Riflessi On Line - Bimestrale di Approfondimenti Culturali
Edizione nr. 71 del 20/02/2016
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Iscrizione presso il Tribunale di Padova n. 2187 del 17/08/2009
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I NDI CE
PICCOLO, GRANDE IMPERATORE
Luigi la Gloria
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02
MISTERO DELLA VITA E MORTE CELLULARE PROGRAMMATA
Anna Valerio
pag.
07
STORIA ED EVOLUZIONE DEL CLIMA TERRESTRE
Convegno - Padova - 28 Ottobre 2015
pag.
11
LA PRIMAVERA DI PRAGA: IL ’68 DELL’EST, UN MAGGIO FRANCESE AL
CONTRARIO
Gianfranco Coccia
pag.
65
pag.
69
pag.
71
AL PRIMO SGUARDO
pag.
72
PINACOTECA DELL’ACCADEMIA DEI CONCORDI E DEL SEMINARIO
pag.
74
LE MERAVIGLIE DELLO STATO DI CHOU
pag.
76
STORIA DELL’IMPRESSIONISMO. I GRANDI PROTAGONISTI DA MONET A
RENOIR, DA VAN GOGH A GAUGUIN
pag.
34
GIUSEPPE PAVANINI: VERSO L’ORO
Nicola Galvan
L’ALBERO DELLE SORBE E ALTRE STORIE
Luigi La Gloria
Direttore Responsabile
Luigi la Gloria
[email protected]
Vice Direttore
Anna Valerio
[email protected]
Grafica e Impaginazione
Claudio Gori
[email protected]
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P ICCOLO, G RA NDE IMP E RA TORE
Luigi la Gloria
I due ritratti del Tiziano ci mostrano l’imperatore Carlo
V superbo nella sua armatura dopo la battaglia di
Muhlemberg e regale nella pace del suo palazzo con il
cane accucciato ai suoi piedi. Tuttavia nelle
testimonianze dei contemporanei e dei cronisti che
egli stesso designava a redigere la sua storia, nelle sue
stesse minuziosissime Memorie Carlo non appare un
personaggio di particolare eccezionalità, non sembra
davvero essere un’individualità superiore. Non
possedeva la genialità di Pietro il Grande nè di
Elisabetta d’Inghilterra, tantomeno di Federico di
Prussia o di Napoleone Bonaparte. Non era neppure
un legislatore al pari di Giustiniano o un tiranno alla stregua di Ivan il terribile e il suo eterno
rivale Francesco I di Francia aveva molte più virtù: era affascinante, elegante, romantico nonchè
cavaliere e condottiero. Carlo V era invece un uomo cupo ed introverso, a volte ossessivo. In lui
riluceva solo la signorilità dei cavalieri di Borgogna e dei nobili fiamminghi e il suo animo
rispecchiava l’orgoglio solitario degli hidalgos spagnoli conosciuti e ammirati alla corte dei
nonni. Era profondamente religioso tanto da rasentare il bigottismo. Nei momenti di grande
crisi interiore era solito immergersi nella quiete dei monasteri e pregare con il trasporto mistico
di un vero monaco. E proprio in convento passò dolorosamente gli ultimi anni dell’esistenza e
volle finire la sua vita. Pur tuttavia, coerente con sua personalità, non scelse di percorrere la
strada dell’ascetismo e del misticismo, che nel secolo di santa Teresa e Sant’Ignazio di Loyola
avrebbero fatto di lui l’imperatore santo. Dopo i suoi momenti di estasi religiosa non sapeva
infatti resistere al richiamo degli intrighi della politica. L’Europa del suo tempo era scossa da
grandi sussulti politici e religiosi: dalla Francia di Enrico II, alla Germania luterana,
dall’Inghilterra del dopo Enrico VIII al mediterraneo infestato dai pirati del Gran Turco.
Carlo non fu quel che si dice un astro sfolgorante nella storia. La sua personalità era davvero
contraddittoria. Si abbandonava a eccessi smodati di sensualità e di gola, stravedeva per le
carni delle donne e quelle della tavola. Tutto questo potrebbe essere anche il segno di una
disordinata grandezza se non fosse che troppo spesso nei suoi comportamenti si leggevano
vistosi segni di mediocrità, talento comune alla stragrande maggioranza degli uomini. E’ questo
il mistero e allo stesso tempo il fascino di Carlo V. Il figlio di Filippo il Bello e di Giovanna la
Pazza avrebbe dovuto essere archiviato dalla storia tra i sovrani marginali e invece, per
l’estensione dei suoi domini e per l’eccezionale ricchezza culturale e spirituale del suo tempo, fu
proiettato ai massimi livelli. Ed è proprio il particolare contesto storico nel quale si trovò a
vivere che rende ragione della sua statura. Dotato di un’intelligenza pronta e di uno spiccato
senso dell’equilibrio, coadiuvato da brillanti ministri e consiglieri, l’Imperatore seppe sfruttare a
suo vantaggio la sorte di essere il personaggio centrale di un secolo straordinario. Il secolo di
Lutero e di Erasmo di Rotterdam, di Francesco I, di Enrico VIII e di Elisabetta I, di Solimano il
Magnifico, di Machiavelli e Guicciardini, di Ariosto e Rebelais, del Concilio di Trento, di
Michelangelo e Raffaello, della Riforma e della Controriforma, dell’Inquisizione e dei Papa re, di
Magellano e dei Conquistadores del nuovo Mondo. Un secolo unico e irripetibile: il
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Cinquecento. Il secolo che spalanca le porte alle grandi scoperte, alle grandi esplorazioni
geografiche e alle ardite sperimentazioni dell’arte.
Egli fu il sovrano di due mondi, sia in senso geografico, Vecchio e Nuovo Continente, che in
quello spirituale con la nuova cultura del rinascimento e la nuova religione protestante. L’Evo
moderno si apriva con il presagio di decadenza dell’Europa e del Mediterraneo a fronte della
crescente potenza dei nuovi mondi con le loro miniere d’oro e d’argento che rivoluzionarono il
vecchio sistema di commercio e l’economia europea, che portarono ricchezza ma allo stesso
tempo innescarono un processo di inflazione e un sovvertimento delle regole di mercato.
I quel tempo le realtà dei differenti contesti si trasformavano con rapidità vertiginosa.
I grandi banchieri Fugger di Augusta con la loro enorme ricchezza ebbero un ruolo
determinante nell’elezione del giovane Carlo I di Spagna a imperatore, con il nome di Carlo V, e
stabilirono il principio del primato dell’economia sulla politica in quell’Europa che aveva fino ad
allora rifiutato il capitalismo, dove il prestito e l’usura, fondamenti del credito e della banca
moderna, erano considerati merce del demonio. Avanza nell’economia l’Europa capitalistica e
borghese. E inoltre la libertà di religione e di coscienza, sancite con la pace di Augusta del 1555,
vedono demolito il primato della Chiesa di Roma. Carlo V fu incoronato imperatore nel 1519 a
soli diciannove anni e quando, a cinquantasei, abdicò e si chiuse in convento l’Europa e il mondo
erano radicalmente cambiati. Questo fu il suo merito. Mai nella storia un così piccolo uomo era
riuscito ad adempiere ad una così immensa missione politica e spirituale, a uniformare il mondo
secondo i suoi voleri. Da questo punto di vista Carlo V, pur inferiore come carisma a quasi tutti i
principi del suo tempo, si allinea invece ai grandi conquistatori e riformatori dell’umanità e al
suo grande antagonista Martin Lutero.
I fatti assolutamente straordinari del suo regno furono la
prodigiosa conquista del Nuovo Mondo che, con sue
ricchezze, contribuì grandemente alla magnificenza del
Rinascimento e l’affermazione, con vicende alterne di trionfi e
sconfitte, del suo nemico giurato: il luteranesimo. Egli fu il
deus ex machinadel secolo più ricco di rivolgimenti e di
splendori.Per meglio capire cosa erano l’Europa e il mondo
intero prima di Carlo V, e naturalmente cosa furono dopo di
lui, sarà bene fare un breve excursus nella storia di quel tempo
per vedere come si compì quella formidabile rivoluzione che
influenzò la geografia, la storia, l’economia, il pensiero, la
cultura e la fede. Colui che sembrava essere la quinta essenza
della mediocrità lascerà ai posteri un universo radicalmente
trasformato. Carlo V eredita l’Europa del Sacro Romano
Impero di Carlo Magno e la Spagna dei suoi nonni Ferdinando
d’Aragona e Isabella di Castiglia, los Reyes catolicos, che nel
1492 avevano completato la Reconquista del Paese contro i Mori. Quindi risulta naturale che il
giovane Carlo, erede dell’imperatore Massimiliano, re di Spagna e di Napoli, la cui dominazione
di estendeva fino ai Paesi Bassi e ai vastissimi possedimenti del Nuovo Mondo, si presenti al
mondo come Defensor Fidei. Nel momento della sua ascesa ebbe la fortuna e allo stesso tempo
la sfortuna di trovarsi di fronte due re di grande levatura: Francesco I di Francia ed Enrico VIII
d’Inghilterra. Questo confronto determinò, nel primo ventennio del regno, gravi difficoltà al suo
governo e innescò un susseguirsi di interminabili guerre, di alleanze stipulate e subito infrante
con la disinvoltura dei principi di Machiavelli; una complicatissima danza di intrighi e manovre
per sfruttare paci e tregue, per consolidare posizioni che a loro volta provocavano nuove
guerre. Insomma un carosello di armistizi e combattimenti, matrimoni e divorzi. In tutto questo
sullo sfondo incombeva, minacciosa e crescente, la Riforma religiosa che diventava tanto più
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potente nei territori dell’Impero in quanto faceva leva sull’orgoglio dei principi luterani e sul
nuovo concetto di nazionalità. A questo si aggiungevano le rivolte contadine. Un ginepraio reso
ancora più intricato dal prevalere, in successione nei decenni, di diverse volontà politiche come
quella del ministro Mercurino Arborio di Gattinara (1465/1530) che era convinto che i destini
dell’Europa si giocassero in Italia e affidava le sorti dell’Impero alle guerre nella penisola. Più
tardi a imporsi furono le idee del cardinale Antoine Perrenot di Granvelle (1517/1586) che spostò
il baricentro delle vicende politiche nei Paesi Bassi, in Germania e Francia. A rendere il gioco
isterico e pazzesco furono poi le ambizioni del Papato, specie quando i Papi Medici anteposero
gli interessi del loro casato e di Firenze a quelli del mondo e della religione e ancora le nevrosi
dei principi dei piccoli Stati italiani, di cui Machiavelli dice che cambiavano continuamente
attitudini e relazioni: nemici accaniti oggi grandi amici domani, capaci di amarsi e strapparsi gli
occhi nel tempo di una notte. E poi l’avanzata dei Turchi in Europa. Solimano il Magnifico, il
sultano che chiude la schiera dei sovrani in quell’epoca di giganti, incalzava alla porte
dell’Ungheria e dell’Austria e ottenne grandi vittorie a Mhacs e a Güns per poi presentarsi
minaccioso davanti a Vienna. Se rileggessimo il Cinquecento con una visione meno
eurocentrica annovereremmo Solimano tra i grandi al pari di Carlo, Francesco e di Enrico. I suoi
corsari barbareschi dominavano il mediterraneo e saccheggiavano le coste dell’Italia
meridionale e della Spagna, terrorizzando le popolazioni. Carlo fu l’unico principe che riuscì a
fermare e a battere il Turco, compiendo due spedizioni in nord Africa di cui una si concluse con
una grande vittoria, mentre l’altra, a Tunisi ed Algeri fu meno
fortunata.
C’è anche da dire che il cattolico re di Francia Francesco I, in
spregio a Carlo, si alleò a più riprese con i Turchi in un’alleanza
innaturale tra un principe cristiano, difensore della fede, e il
massimo nemico della Cristianità. Carlo resistette a tutte queste
sfide. Combatté su più fronti, spesso contemporaneamente,
contro Lutero e il re di Francia, contro il Papa e il re d’Inghilterra,
contro i prìncipi tedeschi e le varie leghe italiane, i rivoltosi
spagnoli e il Sultano. Carlo V lo si può definire come un
europeista ante litteram, per la sua idea di un’Europa
sovranazionale come un unico impero, ispirato al sogno di
Enrico VII e alla Monarchia di Dante Alighieri. Alla radice di quest’idea c’erano due grandi
potestà su cui si reggeva l’Impero, la Chiesa e lo Stato: istituzioni entrambe volute da Dio, che
sono chiamate a governare e a guidare gli uomini incapaci a causa dell’imperfezione umana di
governare se stessi. Nell’idea medievale il Papa e l’Imperatore sono, ognuno nella propria sfera,
vicari del Dio onnipotente. Il Papa rappresenta il potere spirituale
della Cristianità, l’Imperatore quello temporale. Ciascuno dei due
trae la propria autorità dal Creatore e non è responsabile che
davanti a lui.
Carlo voleva realizzare questa idea. Non vi riuscì, perché lui era un
sovrano dell’Età Moderna e l’Impero apparteneva invece all’età di
Mezzo. Ma proprio in questo sublime fallimento risiede il suo
fascino. Tra gli imperatori del passato quello più ricco di
contraddizioni e più simile a Carlo è il nipote del Barbarossa,
Federico II di Svevia, che figura nel sesto cerchio del canto decimo
dell’Inferno di Dante ove sono puniti gli eretici (color che l'anima
col corpo morta fanno). Federico rimane un enigma tra i più sconcertanti della storia. Scettico,
quasi ateo, parlava di Mosè e di Cristo e di Maometto come dei più grandi impostori del mondo.
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Ma nonostante ciò soppresse con violenza i fermenti dell’eresia catara e albigese in Linguadoca
e in Germania e morì durante una marcia su Roma. Fu assolto in articulo mortis e sepolto con
addosso la tonaca di un monaco cistercense. Visse a Palermo, disprezzando la Germania come
un paese di barbari, soggiornandovi da vero saraceno, fruendo di un vasto harem con eunuchi,
danzatrici, tutto in uno stile del mondo orientale. Federico da un lato, miscredente e moderno
in un mondo religioso e medievale, Carlo dall’altro bigotto e devoto in un mondo che si
spalancava alla modernità; due facce speculari di uno stesso universo torturato dall’ansia di
conoscenza.
In un mondo di brutalità, di barbarie e di guerre continue, il monastero era un luogo di grande
dignità intellettuale e spirituale, fortezza e faro non solo di salvezza ma soprattutto di cultura.
Furono i monaci, in particolare i Benedettini e i Cluniacensi, a salvare la civiltà occidentale e a
creare l’anello di congiunzione tra la grande cultura medievale e quella rinascimentale che
avanzava. I monasteri diffondevano scienza, letteratura arte e musica. Nei periodi peggiori di
caos e di guerre civili i chiostri tedeschi testimoniavano una vita spirituale ardente. In tempi di
imbarbarimento la fiamma mistica aveva percorso l’Europa: da Francesco d’Assisi a mastro
Eckhart a Elisabetta d’Ungheria. La carità e l’umiltà erano le fonti di un impetuoso
rinnovamento, introducevano nella mente dei popoli il disgusto per lo sfarzo mondano e la
sensualità epicurea della Chiesa di Roma e dei Papi italiani. Questo fu il retaggio di protesta che
venne totalmente assimilato dal piccolo monaco infiammato d’energia, Martin Lutero da
Wittemberg. Carlo V poté trasformare il suo tempo perché le grandi esplorazioni e le scoperte
geografiche avevano reso il mondo infinitamente più ampio e intellettualmente più complesso.
E a questo si aggiungeva l’estendersi senza fine della cultura rinascimentale, dalla primavera
delle arti alla maturità delle scienze. Ma fu anche un secolo di vistose contraddizioni: proprio
nell’anno in cui si completa, con la costruzione dell’ospedale reale, il Santuario di San Giacomo
di Compostela, meta dell’Europa della fede, avviene il primo trasporto in America di un
contingente di schiavi neri dell’Africa. I Mori e gli Ebrei di Granada devono scegliere tra il
battesimo e l’esilio o addirittura la morte. Eppure nel 1502 viene fondata l’università di
Wittemberg, dove Lutero affiggerà le sue 95 Tesi, e la città di Siviglia risorge a nuova vita come
unico porto di collegamento tra l’Europa e il Nuovo Mondo. Tra il nascere ed il tramontare del
secolo il Fugger fondano il potere economico e Nostradamus quello astrale e magico. Il mondo
che crede ancora nelle alchimie e nella pietra filosofale vede Colombo scoprire l’America e
Magellano circumnavigare il globo. Leonardo da Vinci inventa nuove macchine da guerra e
dipinge volti meravigliosi per il suo protettore Francesco I di Francia, perenne rivale di Carlo V.
