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La travagliata storia
di «Maria Stuarda»
gata fino a ridurla ad una mera rivalità amorosa per il predominio nel cuore di Roberto Leicester. Non furono tuttavia tolte le aspre parole dell’invettiva della Stuarda contro la sua carceriera, con gli epiteti di «meretrice» e «bastarda». Donizetti confidava che uno dei tre membri del consiglio di
censura, Giulio Genoino, già suo librettista per La lettera
anonima, non gli sarebbe stato ostile. Furono accolte le richieste di modifica del responsabile della censura letteradi Massimo Contiero
ria, Francesco Ruffo, e si partì senz’altro con l’allestimento. Già durante le prove però, proprio
ià il mestiere del povero scrittore
quegli insulti lanciati da Giuseppina Ronzi
d’opere l’ho capito infelicissimo
De Begnis furono ricevuti come intenziofin dal principio» scriveva Donali dall’altra interprete, Anna Del Sere,
nizetti all’amato maestro Simone Mayr.
e le due cantanti vennero alle mani. SeSi riferiva certo agli incostanti favori
condo il giornale «L’Indipendente», in
del pubblico, ma forse anche alle anuna ricostruzione a corredo della righerie della censura cui fu spesso sotpresa del titolo nel 1865 (in una Natoposto. Particolarmente sfortunata
poli italiana e non più borbonica),
risultò la sorte di Maria Stuarda. Fin
alla prova generale, la regina Maria
dal periodo trascorso a Milano per
Cristina, a sentire quegli impropeAnna Bolena, nel 1830, Donizetti averi, svenne. Questa versione è negata
va assistito alla messa in scena da pardall’Ashbrook, uno dei più eminenti
te della compagnia di Gustavo Modestudiosi di Donizetti, favorevole a rina della Maria Stuarda di Schiller, neltenere che, per i monarchi partenopei,
la traduzione di Andrea Maffei. Fu prota n
la Stuarda fosse una specie di martire del
prio questo a soggetto che adottò per la
oD
cattolicesimo, improponibile in atteggianuova opera che doveva dare al San Caronizetti
menti così sguaiati. Sta di fatto che l’opera
lo di Napoli, per la quale firmò il contratto
fu proibita dal ministro di polizia Delcarretto
il 12 aprile del 1834. Sperava di avere il testo da
per ordine del re, del che il compositore si lamenRomani, ma il «librettista principe», non accettò
tò per lettera: «È proibita! Come? Perché? La regina non
ulteriori collaborazioni con lui, dopo Rosmonda regina d’Inama soggetti così tristi…». Il sovrintendente del San Carghilterra del febbraio del 1834, forse contrariato per le modifiche che gli aveva chiesto il compositore. Velocemente approntò i versi uno studente di giurisprudenza diciassettenne, calabrese, Giuseppe Bardari. Sicuramente Donizetti, che sapeva scriver libretti, come aveva dimostrato con le Convenienze e Inconvenienze teatrali e con il
completamento della Fausta, guidò la mano del giovane poeta. La vicenda della due regine rivali, Elisabetta d’Inghilterra e Maria di Scozia, fu prosciu-
L'opera di Donizetti
in scena alla Fenice
G
«
focus on
e
Ga
Agnes Baltsa nel ruolo di Elisabetta in un allestimento di Erich Grischa Asagoroff (Vienna, 1985)
spazio una più precisa penetrazione psicologica, pur semlo, principe Torella, aggiunse 600 ducati ai 1400
pre con un particolare riguardo agli aspetti sentimentafissati, purché Donizetti adattasse la musica ad
li. In veloce sequenza, nello stesso anno 1833, ecco Parisiun’altra vicenda. Si pensò a Giovanna Gray per
na da Byron, Torquato Tasso da Goethe e Lucrezia Borgia da
utilizzare i costumi dell’epoca Tudor già pronHugo. Già Rossini si era rivolto a Walter Scott, cui si attriti, ma anche in questo caso c’erano personaggi reabuisce la nascita del romanzo storico, per Kenilworth e La
li, una decapitazione e alla fine l’idea fu scartata. Incredidonna del lago e a Schiller per Guillaume Tell. Donizetti penbilmente, si optò per un soggetto medievale, Buondelmonsa anche lui a Scott per Elisabetta al castello di Kenilworth e
te, tratto dal secondo volume delle Istorie fiorentine di Maper The Bride of Lammermoor e a Schiller per Maria Stuarda.
chiavelli. La vicenda era datata all’epoca delle rivalità tra
Kenilworth, Maria Stuarda, Roberto Devereux, costituiscoGuelfi e Ghibellini. Buondelmonte è colui che osa lano una sorta di trilogia inglese donizettiana,
sciare una Amidei per scegliere una Donati e
con al centro Elisabetta, trilogia alla quale
paga questo affronto, morendo di pugnaAnna Bolena fa quasi da antefatto.
