del dialetto, nonché per l'importanza della riforma goldoniana - il passaggio dalla Commedia dell'Arte alla Commedia dei Caratteri nell'ambito della formazione di un'idea di "realismo" di cui si avvantaggerà la narrativa ita-liana da Manzoni, Verga e Pirandello a Moravia e Bernari. Tuttavia il ruolo della drammaturgia goldoniana, nell'ambito della formazione della letteratura nazionale dal XIX al XX, secolo è stato ridotto ai minimi termini proprio a causa della teatralità, che talvolta il critico letterario giudica più come un difetto che come un valore aggiunto. La verità è invece che non ci sarebbe una letteratura nazionale moderna se non ci fosse stato il teatro di Goldoni: non sono io a sostenerlo, ma Pirandello che lamenta la riduzione ai minimi termini del significato storico dell'opera goldoniana, nel quadro della letteratura italiana. Ecco cosa scive Pirandello: "Pensate che finanche Goldoni, che oggi a noi sembra quanto di più semplice e accessibile si possa immaginare; il cui stile ci sembra così schietto e aderente alla realtà dei suoi personaggi tolti proprio di peso dalla vita del suo tempo; finanche il Goldoni, neppure ai suoi tempi, fu riconosciuto. E quante gliene dissero! Che scriveva male, subito, e glielo dissero tutti, anche quelli che pur con le debite riserve accettavano il suo teatro e lo assecondavano. Avevano l'aria di dirgli: «Sì, hai ragione tu; coloro che ti danno la croce addosso non capiscono niente, ma se tu sapessi scrivere un po' meglio!». E questo è naturale, se si pensa che lo spirito attua le sue costruzioni sempre con grande e lento travaglio e che ogni volta che è riuscito a stabilirne una, prova il bisogno di riposarsi per un po'. Si aprono in tal modo, dopo il riconoscimento d'ogni espressione originale, certi periodi in cui gli spiriti non creano più veramente, ma si danno alle piccole scoperte del lumeggiare le pieghe della visione della vita che consiste in quel momento, sicché tutto ne resta impregnato e si viene a costituire, oltre a un poderoso bagaglio di frasi fatte che hanno senso per tutti in quel momento e non ne avranno più alcuno forse dopo l'avvento d'una espressione nuova, originale; si viene a costituire, dicevo, un mondo assolutamente determinato forse più che dal concepire, dall'esprimere, che non è proprio uguale per tutti, naturalmente, ma che è improntato per tutti dalle stesse caratteristiche. Prendete le lettere degli uomini d'un tempo, anonimi nel senso che non si chiamarono né Dante né Shakespeare, e potrete riconoscere senza riandare alla data, quelle scritte dai nostri padri, quelle scritte dai nostri nonni, quelle degli avi. Ce ne sono che scrivono con grande chiarezza d'espressione, con garbo, con bello studio del periodo. Ecco: questi scrivono bene. E perche Carlo Goldoni scrive male? Ma perche le sue espressioni, per determinare una nuova visione della vita, dovevano per forza stonare con quelle che erano negli orecchi di tutti, già composte, già studiate e perciò belle chiare, che con un po' d'ingegno e di buona volontà, ognuno, santo Dio, poteva dargli un bellissimo garbo. E quello sgarbataccio d'un Goldoni... Io credo che ogni creatore, oltre ai peccati grossi, debba sentirsi su la coscienza le segrete afflizioni dei suoi ammiratori contemporanei, quasi un senso di vergogna per lui a proposito di questo suo inevitabile scriver male. E Goldoni, per carico di rimorsi, non dovrebbe star sotto a nessuno. Il dialogo di Carlo Goldoni dovette apparire anche ai suoi ammiratori insipido e sofistico, confrontato col linguaggio della commedia dell'arte; e scritto male, avvocatesco, sciatto proprio da far cader le braccia, confrontato con lo stile delle composizioni serie d'allora. La commedia dell'arte, recitata, sì, all'improvviso ma incapace di lanciarsi veramente nell'estro d'una vera e propria improvvisazione, non era altro in fondo se non la quintessenza del luogo comune, imbastita su temi generici e su schemi fatti apposta per inquadrarci lo stesso repertorio di frasi stereotipate, di motti e lazzi tipici e tradizionali, di botte e risposte sacramentali, protocollate come in un manuale d'etichetta. Era naturale per tutti che su le tavole del palcoscenico si parlasse così: fatto il gusto alle convenzioni che reggevano quel linguaggio, si andava a teatro proprio per ammirare le arguzie spiattellate, la falsa naturalezza e la falsa spontaneità; e dunque sofistico perché psicologico, insipido perche soltanto naturale doveva apparire lo stile del Goldoni, che scioglieva col suo dialogo la fissità di quelle battute e scomponeva delle maschere disfacendone a poco a a poco la consistenza ed esprimendola - spettacolo nuovo e ignoto - col giuoco di tutti i muscoli affrancati. Ma perché Goldoni, che pure ebbe in vita la sorte combattuta dei novatori, non s'è potuto stabilire in un valore assoluto, tanto che, di fronte a chi ha fatto di lui quasi un feticcio e, con l'intenzione di lodarlo, esclama: «Ah! Il buon "vecchio" Goldoni!» (e in quel «vecchio» più che un reale riconoscimento intrinseco pone uno spirito di polemica col «nuovo») c'è chi gli nega addirittura ogni valore per se stesso e pone la sua produzione come un momento superato nella storia del teatro italiano e nega che possa essere l'espressione d'un mondo creato e insuperabile nel regno eterno dell'arte? Anche questo - mi sembra - avviene per gli equivoci ai quali vanno soggette le valutazioni astratte e sistematiche. E' naturale che ogni espressione raggiunta, mondo creato, a sé, unico e senza confronti, che non può essere più né nuovo né vecchio, ma semplicemente «quello che è», in sé per sé in eterno, trovi in questa sua stessa «unicità» le ragioni: prima, della sua incomprensione; ee poi, e sempre, della sua spaventosa solitudine: la solitudine delle cose che sono state espresse così, immediatamente, vome vollero essere, e dunque «per se stesse». E questo solo fatto sarebbero inconoscibili, come sono, se ciascuno, volendo conoscerle, non le facesse uscire da qull'essere «per se stesse», facendole essere per lui, così com'egli le interpreta e le intende. Chi sa Dante, com'era per se nel suo poema! Dante, in quel suo essere per se, diventa come una natura: noi dovremmo uscir da noi stessi per intenderlo com'è per sé, e non possiamo e ciascuno lo intende a suo modo, come può. Egli resta veramente solo nella sua solitudine divina. Non di meno, ogni tempo lo fa suo; ogni tempo riecheggia a suo modo quella sua unica voce. Ma c'è questo, che la voce di Dante dice cose eterne: parla dalle viscere stesse della terra. Voce d'una natura, non potrà mai spegnersi nella vita e quel nostro necessario echeggiarla non vuol dire fraintenderla o non comprenderla. È invece possibile in un tempo fraintendere e non comprendere più la voce di chi, pure creando, e in forme compiutissime, una sua organica visione della vita, non invalorò con la sua espressione reali e liberi «movimenti» dello spirito, ma rappresentò piuttosto secondo un «atteggiamento» dello spirito. E questo «atteggiamento» in sé, astratto al solito dalla sua espressione, può essere superato, anzi è necessariamnte superato e diventa a un certo punto, per così dire, storico, non appena le sopravvenute agitazioni dello spirito abbiano spostato gli elementi di quel panorama contemplato così, da un punto fisso. Dei movimenti dello spirito non ci si può invece disinteressare mai: il Medioevo di Dante, non rappresentato secondo un atteggiamento del suo spirito com' è il Settecento del Goldoni, ma nei movimenti d'uno spirito che non contempla il suo tempo perché ne ha vive in sé tutte le passioni e, anche quando contempla, non si riposa un attimo, perche lo sguardo non propriamente sul tempo, ma dal tempo gli si affisa all'eterno e lì subito lo insegue e lo stringe da presso piegandolo ai dubbi, spiegandolo alle rivelazioni, questo Medioevo di Dante, appunto perché è tutto assunto nel movimento d'uno spirito, non è più superabile: sarà sempre, in un modo o in un altro, riecheggiato in ogni tempo. È possibile sempre, in sostanza, a ogni tempo ricevere in sé, comunque, lo spirito di Dante e avvertirne la perpetua presenza e invece è necessario riportarsi in un certo senso, dai tempi a quei tempi determinati per gustare il valore dell' espressione d'un atteggiamento dello spirito, che non può esser gustata se non nel suo particolare sapore, e che non soffre riecheggiamenti: è necessario inomma, riportarci al tempo del Goldoni. Era un atteggiamento, quello del Goldoni, bonariamente satirico: espressione d'una coscienza morale assai sveglia, che restava intatta e si serbava tutta propria a se stessa nel riflettere quelle contingenze che così poteva satireggiare, con la soddisfazione di sentirle superate in lei, pur sapendo staccarle dalle determinazioni spirituali del suo tempo: e da ciò la bonarietà di questa satira, che può apparire superficiale in un periodo di travaglio e di sovvertimento fondamentale d'ogni valore costituito. Per la schiettezza e la trasparenza della sua forma, è e sarà sempre facile riportarsi a Goldoni, a sentir vive, nella vita della rappresentazione offertaci dal suo atteggiamento spirituale, e l'arguzia del suo spirito e l'organicità della vita così guardata e rappresentata. La quale è tutta assunta in una forma che davvero la imbalsama per sempre, insieme con la freschezza e la festevolezza delle proprie espressioni, con la felicità d'uno spirito che creava per la gioia di creare. Il modo come Goldoni esprime ogni cosa sarà sempre un modello del gusto di rappresentare, così fluido e scintillante, così nitido e svelto, così accorto e spontaneo e veramente divertente. La proprietà dello stile, non solo nel dialetto, è assoluta: non c'è mai cosa detta per approssimazione o in modo che non sia il più schietto e saporito: come non c'è mai nella concezione sordità o squilibrio di sentimento o d'intelletto; conncezione, elaborazione, espressione, sono squisitamente accordate a creare un mondo di grazia. La grazia che è uno degli aspetti della natura umana più simpatici e rari, trova in Goldoni la sua perfetta espressione, mai raggiunta prima di lui; irraggiungibile certo in un modo così immediato e in tal misura. Quando questa freschissima espressione di vita balzò su le scene mummificate del teatro italiano e ridette loro il respiro, il calore e il movimento, si parlò d'una riforma. Era il teatro nuovo. Si può dire oggi che sia vecchio teatro, perche l'atteggiamento spirituale da cui esso scaturì è in se stesso superato dal mutamento dei valori nei tempi? In arte ciò che fu creato nuovo resta nuovo per sempre. Goldoni aveva occhi arguti, occhi vivaci, coi quali vide nuovo e creò nuovo." (da «Esternamenti» incluso in "Saggi e Interventi", pp. 11671170, Mondandori Milano 2006) Ora, la critica letteraria ha certo preso in grande considerazione Goldoni per la questione linguistica del dialetto, confinandolo però per il resto in una zona d'ombra della letteratura nazionale, - con l'eccezione delle "Memorie" considerate più opera di narrativa. Certamente, gli espedienti drammaturgici di Goldoni sono quelli propri del teatro: i trucchi del mestiere della Commedia dell'Arte vengono da lui assimilati e reinterpretati, nonché piegati alle esigenze di stabilire un contatto con il pubblico, anche ai fini della sopravvivenza economica, poiché il committente del teatro goldoniano non è più il Principe, ma lo spettatore pagante e quindi l'impresario (vedi, Maria Pirri, "Goldoni e il mercato del teatro", in Esperienze Letterarie, XXXII-2007 3-4, pp. 18- 2025 Pisa-Roma 2007, Serra Editore). Ma questi trucchi del mestiere, gli espedienti ad esempio erotici che risalgono alla "Mandragola", servono appunto a Goldoni a utilizzare il teatro, sull'esempio di Machiavelli,- ai fini di farne un "palcoscenico morale" della società italiana (vedi a questo proposito Ezio Raimondi, "Politica e commedia", Il Mulino, Bologna 1972). Possiamo dunque parlare di un uso "dialettico", ossia ideologico e politico, quindi di una "narrazione" intesa come comunicazione tra scrittore e spettatore e\o lettore? Come tutti sanno, il tema della "leggerezza" è stato affrontato prima di me da Italo Calvino che nella "lezione americana" tenuta il 6 giugno 1984 ad Harvard (v. Italo Calvino, "Lezioni americane", Garzanti 1988) dedicò il primo incontro appunto alla "leightness". "Dedicherò la prima conferenza all'opposizione "leggerezza"-peso, e sosterrò le ragioni della "leggerezza". Questo non vuol dire che io consideri le ragioni del peso meno valide, ma solo che sulla "leggerezza" penso d'aver più cose da dire. Dopo quarant'anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l'ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro. Proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio. In questa conferenza cercherò di spiegare perché sono stato portato a considerare la "leggerezza" un valore anziché un difetto." (Italo Calvino, cit. p. 5) L'analisi di Calvino prosegue poi con il ricono-scimento di alcuni grandi esempi di "leggerezza" nel campo della letteratura e della poesia (Ovidio, Dante, Cervantes, Leopardi ecc.) senza però entrare nell'ambito della dram-maturgia e della letteratura teatrale che pure, parlando di "leggerezza a doppio senso", tanti esempi a partire da Aristo-fane e Plauto può fornire all'argomento. L'impostazione letteraria di Calvino può essere allora estesa al teatro: mi sento così autorizzato a parlare del teatro italiano dal Rina-scimento ad oggi, la cui "linea rossa", sia pur esemplificata al massimo, cioè Machiavelli-Goldoni-Pirandello-Eduardo (e chiedo scusa a Pietro Aretino e a Giordano Bruno), trova nell'uso critico e politico della "leggerezza" (e dell'erotismo, che è un filone della "leggerezza") un denominatore comune. Partiamo dalla prima constatazione di Calvino: la "leggerezza", in letteratura (e nel teatro) non è sinonimo di futilità o stupidità. Un'opera "leggera" può essere ricca di significati profondi, anche se nascosti vuoi per motivi "politici" vuoi per motivi di gradimento