Muoiono Botticelli e Giorgione; si affermano Dürer e Holbein, grandi descrittori della società
del tempo, crescono Raffaello e Tiziano. Nel 1511 Erasmo da Rotterdam pubblica
l’immortale Elogio della follia, compendio di un’epoca. Un anno dopo, nell’assedio di Brescia,
compaiono i primi archibugi a cambiare il modo di fare la guerra.
Nel 1516 Ariosto celebra nel suo capolavoro, l’Orlando Furioso, la dissoluzione del mondo
cavalleresco. Nello stesso anno Machiavelli detta nel Principe la teoria politica del
Rinascimento. Cadono i vecchi presupposti della fede che governavano gli uomini, la politica è
fermamente distinta dalla morale e dal comportamento etico: il modello del principe dell’epoca
è Ludovico il Moro o Cesare Borgia, Francesco I, Carlo V, Enrico VIII. E proprio in Inghilterra
Tommaso Moro lancia il suo grido di dolore con la sua utopia. Si fanno strada i medici e i
botanici, studiosi dell’anatomia umana e delle stelle del cielo, della musica delle sfere celesti.
Cortez sbarca in Messico e si brucia le navi alle spalle. Tiziano realizza i ritratti dei due rivali
Carlo V e Francesco I, quest’ultimo ordina a Pierre Lescot di ricostruire il Louvre. Mai tempo fu
più fervido d’ingegni, più prodigo di contrasti, più armonioso e più feroce, più illuminato e più
imbarbarito, più colto e più disperato. I galeoni d’oro del Nuovo Mondo, i commerci delle
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Fiandre e dell’Olanda, il crescere della banca moderna, il potere economico, l’etica protestante
del capitalismo: tutto questo si colloca nell’età di Carlo V.
L’imperatore ebbe il merito di creare il colossale scenario politico per assecondare la fantastica
crescita di questa incredibile età. Come suo nonno Massimiliano I, egli aveva in cuore di
restaurare il vecchio impero universale, l’impero di Carlo Magno e, possibilmente, di renderlo
ereditario per la famiglia degli Asburgo. Ma se fece della monarchia universale il sogno delle
sue ambizioni, Carlo seppe anche capire lo spirito nazionale nei suoi possedimenti e non ne
contrastò mai l’aspirazione autonomistica. Fu lui stesso un sovrano multinazionale nello spirito,
orgoglioso con i suoi spagnoli, grave con i tedeschi, cavalleresco con i fiamminghi, colto con gli
italiani.
Il clan degli Asburgo era stato legato a molti stati dell’Europa e Carlo interpretò lo spirito di una
monarchia multinazionale, che fu poi quello dell’Austria fino alla dissoluzione dell’Impero nel
1919 con la disfatta della prima guerra mondiale. Carlo fu paradossalmente l’ultimo sovrano
dell’Europa medioevale, il teorico della monarchia universale voluta da Dio. Fu il Signore
cristianissimo di un continente mistico e cattolico, ma fu anche il re possibilista e pragmatista
del dopo Lutero e del dopo Concilio di Trento. Il suo regno vide svolgersi la Riforma e la
Controriforma, la scissione della Chiesa d’Inghilterra, il protestantesimo e le sanguinose guerre
di religione. Il destino di Carlo non fu quello di creare un’Europa della teologia scolastica e
dell’Impero universale, un’Europa dantesca, ma di presiedere alle grandi scoperte,
all’evoluzione della libertà religiosa e al trionfo del Rinascimento.
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MIS TE RO D E L L A VITA E MO RTE CE L L UL A RE
P ROG RA MMA TA
Anna Valerio
Vita e morte, indissolubilmente
legate in un pas de deux perpetuo.
L’una premessa dell’altra che è la
naturale conseguenza della prima.
Vita che non ci sarebbe senza la
morte e morte che è il punto di
partenza della vita.
Anche nelle cellule è così. Infatti,
come gli organismi di cui sono parte,
anch’esse muoiono e spesso la loro
morte è fonte di vita o almeno
presupposto perché la vita si sviluppi
al meglio.
A sostegno di questa affermazione, dirò che la prima funzione attribuita alla
morte cellulare è stata proprio quella di essere uno strumento in grado di
permettere all’embrione di acquistare la sua forma attraverso un processo in
qualche modo paragonabile alla scultura. L’embrione prende forma, infatti,
proprio grazie a processi di aggiunta, eliminazione, modellazione della materia.
Le nostre braccia, ad esempio, sono scolpite a partire da abbozzi di esse. E’
proprio la morte cellulare che crea gli spazi che separeranno tra loro,
individuandole, le diverse ossa di avambracci e braccia; ed è sempre lei che
scolpisce e definisce le mani a partire da una struttura simil-manopola,
eliminando i tessuti di congiunzione ed evidenziando così le singole dita.
Nell’uomo questo processo giunge a compimento ma nel restante regno
animale può essere più o meno completo e lasciar permanere, per esempio, una
sottile membrana tra le dita come accade negli uccelli acquatici che hanno le
zampe palmate per nuotare, o nei pipistrelli che se ne servono per volare. E
negli uccelli terrestri? Come mai non accade la stessa cosa e la separazione delle
dita avviene per intero?
Forse che la morte cellulare è scritta proprio in quei geni che sono diversi nelle
varie specie?
La morte delle cellule non definisce solo l’aspetto esterno di un essere vivente,
ciò che appare alla vista, ma anche quello interno. A pochi giorni dalla
fecondazione, quando ciò che sarà il nuovo organismo è ancora una specie di
pallina, la morula, ecco che già la morte cellulare interviene eliminando la
maggior parte delle cellule che ne occupano il centro e, così facendo, crea uno
spazio vuoto all’interno della piccola struttura. E’ questa cavità che permetterà
lo scivolamento di strati di cellule gli uni sugli altri che si diversificheranno
progressivamente tra loro e nel tempo della gestazione daranno vita ai vari
organi e tessuti. Dalle cellule che si trovano a delimitare quella cavità centrale
prenderanno origine il tubo digerente, il fegato e i polmoni; dallo strato che le
circonda i muscoli, le ossa, i vasi sanguigni, il cuore, gli organi genitali e urinari;
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infine dallo strato esterno la pelle e il sistema nervoso. E tutto a partire dal fatto
che il cuore della morula è stato eliminato con la morte delle cellule presenti
proprio lì.
A questo punto una domanda sorge spontanea.
Che cosa è che induce la morte cellulare?
Fino a una cinquantina d’anni fa si riteneva che si scatenasse una specie di lotta
tra l’organismo in toto e le cellule destinate a morire; addirittura, secondo alcuni
studiosi, sarebbero esistite delle “cellule assassine” con il compito di eseguire la
sentenza nei confronti di quelle che presentassero in superficie segnali di
“richiamo della morte”.
Altri pensavano che venissero interrotti i segnali che permettono la
duplicazione o la specializzazione e che questo spingesse le cellule verso un
invecchiamento precoce e quindi verso la morte. Si sa infatti che alcune
sostanze chimiche determinano una specie di blocco della cellula, impedendo
l’accesso alla lettura dei geni e quindi la produzione di nuove proteine con la
conseguenza che essa non può più rispondere alle sollecitazioni dell’ambiente,
può solo utilizzare gli strumenti che ha prodotto in precedenza fino al loro
esaurimento, dopo di che si “chiude in se stessa”.
Ma oggi sappiamo che c’è molto di più.
Tra gli stessi geni presenti nella cellula ci sono quelli deputati proprio al “segnale
di morte”. Una sorta di morte programmata, quindi.
In risposta a specifici segnali provenienti anche, ma non solo, dall’esterno, la
cellula trascrive i suoi geni che le dicono di fabbricare quell’arma che poi dovrà
usare per autodistruggersi.
Come se la morte, dunque, fosse già scritta al momento della nascita.
Questo non ci deve stupire: anche per noi è così, perché non dovrebbe esserlo
per le nostre più piccole parti costitutive?
Si diceva di segnali letti dalla cellula e poi “interpretati”. Proprio così: come essa
risponderà dipende infatti sia dal tipo di segnale, che dal momento in cui lo
coglie e anche dalla condizione in cui essa si trova. Quindi la risposta parrebbe sì
legata al presente, ma anche al passato (nel senso dei segnali già ricevuti e da
come sono stati interpretati) quindi alla sua storia. E può essere di
sopravvivenza o di morte. Da una qualche parte della struttura cellulare
qualcosa “decide”, dunque, se è tempo di vivere o di morire.
Ci sorprende questa “cellula pensante”? Siamo alle frontiere della scienza e ci
stiamo muovendo in territori nei quali può sembrare pericoloso avventurarsi.
Ma, perché no, andiamo ancora un pochino più in là.
Riguardo al mistero della vita e della morte gli antichi greci, attraverso la loro
visione tragica dell’esistenza, ci hanno educato alla chiarezza e alla crudezza
insieme. Nessuno come loro ha saputo trasporre in mito il tema più complesso
per l’uomo. E spesso, nelle loro rappresentazioni pensate proprio per il popolo,
si arrivava all’epilogo non tanto dopo elucubrazioni filosofiche ma grazie a una
successione di passaggi (segnali e risposte ai segnali) con un’ineluttabilità
strettamente connessa al carattere del protagonista più che agli eventi in sé.
Per caso stiamo pensando a una qualche analogia?
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Se abbiamo la pazienza di ricordare, ci viene alla mente che due sono i miti greci
che suggeriscono le maniere per aggirare la morte ed entrambi hanno per
protagoniste le Sirene che attirano i naviganti trascinandoli nell’oblio. Il primo è
quello di Ulisse che, su consiglio di Circe, supera la morte certa con due
stratagemmi: riempie di cera le orecchie dei compagni, ora sordi al canto di
morte, che hanno il compito di allontanarlo dal pericolo (quindi usa uno
stratagemma che impedisca di percepire il segnale) e poi si fa legare all’albero
della nave mettendosi nella condizione di non reagire con l’autodistruzione
(come la cellula che percepisce il segnale di morte ma non risponde).
Il secondo è quello di Orfeo nella spedizione degli Argonauti. Avvicinandosi alle
Sirene, lui invece imbraccia la cetra e unisce il suo canto al loro,
neutralizzandolo. Quindi oppone un canto di vita a uno di morte; proprio come
la cellula che, in situazioni che dovrebbero portarla a morte, percepisce un
segnale di sopravvivenza e reprime l’autodistruzione.
Ma allora gli antichi greci conoscevano il linguaggio cellulare di vita e morte o
piuttosto le vie sono le stesse nel macro come nel microcosmo?
Sembrerebbe che il destino cellulare non sia predeterminato ma dipenda dai
segnali che le varie unità si scambiano tra loro. In un certo momento e in
risposta a un certo segnale, la cellula programmata per distruggersi si suiciderà,
a meno che non colga un segnale di sopravvivenza che reprima lo scatenarsi
della morte programmata.
Formulato in questo modo forse capiamo e accettiamo più facilmente il
concetto della “decisione” della cellula di vivere o morire che non è legata,
naturalmente, a un momento introspettivo, come siamo abituati a vedere
nell’uomo, ma piuttosto a una successione di atti semplici che vanno in una
direzione o in un’altra.
Parlando di morte cellulare, noi tutti ne abbiamo un’immagine molto più
intuitivamente comprensibile e spettacolare derivata dall’osservazione di una
ferita. Le cellule si gonfiano ed esplodono liberando gli enzimi che, in condizioni
normali, portano dentro di sé in compartimenti chiusi; questi attaccano le
cellule vicine facendole a loro volta esplodere e propagando in tal modo il
danno. E’ un fenomeno intenso, per certi versi brutale che lascia tracce nella
riparazione cicatriziale ad opera del fibroblasti (cellule di sostegno) che
ricolmano i buchi della lesione. Come conseguenza di ciò, la funzione del
tessuto colpito può essere alterata per sempre. Questa è la necrosi che era
l’unica forma di morte cellulare conosciuta fino al 1972 quando un biologo
specializzato nell’osservazione dei tessuti, John Kerr, descrisse la morte cellulare
programmata che presentava caratteristiche così diverse da quelle della necrosi
da richiedere un nome nuovo che fu derivato dal greco antico, chiamato in
causa ancora una volta.
Il termine, è quello normalmente usato per descrivere il fenomeno della caduta
delle foglie in autunno e dei petali dei fiori quando sono appassiti; è apoptosi che
nella sua etimologia racchiude in sé un concetto di ineluttabilità, naturalità e
programmazione insieme. E’ una morte più discreta, senza effetti dirompenti,
quasi un’implosione. La cellula che morirà taglia ogni contatto con l’ambiente, si
chiude in sé, si stacca dalle cellule vicine, poi frammenta il suo nucleo in piccoli
pezzi, rendendo inservibile la sua identità genica, e si auto digerisce. In tutto
questo mantiene intatta la membrana che la circonda evitando con cura di
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contagiare le cellule intorno con la sua morte. Non ci sono cicatrici, le cellule
limitrofe ben presto riempiono il buco lasciato libero e non rimane traccia
dell’evento che si è consumato. Proprio come nell’embrione.
Ma in realtà l’osservazione del fenomeno è precedente al 1972, infatti già nel
1855 Flemming lo aveva descritto dettagliatamente, lasciandoci anche disegni
estremamente suggestivi, chiamandolo “cromatolisi” e dopo di lui nel 1951
l’embriologo Glucksmann aveva ribadito le stesse osservazioni chiamandole
“morte per frammentazione”.
Le loro osservazioni furono però a lungo ignorate e forse anche oggi non tutti i
biologi ne sono informati. Spesso, infatti, conosciamo quello che è stato
scoperto ieri, ma riguardo all’altro ieri è già preistoria.
Ma forse la ragione vera di queste “dimenticanze”, e dei conseguenti silenzi, è
che una scoperta scientifica, se non ha implicazioni che la leghino alle
conoscenze del momento, non viene presa in considerazione anche e
soprattutto se è un’anticipazione, perché spesso il mondo della scienza, a furia
di concentrarsi sul microscopico, perde di vista la visione d’insieme e quasi
sempre si rivela miope e scarsamente lungimirante.
La storia della scienza è piena infatti di scoperte che sono rimaste nell’oblio per
lungo tempo, come se il mondo scientifico, quasi automaticamente, relegasse
in un angolo quelle che al momento non possono essere utilizzate perché
troppo anticipatorie, come fossero risposte a domande non ancora poste.
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S TO RIA E D E VO L UZIO NE D E L CL IMA TE RRE S TRE
Convegno: svoltosi a Padova il 28 ottobre 2015
Prof. Ing. Alberto Mirandola, Chairman del convegno
Il clima terrestre è un insieme di fenomeni le cui manifestazioni, a volte benefiche,
a volte terribili e catastrofiche, hanno intimorito e affascinato gli uomini fin dalle
origini della storia. Padrone delle acque, dei pascoli, delle foreste e delle messi, il
clima determinava la vita dei popoli, i luoghi in cui essi si insediavano, le loro
migrazioni; ed era perciò ritenuto segno della benevolenza o dell’ira degli dei.
I nostri avi scrutavano il cielo e cercavano di interpretarne i segnali per prevedere il
tempo atmosferico, dal quale dipendevano le loro giornate. Nel corso della storia il
clima ha subito mutamenti importanti, a volte epocali, modificando radicalmente
l’assetto delle terre e le condizioni di vita degli animali e dei popoli.
In mezzo a tutti questi mutamenti l’umanità, dapprima presente con pochi
individui e solo recentemente sviluppatasi in modo esponenziale, ha subito
vicende molto varie, a volte catastrofiche, legate anche alle variazioni climatiche,
cosa spesso trascurata dai libri di storia. In generale i periodi relativamente caldi
(“interglaciali”) sono stati più favorevoli di quelli freddi (“glaciali”) allo sviluppo
delle civiltà: le civiltà sono figlie delle epoche interglaciali; però le condizioni
climatiche che hanno favorito certe zone sono state avverse per altre.
Ma anche l’uomo, reagendo alle variazioni climatiche e cercando di migliorare le
proprie condizioni di vita, ha influito in modo molto sensibile sull’assetto delle terre
e delle acque, sulla distribuzione delle foreste e dei terreni coltivabili, sulla flora e
sulla fauna. In definitiva, l’uomo e la natura hanno interagito continuamente nel
corso della storia. Oggi, con la nascita della coscienza ambientale, ci siamo resi
conto che è necessario agire in modo più conservativo rispetto al recente passato,
sfruttando con parsimonia le risorse e limitando l’impatto delle nostre azioni
sull’ambiente; cosa resa difficile dal grande aumento della popolazione.