le nel giorno di Pasqua. Del libretto fu
Della figura tragica di Mary Stuart,
incaricato un altro studente di giuriimprigionata per diciotto anni,
sprudenza, il messinese Pietro Saperché accusata di complicità nel
latino, che aveva già scritto, per
complotto per restaurare il catil compositore bergamasco, Santolicesimo ordito da lord Bacia di Castiglia (1832). In cinque
bington, s’erano già occupagiorni la richiesta fu soddisfatti Della Valle e Alfieri. Schilta. In questa versione si andò
ler prende in considerazione
dunque in scena il 18 ottobre
i suoi ultimi tre giorni di videl 1834, perfino con un certo
ta, prima della decapitaziosuccesso. A consolare Donine, e ne fa il simbolo di idezetti da queste disdicevoli viali di libertà, in opposiziocissitudini c’era tuttavia ben
ne all’assolutismo della «soaltro: la richiesta di Rossini
vrana vergine». Come s’è detperché scrivesse un’opera per
to, Donizetti fa prevalere la riil Théâtre des Italiens di Parigi
valità tra le due donne causata
(sarà il Marin Faliero), l’appuntadall’amore di entrambe per Leimento alla Scala con la Gemma di
cester, personaggio che perde nel
Verg y del 26 dicembre, nella quamelodramma l’ambiguità schillele, proprio la Ronzi de Begnis si sariana. La semplificazione è funziorebbe meritata un clamoroso succesMar ia Stuarda
nale al predominio dell’elemento musiso. Inoltre, la Scala chiedeva Maria Sturcale. La spettacolarità è affidata non tanda da affidare a Maria Malibran, con Giato agli accadimenti, ma alla concatenazione di
cinta Puzzi Toso come Elisabetta, per la stagioscene, arie, cabalette, concertati, cui la drammaturne successiva. A parte qualche adattamento, reso negia fa da sfondo, da elemento d’innesco. Se il romanticicessario dalla diversa voce della protagonista, assecondasmo di Hugo provocatoriamente individuava nel «brutte anche in questa circostanza esigenze di censura, Donito» l’interesse dell’arte, sono gradualmente abbandonazetti sperava di poter ottenere un’accoglienza favorevole, il
ti gli apollinei canoni del belcanto, il «bello» lascia il pogiorno della prima, il 30 dicembre del 1835. Sappiamo, dalsto al «vero». L’elegante ornamentazione perde spazio e si
la corrispondenza con Ricordi, che per l’occasione aveva
afferma una vocalità sillabica e spianata, che, con immeanche scritto una sinfonia introduttiva, che doveva sostidiatezza, vuole comunicare le emozioni sottese alle parotuire il breve preludio composto per Napoli. Ma proprio la
le. Una partecipazione ed un’espressività nuove sono riMalibran, che si esibì anche se indisposta, pur di non perchieste all’interprete. Nondimeno il virtuosismo è semdere un compenso di 300 franchi, e, forte del suo prestigio,
pre preteso, ma oltre l’agilità ora è richiesta anche di forcantò le parole censurate, intuendone l’effetto plateale, finì
za: era l’epoca in cui Il tenore Gilbert Duprez (per il quale
per compromettere l’esito dell’opera, che restò in cartelloDonizetti pensò l’Edgardo di Lucia di Lammermoor) aveva
ne per solo sei recite. La sfortuna si accanì dunque nuovatrionfato con il suo «do di petto». Si abbandona l’uso rosmente contro questo titolo, che pure non mancò di essere
siniano di affidare i ruoli femminili protagonisti a mezancora rappresentato negli anni successivi e per queste ulzosoprani, cui ora sono preferiti soprani in grado di doteriori recite Donizetti, nelle sue lettere, aggiunse suggeminare spavalde colorature. In Stuarda il confronto è tra
rimenti, come quello di sostituire la parola «bastarda» con
un soprano lirico (Maria) e quello che si definiva un «so«bugiarda». Ammaestrato da tutte queste traversie, preteprano corto», capace di scendere senza sforzo verso le nose poi, nel contratto per Lucia di Lammermoor, che l’approte più gravi. Alle voci scure maschili, in attesa di Don Pavazione della censura arrivasse con quattro mesi d’anticisquale e della rivalutazione verdiana, è ancora riservato
po, perché, scrisse, «io son qui per la musica e non per gaun ruolo da coprotagonista.
rantire la poesia alle autorità».