del pubblico. La "leggerezza", quando non è fine a se stessa, quando cioè riesce a dare un senso etico o morale al "di-vertimento" (che significa una lettura paradossale della realtà con tutti i suoi problemi ) è sempre fonte di critica e conseguentemente di cultura. La "leggerezza", in effetti, è uno strumento stilistico utilizzato spesso e volentieri nel teatro, nella letteratura (soprattutto rinascimentale e barocca) per permettere all'opera di divertire il pubblico e allo stesso tempo di "supportare" - di sostenere - un messaggio più serio. Da Machiavelli , l'Aretino, la Commedia dell'Arte e Goldoni fino a Pirandello, Eduardo de Filippo, l'arte del "divertimento" a teatro è sempre stata finalizzata a mascherare un discorso serio, critico, dietro un intreccio divertente, buffo e appa-rentemente leggero in grado di raggiungere e "migliorare" il pubblico. In questo senso parlerei proprio di "funzione sociale" della "leggerezza". Infatti, con lo strumento della "leggerezza", lo scrittore, l'attore o il drammaturgo possono nascondere un messaggio critico che - proprio perché non viene, insisto, apparentemente proposto "sul serio" - può essere accettato e compreso da tutti. Dal momento, infatti, che un'esplicita critica sociale provocherebbe la disappro-vazione di una parte della società dominante, vediamo che gli autori cercano di prendere per mano il pubblico conducendolo ad una specie di "catarsi indolore". Uno stratagemma drammaturgico è, ad esempio, quello di creare una situazione buffa tramite un intreccio che coinvolge un rapporto tra servo e padrone, dov'è presente l'elemento dell'inganno e della beffa. Questi elementi tipici di quella che definirei "leggerezza paradossale", ossia l'inganno, la critica sociale, la dialettica servo-padrone, si ritrovano in Machiavelli: nella canzone introduttiva de "La mandragola" l'autore accentua la missione del teatro di divertire il pubblico. Lo spettacolo dovrebbe essere, nei versi della canzone, una fuga breve dalla realtà quotidiana con tutti i suoi problemi. Perché la vita è brieve e molte son le pene che vivendo e stentando ognun sostiene; dietro alle nostre voglie, andiam passando e consumando gli anni, che chi il piacer si toglie per viver con angosce e con affanni, non conosce gli inganni del mondo; o da quai mali e da che strani casi oppressi quasi - sian tutti i mortali. Per fuggire questa noia, eletta solitaria vita abbiamo, e sempre in festa e in gioia giovin leggiadri e liete Ninfe siamo. In questo brano introduttivo Machiavelli spiega che l'opzione della "leggerezza" e del divertimento è un tentativo di evadere dal quotidiano. Ma il Poeta allude anche alla solitudine e all'isolamento politico in cui si trova? Machia-velli sta infatti subendo in questi anni il suo lungo esilio politico: ne consegue che la scelta del teatro come strumento di comunicazione non rappresenta solo o tanto una fuga dalla realtà, come recita il testo che vuole "apparentemente" sviare e rassicurare sulle reali intenzioni. Al contrario, il teatro "leggero" (e aggiungerei erotico) rappresenta il tentativo "machiavellico" di crearsi un pubblico, una "audience", tramite lo strumento drammaturgico appunto della "leggerezza" (e, ripeto, dell'erotismo boccaccesco). Tutto ciò senza perdere di vista la situazione politica italiana sulla quale Machiavelli, anche con "La mandragola", vuol dire la sua. L'autore si rivolge direttamente agli spettatori per spiegare che il teatro deve essere leggero per allietare la vita quotidiana, ma al tempo stesso sembra voler incitare il pubblico a prestare la massima attenzione, poiché nella commedia, accanto all'apparente "leggerezza", è presente un contenuto serio: se questa materia non è degna per esser pur leggeri, d'un uom che voglia parer saggio e grave, scusatelo con questo, che s'ingegna con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più suave, perché altrove non have dove voltare el viso ché gli è stato interciso mostrar con altre imprese altra virtue non sendo premio alle fatiche sue. La denuncia di Machiavelli della sua condizione politica è precisa: essendomi stato impedito ("interciso") di mostrare le mie capacità (politiche) con altre imprese, sono costretto a servirmi del teatro e delle sue regole dram-maturgiche ("leggerezza" ed erotismo) per far "passare" il mio pensiero politico senza attirare su di me gli occhi della censura. La favola - come la chiama Machiavelli stesso - de "La mandragola" non ha bisogno di essere descritta se non per sommi capi. Un giovane Callimaco Guadagni ricco (e forse nobile) esiliatosi a Parigi («dove sono stato venti anni... e perché in capo a dieci anni cominciarono, per la passata di re Carlo, le guerre in Italia... deliberai... di non mi rimpatriare mai») rientra precipitosamente a Firenze per amore di una bella scono-sciuta, Lucrezia, moglie del notaio Messer Nicia. Appro-fittando del fatto che Messer Nicia vuole a tutti i costi un figlio per perpetuare il proprio patrimonio, e non riesce ad avere eredi, Callimaco con l'aiuto di due servi, Siro e l'astuto Ligurio, parassita, riesce con un espediente ingegnoso quan-to fantasioso, appunto la mandragola, e con la compiacenza del corrotto confessore Fra Timoteo, ad infilarsi nel letto della coscienziosa Lucrezia. Risultato, con grande gioia di Messer Nicia che è allo stesso tempo ingannatore e ingan-nato, Lucrezia rimarrà incinta di Callimaco. La fine sarà ancora più lieta per tutti in quanto al finto medico Callimaco verranno consegnate le chiavi di casa dallo stesso Messer Nicia affinché possa entrare ed uscire a suo piacimento nel più boccaccesco dei consolidati rapporti a tre. Fin qui la favola o meglio la commedia erotico-leggera che ha ispirato anche un grazioso film di Alberto Lattuada nel 1964. Dietro l'apparente veste della commedia erotica, tuttavia, Machia-velli nasconde - ma neanche tanto velatamente - diversi aspetti di critica sociale, come pure una sintesi del suo progetto politico. Fin dal prologo l'autore precisa che la "favola" è una metafora valida per tutta la nazione italiana: Se voi seguitate di non far romori, noi vogliamo che s'intenda un nuovo caso in questa terra nato. Vedete l'apparato, quale or vi si dimostra; questa è Firenze vostra; un'altra volta sarà Roma o Pisa; cosa da smascellarsi per le risa. Dopo aver situato la "favola erotica" in una dimensione geografica nazionale e prima di alludere ad un'epoca in cui la situazione italiana "marcisce" («Da qui depende, sanza dubbio alcuno / che per tutto traligna / da l'antica virtù el secol presente»), Machiavelli fissa bene i caratteri della commedia. Il primo ad essere presentato con tratti quasi nobiliari è: Un giovane, Callimaco Guadagni [...] a' segni ed a' vestigi l'onor di gentilezza e pregio porta. Il secondo personaggio, per importanza attribuita da Machiavelli, è Lucrezia (forse Lucrezia Borgia che Niccolò pure ammirava?): Una giovane accorta fu da lui molto amata e per questo ingannata... Da questa frase sembrerebbe che l'Autore