Ma se l’azione dell’uomo influisce in modo marcato sulla disponibilità di risorse e
sull’inquinamento ambientale, fino a che punto incide sugli eventi climatici? La
scienza e la tecnologia oggi ci aiutano a individuare i parametri che interagiscono
con il clima, a interpretare il passato e il presente, a cercare di prevedere il futuro.
Però comprendere a fondo i meccanismi che regolano il clima è una sfida molto
impegnativa, perché le interazioni di un grande numero di parametri sono
difficilmente esprimibili mediante sistemi di equazioni matematiche. Inoltre i valori
e le tendenze di questi parametri nel passato, che dovrebbero costituire i dati di
partenza, non sono ben noti, perché soltanto recentemente le tecniche di
rilevazione delle corrispondenti grandezze fisiche, combinate con dati di tipo
indiretto (i cosiddetti dati “proxy”), hanno incominciato a fornire risultati
attendibili. Perciò nell’elaborazione dei modelli climatici si è tentati di basarsi
soprattutto sui dati degli ultimi 100-150 anni, per i quali si hanno riscontri
abbastanza precisi ed attendibili. In questo modo si rischia di effettuare previsioni
sulla base di modelli che non tengono nel dovuto conto la precedente millenaria
storia del clima. Ma è credibile che il contributo della natura, la quale è stata il
motore dei fenomeni climatici in tutta la storia del pianeta, sia diventato irrilevante
nel giro di pochi decenni? Ed è credibile che si pretenda di poter influenzare in
modo determinante il clima con provvedimenti politici, prevedendone addirittura
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le conseguenze in modo quantitativo su periodi di parecchi decenni?
Vi sono, in realtà, molte incertezze; e gli uomini di scienza, consci del fatto che la
conoscenza è in continuo divenire, dovrebbero muoversi con cautela. I mezzi di
comunicazione e i politici, invece, tendono spesso a semplificare e ad esprimere
“certezze”, magari attribuendo le attuali variazioni del clima globale soltanto alle
conseguenze delle azioni umane.
Le incertezze dovrebbero non soltanto suggerire cautela nell’esprimere valutazioni
e interpretazioni degli eventi climatici, ma anche spingere a proseguire le ricerche,
con l’obiettivo di giungere a migliori conoscenze sugli eventi del passato, cosa che
costituisce un presupposto indispensabile per interpretare il presente e giungere
alla formulazione di previsioni per il futuro. La scienza del clima è piuttosto
recente: c’è ancora molto da studiare per comprendere appieno i fenomeni
climatici, che nel passato sono stati dominati dalle vicende del sistema solare con
le sue variazioni e le sue oscillazioni periodiche; variazioni ed oscillazioni che sono
ancora in atto e alle quali le azioni umane si sovrappongono.
E’ sensato cercare di contrastare gli andamenti del clima? Oppure è più
ragionevole pensare di affrontarne i cambiamenti, senza dimenticare che
dobbiamo comunque adoperarci per non esercitare pressione eccessiva sulle
risorse e limitare l’impatto ambientale del nostro agire? Ricordiamo che gli uomini
non sono come gli animali, i quali subiscono passivamente le vicende climatiche, le
quali causano la scomparsa di alcune specie e la nascita di altre. La nostra storia ci
insegna che l’uomo ha sempre reagito ai cambiamenti, magari con sofferenza, e ne
è uscito più forte di prima. Se il clima cambierà, come ha sempre fatto; ci
prepareremo e ci adatteremo.
Il convegno svoltosi il 28 ottobre 2015, organizzato dalla Sezione Veneto-Trentino
dell’Associazione Termotecnica Italiana, aveva l’obiettivo di illustrare le
conoscenze maturate in diversi settori disciplinari nell’ambito generale delle
vicende climatiche. Infatti le ricerche sul clima coinvolgono molti settori scientifici
e sono quindi tipicamente interdisciplinari. Pertanto sono stati invitati relatori
molto qualificati appartenenti a settori di ricerca diversi. Essi, nel breve tempo a
loro disposizione, hanno fornito un quadro sintetico delle attuali conoscenze sulla
storia del clima e delle relative incertezze, mettendo in luce come il dialogo tra
competenze scientifiche diverse possa dare un contributo significativo alla
conoscenza, che costituisce il motore del progresso scientifico ed umano.
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CAMBIAMENTI CLIMATICI E RISPOSTE SOCIALI: PER UNA STORIA
CULTURALE DEL CLIMA
Emanuela Guidoboni
Centro euro-mediterraneo di documentazione EVENTI ESTREMI E DISASTRI, Spoleto e
Bologna
Del clima degli ultimi duemila anni non abbiamo solo una storia, intesa come
insieme delle variazioni verso il caldo o verso il freddo, costruita attraverso vari tipi
di dati proxy, ma anche una storia culturale vera e propria. Con questi termini si
intende ciò che le varie società nel tempo hanno pensato del clima e dei suoi
mutamenti, ossia come le diverse culture hanno interpretato i cambiamenti
climatici. E’ una storia poco nota, ma che mette in luce le risposte umane, gli
adattamenti, le difficoltà e le opportunità innescate dalle variazioni climatiche nel
passato e che può far riflettere sul presente.
I cambiamenti climatici, come è noto dagli studi sul clima del passato, hanno una
lunga vicenda di raffreddamenti e riscaldamenti, determinanti per le forme di vita
terrestri. In epoca storica i cambiamenti sono stati i motori di vicende per
un’umanità, che da sempre vive e sopravvive in situazioni che cambiano e che ha
imparato a convivere anche con fenomeni naturali potenzialmente molto
pericolosi, come i terremoti e le eruzioni vulcaniche.
Numerose ricerche, studi e riflessioni sul clima storico, disponibili da vari decenni,
aiutano a comprendere il significato di una prospettiva di lungo periodo.
L’approccio culturale e storico al tema del clima evidenzia anche luoghi comuni
secolari, e pregiudizi che spesso si ripropongono nel tempo in vesti diverse. Uno di
questi è il mito, o se si vuole il pregiudizio, dell’equilibro con la natura. La Terra è
sempre stata “squilibrata” e i cambiamenti climatici hanno mostrato nel passato
geologico estremi assai rilevanti e hanno richiesto adattamenti anche molto forti
dell’ambiente e delle specie (Vai 2015).
Si può affermare che la storia delle civiltà si è svolta in un grande trambusto
climatico, trovando o non trovando vie d’uscita, pagando costi altissimi, come
fame, guerre, malattie; oppure entrando in periodi di benessere, quando il clima
era favorevole e le coltivazioni si espandevano in nuove terre e aprivano nuove vie
per i commerci e gli scambi.
Se prendiamo in considerazione gli ultimi duemila anni si osservano dei cicli
naturali, su cui gli storici del clima sono per lo più concordi. Farò qua solo una
rapidissima sintesi per trarre poi alcune considerazioni e mi scuso per la estrema
brevità degli accenni (per un excursus storico rimando a Guidoboni et al. 2008;
Berhinger 2013).
Si ritiene che il periodo della grande espansione romana fu un periodo caldo, a cui
seguì un raffreddamento iniziato nel periodo tardo-antico e culminato nell’alto
medioevo: il periodo compreso fra il VI e l’VIII secolo è detto anche il periodo fresco
alto-medievale. I penitenziali di quei secoli citano con disapprovazione i “maghi
tempestari”, ossia persone ritenute capaci di produrre o far cessare le tempeste e il
cattivo tempo. Costoro erano additati come residui della cultura pagana che la
Chiesa combatteva, ma ciò ci mostra una risposta culturale importante da parte
delle popolazioni della campagna: ci si chiedeva “di chi è la colpa del maltempo?”.
La risposta era di tipo magico, e additava l’uomo – non la natura– come la causa
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del peggioramento climatico.
Seguì poi una lenta transizione verso il caldo, con tutti gli alti e bassi di questi
mutamenti, per arrivare a un picco caldo attorno al Mille: è l’optimum climatico
medievale, di cui oggi i climatologi discutono da punti di vista diversi e con proxy
diversi. Faceva più caldo di oggi? Di quanto? Non lo sappiamo con certezza, ma il
caso della Groenlandia, divenuta una terra di espansione per le coltivazioni dei
Vichinghi, e dove la Chiesa istituì subito una nuova diocesi attorno all’XI secolo,
depone a favore di un innalzamento sensibile della temperatura cambiata in varie
parti del pianeta.
Queste variazioni però non favorirono o sfavorirono tutti gli abitanti della Terra
nello stesso modo, come rilevano i dati storici sul riscaldamento medievale, i cui
effetti furono molto diversi nell’Europa transalpina e nel sud del Mediterraneo.
Mentre le coltivazioni al nord d’Europa risalirono verso quote non più coltivate
dopo, come i 400 m in Scozia, grandi siccità colpirono il sud del Mediterraneo.
Testimonianze di fonti siriache del X secolo indicano gravissime carestie, perdita di
raccolti prolungate, disperazione delle popolazioni ridotte alla fame.
Poi la temperatura ridiscese: già nei primi decenni del XIII secolo si ricordano picchi
freddi eccezionali. Per esempio, gli anni 1234-35 in Italia ci furono intense ondate di
freddo, i cui effetti impressionarono i contemporanei, tanto da trovare ampio
spazio nelle fonti documentarie coeve, in particolare nelle più importanti cronache
italiane del Duecento. Dal nord al sud della nostro Paese gli effetti furono più o
meno gli stessi: gelate di fiumi e lagune (Po e Laguna veneta), morte di persone, di
animali selvatici e domestici, distruzione di raccolti (ulivi e viti) e alberi da frutto. Il
fiume Po gelò in più tratti e in modo cospicuo, tanto che il suo alveo poteva essere
attraversato con cavalli e carri carichi di mercanzie, alla pari di quelli di molti suoi
affluenti. A Reggio Emilia, nella piazza comunale, si trovarono lupi morti congelati,
mentre in Puglia a morire per il freddo e per gli stenti della fame furono migliaia di
pecore, la cui perdita inferse un duro colpo alla pastorizia, motore trainante
dell’economia locale in quel tempo.
Anche per l’agricoltura gli effetti furono distruttivi: nella Pianura Padana gelarono
vigneti, ulivi, fichi e in genere ogni sorta di alberi da frutto. Inoltre, gran parte degli
alberi della famosa pineta di Ravenna perirono. Ciò successe perché il freddo fece
morire un insetto che si cibava di un micro fungo, che divenne poi infestante. E’
curioso osservare che successe una cosa simile nell’inverno del 1985, benché in
questo caso il fenomeno di disseccamento sia stato attribuito prima
all’inquinamento industriale dell’area; poi i botanici spiegarono meglio il
fenomeno.
Il 1257 sembra essere stato un altro anno particolarmente freddo in Europa, tanto
che è stato definito da alcuni l’anno “senza estate” e descritto come una vera e
propria catastrofe planetaria. Dalle carote di ghiaccio sembra ci sia una
correlazione con qualche grande eruzione vulcanica. Questa congiuntura è ancora
oggetto di studio da parte di ricercatori storici (in particolare, Martin Bauck 2015,
che rileva tuttavia un quadro delle fonti piuttosto esile).
Il clima peggiorò decisamente nel XIV secolo. Nel 1348, forse per penuria
alimentare e sottoalimentazione diffusa, il contagio della Peste nera fu devastante
in tutta Europa. Anche il XV secolo subì alti e bassi e lentamente si avviò verso un
raffreddamento consistente, definito dai climatologi storici piccola età glaciale.
Questa fase decisamente fredda durò dal XVI alla metà del XIX secolo.
Nella seconda metà del XVI secolo sono ricordati dalle fonti inverni freddissimi in
tutta Europa, come quello del 1571, uno dei più rigidi, a cui seguirono decenni di
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maltempo, raffreddamenti intensi alternati a siccità, che culminarono nella grande
carestia del 1590, risultato di persistenti cattivi raccolti e crisi inflazionistiche
(queste ultime dovute all’immissione nei mercati europei di enormi quantità d’oro
dal nuovo mondo).
Il Cinquecento fu un secolo tormentato, prevalentemente freddo e di guerre
continue. Le popolazioni erano stremate, i poveri crebbero a dismisura, tanto che il
pauperismo fu un fenomeno che interessò quasi tutte le città europee. Masse
enormi di affamati spingevano alle porte delle città per entrare. Vari pittori europei
del Cinquecento hanno dato una testimonianza molto eloquente di quel periodo
durissimo e disperato, in cui fattori naturali e fattori sociali ed economici
determinarono un netto peggioramento delle condizioni di vita di intere
popolazioni e per vaste aree.
Non stupisce che nel Cinquecento si fosse messo in moto di nuovo una riflessione
sulle cause del peggioramento climatico: ci si chiese nuovamente: di chi è la colpa?
La cultura del tempo identificò nelle Streghe (come già nell’alto medioevo nei
maghi tempestari) persone specializzate a creare tempeste e altre dannose
condizione atmosferiche, oltre a sortilegi di ogni genere. Anche in questo caso, la
risposta culturale al peggioramento del clima accentuò gli elementi magicoreligiosi, e in questo caso anche misogini, piuttosto che gli elementi sociali ed
economici – come le guerre, le epidemie, la fluttuazione dei prezzi delle merci, e le
crisi demografiche.
Nel Seicento la fase fredda proseguì: in alcune zone delle Alpi i ghiacciai crebbero
enormemente, rendendo necessario l’abbandono di alcuni villaggi. L’abitato
umano sempre si è contratto o esteso secondo le situazioni ambientali.
Il Settecento si aprì con picchi di freddo di grande impatto: nel 1706 ci fu un inverno
terribile, che causò circa un milione di morti in Europa. Anche gli ultimi decenni del
Settecento furono caratterizzati da prevalente mal tempo, e conseguenti cattivi
raccolti. Secondo Le Roy Ladurie, alle tensioni esasperate che precedettero la
Rivoluzione francese (1789) contribuirono anche le pessime rese agricole del
quinquennio precedente, a causa del clima avverso.
Proprio nel XVIII secolo furono scritti trattati in cui si temeva la fine dei sistemi
umani dovuti a spopolamento e freddo. Emerge dal nostro passato culturale la
tendenza occidentale a estremizzare le conseguenze di fenomeni naturali lenti, ma
transitori nel lungo periodo, come il clima. All’inizio dell’Ottocento ci fu un altro
anno “senza estate”, questo ben noto e descritto dagli storici del clima e
dell’economia (Luterbacher e Pfister 2015): anche questo pur breve
raffreddamento fu il risultato di una grande esplosione vulcanica, ossia quella del
Tambora, in Indonesia, avvenuta il 10 aprile 1815. Anche se circoscritto nel tempo,
ebbe conseguenze drammatiche.
Le temperature iniziarono a risalire alcuni decenni dopo. La fase espansiva
dell’industrializzazione europea era già iniziata, ma per l’Italia si avviò solo all’inizio
del Novecento. L’espansione dell’economia industriale non fu certo dovuta al
miglioramento del clima (affermarlo sarebbe antistorico), ma a una molteplicità di
fattori sociali, economici e demografici.
All’inizio del XX secolo in Italia ci furono grandi siccità, magre straordinarie di
alcuni fiumi, che causarono un acuto problema per l’approvvigionamento
dell’acqua. All’interno del periodo di riscaldamento, ci sono ovviamente delle
oscillazioni naturali verso il freddo, che possono apparire contradditorie nel breve
periodo, ma nel lungo periodo non modificano la tendenza generale.
Dopo la seconda metà del Novecento iniziò infatti una fase che abbiamo quasi tutti
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dimenticato, benché molto vicina nel tempo: il decennio freddo del 1960-70. Le
temperature calarono sensibilmente e subito fu posto il problema del
raffreddamento globale. Il Global Cooling segnò un allarme paragonabile per alcuni
aspetti a quello attuale del Global Worming, ma non ebbe una fama planetaria,
perché la discussione rimase piuttosto circoscritta fra esperti e governi.
In quegli anni i climatologi temevano che fosse arrivata la fine del periodo
interglaciale e che iniziasse quindi una nuova glaciazione. Ancora una volta ci si
chiese: di chi è la colpa? Le cause che acceleravano il raffreddamento globale
furono individuate nell’inquinamento e nelle emissioni dei gas di scarico, che in
quegli anni erano notevolmente cresciute per l’avanzare della motorizzazione e
delle industrie che usavano energia fossile.