Il recupero moderno dell’opera è merito di grandi interSiamo, con Maria Stuarda, in un periodo di decisiva evopreti: Leyla Gencer, con Shirley Verret e Ferruccio Taglialuzione per la creatività donizettiana. Sono innanzitutto
vini, Montserrat Caballè (ancora con la Verret e Carreras),
diversi dagli esordi, gli argomenti e le predilezioni letteraBeverly Sills, Joan Sutherland con la Huguette Tourangeau
rie. L’autore ha alle spalle 46 titoli in cui le fonti principali
e Luciano Pavarotti, Janet Baker con Rosalind Plowright,
sono state francesi, Caignez, Pixérécourt, Delavigne, ScriEdita Gruberova con Agnes Baltsa e Francisco Araibe e il teatro d’intreccio l’obiettivo. In questa nuova fase
za, fino alla recente prova scaligera di Mariella Devia. ◼
l’attenzione si sposta su autori di maggior levatura e trova
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La «Maria Stuart»
di Friedrich Schiller
L’
di Eugenio Bernardi
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ultimo a prenderlo in considerazione come modello
di drammaturgia è stato Friedrich Dürrenmatt. L’autore della Visita della vecchia signora e dei Fisici vedeva in
Schiller un punto di riferimento con cui fare i conti. Posizione singolare, questa di Dürrenmatt, se si pensa che in quegli
anni (fra il ‘50 e il ‘60) il teatro intorno a lui aveva altri modelli:
Beckett, Jonesco e quello che più o meno vagamente fu chiamato il teatro dell’assurdo. Dürrenmatt invece fin dal suo primo testo teatrale aveva imboccato un’altra strada. Si chiedeva cosa mai si intenda quando si parla di giustizia, se vi sia un
rapporto tra quella praticata dagli uomini e quella attribuita a
Dio, e se di fronte alla violenza del potere si possa parlare ancora di libertà dell’individuo. E tutto questo lo mostrava su
un palcoscenico che aborriva l’astrattezza, il silenzio, la miseria della scenografia e che sguazzava invece nell’abbondanza
Katharine Hepburn in Maria di Scozia di John Ford, 1936
e nella truculenza, mescolando stili diversi, preferendo le situazioni paradossali e soprattutto le grandi scene, dove i personaggi si scontrano a suon di battute drastiche ed esorbitanti. Non l’assurdo, dunque, ma il paradosso e la risata, non la
malinconia ma il grottesco. Portare una situazione all’estremo, renderla insostenibile e in fondo ridicola poteva aprire
uno spiraglio su quella verità che il teatro, secondo Dürrenmatt, doveva comunque far intravedere. Una verità non assoluta, ovviamente, ma la verità della situazione umana, dell’uomo di fronte al proprio destino.
Se questa era la strada imboccata dal giovane studente di filosofia, l’incontro con Schiller era inevitabile. Anche quello
con Shakespeare, naturalmente, ma il grande inglese non era
un autore che si lasciasse imbrigliare in una disputa imperniata su temi connessi all’emancipazione borghese, all’idealismo
e alla difesa dei diritti del singolo. Il suo teatro Friedrich Schiller lo aveva inserito invece entro un programma di educazione estetica dell’individuo moderno che era la risposta dell’intellighenzia tedesca alla rivoluzione francese salutata in un
primo tempo con entusiasmo, ma poi rinnegata per la violenza dei suoi esiti.
Confrontarsi con Schiller significava per Dürrenmatt da un lato chiedersi se le idee espresse in
quel programma filosofico fossero ancora valide
nel mondo che aveva visto esplodere la bomba atomica e in cui l’individuo si sentiva sempre più inerme di
fronte a un potere sempre più inafferrabile. La tragedia all’antica ma anche quella alla Schiller diventava impossibile. Se si
voleva rappresentare il mondo contemporaneo meglio dunque ricorrere alla commedia. Dürrenmatt si riferiva a Schiller
per contestarne l’ideologia.
D’altro canto, Schiller con il suo teatro aveva creato dei personaggi e delle situazioni che dalla fine del Settecento in poi
erano nella memoria di tutti. Un grande autore, dunque, un
fondale di riferimento, un sostrato su cui costruire ancora,
pur con prospettive opposte, storie e personaggi, e sempre
preferibile alle sabbie mobili del teatro dell’assurdo e dell’ambiguità. Del resto, dall’’Ottocento in poi non c’era stato autore
di drammi storici che non avesse avuto presente l’eco del pathos schilleriano in cui si erano conservate, in fondo, le tracce
del grande teatro francese del Seicento.