indulga sull'inganno perpetrato "per amore" da Callimaco, giovane ricco e forse nobile, proveniente da Parigi (quasi come un Principe) a cui toccherà nel finale della commedia di compiere un miracolo politico, come vedremo tra poco. Se dunque l'inganno di Callimaco ai danni di Lucrezia appare non perdonato, ma giustificato nonostante la meschinità del mezzo "machiavellico" in vista del "fine" ultimo - l'amore e la procreazione di un bambino che sarà il nuovo soggetto storico con cui finisce la commedia -, gli altri personaggi sono delineati sarcasticamente: un dottore poco astuto, (messer Nicia) un frate mal vissuto, (frate Timoteo) un parassito di malizia el cucco (Ligurio). Sul parassita Ligurio - e non dimentichiamo il servo di Callimaco, Siro, Machiavelli però ci fornisce una diversa prospettiva fin dalla terza scena che chiude il primo atto. In questo dialogo il "parassita" si rivela invece un alleato "politico" di Callimaco contro la goffa e arricchita borghesia impersonata da Messer Nicia. Ligurio: Non dubitare della fede mia, ché, quando e' non ci fussi l'utile che io sento e che io spero, ci è che 'l tuo sangue si affà col mio, e desidero che tu adempia questo tuo desiderio, presso a quanto tu. Da questo brano apprendiamo che l'intento di Ligurio non è (solo) quello di approfittare della situazione per un facile arricchimento, bensì anche e soprattutto quello di realizzare un'alleanza strategica, rivoluzionaria, in grado di far si che dalla bella e costumata Lucrezia il giovane (Prin-cipe?) riesca ad avere un erede. Ricordo in breve che il piano politico che stava a cuore a Machiavelli era proprio quella della discesa in Italia di un Principe in grado di riunificare le classi sociali e realizzare l'unità nazionale. Come dicevo poc'anzi, il finale della commedia sarà proprio quello dell'unità delle classi (il clero di Fra Timoteo, la borghesia di Messer Nicia, la nobiltà di Callimaco, la classe subalterna di Ligurio parassita): non a caso al pranzo offerto da Messer Nicia è invitato ad unirsi anche Siro, il servo di Callimaco, rappresentante del popolo più basso. Ligurio: Di Siro non è uom che si ricordi? Messer Nicia: Chiegga, ciò che io ho è suo. La commedia erotica raggiunge così nel finale il suo vero scopo: la pace e l'unità nazionale dove tutte le classi trovano il loro posto e dove anche il popolo è invitato a sedersi a tavola. La chiusa di Frate Timoteo è teatralmente esemplare in quanto fa scomparire l'artificio drammaturgico e trasforma la scena in realtà. Apprendiamo infatti che lui non è un "Frate fittizio" cioè un attore, bensì un personaggio in carne ed ossa, la storia così nata per gioco, in una metafora del reale, si trasforma in realtà: tutti i personaggi sono infatti mutati da Machiavelli in persone reali: Frate Timoteo: Andianne tutti in chiesa, e quivi diremo l'orazione ordinaria; dipoi, doppo l'uficio, ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciano più fuora: l'uficio è lungo, e io mi rimarrò in chiesa, e loro, per l'uscio del fianco, se ne andranno a casa. Valéte! Con un grande colpo di teatro Machiavelli fa scomparire le scene e trasforma il palco in un luogo reale, in una chiesa vera e propria dove intorno al principe nascituro verrà realizzato il sogno della pace e dell'unità nazionale. Poco importa se il fine è stato raggiunto col mezzo dell'inganno, com'è nel principio politico di Machiavelli. Per l'Autore è altresì fondamentale che l'ideale si realizzi non solo teatralmente, ma anche socialmente con l'uscita di scena dei personaggi che devono entrare a far parte della vita quotidiana varcando "l'uscio di fianco". Machiavelli anticipa una forma di teatro che va oltre la naturale audience formata dal pubblico. Il teatro sembra dunque andare "oltre" il teatro ed improvvisamente trasformarsi in realtà - non più rappre-sentata dalla fiction ma realtà vera, assolvendo con ciò la sua missione e la sua funzione sociale. La funzione sociale della "leggerezza" assolve al suo compito nel teatro del '500 anche con La cortigiana (1525) di Pietro Aretino, dove il doppio inganno (sociale ed erotico amoroso) si risolve nel finale, pedissequamente alla "Mandragola", con un'apertura alla società intera, cioè al "Gran Teatro del Mondo". La trama de "La cortigiana" è abbastanza semplice, possiamo dire "leggera": abbiamo a che fare con un figlio di papà che viene da Siena a Roma per entrare a Corte e magari diventare Papa, ed un nobilotto napoletano che sempre a Roma - sulla falsariga de "La mandragola" - è sulle tracce di una bellissima donna da conquistare. Natu-ralmente entrambi finiranno per essere vittime di truffatori senza scrupoli, ladri, ruffiani, prostitute e preti corrotti. A tal punto che la commedia diventa - al di là della trama - una grande rappresentazione critica della società romana dell'epoca. Ma ecco il finale, quando l'epilogo trasforma il teatro in una specie di piazza totale, anticipando ciò che con Calderon de la Barca nel '600 sarà il Gran Teatro del Mondo. Il teatro leggero diventa dunque con l'Aretino una forma di teatro inteso come "piazza totale" - laddove per piazza naturalmente si intende tutto il mondo reale. La Commedia dell'Arte ha rappresentato - dal '500, ma anche nei secoli precedenti con la forma del "mimo" - in chiave comica, esilarante eppure drammatica, il grande assillo delle classi subalterne: la fame. Rimando al bel film di Scola "Capitan Fracassa", in cui un meraviglioso ed inedito Pulcinella-Troisi impersona la maschera nera dell'inedia (e non della morte come erroneamente sostiene De Simone, visto che la morte non fa paura al popolo quanto la fame). Tra le funzioni sociali assolte dalla Commedia dell'Arte c'è pure quello di "medium", cioè la capacità di mettere in contatto le diverse piazze d'Europa, fungendo in un certo senso da comunicatore delle realtà, dei problemi e delle disperazioni dei vari popoli. Con la Commedia dell'Arte il cosiddetto "Teatro oltre il teatro" di Machiavelli e il "Teatro come Piazza" dell'Aretino, si è trasformato in "Teatro in Piazza": una forma di rappresentazione in cui spesso veniva a cadere ogni distinzione tra personaggio e attore, spettatore ed interprete ecc. Il popolo è diventato così il vero fruitore del teatro - quindi della comunicazione - fino allora riservato ai ceti superiori. È successo insomma quello che oggi accade con la televisione dove il livello "basso" del messaggio comporta un ampliamento dell'audience. Tuttavia l'abbas-samento del livello letterario, artistico, del teatro nella commedia dell'arte in cui non vi era neppure un testo scritto, poiché gli attori non sapevano leggere, finì per provocare un'eccessiva volgarizzazione dell'arte drammatica, che dove-va essere sì leggera ma non sguaiata, - con tutte le eccezioni del caso, come la tradizione della Commedia all'Improvviso della colta famiglia Andreini. Da questa riflessione sul senso e sulle possibilità dell'azione drammatica ha origine il teatro di Carlo Goldoni. Anche in Goldoni la "leggerezza" deve