E’ interessante oggi ricordare che furono indicati dei rimedi per “fermare” il
raffreddamento globale, non molto diversamente da quanto si indica oggi per
“fermare” i riscaldamento globale. Ma quei rimedi rimanevano nei piani riservati
dei governi e dei militari. Ne elenco qui alcuni perché a mio parere dicono molto di
come si formino le risposte ai problemi climatici. Traggo questo breve ma
significativo elenco dallo storico Wolfang Behringer (2013), a cui dobbiamo essere
grati per lo studio che ha fatto in questo settore, per lo più ignoto al grande
pubblico. Ecco i rimedi che furono condivisi dal governo degli Stati Uniti e in parte
da quello sovietico, come proposte e progetti d’intervento:
1) per abbassare l’albedo fu proposto di stendere pellicole nere sulle calotte
terrestri;
2) si idearono piani per costruire una diga in grado di sbarrare lo stretto di Bering,
fra l’Alaska e la Siberia con lo scopo di regolare il clima mondiale. Il progetto fu
appoggiato dai governi Kennedy, Nixon e Ford, e vide favorevole anche il
presidente dell’Unione sovietica, Breznev;
3) fu presa in esame la possibilità di aumentare le emissioni di CO2 in modo da
rafforzare l’effetto serra, frenare il raffreddamento e fare salire la temperatura;
4) si discusse della possibilità di proiettare polvere di metallo nell’atmosfera, e di
far orbitare attorno alla Terra degli enormi specchi come surrogati del sole;
qualcuno propose anche di far orbitare attorno alla Terra un anello di polvere di
potassio.
Anche i militari non furono da meno e proposero varie e brillanti soluzioni: far
esplodere bombe atomiche sottomarine per distruggere delle montagne
sottomarine al fine di modificare le correnti oceaniche; riscaldare la Groenlandia
con appositi reattori nucleari o, in alternativa, sciogliere i ghiacci del Polo con
bombe all’idrogeno.
Come osserva Behringer, ci sembrano progetti più del dottor Stranamore che di
governi e scienziati. Solo alla fine del decennio ’70 del Novecento i climatologi
furono d’accordo nel ritenere che l’atmosfera si stava invece riscaldando. I diversi
rapporti dell’IPCC, iniziati nel 1990, mostrano questa prima fase, che fu poi
suffragata da alcuni decenni più caldi del solito, e mostrano anche la progressiva
radicalizzazione sul riscaldamento globale. Non entro qui nel merito dei dati
scientifici, in cui il contrasto fra sostenitori e oppositori del riscaldamento globale
(oggi sbrigativamente indicati come “apocalittici” e “scettici”) può rilevare la
complessità del tema, né mi inoltro ad illustrare gli interessi politici ed economici in
gioco, che delineano una nuova geopolitica. Mi limito a riflettere sul senso degli
allarmismi per le cause antropiche del riscaldamento, e su come si riverberano nei
mass-media e nella percezione diffusa.
E’ indiscutibile che interventi speculativi di deforestazione, l’estensione
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indiscriminata delle monocolture, la crescita demografica, le politiche di
accaparramento delle risorse idriche in vaste aree del pianeta (che hanno
comportato anche la deviazioni di grandi fiumi) peggioreranno sempre più la
qualità della vita delle popolazioni coinvolte, accelerando o causando disastri
ambientali. Questo è un problema molto serio, che chiama in causa i modelli
economici di sviluppo attuali e del prossimo futuro, la conoscenza degli ecosistemi
naturali e del loro uso, le connessioni fra ambiente, politica e attività economiche e
tecnologiche. E’ un grande tema, che interpella anche gli aspetti culturali e di
mentalità riguardo a cosa si intende per “natura”.
Diversi autori ritengono che le trasformazioni ambientali dell’ultimo milione di
anni siano state determinate da cause naturali e che solo in questa nostra epoca si
stia invertendo questo rapporto, per cui le trasformazioni indotte dalle attività
antropiche sarebbero il motore di nuovi e irreversibili cambiamenti, in ultima analisi
la causa del riscaldamento globale. Ma questa tesi, che pone al centro l’uomo,
affermando quindi un antropocentrismo totale, non è priva di incertezze persino
nei dati di base, come è stato fatto notare anche da alcuni interventi che mi hanno
preceduta.
Occorrerebbe quindi chiarire bene e distinguere i diversi fattori del riscaldamento,
antropici e naturali. E ciò, a mio parere, sarebbe auspicabile attraverso seri
contributi multidisciplinari (gli storici, per esempio, sono scarsamente presenti nel
dibattito attuale e la storiografia italiana segna un grave ritardo). Ma penso anche
che occorra l’umiltà intellettuale di sentirsi parte di una “natura”, o per meglio dire,
di un sistema globale terrestre e solare, di cui non si conosce tutto il
funzionamento. Ciò non esclude che sia sacrosanto battersi per migliorare la
qualità della vita, dell’aria che respiriamo nelle nostre città, del modo di produrre.
Il tema dei cambiamenti climatici è sterminato se la scala è globale e se si assume
la prospettiva di lungo periodo, ma ogni considerazione, per essere compresa,
andrebbe ricondotta a un contesto specifico. La Terra è percepita nella nostra
contemporaneità più piccola rispetto a quanto era sembrata alle società del
passato, e anche molto più comunicante e controllabile, grazie alla tecnologia e ai
mezzi di informazione. Ma questo, invece di indurre una maggiore
sensibilizzazione ai problemi della conoscenza e di mettere in gioco più saperi, ha
accentuato l’aspetto antropocentrico dell’interpretazione del riscaldamento
globale: è stato fatto, a mio parere, in modo piuttosto dogmatico e con un’enfasi
sconosciuta ad altri potenziali disastri, pur di grande impatto sociale ed
economico.
Se una riflessione finale può essere posta, tenendo conto anche dei dati e delle
indicazioni emersi in questo incontro, è quella riguardante nel suo complesso la
previsione. Forse dovremmo divenire più consapevoli che la previsione in genere, e
quindi anche quella climatica, ha notevoli difficoltà, perché i risultati dipendono
dalle aspettative e dagli schemi di chi compie la previsione, nonché dalle variabili e
dai dati che sono inseriti nei processi di calcolo di un modello. Benché questo limite
dovrebbe suggerire una grande cautela, siamo invece di fronte alla divulgazione di
dogmatismi o di esasperati scontri, quasi ideologici.
Non va sottaciuto poi che mai prima d’ora i finanziamenti per un solo settore di
ricerca sono stati così sbilanciati a scapito di altri settori, che studiano eventi
estremi che mettono in gioco in modo molto più prevedibile la vita delle
popolazioni: mi riferisco sia ai disastri di origine naturale – come i terremoti, le
eruzioni vulcaniche, i maremoti, le grandi alluvioni – sia a quelli antropici. Riguardo
solo ai terremoti, vorrei ricordare che in Italia avviene in media un disastro sismico
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ogni 4-5 anni e che la spesa media annuale che grava sui cittadini per tali danni
supera i 4.5 miliardi di euro (Guidoboni e Valensise 2014) e ciò perché non si fa
nulla per prevenire le distruzioni.
Riguardo poi ai disastri di origine solo antropica, incombono rischi altissimi per
pandemie, guerre, estese migrazioni. Per entrambe queste tipologie di disastri ci
sono scenari inquietanti, non generiche previsioni, e precise responsabilità di chi
amministra e governa: eppure per questi tipi di disastri la mobilitazione
informativa ed economica non è minimamente paragonabile a quella che è stata
fatta e si fa per il riscaldamento globale.
Il cambiamento climatico ha una storia molto lunga, in cui l’uomo non è l’attore
principale al centro della scena (come dimostrano i geologi e gli storici del clima).
Ma questo non è forse un equivoco culturale che si ripete nella storia
dell’Occidente?
Autori citati
Bauch M. (2015) Anni senza estate alla metà del Duecento? Un contributo
medievistico per la storia del clima, lezione-conferenza tenuta all’Institutum
Romanum Finlandiae il 16 nov. 2015, in corso di stampa.
Behringer W. ( 2013) Storia culturale del Clima. Dall’era glaciale al riscaldamento
globale, Bollati Boringhieri.
Guidoboni E., A.Navarra e E.Boschi (2008) Nella spirale del Clima. Culture e società
mediterranee di fronte ai cambiamenti climatici, BUP -Bononia University Press.
Guidoboni E. e Valensise G. (a cura di ) (2014) L’Italia dei disastri. Dati e riflessioni
sugli impatti degli eventi naturali (1861–2013), BUP.
Luterbacher J. e Pfister C. (2015) The year without a summer, Nature Geoscience,
vol. 8, April 2015, pp. 246-250.
Vai G. (2015) Tempo umano e tempo geologico: i cambiamenti climatici sono un capro
espiatorio? in “Prevedibile /Imprevedibile. Eventi estremi nel prossimo futuro” a
cura di E.Guidoboni, F.Mulargia e V.Teti, Rubbettino, pp. 31-52.
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IL RUOLO DELL’OCEANO NEI CAMBIAMENTI CLIMATICI
Vincenzo Artale
ENEA C.R. Frascati, Roma
Introduzione
Il sistema climatico fu definito, in un documento prodotto dal Global Atmospheric
Research Programme (GARP) del World Meteorological Organization nel 1975,
come “ un sistema composto da: atmosfera, idrosfera, criosfera, litosfera e
biosfera”; successivamente, nel 1992, la Framework Convention on Climate
Change delle Nazioni Unite (FCCC) definisce il sistema climatico come “l’insieme
dell’atmosfera, dell’idrosfera, della biosfera e della geosfera, e le interazioni tra di
esse”.
Queste due definizioni sono simili, ma l’enfasi attribuita alle “interazioni”, sia nella
definizione che nella letteratura, è cresciuta molto negli ultimi trenta anni e, nella
rappresentazione schematica delle componenti del sistema climatico che gli
scienziati del clima devono considerare, ciò che viene enfatizzato sono proprio le
interazioni non lineari tra componenti del sistema climatico e i processi che li
guidano, piuttosto che le scale di spazio e di tempo da esplorare. Quindi per
affrontare il problema dei cambiamenti climatici è necessario essere pienamente
consapevoli che si tratta di un “problema di fisica molto complicato”; per quanto
possa sembrare paradossale, oggi abbiamo una migliore comprensione del nucleo
atomico che non di un centimetro cubo di atmosfera turbolenta.
Il sistema climatico non è, pertanto, un sistema deterministico ma, al contrario, è
un sistema caotico e fortemente dipendente dalle condizioni iniziali: è sufficiente
anche una piccola incertezza o lieve perturbazione alle condizioni di partenza per
far sì che il comportamento del sistema climatico tenda a divergere in modo
irregolare, secondo quello che il famoso meteorologo Lorenz definì “effetto a
farfalla”. La profonda alterazione dell’attuale stabilità del sistema climatico non
passa necessariamente attraverso ampie perturbazioni, ma anche disturbi di
relativa lieve entità hanno la potenzialità di raggiungere i “punti deboli” (tipping
points) del sistema e, pertanto, incidere direttamente nella sua complessa
dinamica; e come vedremo l’oceano rappresenta pienamente tale complessità.
L’oceano globale
E' noto come il sistema climatico terrestre sia costituito, oltre che dal sole che gli
fornisce l'energia, dall'atmosfera, dall'oceano, dalla criosfera (i ghiacci) e dalla
biosfera (il mondo vivente). Il clima terrestre è determinato dagli scambi
termodinamici interni e dagli scambi di acqua all'interno di questi settori.
L'atmosfera e l'oceano sono i principali responsabili del trasporto e della
distribuzione del calore sulla terra. Si stima che il trasporto di calore dalle regioni
tropicali verso i poli si distribuisca in parti uguali tra l'oceano e l'atmosfera. Per
esempio nell'Oceano Atlantico il calore immagazzinato negli strati superficiali
delle zone tropicali è trasportato verso nord attraverso grandi correnti oceaniche
(e.g. la Corrente del Golfo), il cui principale effetto è di mitigare il clima dell'Europa
Occidentale. Queste correnti durante il loro percorso verso nord non cessano mai
d’interagire con l'atmosfera, attraverso scambi di massa e di calore. Lo stesso
fenomeno si produce nell'Oceano Pacifico, ma con un trasporto di calore sud-nord
meno efficiente; il calore arriva a latitudini minori, tanto da produrre in media una
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differenza di circa quattro gradi in meno rispetto alla regione più settentrionale del
Nord Atlantico. I processi d’interazione tra l’oceano e l’atmosfera sono
estremamente complessi. In media l’atmosfera fornisce all’oceano il 43% della sua
energia interna; il resto proviene direttamente dal sole (35%) e dagli scambi con i
continenti (22%). In seguito, il calore assorbito dall’oceano è acquisito e
ridistribuito orizzontalmente e verticalmente all'interno delle masse d'acque
oceaniche ed infine restituito all'atmosfera. I tempi di risposta del sistema
oceanico sono circa due ordini di grandezza maggiori di quelli atmosferici. La
corrente del Golfo, sempre attraverso misure sperimentali, che purtroppo sono
state eseguite in modo sistematico solo negli ultimi cinquanta anni, ha mostrato
una notevole variabilità dal 1950 in poi; parte di questa variabilità si può spiegare
con la variabilità e l’avvezione dei “gyres” (vortici oceanici) subtropicali. Alcuni
suggeriscono che questa variabilità può essere associata alla variabilità climatica in
generale, ed un indicatore climatico molto potente, specialmente per l’area del
Nord Atlantico, ma funziona bene anche per il Mediterraneo, è il NAO. Il NAO è
definito semplicemente come la differenza di pressione tra Stykkishohnur (Islanda)
e Ponta Delgata (Isole Azzorre); il suo funzionamento è un po’ simile a quello di
un’altalena, dove all’estremo nord e sud ci sono le anomalie di pressione del nord
atlantico e dell’atlantico sub-tropicale rispettivamente, le cui differenze generano
il moto alterno dell’altalena, o parallelamente i relativi moti atmosferici. L’indice
corrispondente varia di anno in anno, ma mostra anche delle tendenze a rimanere
in una stessa fase prevalente anche per lunghi periodi: quando sta in una fase
negativa (alta pressione al nord) le perturbazioni atmosferiche portano molta più
aria umida nel Mediterraneo ed aria fredda nel nord Europa; invece durante la fase
positiva (come quella dell’anno 2006/7) si ha un inverno caldo ed umido in Europa e
freddo e secco in Canada e Groenlandia. Tuttavia, il NAO, ossia la variabilità
naturale, non spiega tutto; per esempio non ci spiega perché la corrente del Golfo
si sta indebolendo. Si sa che il Nord Atlantico riceve energia termica equivalente a
circa un Pwatt (1015 watt): questa enorme quantità di calore non è trasportata solo
dalle correnti indotte dallo stress del vento sulla superficie marina, ma soprattutto
dalle correnti indotte dalla cosiddetta circolazione termoalina, la quale s’instaura in
virtù delle differenze di temperatura e salinità (e quindi di densità) tra le diverse
masse oceaniche. E’ importante considerare che l'intensità della circolazione
termoalina, e proporzionalmente anche la quantità di calore trasportato, dipende
da piccole differenze di densità, le quali dipendono a loro volta da un delicato
equilibrio nel Nord Atlantico tra raffreddamento alle alte latitudini e l’apporto
d’acqua dolce (meno densa) dovuta a pioggia, neve e fiumi. Un maggior apporto
d’acqua dolce riduce l'intensità della circolazione termoalina ma non in modo
lineare. Infatti all'inizio il meccanismo convettivo continua ad essere attivo e la
circolazione relativa continua a rimuovere l'acqua meno salata superficiale ed a
sostituirla con quella più salata proveniente da sud. Tuttavia questo meccanismo
ha dei punti critici (tipping points), sorpassati i quali la circolazione termoalina
incomincia ad oscillare tra diversi stati d'equilibrio, tra cui è compreso quello
compatibile con un suo eventuale blocco. Il riscaldamento superficiale che si sta
osservando negli ultimi venti anni causa lo scioglimento dei ghiacci, non solo quelli
marini del Polo Nord, ma anche terrestri, in particolare quelli della Groenlandia, e
ha un effetto simile.