Un pathos sostenuto da grande abilità drammaturgica,
dal taglio sicuro delle scene, dal gusto della grande eloquenza, ma soprattutto dal copioso ed inesausto fluire dei versi. Caterve di versi (3290 per il Wilhelm Tell, 4034 per Maria Stuart, 5370 per Die Räuber, 1107+2651+3869 per le tre parti del Wallenstein) destinati, per la loro scioltezza, a rimanere
nell’orecchio, a entrare nei programmi del ginnasio di molte generazioni fino ad essere ripetuti come pillole di saggezza e trasformarsi spesso,
avulsi dal contesto, nella caricatura del loro senso
originale, soprattutto se si trattava di versi in rime
baciate un po’ troppo prevedibili. Testi in versi
che, quando si mettevano in scena, era inevitabile che subissero dei tagli o che l’attore non riuscisse a mantenere per tutto il corso dello spettacolo
il tono patetico che la loro pronuncia richiedeva.
Ed è a questo punto che s’innestava l’interesse del
compositore e del suo librettista che pur riducendo e modificando il testo, miravano a riprodurre
quel pathos che, sorretto in molti casi dalla rima
e dal ritmo più che dall’invenzione poetica, ben si
prestava a trovare la sua integrazione nella melodia. Capitò così per il Guglielmo Tell, per i Masnadieri, per il Don Carlos e per altri testi ancora, fra cui Maria Stuarda.
Quest’ultima, che andò in scena per la prima volta nel 1800,
fa capire molto bene come Schiller agisca su un episodio storico. La trama, a grandi linee, è nota. A metà Cinquecento
due regine di casa Tudor, imparentate tra di loro, Elisabetta
di Inghilterra e Maria di Scozia si contendono il trono d’Inghilterra, la prima è protestante, la seconda cattolica. Elisabetta è figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena, è nata fuori dal
matrimonio, è illegittima e considerata quindi un’usurpatrice
del trono d’Inghilterra. Maria vanta la discendenza diretta da
Enrico VII, ma ha un passato turbolento: educata alla corte
francese, fatta sposare sedicenne al fratello del re di Francia,
dopo il breve regno di costui, ritorna in Scozia, dove la ragione di Stato la costringe a sposare un cugino che poi, con l’aiuto
di un amante, farà ammazzare, e quando per tutto questo ed
altro ancora la nobiltà scozzese si rifiuterà di avere una regina
cattolica, essa chiederà aiuto ad Elisabetta che, su confessioni
estorte e false, le attribuisce varie congiure ai suoi danni, la teme come concorrente al trono e la tiene prigioniera impedendole qualsiasi rapporto con l’esterno e condannandola alla fine (dopo 19 anni!) al patibolo. È l’8 febbraio 1587.
prattutto due donne. Anche se la cortesia dell’inizio preciIntorno al dissidio tra le due regine e al dibattito
pita ben presto nell’alterco e nell’offesa, l’incontro ha avuto
sulla loro legittimazione, gira il mondo della corte,
un risultato palesando quanto difficile sia per l’una come per
fatto di uomini giusti e di traditori o perlomeno di
l’altra separare la ragione dai sentimenti, la giustizia dai proopportunisti, mentre fuori dalle mura di Westminpri istinti e dalla proprie esperienze di vita. E questo è anche
ster e di Fotheringhay tessono le loro trame il re di
lo spettacolo che Schiller si propone di dare e che per l’alterFrancia e il Papa, cattolici e protestanti, fedeli e fanatici. Un
narsi dei sentimenti coinvolti costituirà sempre una prova
mondo variopinto, ottimo per un appassionante sfondo stoper grandi attrici. A vincere sarà Elisabetta che avrà motirico. Schiller, che da professore conosceva bene la storia, ma
vi concreti per temere la rivale apparentemente rassegnata,
ne sapeva anche molto di drammaturgia, interviene sui fatti
eppure la sua esitazione non si attenuerà e la indurrà a peraccertati e fa incontrare le due regine. Inventando l’incontro,
correre vie traverse per far pervenire al boia il documento
Schiller mira evidentemente ad un grande coup de théâtre, ridi condanna. Da parte sua Maria trasforma l’accusa di cui
preso poi in tutte le variazioni teatrali e cinematografiche sulè innocente in un’espiazione per i suoi delitti precedenti, falo stesso tema, ma nelle sue intenzioni quella scena doveva
rà cioè della condanna un atto di libera scelta diventando
contenere, assieme all’emozione che la sostiene, l’idea «educacosì, confessata e comunicata, una santa o almeno un’«anitiva» profondamente connessa alla sua drammaturgia.