implicare un senso, una funzione sociale, ovvero l'analisi critica della società. Certo, la "leggerezza" del gioco drammaturgico è un'arte la cui importanza non sfugge a Goldoni. Teniamo sempre presente che il distacco dallo stereotipo della Commedia dell'Arte non avviene perché la Commedia dell'Arte comin-cia a trascendere agli occhi di Goldoni nella volgarità. In parte vi è anche la questione del gusto; ma la verità è anche che Goldoni si accorge che gli stereotipi - le maschere con tutte le loro gag programmate - rischiano di sempre più di essere prevedibili e quindi di perdere tutto il loro effetto comico. Teniamo ben presente che Goldoni fa infatti dire alla Placida-Rosaura protagonista del suo manifesto "Il teatro Comico" queste parole in difesa proprio della "leggerezza": "Se facciamo le commedie dell'arte, vogliamo star bene. Il mondo e' annoiato di veder sempre le cose istesse, di sentir sempre le parole medesime, e gli uditori sanno cosa deve dir l'Arlecchino, prima ch'egli apra la bocca [...] sono invaghita del nuovo stile, questo solo mi piace." Il nuovo stile di cui parla Rosaura è proprio il realismo goldoniano che vuole raccogliere e rinnovare la grande tradizione della "leggerezza" e della viva comicità della Commedia dell'Arte trasformando le maschere in personaggi tragicomicamente reali. Ricordo a questo propo-sito che la prima fonte drammaturgica di Goldoni - che sta rivoluzionando la "leggerezza del teatro" in "teatro della leggerezza" (la differenza è tanto sottile quanto deter-minante) - è proprio "La mandragola" di Machiavelli. Goldoni narra nelle "Memorie" un simpatico aneddoto risalente all'età delle prime letture, 17 anni: "Io non la conoscevo ("La mandragola"); ma ne avevo sentito parlare, e sapevo che non era un'opera delle più caste. La divorai alla prima lettura, e la rilessi dieci volte. Mia madre non badava al libro che leggevo, poiché mi era stato dato da un ecclesiastico. Ma mio padre mi sorprese un giorno in camera mia, mentre facevo annotazioni e osservazioni su quell'opera. Non ignorava quanto questa commedia fosse pericolosa per un adolescente diciassettenne: volle sapere da chi l'avessi avuta, e io glielo confessai. Mi rimproverò acerbamente, e venne a parole con quel povero canonico che aveva peccato soltanto di storditaggine... Non era lo stile libero né l'intreccio scandaloso della commedia a farmela trovar buona; anzi la sua lubricità mi ripugnava, e vedevo da me stesso che l'abuso del segreto confessionale era un delitto atroce davanti a Dio e agli uomini. Ma era la prima commedia di carattere che mi cadesse sotto gli occhi, e io ne ero affascinato." A diciasssette anni dunque, Goldoni legge dieci volte "La mandragola" e non è affascinato - tutt'altro - dal contenuto erotico della commedia, quanto piuttosto dalla sua struttura, tanto da aggiungere: "Avrei desiderato che gli autori italiani avessero continuato, sulla scorta di questa, a comporne altre, ma decenti e castigate, e che caratteri attinti alla natura avessero preso il posto degli intrighi romanzeschi." Naturalmente al giovane Carlo Goldoni l'intreccio erotico de "La mandragola" non doveva dispiacere del tutto, visto che ne "La locandiera" e nel "Servitore di due padroni" vi sono alcune scene che oserei definire "erotiche". Quello che qui però conta è che nel giovane autore veneziano si forma l'idea - proprio leggendo e rileggendo per ben 10 volte il capolavoro di Machiavelli - che proprio grazie all'apparente "leggerezza" della commedia si può far "passare" un discorso più serio che vada oltre le finzioni leggere, ridicole ed erotiche per trasformarsi in una critica della società. Insomma per Goldoni lo scopo del teatro non può essere soltanto quello di far ridere, bensì di di-vertire: la dramma-turgia è lo strumento con cui la realtà si sdoppia e si vede come in uno specchio, paradossalmente capovolta e quindi fonte di divertimento. Il tema delo "specchio" ricorre del resto nell'opera di Goldoni anche in forma teorica: "Teatro specchio della realtà" - un'affermazione, anzi una formu-lazione che definisce la natura sociale (politica?), comunque critica del teatro. Un'idea che sarà successivamente ripresa proprio da Pirandello che in un'intervista parlando di "Come prima, meglio di prima" e "Tutto per bene", spiega: "...Le credevo commedie senza specchio. Invece no, ce l'hanno anch'esse. E come! Quando uno vive, vive e non si vede. Orbene, fate che si veda, nell'atto di vivere in preda alle sue passioni, ponendogli uno specchio davanti: o resta attonito e sbalordito del suo stesso aspetto, o torce gli occhi per non vedersi, o sdegnato tira uno sputo alla sua immagine, o irato avventa un pugno per infrangerla; e se piangeva, non può più piangere; e se rideva, non può più ridere..." (intervista al "Corriere della Sera", 28 febbraio 1920, inclusa in "Esternamenti" op. cit. p 1135-1136) I contenuti "sociali" e "politici" - critici - delle opere goldoniane evidenti e molteplici, ne bastano alcuni cenni. Ad esempio, penso alla dialettica servo-padrone, città-campagna su cui tornerò tra breve. A questo proposito bisogna tener presente che Goldoni premette sempre una prefazione ai suoi lavori, chiarisce i propri intenti e la propria posizione "ideologica", solo apparentemente neutrale. Ho chiamato in causa la dialettica "servo-padrone" che Goldoni ricompone alla maniera di Machiavelli, cioè proponendo che tutti - anche le classi più umili - partecipino al banchetto e al benessere della società, se non si vuole che le classi sub-alterne si ribellino con pieno diritto. La speranza di Goldoni è che la società impari ad essere più giusta ed equanime. Come non ricordare le parole ammonitrici di Truffaldino? "Quand ch'i dis, bisogna servir i patron con amor! bisogna dir ai patroni, ch'i abbia un po' de rispetto pei servitori." E poi, non aveva forse avvertito proprio Goldoni nella "Trilogia della villeggiatura" che i borghesi di città che vanno ad ostentare la loro ricchezza in villeggiatura suscitano l'invidia e la rabbia di chi vive in più umili condizioni in campagna? Sappiamo com'è andata a finire: con la rivoluzione francese che l'autore veneziano vide realizzarsi proprio nei suoi ultimi anni parigini. Va anche ricordato che il Consiglio della Rivoluzione trattò con considerazione il vecchio autore di corte confermandogli il vitalizio che gli era stato sospeso e di cui poté beneficiare la moglie. Questo per dire che sotto l'apparente "leggerezza", il teatro goldoniano assolve ad una funzione critica e direi anche sociale, anticipando la dialettica servo-padrone dell'illuminismo francese, funzione critica di cui lo stesso Consiglio della Rivoluzione nel lontano 1792 è consapevole. Vale la pena notare una curiosa affinità tra i finali della "Mandragola" e del "Servitore di due padroni": entrambi propongono l'esigenza dell'unità sociale e la risoluzione della dialettica servo-padrone: Silvio nella "Mandragola" e Truffaldino nel "Servitore" partecipano entrambi al banchetto finale in cui