L’immissione di acqua dolce proveniente dallo scioglimento dei ghiacciai
comporterà, infatti, un indebolimento dei complessi meccanismi che sono alla
base del trasporto di calore dall’Equatore alle alte latitudini (50-60N), attualmente
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solo accennati come si desume dalla letteratura scientifica recente. In particolare,
è possibile che questa immissione di acqua dolce condizioni fortemente i processi
di convezione nel Labrador Sea e nei mari della Groenlandia e dell’Islanda, che si
possono considerare come il “volano” dell’intera circolazione oceanica. A tale
proposito vale la pena di ricordare che, nel lungo periodo, tra i vari comparti del
sistema climatico, l’oceano è quello più decisivo per definire il tipo di clima che si
instaura. Non a caso Brocker, in un suo famoso articolo sulla rivista Science, definì
l’insieme di questi processi il “tallone d’Achille” del sistema climatico terrestre e,
all’interno di questa problematica, anche il nostro piccolo mar Mediterraneo gioca
un ruolo “positivo” di contrasto in quanto, tramite lo Stretto di Gibilterra, immette
alla profondità di circa 1000 metri un’acqua dolce e salata che contrasta l’effetto di
indebolimento della circolazione termoalina dovuto allo scioglimento dei ghiacci
polari (Artale et al., 2006) 1 .
Se la circolazione termoalina si bloccasse completamente, nelle aree del Nord
Atlantico la temperatura si abbasserebbe di più di 10°C. Cosa che, infatti, è già
successa nel passato, come si può constatare dalle analisi sui sedimenti oceanici e
dalle carote di ghiaccio in Groenlandia, dalle quali si è evidenziato che la
circolazione termoalina si è interrotta bruscamente diverse volte a causa di flussi
anomali d’acqua dolce, provocando dei lunghi periodi freddi, in Europa Nord
Occidentale, per centinaia d’anni (Heinrich events). L’ultimo di questi eventi è
accaduto circa 12000 anni fa. Lo studio di questi eventi, pur non fornendo alcuna
indicazione certa sul clima futuro, è importante perché ci dà la consapevolezza che
eventi catastrofici nella circolazione oceanica con fortissimi impatti sulla variabilità
climatica globale possono avvenire indipendentemente da fattori antropici, ossia
possono essere considerati come delle instabilità insite al sistema accoppiato
oceano-atmosfera. Tuttavia il riscaldamento globale, dovuto per esempio ai gas–
serra, può contribuire ad aumentare sia la temperatura superficiale dell'oceano che
la piovosità alle alte latitudini ed entrambi i fattori danno un contributo negativo
sulla densità superficiale riducendo così il motore della circolazione termoalina
(Bindoff et al., 2007) 2.
Il Mar Mediterraneo
Il Mar Mediterraneo, nonostante abbia dimensioni trascurabili in confronto ai
grandi oceani, è un bacino in cui avvengono, a scala più piccola, una varietà di
processi ed interazioni atmosfera-oceano tipiche dei grandi oceani. Il Mediterraneo
consuma per evaporazione più acqua di quella che riceve dalla pioggia e dai fiumi;
in media il deficit è di circa un metro l’anno, e quindi il generoso Atlantico tramite
lo stretto di Gibilterra fornisce ciò di cui il bacino ha bisogno.
Analizzando nel dettaglio la temperatura superficiale dell’oceano globale dal 1854
ad oggi ottenuta dall’analisi di dati in situ si evince un aumento continuo della
temperatura media con sovrapposte delle deboli oscillazioni. In particolare, la
prima fase di aumento della temperatura (1910-1935) sarebbe dovuta ad un
aumento della costante solare e alla diminuzione dell’attività vulcanica mentre la
1
Artale V., and Coauthors, 2006: The Atlantic and Mediterranean Sea as connected systems. Mediterranean Climate variability,P.
Lionello, P.Malanotte-Rizzoli, and R.Boscolo,Eds., Elsevier,283–323.
2
Bindoff, N., J. Willebrand, V. Artale, A. Cazenave, J. Gregory, S. Gulev, K. Hanawa, C. Le Quere, S. Levitus, Y.
Nojiri, C. K. Shum, L. Talley, and A. Unnikrishnan, 2007: Observations: oceanic climate change and sea level.
Climate Change 2007: The Scientific Basis. Contribution of Working Group I to the Fourth Assessment Report of
the Intergovernmental Panel on Climate Change, Solomon, S., Ed., Cambridge Univ. Press, New York, 2007.
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seconda fase, a partire dal 1970-1975, non sarebbe giustificata se non inserendo nel
bilancio termico il riscaldamento dovuto all’accumulo di gas serra, almeno secondo
i risultati di simulazioni numeriche. Invece nel caso del Mar Mediterraneo le
oscillazioni multi-decennali sono molte vistose: l’andamento della temperatura
sembra risentire della sovrapposizione di un’oscillazione, la cui ampiezza delle
anomalie di temperatura è pari a 0.3-0.6°C e con un periodo temporale di circa 6070 anni (analogo a quello dell’AMO, Atlantic Multidecadal Oscillation); tuttavia è
molto evidente, a partire dall’inizio del XX secolo (minimo del 1910), una tendenza
al riscaldamento con un aumento della temperatura di quasi 1.0°C e con una
accelerazione del riscaldamento negli ultimi vent’anni e questo coincide con
quanto osservato a livello globale. In particolare, dopo l’ultimo minimo di
temperatura della metà degli anni ’70, la temperatura è aumentata con un tasso
pari a 0.026±0.005°C/anno. Infine, il raffreddamento della SST del Mediterraneo
osservato tra il 1965 ed il 1975 appare associato ad una fase di aumento dell’indice
NAO (vedi paragrafo sopra per maggiori dettagli), ovvero NAO e SST sono
anticorrelati.
Se la temperatura superficiale, recando la ‘firma’ quasi istantanea delle interazioni
con l’atmosfera, è per sua natura soggetta ad una grande variabilità, l’analisi della
variabilità del contenuto di calore e di sale nell’intero volume della massa d’acqua
fornisce sicuramente un indice climatico più adatto a monitorare eventuali
variazioni su tempi lunghi. Possiamo definire l’andamento spaziale e temporale di
questo indice come uno dei segnali più robusti ai fini climatici.
In un recente lavoro il dataset MEDAR è stato analizzato per ricostruire la
variabilità dei campi di temperatura e salinità nel Mediterraneo dal 1950 al 2000.
L’analisi è stata effettuata suddividendo l’intero bacino in tre strati definiti da
quote fisse: 0-150 m, 150-600 m e 600 m fondo. Tale studio mostra che i primi due
strati mostrano un alternarsi di fasi di riscaldamento/raffreddamento e
salinificazione/desalinificazione. Il quadro generale che ne consegue mostra che
nel corso del XX secolo le acque intermedie e profonde nel Mediterraneo
Occidentale, hanno subito un riscaldamento ed aumento della salinità che può
essere diviso in tre diverse fasi. Infatti, l’iniziale tasso di crescita osservato nei primi
anni del secolo subisce un incremento intorno al 1960 passando da circa 0.5 10-3
°C/anno a 2-4 10-3 °C/anno per la temperatura e da circa 0.5 10-3 psu/anno a 1-2 10-3
psu/anno per la salinità. Parallelamente, il tasso di crescita di T e S per le acque
intermedie risulta essere comparabile e leggermente superiore. Dopo il 1990 tali
tassi di crescita aumentano di più di un ordine di grandezza e le acque profonde nel
Mar Tirreno e nel Mar Ligure mostrano un aumento della temperatura e della
salinità pari a qualche centesimo di grado e psu per anno. Tale improvviso
aumento è dovuto alla produzione di acque di fondo provenienti dal Mar Egeo
invece che dal Mar Adriatico, così come è avvenuto normalmente almeno negli
ultimi 50 anni, con caratteristiche fisiche completamente diverse, quindi i
cambiamenti climatici legati all’apporto umano non dovrebbero aver dato alcun
contributo
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CAUSE NATURALI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO A LIVELLO GLOBALE
Chiara Bertolin1
1 Associate
Professor at Norwegian University of Science and Technology (NTNU) –
Department of Architectural Design, History and Technology.Trondheim, Norway
Concetti come global warming (o riscaldamento globale), variabilità climatica,
meccanismi di feedback climatico (o retroazioni climatiche) sono entrati a far parte
del nostro vocabolario quotidiano ma spesso le nozioni vengono usate in modo
ripetitivo senza capirne a fondo il significato. Lo scopo dell’intervento: “cause
naturali del cambiamento climatico a livello globale” è stato quello di introdurre, in
modo semplice, alcuni dei concetti chiave utili alla comprensione del sistema
climatico e di fare chiarezza su concetti di base che spesso sentiamo citati.
Qual è la differenza tra il concetto di variabilità climatica e meteorologica? Cos’ è
un “cambiamento climatico” e come si manifesta? Quali sono le principali
componenti del sistema climatico e come interagiscono tra loro attraverso
meccanismi di feedback? Quali driving factors (o forzanti) “guidano” i cambiamenti
Climatici? Come si possono distinguere le forzanti interne da quelle esterne al
sistema?
Andiamo per ordine; spesso si sente parlare di variabilità meteorologica e
climatica, ma qual è la differenza? Il TEMPO METEOROLOGICO riflette le
condizioni a breve termine dell’atmosfera mentre il CLIMA definisce le condizioni
medie (e la variabilità) del tempo meteorologico giornaliero su un periodo di
tempo più esteso e/o su una certa area geografica. Con una visione “pratica” si può
pensare che Il clima ti dice che vestiti comprare (a seconda della stagione), ma il
tempo meteorologico ti dice quali vestiti indossare in quel preciso momento a
causa delle condizioni di temperatura e/o alla presenza o meno di precipitazioni.
Quindi è chiaro che con il termine CLIMA si indica l’insieme delle proprietà che
caratterizzano il tempo meteorologico di una regione geografica. Alcune di queste
proprietà descrivono ad esempio come varia la temperatura nel corso delle
stagioni, la quantità e la distribuzione (sia temporale che spaziale) delle
precipitazioni, il regime dei venti, etc. Ma anche eventi estremi come la frequenza
della siccità, delle grandinate anomale o delle trombe d’aria. Tutte queste
caratteristiche influenzano la vita biologica e quindi sono fondamentali nel
determinare il tipo di flora e fauna che si possono trovare in una determinata
regione (IPCC WGI AR5. 2013). Molti dei fenomeni che nel loro insieme definiscono
il clima si verificano come parte di sistemi organizzati su larga scala.
Se si sente parlare di CAMBIAMENTO CLIMATICO, si sta parlando quindi di
cambiamenti del tempo meteorologico giornaliero su lungo periodo.
In una determinata area geografica, il tempo meteorologico può variare di minuto
in minuto, ora in ora, giorno in giorno e stagione in stagione. Il clima tuttavia è la
media del tempo meteorologico su un più ampio intervallo temporale e/o su una
più ampia area spaziale.
Il clima, in una scala temporale, può definire una variabilità inter-annuale fino ad
una variabilità che può ricoprire un arco temporale paragonabile al tempo di vita
del nostro pianeta. Su una scala spaziale, il clima può variare da un versante
all'altro nelle valli di montagna fino a variazioni su scala continentale. Tali
cambiamenti possono riguardare variazioni nelle variabili climatiche (ad es.
temperatura, quantità di precipitazione) in termini della loro quantità media e/o
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variabilità e/o frequenza di eventi estremi.
Una delle chiavi utili a comprendere come il clima stia mutando, e così anche la
meteorologia locale, è l’analisi delle medie e delle varianze delle variabili
meteorologiche e/o degli eventi meteo cosiddetti “intensi” (ad esempio
inondazioni, onde di calore, siccità, trombe d’aria,..). In Figura 1 è ben spiegato il
concetto della “manifestazione” del cambiamento climatico in termini di evento
meteorologico ed in particolare del suo effetto sulla modificazione della frequenza
di eventi cosiddetti estremi.
Figura 1: Esempio di Cambiamento Climatico riguardante la temperatura. Esso si
puo’ manifestare in termini di aumento dei valori medi di temperatura (a); di
aumento nella varianza (o variabilitá del fenomeno) delle temperature registrate
(b) o in termini di aumento sia della media che della varianza (c).
Quando un EVENTO METEO può definirsi ESTREMO? I termini evento intenso ed
evento estremo non sono affatto sinonimi, ma nascondono una fondamentale
differenza: un evento meteo intenso è un qualsiasi fenomeno atmosferico che
mette a rischio vite umane, mentre un evento meteo estremo è sì intenso quanto
raro, in base alla statistica che descrive la probabilità che possa accadere in un
determinato luogo. Un evento estremo si definisce come un record di temperature
elevate o di quantità di precipitazioni.
Come si può vedere dai concetti espressi in Figura 1, il cambiamento climatico sta
variando la statistica degli eventi estremi e la tendenza sembra portare verso un
aumento della loro frequenza e/o intensità. Naturalmente il cambiamento
climatico può “affliggere” in maniera diversa le diverse variabili meteorologiche; ad
esempio ci si può aspettare un aumento, in termini di frequenza di inverni miti, ma
al contempo ci si può attendere una diminuzione in frequenza di precipitazioni
abbondanti nello stesso periodo temporale. La valutazione dell’effetto del
cambiamento climatico in termini di occorrenza di eventi estremi dipende quindi
dalla variabile che si sta prendendo in esame. L’effetto visibile può essere al
contempo di eventi più o meno frequenti e/o più o meno intensi.
Procedendo con l’excursus nei concetti cardine per comprendere il sistema clima,
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ci si chiede: Quali sono le Componenti del sistema climatico?
Il SISTEMA CLIMATICO rappresenta tutte le componenti che contribuiscono al
clima. Esso è un sistema dinamico altamente complesso. Un approccio per
comprendere, analizzare e modellizzare il clima come sistema è quello di dividerlo
in componenti di più facile comprensione. Uno schema di questa semplificazione è
dato in Figura 2.
Il sistema evolve a causa delle proprie dinamiche interne e a causa di cambiamenti
in fattori esterni. Si hanno interazioni e cambiamenti tra tutte le componenti sia
interne ed esterne al sistema.
Figura 2: Componenti del sistema climatico
Al suo interno il sistema climatico è composto da componenti quali:
- l' atmosfera che rappresenta l'insieme dei gas che circondano la terra, le cui
molecole sono trattenute dalla forza di gravità del corpo stesso,
- l'idrosfera che è costituita dall'insieme delle acque presenti nel sottosuolo e
nella superficie del pianeta,
- la criosfera che è la porzione di superficie terrestre coperta dall'acqua allo stato
solido e che comprende le coperture ghiacciate di mari, laghi e fiumi, le
coperture nevose, i ghiacciai, le calotte polari ed il suolo ghiacciato in modo
temporaneo o perenne (permafrost),
- la litosfera (cioè parte rigida esterna del pianeta Terra) e
- la biosfera, definita in biologia come l'insieme delle zone della Terra in cui le
condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita, e le interazioni tra esse.
Processi e dinamiche interne sono ad esempio circolazioni atmosferiche e
oceaniche e meccanismi interni di feedback.
Variazioni in fattori esterni sono principalmente di tipo naturale dovuti a:
- Processi tettonici, cambi nella distribuzione di terra ed oceani, caratteristiche
geografiche terrestri, la topografia del fondo degli oceani, temperature degli
oceani e correnti oceaniche.
- Cambi nella composizione di base dell’atmosfera e degli oceani a causa delle
attività naturali, ad esempio eruzioni vulcaniche che arricchiscono l’atmosfera
di polveri e di gas. Le eruzioni esplosive più importanti possono portare ad un
temporaneo raffreddamento in zone del pianeta anche distanti dal luogo
dell’eruzione vulcanica.
- Cambi nella composizione dell’atmosfera dovuti all’azione antropica, (quindi
forzanti di tipo antropico) dovuti ad esempio a: urbanizzazione, deforestazione,
agricoltura intensiva, industrializzazione ed utilizzo delle risorse come
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combustione di combustibili fossili. Nel periodo recente si è appurato come
l’origine antropica dell’inquinamento atmosferico possa modificare la
composizione stessa dell’atmosfera. Ad esempio, l’aumento della
concentrazione atmosferica dei gas-serra porta ad un generale riscaldamento a
livello planetario. Anche le particelle emesse (aerosoli o aerosols)
contribuiscono a questo bilancio radiativo.
- Le attività umane possono inoltre modificare le caratteristiche del territorio in
termini di albedo (cioè del potere riflettente di una superficie) ad esempio
distruggendo foreste (attraverso la deforestazione si ha quindi una
modificazione nella vegetazione e quindi nell’albedo del suolo), creando laghi
artificiali, facendo spazio a pascoli e campi coltivati, o a piste da sci, dove un
tempo c’erano foreste. Queste azioni possono portare a cambiamenti nel
sistema climatico globale o locale.