ma bella» capace di unire in sé legge e natura, oppressioPer Schiller il teatro (e la poesia in genere) doveva mostrare
ne esterna e libertà interiore, come Schiller suggeriva ai tel’individuo nel suo incontro/scontro con il mondo che lo cirdeschi. È sintomatico che nel momento cruciale le
conda, indicare come egli possa difendere la propria
due regine arrivino alle stesse conclusioni sullibertà contro la sopraffazione (fisica ma anche
la vanità delle glorie umane e sul fallimento
psicologica, soprattutto nel modo moderno
dei propri disegni. Insieme alla grandiocui allude sempre il suo dramma storico)
sità del progetto estetico-filosofico che
dove la violenza è anche la violenza delsostiene l’azione scenica, è questo, oslo Stato e della legge. Questo era il tesia l’equità con cui l’autore guarda alma cruciale del tempo: di come l’uola contesa, a fare di questa tragedia
mo moderno che pure si era dato la
un capolavoro.
legge, potesse conciliarla con la sua
Dopo Schiller, chi riprendenatura individuale, con i sentimenrà questa storia di sicuro effetti e gli affetti. Legge e individuo,
to non si curerà delle intenzioragione e natura, necessità e liberni e del pedagogismo dell’autotà, dunque, e alla poesia e in parre e non avrà dubbi nel preferire
ticolar modo al teatro spettava il
Maria di Scozia. Lo fa anche il licompito di mostrarne la possibibrettista di Donizetti. Ad approle (anche se utopica) conciliaziofittare di quel conflitto tra regine
ne. In un suo famoso scritto teorisarà poi il cinema che con inquaco intitolato Il teatro come istituzione
drature di primo piano cercherà di
morale(1802), Schiller lo aveva spiescoprire cosa si celi dietro alle loro
gato a chiare lettere.
lagrime e alle loro parole. In un film
Questa era la luce proiettata sul model 1936 intitolato Maria di Scozia John
mento dell’incontro delle due regine,
Ford fa di Elisabetta una regina incatincontro inventato a questo scopo. Di
tivita e antipatica, mentre Maria ha il volmezzo non c’era solo il conflitto generale
Fr iedr ich Schiller
to e i palpiti di una giovane Katharine Hetra l’individuo e la giustizia, il dramma si fopburn che quando sale al patibolo non sente il
calizza e attinge alla sua verità nel faccia a faccia
canto degli angeli, ma il suono delle cornamuse che
tra due donne che sono nello stesso tempo anche reogni volta annunciavano l’arrivo del suo amante Bothwell/
gine, nel conflitto esplicito e declamato dunque tra potere e
Fredric March. Quanto al finale della tragedia, con quell’insentimento, responsabilità e passione. Questo momento culsistenza sulla liturgia cattolica, esso aveva già creato diffiminante era stato del resto preceduto da scene importanti atte
coltà quando lo si rappresentava in terra protestante ed avea scoprire l’animo dell’una e dell’altra: quella di Schiller non è
va subito tagli se non censure. Le aveva subite anche la granuna pittura in bianco e nero. Elisabetta, che sembrerebbe una
de scena dell’incontro tra le due regine che rivelavano un po’
sovrana di ferro, scoppia in lagrime quando legge la lettera in
troppo sguaiatamente la loro femminilità offesa. Capitava
cui Maria prigioniera le chiede un incontro, e Maria sa quello
anche che quei toni venissero ulteriormente accentuati come
che fa quando invia il proprio ritratto a un suo ex spasimante,
fa del resto anche il librettista di Donizetti, il diciassettenne
ora passato dalla parte avversa. Maria vuole l’incontro con la
Giuseppe Bardari, che all’angelicabile Maria fa dire versi porivale per vedere con i propri occhi se Elisabetta, nel condanco schilleriani del tipo: «Figlia impura di Bolena/parli tu di
narla a morte, agisca davvero di propria volontà, mentre codisonore?/Meretrice indegna oscena/ su te cada il mio rosstei esita fino all’ultimo a firmare la condanna perché non sa
sore./ Profanato è il soglio inglese/ vil bastarda dal tuo piè».
distinguere chiaramente tra i motivi concreti e le motivazioBertolt Brecht, che prima di Dürrenmatt aveva preso di mini nascoste che la spingono a farlo. Le poche didascalie parlara Schiller e la sua drammaturgia per rovesciarne le premesse
no di sguardi penetranti, di lacrime, di gesti inaspettati e riveidealistiche confrontandole con le dure leggi della società calatori che sostengono un’azione drammatica che fino all’ultipitalistica ed aveva trasformato, in questo senso, la schilleriamo deve oscillare, come voleva Schiller, tra il timore della cana Pulzella di Orléans nella sua Santa Giovanna dei macelli, si era
tastrofe e l’illusione di un suo risolversi improvviso.