borghesia, nobiltà, clero e classi subalterne ritrovano ciascuno il suo posto. Tuttavia, nonostante i presupposti (da Plauto a Machiavelli, dall'Aretino alla Commedia dell'Arte e a Goldoni) di una drammaturgia nazionale in cui la "leg-gerezza" diviene dialettica e a doppio fondo - cioè nasconde un contenuto serio -, improvvisamente alla fine del '700, dopo Goldoni, si trasforma in drammaturgia "pesante". L'evoluzione dell'opera buffa e del melodramma settecen-tesco nell'opera lirica dell'Ottocento, più cupa e carica di presagi di morte, oltre che di contenuti nazionalistici, è l'esempio lampante di una tradizione che comincia a tendere più alla tragedia e al dramma che alla commedia. Per tornare a parlare di drammaturgia "leggera" - sempre tra virgolette poiché la "leggerezza" non è appunto sinonimo di disim-pegno civile o filosofico - bisogna aspettare i primi decenni del '900, cioè Pirandello. Ma come, si dirà, il pirandelllismo non è forse una forma di "cerebralizzazione" del teatro che passa dalla rappresentazione del dramma al dramma della rappresentazione? Che c'entra la "leggerezza" nella dramma-turgia di Pirandello che invece è, se non pesante, certamente pe-n-sante? Beh, a questa domanda è piuttosto semplice rispondere. Anzi, farò così, darò la parola a Pirandello stesso, alias al suo personaggio Hinkfuss il direttore del teatro di "Questa sera si recita soggetto": "Ma a questo patto soltanto signori può tradursi in vita e tornare a muoversi ciò che l'arte fissò nell'immutabilità di una forma; a patto che questa forma riabbia movimento da noi, una vita varia e diversa e momentanea: quella che ciascuno di noi sarà capace di darle. Oggi si lasciano volentieri in quella loro divina solitudine fuori del tempo le opere d'arte. Gli spettatori, dopo una giornata di cure gravose e affannose faccende, angustie e travagli d'ogni genere, la sera a teatri, vogliono divertirsi." Se da un lato è vero che i contenuti scelti da Pirandello (crisi d'identità, personalità frantumata, crisi attore-personaggio, tanto per dirne qualcuno) non sono propriamente "leggeri", ma molto più formalistici che in Machiavelli, va anche detto che la "forma", la drammaturgia, prescelta da Pirandello è propriamente quella del teatro "leggero" di fine '700. Mi riferisco in particolare al teatro-nel-teatro del romantico tedesco Ludwig Tieck (vedi il mio saggio "Pirandello e Tieck, alcuni confronti testuali", in "Studi Germanici" nuova serie, diretta da Paolo Chiarini Anno XLIV, 1 2006, pp. 159170). Fatto sta che la grande intuizione di Pirandello è quella di capire che l'autore teatrale può anche scegliere contenuti "pesanti", drammatici, ma può farlo solo attraverso una "forma" drammaturgica che strutturalmente sorregga la pesantezza dei contenuti. Pena la noia dello spettatore che, come abbiamo appena sentito dalle parole di HinkfussPirandello, rappresenta il vero dramma del teatro: lo sbadiglio. A proposito de "La mandragola" e del "Servitore di due padroni" parlavo poc'anzi della dialettica servo-padrone. Ebbene questa dialettica, elaborata sul piano della tragicom-media un po' farsesca, è presente anche nel pirandelliano "Berretto a sonagli", dove l'astuto Ciampa, da servo gabbato, diventa il gabbatore, proprio come il Ligurio de "La mandragola" e il Truffaldino del "Servitore". Alla fine sono sempre i servi a vincere e il trionfo di Ciampa che condanna al manicomio la sua padrona, togliendosi così di dosso il peso delle corna, è, al di là del "pirandellismo" della commedia, un capolavoro di gestione politica e sociale della dimensione teatrale. Il discorso su Pirandello suggerisce un accenno ad Eduardo de Filippo. Eduardo si forma artisticamente proprio nel periodo in cui Pirandello riscuote il maggior successo sui palcoscenici italiani. Il giovane Eduardo si dedica anche ad una regia parodistica dei "Sei personaggi" che Pirandello fa in tempo a vedere stabilendo anche un rappor-to personale con l'autore napoletano. In diversi lavori di Eduardo si sente per altro l'impronta del "pirandellismo", cito soltanto a mo' di esempio "Ditegli sempre di sì", testo in cui Eduardo affronta paradossalmente e comicamente il tema delle conseguenze sociali della follia, sulla falsariga ovviamente del pirandelliano "Enrico IV". Il pirandellismo di Eduardo è un argomento che merita ulteriori ricerche. Mi interessa ora stabilire invece uno stretto legame tra Eduardo e il grande teatro italiano da Machiavelli e Goldoni a Pirandello. Tutti e tre questi grandi autori optano, con gradazioni e stili differenti, per un teatro apparentemente leggero (in Pirandello il contenuto serio diventa spesso farsa sociale); leggerezza che però ha un doppiofondo, la critica sociale. Gli esempi citati ("Mandragola", "Servitore" e "Berretto a sonagli") hanno nella trama almeno due elementi in comune: il primo è la costante dell'imbroglio, della truffa; l'altro ele-mento è invece rappresentato dalla dialettica servo-padrone che si risolve ottimisticamente nella ricomposizione finale della società che ritrova il suo equilibrio in quanto tutti sono invitati a partecipare al banchetto e al benessere. È quanto avviene anche in uno dei capolavori di Eduardo, "Filumena Marturano": il personaggio di Domenico rappresenta la borghesia che viene ingannata da un servo. Come Messer Nicia-Ligurio, Truffaldino-Beatrice e Florin-do, Ciampa-Beatrice, Filumena rappresenta il ceto più umile e servile che solo grazie all'astuzia riesce ad elevarsi di ceto sociale. E' nota, anche grazie al cinema, la trama della com-media, in cui Filumena, amante e serva di Domenico, deve fingersi morente per incastrare il ricco padrone costrin-gendolo a sposarla controvoglia. E di fronte alle astuzie legali dell'uomo per sciogliere il vincolo nuziale frutto dell'inganno (anche qui come ne "La mandragola" vi è un prete compiacente) Filumena inventa una storia che solo una mente disperata può escogitare. Uno dei tre figli è - dice la donna - di Domenico, ma lui non saprà mai di quale si tratti, costringendo così l'uomo a farsi padre di tutti e tre. Ed ecco che torna il concetto della ricomposizione sociale servo-padrone: la serva è diventata signora, i figli orfani ora hanno un padre e la società ritrova il suo equilibrio in questa riunione di classi sociali. La costante dell'apparente "leggerezza" della dram-maturgia che nasconde un doppiofondo critico e social-mente impegnato, è presente anche un altro capolavoro di Eduardo, "Napoli Milionaria". In questa commedia del 1932 si passa dalla rappresentazione della farsa del fascismo al dramma del mercato nero e della guerra, poi dalla tragedia della prigionia nei lager tedeschi si arriva alla tragicommedia nazionale del primo dopoguerra, un periodo cioè in cui i veri furbi si arricchiscono a scapito della brava gente. Il pro-tagonista dell'opera Gennaro Jovine, tranviere disoccupato, è in effetti un personaggio che dapprima ci appare in tutta la sua goffa testardaggine impelagato in beghe familiari che volgono al comico se non