- cambi orbitali terrestri nella geometria terra-sole
- cambi nell’intensità dell’attività solare, variazioni di radiazione solare (in
particolare dipendente dalla latitudine) entrante l’atmosfera, cambi naturali di
insolazione
La risposta dell’intero “sistema climatico” dipende dalle forzanti, dalle
caratteristiche delle diverse sfere o componenti, dai cicli e meccanismi di
retroazione o feedback. La Comprensione del sistema climatico come si può quindi
immaginare è assai complessa e richiede l'interazione di molte discipline
scientifiche diverse e di diversi approcci.
Ma qual è il ‘motore’ di questo sistema climatico? Il motore è il sole.
Tuttavia, non tutta la radiazione solare che entra nell’atmosfera partecipa alla
dinamica del clima. Una parte di questa radiazione viene riflessa. La riflessione
(albedo) dipende dalle caratteristiche locali della superficie terrestre: i ghiacci e la
neve fresca sono molto riflettenti, mentre la vegetazione o il mare lo sono poco.
La rimanente radiazione è assorbita dall’atmosfera terrestre e riscalda la terra.
Tuttavia i meccanismi non sono così semplici poiché vi sono altri contributi:
la superficie terrestre irradia verso lo spazio energia in forma di radiazione
infrarossa (IR) (al di fuori dello spettro visibile); le nubi contribuiscono ad
aumentare sia la radiazione solare che viene riflessa nello spazio, sia la radiazione
terrestre emessa nell’IR che viene trattenuta in atmosfera anche dai cosiddetti gas
serra, (biossido di carbonio, metano, fluorocarburi, …), che definiremo più avanti
nel testo, che, intrappolando la radiazione IR emessa, riscaldano gli strati
atmosferici più bassi e la superficie stessa.
Come appare quindi la distribuzione spaziale della RADIAZIONE SOLARE NETTA
sulla superficie terrestre? Dai meccanismi sopra descritti si capisce come la
radiazione solare netta assorbita dalla terra alla cima dell’atmosfera (misurata in W
m-2) sia anti correlata all’albedo, risultando maggiore ai tropici per via del basso
angolo zenitale solare e della maggior presenza degli oceani, e minore ad alte
latitudini a causa della bassa insolazione, del grande angolo zenitale solare, della
maggior presenza di nubi e ghiaccio. All’opposto la radiazione IR emessa dalla
terra alla cima dell’atmosfera (sempre misurata in W m-2) è funzione della
superficie terrestre (i.e. minimi valori ai poli, massimi valori sopra zone calde e
secche come i deserti subtropicali) con aree equatoriali umide che emettono meno
radiazione delle aree secche tropicali.
Conseguentemente il bilancio netto illustrato in Figura 3 mostra i valori annuali
della radiazione netta a lunghezze d’onda corte (colore blu) e lunghe (colore rosso)
dal polo sud al polo nord. Si vede che queste aree non hanno lo stesso valore. Da 0Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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35° di latitudine Nord e Sud, la radiazione solare entrante in atmosfera supera la
radiazione uscente (i.e. la radiazione emessa dalla terra a lunghezze d’onda IR).
Esiste quindi in queste zone un surplus di energia. Il contrario è invece vero a
latitudini comprese tra 35-90° N ed S dove si osserva un deficit in energia.
Nell’insieme, il surplus di energia a basse latitudini ed il deficit di energia ad alte
latitudini, risulta in un trasporto di energia dall’equatore verso i poli. Il trasporto di
energia avviene lungo i meridiani ed innesca la circolazione atmosferica e
oceanica. Se questo trasporto non esistesse, i poli sarebbero 25°C più freddi, e
l’equatore 14°C più caldo e la vita sul nostro pianeta non sarebbe possibile.
Figura 3: Distribuzione spaziale della radiazione solare netta sulla superficie
terrestre misurata in W*m-2. In rosso valori positivi di surplus di energia
all`equatore ed ai tropici; in blu, valori negativi con deficit di energia ai poli.
Le circolazioni atmosferiche ed oceaniche (processi di trasporto all’interno del
sistema climatico) trasportano energia verso i poli e la distribuiscono attorno alla
terra; esse agiscono quindi per compensare il surplus di radiazione netta presente
nelle regioni equatoriali e tropicali ed il deficit nelle regioni polari, (Figura 3)
riducendo in questo modo il gradiente di temperatura tra equatore e polo.
Quali sono i meccanismi attraverso i quali si realizza il TRASPORTO
ATMOSFERICO?
I meccanismi della circolazione atmosferica differiscono a latitudini tropicali ed
extratropicali (Walker, G. 2009). Ai tropici, la maggioranza del trasporto di calore
atmosferico verso i poli è dato dalla circolazione di Hadley (vedi Figura 4),
tipicamente convettiva che genera:
Moto ascendente vicino all’equatore
a 10 km di altezza dal suolo, vicino alla tropopausa, moto verso i poli
Moto discendente nella zona subtropicale e
Flusso che ritorna verso l’equatore vicino alla superficie terrestre
All’opposto, a latitudini maggiori, il trasporto di energia è svolto da cicloni e
anticicloni che fanno in modo che l’aria relativamente calda si muova verso i poli e
l’aria fredda si muova verso l’equatore (Figura 4).
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Figura 4: Schema della circolazione atmosferica con i meccanismi di trasporto dati dalla
circolazione di Hadley (ai tropici) ed i meccanismi svolti da cicloni ed anticicloni nelle zone a
latitudini maggiori.
L’altro grande processo globale di trasporto di energia e materia all’interno del
sistema climatico è svolto dalla CIRCOLAZIONE OCEANICA. Le correnti oceaniche
superficiali (calde che si muovono verso i poli) sono guidate da:
 venti con schemi determinati dalla direzione del vento,
 Forza di Coriolis
 posizione dei continenti
Le correnti superficiali guidate dai venti (come la Corrente del Golfo) viaggiano
verso i poli dall’oceano atlantico equatoriale, raffreddandosi lungo la strada ed
infine “affondando” verso latitudini maggiori andando a formare così l’acqua
profonda Nord Atlantica (cioè la North Atlantic Deep Water). L'acqua sprofonda, a
queste latitudini, sia per la bassa temperatura, che per l'elevata salinità causata
dalla formazione della banchisa (i.e. una massa di ghiaccio marino galleggiante di
al massimo 3m che si forma per il congelamento dell'acqua dell'oceano). Questa
acqua quindi densa fluirà nel fondo degli oceani.
La maggior parte di queste masse d’acqua, ritornerà in superficie negli Oceani a
Sud poiché l'acqua di fondo, muovendosi verso l'equatore, interagirà con altre
masse d’acqua diminuendo così la propria densità. Invece, le acque più vecchie e
profonde ritorneranno in superficie (con un tempo di transito di circa 1000 anni) nel
Nord Pacifico come rappresentato in Figura 5. Lungo il loro viaggio, le masse
d’acqua trasportano sia energia (in forma di calore) che materia (solidi, sostanze
disciolte e gas) attorno al globo. In questo modo, lo stato della circolazione ha un
grande impatto sul clima terrestre. Si intuisce quindi che le correnti oceaniche
profonde, caratterizzate da tempi scala molto lunghi, da decine a migliaia di anni,
sono guidate dalla circolazione Termoalina cioè dalla variazione nella densità
dell’acqua marina, densità che varia appunto come dice il termine (termoalina) in
funzione di temperatura e salinità.
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Figura 5: Schema della circolazione oceanica con l`esteso “nastro trasportatore” della circolazione
termoalina.
Giunti a questo punto ci si potrebbe chiedere quale potrebbe essere l’effetto
sull’intero sistema climatico se ad esempio il ghiaccio della banchisa si sciogliesse
magari per effetto dei cambiamenti climatici. La risposta a questa domanda
richiede l’introduzione di un altro concetto che ritorna spesso quando si parla di
clima e di cambiamenti climatici e cioè il concetto di retroazione o feedback. Un
feedback è Un meccanismo di interazione tra i processi nel sistema climatico in cui il
risultato di un processo iniziale innesca cambiamenti in un secondo processo che a sua
volta influenza quella iniziale (IPCC WGII AR5 2014, Glossary).
Un meccanismo che mentre avviene un cambiamento iniziale in un processo,
tenderà a rinforzare il cambiamento è un feedback positivo, se invece tenderà ad
indebolire lo stesso è un feedback negativo.
Figura 6: Esempi di meccanismi di retroazione o feedback positivo con effetti diversi in termini di
impatto climatico.
Ritornando all’esempio della banchisa, sebbene sottile, la superficie assai
riflettente, contribuisce di molto all’albedo terrestre cioè alla radiazione solare
riflessa nello spazio. Quindi se la banchisa si sciogliesse, ciò comporterebbe una
minor riflessione dei raggi solari con effetto di feedback positivo che
aumenterebbe il riscaldamento (Figura 6a)
All'opposto durante un raffreddamento climatico con conseguente aumento dei
ghiacci, si avrebbe una maggiore albedo e quindi riflessione; ciò farebbe diminuire
la temperatura con effetto di feedback positivo e conseguente ulteriore aumento
dei ghiacci (Figura 6b).
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Parlando del sistema climatico abbiamo distinto in Figura 2 tra interazioni interne
tra le sue componenti, di cui abbiamo già parlato, e forzanti esterne. Una volta che
si applica una forzante esterna, i feedback interni complessi determinano la
risposta finale del sistema climatico, in termini di riscaldamento o raffreddamento,
che differiscono da una semplice risposta lineare. Qual è quindi la forzante esterna
più importante per il nostro sistema climatico? La FORZANTE ESTERNA più
importante è la luce solare che fornisce una fonte di energia “costante”. Il bilancio
radiativo terrestre è la relazione tra l’energia proveniente dal sole in atmosfera e
quella uscente. Se il risultato è positivo, ci sarà del riscaldamento, se il risultato è
negativo ci sarà del raffreddamento. Oltre alla forzante solare, altre forzanti
naturali e antropiche che possono indurre un cambiamento climatico sono: i
vulcani, gli aerosols, i gas cosiddetti serra. E’ tuttavia complesso calcolare il
bilancio radiativo terrestre poiché questi fattori hanno ognuno la propria
incertezza. Ad esempio, le particelle AEROSOLS, affliggono il bilancio radiativo in
maniera complessa. Possono avere un effetto di interazione diretto con la
radiazione solare che può causare sia raffreddamento che riscaldamento. Nel caso
di aerosol solfati, chiari e brillanti, questi riflettono la radiazione solare,
diminuendo la radiazione incidente con conseguente effetto di raffreddamento
della superficie terrestre; nel caso invece di aerosol scuri, come ad esempio la
cenere, questi assorbono la radiazione solare provocando riscaldamento. Spesso
questi aerosol sono di origine antropica, emessi da veicoli ed incendi boschivi ed
eiettati in troposfera. Aerosol di origine antropica (derivanti da inquinamento
antropico) possono avere anche un effetto indiretto poiché possono agire come
nuclei di condensazione nella formazione di nubi. Questo porta ad accrescere
l’effetto albedo delle nubi che appaiono più riflettenti, bianche e grandi portando
ad un raffreddamento di -0.3 and -1.8 Wm−2.
Tuttavia rimane il sole il principale “motore” che determina il clima. Lo studio
dell’interazione tra attività solare e variazioni climatiche terrestri ha portato
all’osservazione dell’attività sulla superficie del sole e alla misurazione, fin dal 1700,
del numero di macchie che apparivano sulla sua superficie. Successivamente si è
scoperta la periodicità della comparsa di queste macchie in un ciclo di 11 anni. Il
clima è influenzato dal numero medio annuo delle Macchie Solari. Si stima che le
fluttuazioni normali dovute ai cicli solari aumentino o diminuiscano la radiazione
solare che raggiunge la terra di circa 0.1-0.2 %. Nei periodi in cui l’attività solare è
stata minima, vi è stato una maggiore frequenza di eventi estremi quali inverni
molto rigidi come durante la Piccola Età Glaciale (nota come Little Ice Age) che ha
compreso tre periodi minimi di attività solare (Camuffo et al. 2014): il minimo di
Spoerer (1416-1534), il minimo di Maunder (1645-1715) ed il minimo di Dalton
(1800-1830).
Altri fattori Astronomici che modificano l’irraggiamento solare sulla Terra sono
costituiti dalle forzanti orbitali, descritti da Milankovich nella sua Teoria (Zachos et
al. 2001). In questo caso, i cambiamenti climatici sono dovuti alla variazione di
parametri orbitali nei moti terrestri, quali: eccentricità, inclinazione dell’asse
terrestre, e precessione dell’orbita terrestre.
ECCENTRICITÀ: L’effetto del cambiamento dell’eccentricità dell’orbita terrestre
(nel tempo, l'eccentricità dell'orbita terrestre varia lentamente) è su lungo termine
con periodo dominante di 100000 anni ed è una delle cause che contribuiscono
all’alternanza delle glaciazioni poiché influenza l’apporto solare variando la forma
dell’orbita terrestre. Infatti, a seconda dell'eccentricità dell'orbita, la massima
distanza terra-sole e quella minima possono essere più o meno differenti dalla
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distanza media, rispettivamente 152,1 milioni di km (2,5 milioni di km più della sua
distanza media) all’afelio (dal greco αφήλιον, da από, apò = "lontano" e ήλιος, èlios
= "sole") e 147 milioni di chilometri dal Sole, (2,5 milioni di chilometri meno della
distanza media) al perielio (dal greco perì = intorno, helios = sole).
L'eccentricità dell'orbita della Terra oggi è 0,0167. Nel tempo, varia e passa da
quasi 0 a circa 0,05 come risultato dell'attrazione gravitazionale con gli altri pianeti.
Quando l’eccentricità è prossima allo 0, l’orbita è circolare e mantiene la Terra
sempre alla stessa distanza dal Sole; quando invece l’eccentricità aumenta a valori
compresi tra 0 e 1, l’orbita ellittica la fa alternativamente avvicinare e allontanare
dal sole, variando la quantità di radiazione in arrivo sulla Terra.
L’INCLINAZIONE DELL’ASSE TERRESTRE: La pendenza dell’asse di rotazione
terrestre, cambia la radiazione solare che raggiunge la Terra e permette l’alternarsi
delle 4 stagioni. Tuttavia, l’angolo di inclinazione dell’asse terrestre non è costante
nel tempo e cambia con un periodo di circa 41000 anni. Con minor inclinazione
dell’asse terrestre le regioni polari ricevono meno energia dal Sole, mentre, con
un’inclinazione maggiore, l’aumentano. Quindi questo tipo di variazione ha un
grande impatto alle alte latitudini (poli) ed un impatto minore ai tropici.
LA PRECESSIONE DEGLI EQUINOZI: L’attrazione gravitazionale della luna e del
sole tende a modificare la direzione dell’asse di rotazione terrestre e l’esposizione
ai raggi solari nei due emisferi e nelle 4 stagioni. Il risultato di questo effetto
combinato sulla distanza dal Sole e l’inclinazione dell’asse terrestre può accrescere
o ridurre la stagionalità. Il periodo di precessione varia tra 19000 e 23000 anni. La
sommatoria di tutti questi effetti può aiutare a spiegare le variazioni del clima
terrestre causate dalla forzante solare come ad esempio gli stadi delle glaciazioni
rappresentate in Figura 7.
Figura 7: La sommatoria di tutti gli effetti dei cambiamenti delle forzanti orbitali terrestri aiutano a
spiegare le variazioni del clima terrestre causate dalla forzante solare come ad esempio gli stadi
delle glaciazioni.
Un'altra forzante esterna naturale è costituita dalle ERUZIONI VULCANICHE.
Durante le eruzioni vulcaniche sono rilasciate una grande quantità di gas (vapor
acqueo, anidride carbonica e diossido di zolfo) e particelle solide iniettate in
atmosfera fino alla stratosfera (i.e. lo strato di atmosfera che si trova al di sopra la
tropopausa ad una altezza tra i 12 ed i 50 chilometri). Le particelle solide come la
cenere vulcanica cadono rapidamente a causa delle proprie dimensioni e massa,
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quindi grandi volumi di ceneri bloccano la radiazione solare entrante ma l’effetto è
meno significativo in termini di impatto sul sistema climatico poiché è a più breve
termine.
I gas invece sono quelli che forzano maggiormente la risposta del sistema
climatico. Il vapor acqueo e l’anidride carbonica non cambiano di molto i livelli
ambientali. Invece il gas solforoso SO2, in combinazione con l’acqua, forma acido
solforico che poi condensa su particelle per formare aerosol di solfati. Gli aerosol
solfati sono chiari e riflettono la radiazione incidente quindi aumentano la
brillantezza (albedo) delle nubi riducendo la radiazione solare che raggiunge la
terra e causando in questo modo una grande perturbazione nella radiazione solare
netta. Gli aerosol nella stratosfera, che bloccano all’esterno la radiazione solare,
richiedono un tempo di deposizione maggiore.