ricordato anche lui della famosa scena dell’incontro/sconL’apice della tragedia è comunque il faccia a faccia tre le due
tro tra le due regine e ne aveva fatto una colorita scena poporegine, perché qui si scontrano pubblico e privato, senso dellare in cui a scontrarsi sono due pescivendole al mercato. ◼
lo Stato e libertà individuale, ma nello stesso tempo e anzi so-
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focus on — 13
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Una «Maria Stuarda»
per Denis Krief
Il regista franco-italiano
porta in scena
i labirinti dell’anima
L
focus on
a tragedia lirica in tre atti Maria Stuarda, assente dal
palcoscenico della Fenice dal 1840, sarà la terza opera della
stagione lirica, in scena al Teatro veneziano il 24 aprile con sei
tocento italiano. Sono un grande estimatore di
Donizetti, che nel caso della Stuarda si è ispirato a un testo di Friedrich Schiller della fine del
Settecento tedesco: quindi si tratta di altri tempi
e altri luoghi. Dal canto suo, la storia narrata è molto antica e risale al Seicento inglese. Il preromanticismo
nord europeo, infatti, nasce con la riscoperta dell’epoca di
Elisabetta e di Shakespeare. Ecco quindi che abbiamo attraversato gran parte della storia e dei luoghi dell’Europa,
tutti luoghi che appartengono a questa vicenda. Ci troviamo ora a Venezia, nel 2009: ancora altri tempi e altri luoghi dunque.
Questo tipo di fascinazione mi rimanda spesso a quella
bellissima frase di Pirandello che si trova nei Giganti della
montagna e che accenna al fatto che il tempo e
il luogo risiedono nella memoria e nella poesia: «Tempo e luogo indeterminati: al limite, fra la favola e la realtà». Quello che tengo
a sottolineare è il fatto di dover affrontare
un melodramma storico nato da un dram-
Denis Krief
Maria Stuarda
repliche il 26, 28, 29, 30 aprile e il 2 e 3 maggio. Composta da Donizetti su un libretto di Giuseppe Bardari tratto dalla tragedia Maria Stuart di Friedrich Schiller e andata in scena al Teatro alla Scala di Milano il 30 dicembre 1835, il capolavoro del compositore bergamasco approda in laguna con la regia le scene e i costumi firmati da
Denis Krief, che ci spiega la sua visione dell’opera.
Per quel che riguarda il lavoro che ho svolto non userei il
termine «ambientazione», una parola che, riferita alla regia
teatrale, crea confusioni estreme. Per questo vorrei scomparisse dal vocabolario. Ho pensato prima di tutto al fatto
di trovarmi innanzi a un testo: la Maria Stuarda di Donizetti, appunto, un’opera romantica della prima metà dell’Ot-
ma storico. La Maria Stuarda non è una storia borghese. Ci sono due donne che si confrontano fra loro e, dal punto di vista della regia, la difficoltà risiede nel pericolo di
cadere nella trappola del dramma borghese.
Ho cercato quindi di andare oltre, di astrarre da tutto questo per concentrarmi su cosa
realmente sia questa storia, cosa ponga sotto il fuoco dell’attenzione. Si tratta di due donne di potere,
l’una prigioniera dell’altra, anche se in realtà non si comprende in maniera chiara, netta e decisa chi sia la vera prigioniera. Se la Stuarda è relegata nelle prigioni di Elisabetta, infatti, anche quest’ultima è tutt’altro che libera e imbrigliata invece nelle reti dalla trama psicologica della Stuarda. Quindi una prigione reale da una parte e una gabbia
psicologica dall’altra. Ecco il conflitto che emerge!
Con questa regia ho voluto dunque raccontare la storia
con estremo rigore e ritornare così all’essenza del dramma
di due donne di potere, due donne che vivono un problema con l’amore. Se la loro sfera pubblica è ben funzionan-
focus on — 15
ché li usa. Sono ravvisabili una freddezza e una durezza estreme nel modo con cui vengono raccontati i personaggi, e credo di poter dire di non conoscere un’altra
opera così cruda, con dei protagonisti così duri con loro
stessi e con gli altri. Ho voluto quindi affrontare il dramma storico per evitare la proposizione del dramma borghese. Per questo ho scelto di rimanere in un «vagamente astratto», per raccontare la psiche delle persone e i labirinti dell’anima. Ed è proprio la parola «labirinto» a guidare tutta la scenografia. Non bisogna infatti dimenticare che il labirinto conosce un’espressione molto alta proprio all’epoca di Elisabetta: lo stesso giardino elisabettiano è un labirinto, quasi una rappresentazione della mente
umana. Si pensi poi all’estetica di Giovanni Battista Pira-
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te, infatti, a fare da contraltare è quella privata.
Se una delle due – che vanta alle sue spalle una
folta schiera di mariti, fra i quali almeno un paio ne ha fatti ammazzare – si ritrova a essere sola e a disprezzare l’uomo che la vuol servire, persona ben lontana dal suo ideale maschile, l’altra nemmeno riesce a farsi amare da un uomo.