al ridicolo, ma che succes-sivamente diventa il centro di una vera e propria tragedia sociale. Quale tragedia? L'arricchimento sfrenato, con ogni mezzo, di una società che sta buttando (o ha già buttato) all'aria gli ideali pur di fare facilmente quattrini. Ecco allora che l'inizio apparentemente leggero della commedia, na-sconde un principio di critica sociale che nel finale diventa devastante e di altissimo impegno morale. Il fatto è che Eduardo de Filippo anche quando scrive una farsa o una commedia sa bene che il teatro deve avere un "senso" per il pubblico a cui è rivolta: deve cioè contenere una critica della società e della realtà,- oltre che esserne la semplice rappresentazione. L'apparente "leggerezza" del teatro di Eduardo - in cui la comicità è l'elemento indispensabile che serve non da velo, ma da filtro alla critica - muove l'azione drammatica che tende alla tragedia e alla rappresentazione di un mondo in rovina, un mondo in cui l'individuo è solo davanti allo specchio - come in Goldoni, come in Pirandello - della propria coscienza. La tecnica drammaturgica di Eduardo consiste allora proprio in questa apparente naturalità della rappresentazione bozzettistica e spesso comica in cui lui, il Grande Attore-Autore o il suo personaggio, (che si chiami Domenico o Gennaro, o Gennariè come in "Natale") diventa grazie,anche alla sua maschera teatrale, l'elemento di disturbo, "il problema", il deus ex machina che farà prendere alla commedia un percorso tragico e altamente critico. Una delle commedie più esilaranti di Eduardo, "Questi fantasmi", racchiude la drammaticità dell'esistenza di Pasquale Lojacono che non riesce a sfamare la moglie che teme così di perdere. Da qui l'elemento dell'inganno e del qui pro quo che stravolge la commedia in una tragedia tanto farsesca quanto umanissima e disperata. La drammaturgia di Eduardo è allora definibile come "TEATRO DIETRO IL TEATRO". Intendo cioè che il bozzetto naturalistico che dà spunto alla commedia è per Eduardo il vero artificio: la vita reale è apparenza, mentre il compito della drammaturgia è quello di svelare i retroscena tragici di quella farsa che sembra rappresentarsi sulla scena quasi da sola, direi "neorealisticamente" come un'istantanea dell'esistenza in un basso di Napoli. Chi del resto ha presente l'edizione televisiva delle sue commedie, curate dallo stesso Eduardo, ricorderà la scena degli applausi di un pubblico inesistente e i ringraziamenti della compagnia, scena ripresa da dietro il sipario: come a voler appunto dire che la tragedia è oltre la farsa che si è rappresentata. Gli attori alla chiusura del sipario infatti tornano ad essere "veri", persone reali, permet-tendo così al teatro la totale apertura alla problematicità della vita quotidiana, al di là e vorrei dire nonostante l'elemento comico e farsesco di cui il teatro deve far uso per potersi far capire dal pubblico. Devo a questo punto citare Dario Fo. Penso che proprio nell'opera del più recente premio Nobel italiano la commistione di "leggerezza" ed impegno trovi una subli-mazione drammaturgica "evidente", tanto che il teatro di Dario Fo attinge quasi alle stesse fonti del Teatro Politico di Brecht (Commedia dell'Arte, Teatro Elisabettiano). Senon-ché il teatro impegnato di Dario Fo, proprio perché politicamente, ideologicamente, "evidente", diventa parados-salmente "leggero" senza mai esserlo veramente. L'Autore e la sua ideologia non si nascondono nel testo, ma si rivelano esplicitamente provocando una "catarsi", alias una "adesio-ne" del pubblico alla verità e ai contenuti del testo, aprio-ristica, già data. Non voglio parlare di pregi e limiti del Teatro Politico; resta il fatto che l'intento propedeutico (quando non didattico) è dichiarato: il pubblico è già partecipe oppure sa di non poter essere convinto, magari ammira l'autore-attore, ne è incuriosito e affascinato, ma se ne discosta ideologicamente. Il che vuol dire che indipen-dentemente dalla piacevolezza e/o profondità del testo, ne condivide o non ne condivide "i contenuti" fin dall'inizio. Naturalmente non posso qui occuparmi del Teatro Politico da Brecht a Dario Fo: si tratta di un genere la cui grandezza e significato necessitano di molto più spazio. Ho voluto solo sottolineare differenze e analogie tra una drammaturgia "leg-gera" critica della società (Machiavelli, Goldoni, Eduardo) ed una drammaturgia "leggera" politica (Brecht e Dario Fo, pur con tutti i necessari distinguo) in cui però il "contenuto" tende a prevalere - magari anche contraddittoriamente - sulla "forma". Preciso, al fine di non essere frainteso, che che la contraddizione forma-contenuto rappresenta la forza e non la debolezza di questa drammaturgia. A questo punto non si può non riallacciare il tema della "leggerezza" con quella dell'erotismo. Perché anche l'erotismo, come abbiamo sin qui visto, è una forma di leggerezza di cui si serve l'Autore per "far passare" e accettare dal pubblico un "certo" discorso più ideologicamente impe-gnato. Perfino un autore privo di "licenze" erotiche come Goldoni riprende da Machiavelli lo strumento dell'erotismo per insinuare le tensioni sociali allora incombenti, senza però allertare il pubblico, anzi depistandolo, tranquillizzandolo con l'elemento comico, nell'intento di ottenere il maggior effetto possibile: trasformare un'opera leggera basata sul-l'erotismo in un "sottile" benché efficace discorso politico. Un esempio molto calzante si trova nel "Servitore di due padroni" - che ovviamente è un manifesto politico camuffato da opera buffa - in cui alla comicità si aggiunge un elemento di forte erotismo rappresentato dallo scambio di ruoli e dai travestimenti. Infatti Beatrice travestita da uomo fa girare la testa a Rosaura (e ne è a sua volta attratta immedesimandosi fin troppo nel ruolo di maschio conquistatore) e la rivelazione dell'identità nella scena XX non è priva di un ulteriore turbamento: Beatrice: Ora non mi guarderete più di mal occhio. Clarice: Anzi vi sarò amica; e se posso giovarvi, disponete di me. Beatrice. Anch'io vi giuro eterna amicizia. Datemi la vostra mano. Clarice: Eh, non vorrei... Beatrice: Avete paura che io non sia donna? Vi darò evidenti prove della mia verità. Lasciamo scorrere la mano di Clarice nei segreti femminili di Beatrice e concludiamo con l'augurio che il Trecentesimo anniversario della nascita di Goldoni riapra prospettive e riaccenda nuovi fermenti e turbamenti nel Teatro italiano, anche sulla base di un uso "impegnato" dell'erotismo come una delle forme con cui si manifesta la necessaria "leggerezza" dell'opera. 