Ad esempio, grandi eruzioni come quelle del monte Pinatubo sono state collegate
a significanti episodi di raffreddamento del clima terrestre. Tre mesi dopo
l’eruzione di questo vulcano nelle Filippine, evento accaduto in giugno 1991, gran
parte dei 20 milioni di tonnellate di biossido di zolfo, espulse, si erano dirette
grazie ai venti zonali stratosferici e depositate verso le regioni equatoriali.
Cambi nelle temperature registrate nei secoli passati indicano le influenze delle
eruzioni vulcaniche sul clima. Un esempio di cui si parlerà in questi Atti è l’anno
1816, definito l’anno senza estate (anno in cui Mary Shelley scrisse Frankenstein),
anno in cui si ebbero abbondanti nevicate e gelate in giugno in centro Europa.
Questi eventi climatici coincisero con il periodo successivo alla massiccia eruzione
vulcanica del vulcano Tambora.
Tra le FORZANTI ANTROPICHE invece vi sono i Gas cosiddetti serra. Che cos’è
quindi l’effetto serra? Dai concetti esposti fino adora abbiamo compreso come i
raggi solari riscaldino la superficie della Terra e come a sua volta, la Terra irradi
energia nuovamente verso lo spazio nelle lunghezze d’onda IR. L’atmosfera
terrestre è trasparente alla luce visibile ma non completamente all’ infrarosso.
Infatti i gas atmosferici cosiddetti serra o Greenhouse Gases (i.e. vapor acqueo
H20, anidride carbonica CO2, Ossido di diazoto N2O, metano CH4, ozono 03 ,
Clorofluorocarburi CfC…) intrappolano parte dell'energia uscente, conservandone
il calore, comportandosi proprio come i vetri di una serra. Senza questo "effetto
serra naturale", le temperature sarebbero più basse, di 33°C, rispetto quelle attuali
e la nostra vita non sarebbe possibile. Invece, grazie ai gas serra di origine naturale,
la temperatura media della Terra è di 15,5°C anziché -18°C. Nonostante quindi le
piccole concentrazioni, CO2, vapor acqueo e metano sono componenti
fondamentali per l’equilibrio radiativo del sistema climatico poiché intrappolano la
radiazione infrarossa rimettendola nuovamente nell’intervallo termico infrarosso
portando così ad un riscaldamento.
Tuttavia oggi si sente parlare di GAS SERRA con accezione negativa: per quale
ragione? Quando si sente parlare di gas serra inoltre si sente parlare spesso di
anidride carbonica che è una sostanza fondamentale nei processi vitali delle piante
e degli animali ed è indispensabile per la vita e per la fotosintesi delle piante, ma è
anche responsabile dell'aumento dell'effetto serra e del riscaldamento cosiddetto
globale. Si ipotizza che la concentrazione atmosferica di diossido di carbonio prima
della rivoluzione industriale fosse 280 parti per milione in volume (ppmv), e che
quindi la sua concentrazione sia aumentata fino a 390 ppmv nel 2010. La causa di
tale aumento è da ricercarsi nell’uso intensivo di combustibili fossili (carbone,
petrolio)
nelle
economie
mondiali
e
nella
deforestazione.https://it.wikipedia.org/wiki/Anidride_carbonica
cite_note-8
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Tuttavia come abbiamo visto la CO2 non è il solo gas serra; il vapor acqueo è infatti
il più importante gas serra in termini di contributo all’effetto naturale (circa il 60%).
Circa il 99.13% di questo gas è contenuto nella troposfera (i.e. i primi 10 km di
strato atmosferico al di sopra della superficie terrestre). La condensazione del
vapor acqueo in fase liquida o solida (sotto forma di ghiaccio) è responsabile per
l’idrosfera e la criosfera. Infine a titolo esemplificativo, l’altro gas serra che spesso
si sente citato e che può essere ancora una volta sia di origine naturale che
antropica è il metano. Il metano è un gas serra presente nell'atmosfera terrestre in
concentrazioni molto inferiori a quelle della CO2.
Le principali fonti di emissione di metano nell'atmosfera sono:

decomposizione di rifiuti solidi urbani nelle discariche

fonti naturali (paludi): 23%

estrazione da combustibili fossili: 20%

processo di digestione degli animali (bestiame): 17%

batteri trovati nelle risaie: 12%

riscaldamento o digestione anaerobica delle biomasse.
Tra il 60% e l'80% delle emissioni mondiali di questo gas è di origine umana,
derivanti principalmente da miniere di carbone, discariche, attività petrolifere,
gasdotti e agricoltura.
La sua concentrazione in atmosfera è aumentata da 700 ppb (parti per miliardo)
nel periodo 1000-1750 a 1.750 ppb nel 2000, con un incremento del 150%.
CONCLUSIONI:
La comprensione del sistema climatico è assai complessa, richiede l'interazione di
molte discipline scientifiche e di diversi approcci. Ancora molti aspetti rimangono
da studiare approfonditamente per migliorare l’attendibilità degli scenari futuri in
termini di determinazione della variabilità climatica, di stima dell’incremento delle
temperature e delle relative incertezze così da migliorare le proiezioni e la
conseguente comprensione dei rischi e degli impatti del clima sulla società.
Punti chiave in cui migliorare la comprensione e modellizzazione riguardano:
- gli aspetti degli scambi atmosfera – oceani;
- gli aspetti della dinamica della turbolenza; la convezione atmosferica infatti è un
classico esempio di fenomeno fisico che un modello climatico ha dei limiti a
simulare, poiché intense correnti ascensionali convettive hanno dimensione
orizzontale di pochi km e non possono essere adeguatamente risolte dai modelli;
- gli aspetti dello studio delle interazioni (e delle conseguenti propagazioni di
incertezze) attraverso le scale globale (Global Climate Model) e regionale
(Regional Climate Model);
- gli aspetti nella rappresentazione fisico-matematica delle interazioni delle
componenti interne al Sistema Climatico (i.e. meccanismi di retroazione o
feedback) al fine di ottenere livelli di confidenza maggiori nelle proiezioni
climatiche future ed infine la comprensione degli effetti degli aerosol sul clima.
BIBLIOGRAFIA:
Camuffo, D., Bertolin, C., Schenal, P., Craievich, A. and R. Granziero. 2014. The
Little Ice Age in Italy from documentary proxies and early instrumental records.
Journal of Mediterranean Geography 122 : 17-20.
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Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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science basis” Edited by Stocker F.T., Qin, D., Plattner, G-K. Tignor, M., Allen, S.,
Boschung, J., Nauels, A., Xia Y., Bex, V. and P. Midgley. Cambridge University
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Walker, G. "Un oceano d'aria" - ed. codice, 2009, op. cit. p.102
Zachos, J.C., Shackleton, N.J., Revenaugh, J.S., Palike,H. and B. P. Flower. 2001
Climate Response to Orbital Forcing Across the Oligocene-Miocene Boundary.
Science, 292, 5515: 274-278. DOI: 10.1126/science.1058288
Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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IL CLIMA DELL’ULTIMO MILLENNIO: METODI, CERTEZZE E INCERTEZZE
Dario Camuffo
CNR, Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, Padova
La nostra conoscenza del clima si basa su osservazioni oggettive dirette e indirette.
Le osservazioni sono alla base di ogni ipotesi: dei meccanismi e delle relazioni tra le
cause forzanti e gli effetti che regolano le vicende del clima; delle equazioni che le
descrivono l’evoluzione; dello sviluppo, della taratura e della verifica dei modelli di
simulazione numerica che hanno lo scopo di chiarire e sviluppare interpretazioni e
previsioni a seconda dei parametri scelti o delle supposizioni che possono venire
avanzate. Le osservazioni dirette sono di tipo strumentale, e costituiscono
l’informazione più precisa. In assenza di misure strumentali dirette si possono
utilizzare indicatori indiretti sostitutivi, chiamati “proxy” (che significa “dati per
procura”). Vi sono vari tipi di osservazioni indirette, che possono derivare da archivi
naturali (es. anelli di crescita degli alberi (dendrocronologia), il ritiro dei ghiacciai, il
livello di corpi d’acqua) o documentari (es. fonti scritte, arti visive). Le
documentazioni scritte sono costituite da dati d’archivio con descrizione di
fenomeni e del loro impatto, cronache, diari ecc. Particolari rappresentazioni
pittoriche eseguite con la “camera oscura” possono essere usate per ricostruire il
livello del mare a Venezia (Veronese, Canaletto, Bellotto), o documentare il
congelamento di fiumi e della laguna veneta. I dati di tipo Proxy possono sostituire
le osservazioni strumentali purché siano suffragati da fattori valutabili
oggettivamente come a es. l’impatto sull’ambiente o sulla società. Le ricostruzioni
climatiche su lungo periodo si basano necessariamente sulla combinazione di
osservazioni strumentali e di proxy di vario tipo. Tuttavia, occorre tener presente
che tutte le osservazioni, dirette e indirette, sono affette da incertezze (errori) di
vario tipo, con bande d’incertezze variabili col tempo e con l’osservatore, e molto
spesso sottovalutate. Lo scopo di questo intervento è di illustrare il problema con
qualche esempio.
Le osservazioni strumentali dirette
Le osservazioni dirette sono di tipo strumentale, e le prime in assoluto risalgono
alla Rete del Granduca di Toscana, dal 1654 al 1570 cui si deve l’invenzione del
termometro a liquido e l’istituzione della prima rete internazionale di misura, con
osservazioni omogenee secondo un preciso protocollo di misura, e effettuate a
intervalli regolari sia di giorno che di notte (Camuffo e Bertolin, 2013). I termometri
fiorentini erano identici fra loro, con la stessa scala. Erano costruiti interamente in
vetro, a parte il liquido sensibile (alcol) e potevano resistere alle intemperie. Alcuni
di questi termometri, del tipo noto come “Piccolo Termometro Fiorentino”
continuarono ad essere usati come nella serie di Parigi (Builleau) o per la
determinazione sperimentale delle leggi dei gas (Boyle).
Dopo il periodo critico determinato dal processo di Galileo e la persecuzione da
parte dell’Inquisizione degli Accademici del Cimento e delle osservazioni
meteorologiche in generale, in Italia le serie meteorologiche ripresero
timidamente dopo la prima decade del XVIII secolo. Una di queste importanti serie
è quella di Padova, iniziata da Giovanni Poleni nel 1716, e poi regolarmente nel
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1725 (Camuffo e Jones, 2002), e protratta sino a oggi (Fig.1).
Fig.1 Temperatura media annua nell’Emisfero Nord (in alto, dati IPCC 2007) e a Padova. La linea
spessa costituisce la media mobile su 11 anni. I dati sono espresso in termini di “anomalia”, vale a
dire di differenza rispetto al period di riferimento 1961/90.
Dopo il primo successo delle misure meteorologiche, l’elevato costo di strumenti di
buona qualità causarono una svolta: dalla seconda metà del 1600 alla fine del 1700
le misure vennero per la maggior parte effettuate all’interno degli edifici o con
brevi esposizioni manuali all’aperto in quanto i termometri erano basati su una
tecnologia povera che non resisteva all’aperto, soprattutto perché i tubicini in
vetro erano fissati con fil di ferro su tavolette di legno che si deformava con
l’umidità ambiente. A questo contribuì anche il fatto che le persone vivevano in
case malsane e le misure climatiche indoor erano considerate importanti ai fini
della salute pubblica. Tuttavia, dalle origini al 1860 i dati sono generalmente scarsi
e con varie interruzioni.
Nel 1860 George Biddel Airy (dell’Osservatorio di Greenwich Observatory) e
Urbain Jean-Joseph Le Verrier (dell’Osservatorio di Parigi) stabilirono la prima
collaborazione internazionale per la previsione delle tempeste. Nel 1873, sotto la
direzione di Christoph Buys Ballot, fu fondato il Comitato Meteorologico
Internazionale che coordinò l’azione dei vari servizi meteorologici nazionali da
poco istituiti. Nel 1950, il Comitato divenne l’Organizzazione Meteorologica
Mondiale formata da 160 paesi membri, sotto la direzione delle Nazioni Unite
(WMO, 2009).
Nel corso dei secoli si sono via via sviluppati la conoscenza della meteorologia, la
costruzione degli strumenti tradizionali o le misure da satellite, i protocolli e le
modalità di osservazione. Queste vicende hanno introdotto forti discontinuità
nella risposta strumentale, nell’esposizione o negli schermi applicati agli strumenti,
nell’effettuare la lettura e la media delle osservazioni, cambiando punto di misura,
livello rispetto al suolo, alterando le caratteristiche fisiche dell’ambiente attorno
alla stazione mete, e passando da città a aperta campagna. Occorre ricordare che
il termometro misura la temperatura del proprio bulbo. Non è detto che questo
sia esattamente rappresentativo della temperatura dell’aria. Siamo noi che
assumiamo lo sia, prendendo qualche precauzione contro i fattori di disturbo,
come raccomandato da guide internazionali (WMO, 2008).
Il problema non va riferito solo alle prime osservazioni pionieristiche, ma anche in
tempi relativamente moderni, quando lo sviluppo della tecnologia o il
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cambiamento di protocolli per le osservazioni ha introdotto deviazioni anche
consistenti ai valori medi delle variabili osservate, con effetto simultaneo su tutte
le stazioni (Camuffo e Jones, 2002). Per esempio, nel coso del tempo la media
venne effettuata in modi diversi: media fra gli estremi (semisomma tra Min e Max
(Fig.2a); tra due letture di cui una al mattino e una a mezzogiorno o di primo
pomeriggio, poi 3 letture: mattina pomeriggio e sera, poi 4 letture intervallate
(Fig.2b), poi 24 letture, infine la registrazione continua. L’indicazione di quando
fare le letture e come fare le medie venivano date dalle autorità competenti a
livello nazionale o internazionale. Ogni cambiamento di protocollo ha le stesse
apparenze di un forte cambiamento climatico.
Fig.2 (a): Errore per le medie di temperatura giornaliera a Padova calcolate come
(Tmax+Tmin)/2, come frequentemente in uso nel XVII e nel XVIII secolo. (b): Errore per le medie
di temperatura giornaliera a Padova (per una stazioncina a 2 m e una a 10 m) basate su tre
osservazioni alle ore 8, 14, 20, come prescritto dall’Ufficio Centrale di Meteorologia e
Geodinamica, Roma, nel periodo tra il 1868 e il 1920.
Lo schermo termometrico, necessario per riparare i termometri dalla radiazione
solare diretta era inizialmente assente e ha avuto la sua evoluzione. La prima
notizia di consapevolezza di uno schermo risale a un’osservazione di Toaldo a
Padova, nel 1785. Gli schermi cominciarono a essere usati verso il 1830, e divennero
d’obbligo a partire dal 1860 (Middleton, 1966). La capannina standard bianca a
gelosie in legno, nota come Stevenson Screen, può causare un surriscaldamento di
+1.5°C di giorno e un raffreddamento di -0.5°C di notte (Cicala A., 1970). In casi di
assenza di vento e forte insolazione il surriscaldamento può giungere a +2.5°C
(WMO, 2008). Durante i temporali estivi lo schermo che si bagna e evapora può
abbassare la temperatura di vari gradi sino a raggiungere il livello di bulbo
bagnato. I moderni schermi a dischetti metallici o in PVC sovrapposti danno una
risposta ancora diversa. Vanno evitate le perturbazioni da corpi vicini e l’influenza
del suolo (va posto su un prato ad erba verde, a 2 m d’altezza, lontano da edifici,
piante o altri oggetti di grandi dimensioni). Una capannina posta a un’altezza
diversa sopra un terreno brullo o uno spiazzo pavimentato darà indicazioni
fortemente diverse da quelle standard.
La taratura dei termometri è sempre stato un punto delicato e carente, specie agli
inizi della meteorologia. Per oltre un secolo solo il sensore veniva immerso nel
ghiaccio o nel vapore, lasciando il cannello in condizioni termiche diverse. I punti
riferimento erano incerti e non realizzati a pressione standard, il che poteva
generare un errore di ±1°C per la scala Celsius o anche ±5°C per la Fahrenheit.
Importanti errori erano dovuti alla non-linearità dell’espansione dei fluidi. I gradi
intermedi tra i punti fissi erano calcolati per interpolazione lineare; il problema era
trascurabile per i termometri a mercurio, ma non per quelli ad alcol dove l’errore di
linearità è molto forte (raggiunge -2°C a 20°C temperatura ambiente), come
riportato in tabella .