Melodramma e Ottocento aiutando, possiamo pensare
che si contendano un unico uomo, in realtà un qualcuno che potrebbe anche non esistere: un uomo trasparente, presentato sotto una luce tutt’altro che lusinghiera. Se
le donne sono magnifiche, infatti, i personaggi maschili sono invece terribili. Ecco quindi che la donna è personaggio di potere anche nei confronti degli uomini, per-
Leonora Carrington, Labirinto
Venezia – Teatro La Fenice
24, 28, 30 aprile, ore 19.00
26 aprile, 2, 3 maggio, ore 15.30
Maria Stuarda
tragedia lirica in tre atti
libretto Giuseppe Bardari
dalla tragedia Maria Stuart di Friedrich Schiller
musica Gaetano Donizetti
maestro concertatore e direttore Bruno Campanella
Walter Attanasi (26/4)
regia, scene, costumi e luci Denis Krief
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
prima rappresentazione assoluta:
Milano, Teatro alla Scala, 30 dicembre 1835
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
in coproduzione
con la Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste
la Fondazione Teatro San Carlo di Napoli
e la Fondazione Teatro Massimo di Palermo
nesi e alle sue prigioni, strutture verticali e labirintiche. Si
tratta di percorsi in cui è facile lo smarrimento che porta
alla solitudine, alla tristezza e alla morte. E questo è quello che racconto.
Dopo questa fatica veneziana quali progetti si aprono per il futuro?
Dopo la programmazione della Maria Stuarda alla Fenice, un teatro che amo molto in una città che ho nel cuore,
partirò per il Regio di Torino, dove presenterò la mia prima regia della Dama di picche. Successivamente ci sarà anche un Trovatore. Questo 2009 sarà per me un anno piuttosto pesante, ma che sto affrontando con grande gioia e
piacere. I progetti a cui lavoro e lavorerò mi porteranno in
teatri e strutture a cui sono molto legato, dove è possibile
incontrare maestranze tecniche davvero eccelse: una prerogativa italiana che ha dato lezioni a tutti i teatri del mondo. Fare teatro è una storia d’amore tra esseri umani che
hanno una passione comune. E nel caso della Stuarda, la
Fenice ci permetterà di partire con il piede giusto. (i.p.) ◼
16 — focus on
Bruno Campanella
dirige
la «Stuarda»
L’arte di Donizetti
secondo
le regole del belcanto
È
focus on
affidata alla bacchetta di Bruno Campanella la
Maria Stuarda di Gaetano Donizetti. Abbiamo incontrato il maestro, che ci ha raccontato gli snodi musicali dell’opera.
uno dei fautori più accesi. Per questo ho voluto tener conto del fatto che le voci dovessero prevalere sull'orchestra. Può sembrare quasi un'ovvietà,
ma non sempre è così. Molto spesso nella partitura si trovano indicazioni che suggeriscono addirittura
il «fortissimo». Quasi nessuno però tiene conto del fatto che
Donizetti, come anche Bellini e il primo Verdi, appuntavano tali annotazioni tenendo conto del tipo di strumenti che si
usavano al loro tempo, epoca in cui il «forte» e il «fortissimo»,
soprattutto per quel che riguardava gli ottoni, i corni, le trombe, i tromboni – che erano senza né coulisse né pistoni – risultavano poco più di un ronzio di zanzara. Fu la rivoluzione wagneriana a portare sulle scene degli strumenti molto più potenti; poiché le voci erano rimaste le medesime – non esistevano certo «voci wagneriane» – fu avvertita la necessità di ideare il cosiddetto «golfo mistico»: tutta l'orchestra veniva coperta, i suoni smorzati e ci si poteva dedicare anche ai volumi
Maria Stuarda
Maria Stuarda non fa parte di una trilogia, come molti credono, bensì di una tetralogia: accanto ad Anna Bolena e a Robert
Devereux, infatti, non va dimenticata Elisabetta al castello di Kenilworth, anche se in realtà non viene rappresentata spesso. Si
tratta dunque di quattro opere che il compositore ha voluto
dedicare alle regine d'Inghilterra o di Scozia.
La Maria Stuarda avrebbe dovuto debuttare a Napoli nel '34.
La regina della città partenopea pose però la censura, a causa del legame di sangue che intercorreva tra lei e Maria Stuarda: il fatto che la regina di Scozia fosse andata a morte, infatti, non incontrava certo i favori della Maestà napoletana. Esiliata da Napoli, andò quindi in scena per la prima volta proprio a Venezia.
Qual è la struttura dell'opera?
Si tratta di un lavoro che presenta una struttura di una semplicità estrema, con alcuni accompagnamenti in cui Donizetti risulta essere pre-verdiano, una caratteristica che ho voluto
far emergere e rendere riconoscibile.