3 - GOLDONI E LA SPERIMENTAZIONE TEATRALE Scrive L. P. (Luigi Pirandello) nella "premessa dell'autore ai tre lavori raccolti nel I volume dell'edizione definitiva del suo teatro": "...tutti e tre uniti, quantunque diversissimi, formano come una trilogia del teatro nel teatro, non solo perché hanno espressamente azione sul palcoscenico e nella sala, in un palco o nei corridoj o nel ridotto d'un teatro, ma anche perché di tutto il complesso degli elementi d'un teatro, personaggi e attori, autore e direttore-capocomico o regista, critici drammatici e spettatori alieni e interessati, rappresentano ogni possibile conflitto". (L. Pirandello, in "Maschere Nude", Vol. I, p. 29, Mondadori Milano 1958). Perché Pirandello scrive "come una trilogia"? Con quel "come" sembra quasi che voglia mettere le mani avanti di fronte ad una verità incontrovertibile: non sta dicendo nulla di nuovo. L'idea del teatro nel teatro non è farina del suo sacco e il conflitto di tutto il complesso degli elementi di un teatro, cui si riferisce Pirandello, è un arsenale che risale alla seconda metà del '700: cioè al "Teatro comico" (1750) di Goldoni e a "Il mondo alla rovescia" (1798) di Ludwig Tieck. Non è del resto un caso se uno dei testi della trilogia pirandelliana, "Questa sera si recita a soggetto", richiami fin dal titolo la tradizione della Commedia dell'Arte che è il fondamento critico, storico, ideologico e letterario da cui partono i lavori di Goldoni e Tieck. Ho già parlato dei "prestiti" di Pirandello ai danni Tieck: a Pirandello si può imputare non tanto di aver imitato situazioni comiche, impianti drammatici e perfino battute dall'autore del romanticismo tedesco, - in teatro non si dice mai nulla di completamente nuovo, - quanto piuttosto di aver occultato le fonti dell'operazione, anche di fronte ad osservazioni critiche del tempo molto pertinenti, visto che in Germania se ne erano accorti fin dal 1921, mentre in Italia Bonaventura Tecchi avanzava a Pirandello stesso alcuni dubbi circa l'originalità del concetto. A Goldoni, invece, Pirandello riserva tutte le atten-zioni indicandolo giustamente come un padre della grande tradizione teatrale italiana, purtroppo maltrattato dalla critica. Ma Pirandello pensa al Goldoni de "Il teatro comico" soprattutto nella stesura di "Questa sera si recita a soggetto". E lo stesso farà Eduardo ne "L'arte della commedia". In effetti, queste tre opere rappresentano la vera trilogia del... teatro sul teatro, cui allude Pirandello nella sua nota introduttiva. I puntini sospensivi sono significativi del motivo per cui i passaggi da Goldoni a Pirandello e poi a Eduardo sono stati considerati più dal profilo storico-letterario che da quello strettamente drammaturgico. Ciò è avvenuto anche a causa di Pirandello che ha definito la sua trilogia "come una trilogia del teatro nel teatro", premettendo quel "come" quasi compren-dendo di non essere completamente nel giusto e quindi di fuorviare più o meno coscientemente. La verità è che Pirandello usa il termine di "teatro nel teatro" fuori luogo. Teatro nel teatro significa sostanzialmente l'apertura del palcoscenico al gran teatro del mondo sulla base di alcuni elementi della drammaturgia tardo medievale: "Il nuovo dramma è in primo luogo autorappresentazione del gruppo che lo rappresenta - con Cristo al centro. E il luogo deputato di Cristo era perciò... al centro della piazza tra gli spettatori. Ciò che qui si è individuato è il modello (teorico) di una drammaturgia medievale che si è costituita in stretto rapporto da un lato con un tipo di spiritualità che si riflette anche nella riattivaione della metafora del Theatrum Mundi e dall'altro dall'esperienza concreta di un gruppo di uomini". (Johann Drumbl, "Questioni metodologiche e problematica del gruppo destinatario", in "Biblioteca Teatrale" N. 15-16 1976, p. 9-10, Bulzoni, Roma). Il teatro nel teatro del romanticismo tedesco, di cui Pirandello si appropria parzialmente senza darne una giustifi-cazione critica, in realtà sfugge di mano all'Agrigentino che ha in mente più Goldoni che Ludwig Tieck. Certo che tra la riflessione metateatrale "sul teatro" di Goldoni e la giocosità del meccanismo del "teatro nel teatro", Pirandello finisce per fare una commistione dei generi, prendendo battute e situazioni sceniche da Tieck, ma la struttura ideologica e metateatrale, cioé sul teatro, da Goldoni. La grande novità de "Il teatro comico" di Goldoni sta, infatti, proprio nella riflessione critica sul teatro, sull'esigenza di un rinnovamento della scena espresso sotto forma di riflessione metateatrale che anticipa la sperimentazione di Pirandello, di Eduardo e - forse - di Carmelo Bene. Siamo infatti alle prese con un "testo-manifesto" teatrale in cui vera protagonista è la ricerca drammaturgica. Il teatro nel teatro è propriamente una forma di rappresentazione della realtà attraverso l'allar-gamento del palcoscenico a tutto il mondo, spettatori inclusi. All'opposto, il teatro sul teatro è la rappresentazione di una forma, ossia è il teatro che discute su se stesso. Il teatro sul teatro si sostituisce al discorso critico, serve all'autore per fissare i paletti della propria drammaturgia, prende forma come enunciazione, come proposta formale, come riforma della scena. Intenti che Goldoni spiega assai chiaramente nella premessa. "L'autore a chi legge: Questa, ch’io intitolo Il Teatro Comico, piuttosto che una Commedia, prefazione può dirsi alle mie Commedie." E' del tutto evidente che quando Pirandello fa entrare i famosi "sei personaggi", o quando la compagnia si ribella e decide di recitare a soggetto, il pubblico non è il vero pubblico della rappresentazione, bensì la rappre-sentazione di un pubblico fatta con attori. Così, mentre nel teatro nel teatro di Tieck il pubblico è verosimile e presenta tutti i difetti culturali, fisici e ideologici del vero pubblico, il pubblico di Pirandello è assolutamente astratto, formalistico, serve solo per discutere sulla funzione del teatro nel mondo contemporaneo. Si tratta insomma di una forma di speri-mentazione di cui il vero pubblico non è assolutamente partecipe, né coinvolto, semmai "vittima" passiva di un discorso metateatrale sulle forme dell'arte scenica. In conclusione, "Il teatro comico" di Goldoni è il testo-chiave per la comprensione della drammaturgia italiana che proprio nella discussione "sul teatro" ha una lunga tradizione da Riccoboni e dall'Alfieri nel '700, a Pirandello, Eduardo e Pasolini nel '900. Forse sarebbe il caso di tornare sui Testi-manifesti della drammaturgia italiana. Posso indicare la ricerca di Roberta Turchi "La commedia italiana del Settecento" (Sansoni Firenze, 1985), ma purtroppo non mi risulta una ricerca complessiva che arrivi ai giorni nostri, al post-Pasolini e Mario Luzi, fino al manifesto del Teatro S-naturalista del 1990. Sarebbe il caso di far quadrare meglio i conti con la sperimentazione degli Anni 1960-1990 che è stata considerata come un "semplice" fenomeno "scenico" e così - differentemente da quanto avvenuto per la sperimentazione nell'ambito della poesia e della narrativa esclusa dalla letteratura nazionale con grave conseguenza per il lavoro dei nuovi drammaturghi. La speranza è che la recente pubblicazione (Bompiani) delle opere complete di Carmelo Bene e la ripresa del "Teatro comico" di Goldoni riportino l'attenzione sulla drammaturgia italiana da cui scaturisce la nostra stessa letteratura nazionale. Enrico Bernard