Come ha lavorato per svolgere il materiale dal punto di vista musicale?
Ho una vera predilezione per il belcanto: credo di esserne
Elisabetta I
più alti. Proprio per questo quando mi si dice che non esistono più le voci di una volta, rispondo che a non esistere più sono piuttosto gli strumenti di un tempo. Per modificare le voci ci vorrebbe infatti una mutazione genetica di milioni di anni. Si tratta di un fattore molto importante, che va sempre tenuto a mente: ogni volta che la partitura indica un «fortissimo», che andrebbe a coprire le voci, bisognerà realizzare un
«forte»; quando sarà indicato un «forte», proporre un «mezzo-forte»; al posto di un «mezzo-forte» eseguire un «piano»,
e così via. In questo modo le voci riusciranno sempre a emergere con estrema chiarezza e a non essere sommerse da questa enorme massa di suono orchestrale. Questo è uno dei punti fermi del belcanto che ho voluto adottare anche per questa
Maria Stuarda.
Altri punti fermi del belcanto?
Quello di basarsi sulle vocali: la nostra bellissima lingua italiana, per quel che concerne il canto, si basa appunto sulle vocali e non sulle consonanti. Ogni volta che i cantanti, e questo
accade soprattutto agli interpreti stranieri, pronunciano ad
esempio la parola «amor» sottolineando la consonante finale,
focus on — 17
traccia indelebile. Come dicevo poc’anzi, quello fra la Stuarda ed Elisabetta è un incontro determinante tra due personalità molto forti, sanguinarie, ambedue detentrici e vogliose di potere; ma se l’una è quasi oramai ben conscia che
il suo dominio le sta sfuggendo di mano nonostante si ostini nel continuare a cercare di alimentarlo attraverso amicizie e intrighi, l’altra è invece ben sicura che il suo regno sta diventando sempre più solido. È un momento molto
interessante e infatti le cose più belle di quest’opera
si trovano proprio in questo incontro fra le cugine, e in quello che una dice dell’altra in sua assenza. Non va inoltre dimenticato che Maria Stuarda era un’abile decrittatrice: sapeva decrittare i vari codici segreti e nel farlo
si serviva anche di uno dei
suoi tanti amanti, Davide
Rizzio, che poi fu mandato a morte. La Stuarda
era dunque ben abituata
agli intrighi, e se in realtà
dovrebbe portare a muo-
focus on
commettono un errore. È invece la vocale che la
precede, la «o», a dover emergere. Proprio questo
è il belcanto italiano! Ho quindi voluto basarmi su
tutte quelle che sono le sue «stigmate», che sono innumerevoli e che prevedono che i cantanti non vengano relegati a fondo palco, ma piuttosto avanti affinché le loro
voci possano emergere con semplicità.
Che caratterizzazioni hanno i
personaggi?
I personaggi che emergono sono sempre un po'
a tutto tondo: ad esempio
quello di Guglielmo Cecil è
sempre cattivo, non c'è un
chiaro-scuro che permetta di risolvere il suo carattere; anche dal punto di vista musicale, ha sempre delle frasi tali che non permettono di addolcirne il carattere. Le due figure più interessanti sono naturalmente Maria Stuarda ed Elisabetta, le due cugine, il cui
incontro è fondamentale.
Pensando all'epoca in cui
Bruno Campanella
la trama si svolge, una fra-
Anna Bolena
se come quella che la Stuarda rivolge a Elisabetta – «Figlia impura di Bolena, meretrice indegna e oscena» – è di un impatto
enorme: non era certo quello il tempo che permetteva di dire
«parolacce». Si tratta di un'esplosione davvero molto moderna. Per quel che riguarda il personaggio di Elisabetta, mi ricordo un Robert Devereux in cui il regista la ritraeva da bambina
mentre assisteva all’esecuzione capitale della propria madre,
Anna Bolena. Si capiva dunque il perché di questa sua tendenza a mandare a morte decapitandoli tutti i suoi amanti e avversari, perché di quella esecuzione era rimasta dentro di lei una
Robert Devereux
vere a pietà il pubblico, in realtà bisogna riuscire a contemperare le cose. Anche lei infatti è colpevole di tante morti e di tanto sangue, quanto lo è stata Elisabetta d’Inghilterra. Per questo, dal punto di vista musicale, bisogna riuscire a far sì che vengano amate ambedue alla stessa maniera.
Certo alla fine chi soccombe è Maria e quindi a lei andranno le maggiori simpatie del pubblico e anche qualche pianto, ma in realtà quello che è importante è che anche Elisabetta è degna sia di ammirazione che di pietà, e anche di ludibrio per quel che riguarda il suo essere sanguinaria. (i.p.) ◼
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