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Tabella I: deviazione dalla linearità di un termometro a a mercurio (Hg) e uno ad
alcol.
L’idea di tarare il termometro Fahrenheit con la temperatura corporea (32°C) come
punto superiore, ispirata a Santorio, non era malvagia: nei paesi dell’Europa
settentrionale, il limite superiore era quello realistico della temperatura estiva.
L’errore di non-linearità scendendo dal punto di ebollizione dell’acqua sarebbe
stato senz’altro superiore.
I proxy: le osservazioni indirette
I dati proxy, specie quelli di natura documentaria-archivistica, sono per loro natura
qualitativi. Per essere utilizzati devono essere trasformati in indici numerici e,
grazie a periodi con simultanea presenza di osservazioni strumentali e osservazioni
proxy è possibile tarare la scala e attribuire un valore quantitativo a dei dati che
inizialmente ne avevano uno qualitativo soltanto. Tuttavia, anche i proxy sono
affetti da limiti e incertezze. Ad esempio i dati documentari scritti e la
dendrocronologia sono molto utili a decifrare le fluttuazioni e la variabilità sul
breve periodo, ma non i trend. Altri hanno invece caratteristiche opposte.
Tipicamente, i dati proxy danno un’informazione qualitativa o un’indicazione
classificabile quantitativamente (indice) che può essere trasformato in unità
meteorologiche moderne. In questo caso l’indice proxy deve essere calibrato con le
moderne osservazioni strumentali per dare una ricostruzione quantitativa del clima
passato (Camuffo et al., 2013). La classificazione degli eventi viene fatta
attribuendo 7 livelli di severità compresi tra ±3. Il livello Zero (0), per definizione, è
quello più ricorrente (cioè la moda) che al tempo della scrittura era
(soggettivamente) considerato il più normale e pertanto non faceva notizia. Più
che da informazioni dirette, si ricava dall’assenza di informazione. Poiché il livello
di base 0 è soggettivo e legato all’esperienza del testimone, non è possibile
determinare trend o cambiamenti sul lungo periodo. I livelli ±1 e ±2 sono livelli di
severità intermedia. L’estremo superiore +3 è costituito da casi di eccesso
eccezionale e ben documentato (esempio: caldo) e -3 è il caso opposto (es. freddo
estremo). Per ogni indice si applica un criterio basato sulle distribuzione delle
frequenze che corrisponda alle osservazioni strumentali, come per es. la
distribuzione percentile.
Per rendere più semplice l’esemplificazione, la
temperatura (non la precipitazione!) segue una distribuzione Gaussiana, centrata
sulla media e simmetrica. Una Gaussiana può essere definita in termini di
deviazione standard (DS) e di popolazione geometrica. Se si classificano le
osservazioni strumentali e i dati proxy in termini di classi di severità, ogni classe è
compresa negli intervalli di popolazione ±0.5 DS, ±1 DS, ±2 DS e valori esterni a ±2
DS, come rappresentato in Fig.3.
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Fig. 3. Come passare da indice a unità moderne: confronto tra la distribuzione delle osservazioni
indicizzate in classi di severità (istogrammi), e l’analoga distribuzione delle classi per una
distribuzione Gaussiana.
Per passare da un indice descrittivo a unità moderne (per esempio una
temperatura espressa in °C), occorre passare attraverso quattro fasi operative,
come segue (Fig.4).
(i) Periodo comune: E’ necessario disporre di dati proxy e osservazioni strumentali
per un periodo in comune. Gli oggetti contenuti nell’intervallo comune delle due
serie devono coincidere perché rappresentano gli stessi eventi, solo che sono
espressi in unità diverse.
(ii) Calibrazione: I valori delle osservazioni strumentali (espresse in °C) vengono
attribuiti ai valori proxy corrispondenti, rendendo in chiaro i valori che
appartengono alle classi ±0.5 DS, ±1 DS, ±2 DS, <±2 DS<
(iii) Validazione: Una volta che l’esercizio di calibrazione sia stato fatto su un
periodo comune, la metodologia deve essere verificata su un altro periodo
indipendente comune facendo l’esercizio inverso: ricreando i dati strumentali
partendo dai proxy.
(iv) Estensione. Se il risultato della verifica è stato positivo, il risultato della
calibrazione viene esteso alla parte precedente della serie di dati proxy.
Fig.4. Schema di come una serie proxy (rosso) e una strumentale (blu) vengono
confrontate in un loro periodo comune, per realizzare la calibrazione della serie
proxy e verificare la bontà dell’operazione (validazione). La freccia nera in basso
indica lo scorrere del tempo.
La metodologia presuppone omogeneità fra tutti i dati di ogni serie Proxy. Questa
è una necessità, ma anche una distorsione dello spirito delle fonti. In genere,
possiamo avere dei periodi comuni nel 1700, nel 1800 o nel 1900. Ma estendere il
risultato di una calibrazione fatta nell’illuminismo o in età moderna a quanto
scriveva un uomo del medioevo, è una forzatura che introduce un margine di
incertezza (=errore) all’interpretazione di quanto scritto.
Anche i dati proxy soffrono di ben determinati limiti. Il livello Zero di base è
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soggettivo e legato all’esperienza del testimone. Pertanto non è possibile
determinare trend o cambiamenti sul lungo periodo. Si prestano a evidenziare i
cambiamenti brevi, o interannuali, ma la linea di base è necessariamente piatta
(Fig.5) a meno che non si ricorra all’artificio di trasformare le frequenze in
ampiezza. Ma questo altera profondamente la realtà delle cose.
Fig.5 Differenza tra i valori stagionali della temperatura in Italia centro-settentrionale ricostruiti tra
il 1500 e il 1800 e il periodo di riferimento 1961/90. Tale differenza è chiamata “anomalia”. La linea
spessa costituisce la media mobile su 11 anni e in presenza di picchi si discosta dal valore di base 0.
Essa costituisce un filtro matematico dei picchi e non sostituisce l’andamento temporale che
rimane a livello indeterminato.
I dati proxy sono affetti da un ampio margine di incertezza. Le condizioni
dell’ambiente e delle tecnologie del passato sono diverse rispetto a quelle
moderne. Questo costituisce una difficoltà nel confrontare l’intensità degli eventi
sulla base degli effetti provocati. Un esempio con le precipitazioni. Si hanno notizie
di nevicate abbondanti che hanno fatto crollare il tetti. La stima della quantità di
neve caduta cambia con la solidità e la pendenza del tetto, specie quando il
problema si riscontra in zone in cui la neve non è troppo frequente. Si può supporre
che le esondazioni dei fiumi siano un indice di piogge intense, ma ogniqualvolta si
sono rinforzati o alzati gli argini dei fiumi, le esondazioni sono diminuite. Quando
nel medioevo il territorio era abbandonato a sé stesso e i fiumi erano contornati da
paludi, una piena non cambiava gran che le cose e non veniva in alcun modo
registrata. Quando sono stati costruiti centri abitati attorno ai fiumi, ogni
esondazione causava danni irreparabili e entrava nella tradizione. Quando furono
introdotti i mulini a acqua su zattere galleggianti ancorate a pali infissi nel letto del
fiume, questi riducevano fortemente la portata e favorivano le esondazioni.
Supponiamo che tra qualche secolo vengano persi i dati pluviometrici e che
qualcuno voglia ricostruire l’intensità delle piogge dalla frequenza e dalla severità
dei danni dovuti alle esondazioni: Pioggia = F(esondazioni). Costui cercherà e
raccoglierà tutte le notizie scritte, e classificherà i fenomeni in ordine crescente
basandosi sugli effetti sul territorio e sulla società presupponendo una semplice
legge di progressione parallela tra causa e effetto. Se però scoprirà che delle
esondazioni sono state peggiorate o causate da abusivismo edilizio condonato, da
mancata manutenzione degli argini e del territorio, da cementificazione ecc.,
questo metterà in crisi la relazione “naturale” tra quantità di precipitazione
necessaria per produrre esondazioni, estensione dell’area allagata e danno
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causato.
Conclusioni
Si è visto che il problema non è solo raccogliere i dati, ma effettuarne un’accurata
correzione, omogeneizzazione e validazione per darne un’interpretazione corretta
che sarà però affetta da certi limiti di incertezza che vanno chiaramente definiti e
indicati. In mancanza di questo si rischia di interpretare come segnale climatico
quanto è semplicemente un errore strumentale o un cambiamento nelle modalità
operative o nell’ambiente.
Non è semplice disporre di lunghe serie omogenee e corrette, e l’incertezza
aumenta con l’allontanarsi nel tempo. Purtroppo la ricerca in tale campo non è
incoraggiata.
La precisione dei dati strumentali viene troppo spesso sopravvalutata e le
disomogeneità intrinseche non sono sempre adeguatamente rimosse. I
cambiamenti della tecnologia e dei protocolli di misura hanno influito sulle misure
e questo è avvenuto simultaneamente su tutte le stazioni interessate,
presentandosi con la veste di un cambiamento climatico. Il rischio di accontentarsi
dei dati “disponibili” è di scambiare per segnale climatico quello che in realtà è una
discontinuità o un errore.
Modelli matematici e osservazioni stanno indicando la tendenza al riscaldamento
globale. La lezione del passato è che la situazione reale sia più complessa di quanto
generalmente si creda.
In pratica, le osservazioni dirette e indirette ci danno alcune certezze, tra cui anche
quella che dobbiamo tenere ben presente dei forti limiti di incertezza, a volte
superiore a quanto venga generalmente creduto dai non specialisti in materia. La
conoscenza scientifica ha, e deve avere, coscienza dei propri limiti e delle
incertezze delle osservazioni e delle simulazioni. Tuttavia, la posta in gioco
suggerisce di adottare prudenza. Il problema si sposta dal piano scientifico a quello
politico, dell’opportunità e del buon senso.
Riferimenti bibliografici
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from 1632 to 1648, claimed by G. Libri, are reality or myth? Climatic Change, 119 (34), 647-657. DOI 10.1007/s10584-013-0742-3
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Camuffo, D., Bertolin, C., Diodato, N., Barriendos, M., Cocheo, C., Enzi, S., Sghedoni, M.,
E. Garnier, · M.-J. Alcoforado and · J. Luterbacher, 2011: Climate Change in the
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Middleton, K.W.E. 1966: A history of the Thermometer and its use in Meteorology. J.
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WMO, 2009: World Meteorological Organization at a glance. WMO, Geneva
CARATTERISTICHE ED ANDAMENTO CLIMATICO NEL VENETO
Dr. Marco Monai – Dr. Francesco Rech
ARPAV- Servizio Meteorologico
1 - Premessa
Il Veneto presenta caratteristiche climatiche peculiari data la sua collocazione e
conformazione geografica. La distribuzione spaziale e temporale di precipitazioni
e temperature risente fortemente del contributo di fattori locali.
Nel seguito ci si sofferma su tali peculiarità, nonché si evidenziano alcuni trend
evolutivi che risultano, invero, ben definiti per quanto attiene alle temperature e
assai meno chiari a riguardo delle precipitazioni.
Nell’ultima parte si trattano alcuni eventi meteorologici particolari verificatisi negli
anni più recenti.
2 - Le Precipitazioni nel Veneto
La figura 1 rappresenta la distribuzione spaziale, sul territorio della regione
Veneto, della precipitazioni annuale espressa in mm (media riferita al periodo
1981-2010).
Figura 1 – Distribuzione della precipitazione media annua sul Veneto.
E’ possibile osservare come, nello spazio di circa 90 km tra il Polesine e l’alta valle
dell’Agno in prossimità del gruppo Pasubio-Carega, le precipitazioni annuali
variano tra i 600-700 mm ed i 2000 mm. Più in generale è ben evidente
l’incremento della piovosità media annua, procedendo dai confini meridionali della
regione verso la barriera prealpina che, intercettando i flussi meridionali delle
perturbazioni, determina una concentrazione dei fenomeni meteorici su
quest’area.
Più a nord delle Prealpi, oltre la Val Belluna, i rilievi dolomitici meridionali
determinano un’ulteriore area di incremento delle precipitazioni annuali, che
raggiungono valori non dissimili da quelli registrati sulla fascia prealpina. Infine
nelle Dolomiti centrali e settentrionali si osserva un tendenziale decremento degli
apporti medi annui.
Utilizzando i dati pluviometrici di 100 stazioni dell’Ufficio Idrografico, selezionate
in base alla migliore consistenza delle serie storiche pluviometriche nel periodo
1950-2010, si è effettuata una media dei valori di precipitazione annuale per il
territorio della Regione Veneto.
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Nel grafico in figura 2 sono state riportate: le precipitazioni annuali (istogrammi),
la precipitazione annuale media del periodo 1950-2010 (retta tratteggiata rossa) e
la media mobile su un periodo di 5 anni (linea continua blu).
Osservando la media mobile risulta evidente che tra gli anni ‘50 ed i primi anni ’80
sono presenti due ampie oscillazioni attorno alla media del periodo,
successivamente la media mobile permane stabilmente sotto la media 1950-2010
con oscillazioni limitate e, solo negli ultimi tre anni del periodo considerato (20082009-2010), la media mobile si riporta decisamente al di sopra della media del
periodo. In questa serie non si evidenzia la presenza di un trend significativo delle
precipitazioni
Si osservi che nell’ultimo decennio vengono registrate sia le massime
precipitazioni (2010) sia le minime (2003) dell’intera serie sessantennale.
PRECIP ITAZIONE ANNUA 1950-2010
mm
medi a sul Veneto di 100 staz ioni pl uviometriche dell'U ffici o Idrografi co
18 00
17 00
16 00
15 00
me di a
mobi le
14 00
13 00
12 00
me di a
5 0- 10
11 00
10 00
9 00
8 00
7 00
6 00
2010
2008
2006
2004
2002
2000
1998
1996
1994
1992
1990
1988
1986
1984
1982
1980
1978
1976
1974
1972
1970
1968
1966
1964
1962
1960
1958
1956
1954
1952
1950
5 00
anno
Figura 2 – Andamento delle precipitazioni annuali nel periodo 1950-2010 (media delle osservazioni
di 100 stazioni pluviometriche dell’Ufficio Idrografico del Magistrato alle Acque di Venezia).
Anche considerando le misure di precipitazione effettuate dall’ARPAV nel periodo
1992-2014, con una rete di circa 160 stazioni meteorologiche automatiche, si
constata che, oltre alle significative precipitazioni degli anni 2008-2009 e 2010,
anche le precipitazioni negli anni 2013 e 2014 sono nettamente superiori alla media
ed in particolare i valori del 2014 risultano sensibilmente superiori anche agli
apporti del 2010. D’altra parte l’andamento di pochi anni non è sufficiente ad
individuare eventuali tendenze climatiche che vanno valutate su periodi almeno
trentennali ed inoltre il corrente anno 2015 presenta, al momento, precipitazioni
inferiori alla media.
Figura 3 – Localizzazione dei massimi valori assoluti delle
consecutivi e di 6 ore.
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precipitazioni della durata di 5 giorni
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C’è molto interesse per le precipitazioni di elevata intensità per gli effetti che
hanno sul territorio in termini di allagamenti localizzati o addirittura di fenomeni
alluvionali. Vengono di seguito considerati due differenti casi costituiti dalle
precipitazioni di lunga durata (5 giorni consecutivi) e dalle precipitazioni di breve
durata (6 ore consecutive).
Nella figura 3 è possibile osservare che:
 le massime precipitazioni assolute della durata di 5 giorni consecutivi si
localizzano sulle Prealpi e sulle Dolomiti meridionali (in analogia alla
localizzazione dei massimi valori di precipitazione media annua) con valori
che superano i 600 mm mentre sulla pianura meridionale tali valori sono di
100-150 mm;
 le massime precipitazioni assolute della durata di 6 ore consecutive al
contrario si localizzano sull’area costiera con piogge che hanno raggiunto i
300 mm di precipitazione; tali eventi apportano in poche ore il 30-40%
dell’ammontare della precipitazione media che cade nell’arco di un anno.
3 - Le Temperature in Veneto
La figura 4 riporta la carta delle isoterme relative alle temperature massime estive
(media del periodo 1993-2008). I massimi valori si localizzano sulle aree centrooccidentali della pianura (effetto “continentale”).
Figura 4 – Temperature medie delle massime in Estate.
Figura 5 – Temperature medie delle massime in Inverno.
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Si osserva, invece, una mitigazione dei valori termici massimi avvicinandosi alla
costa e nei pressi del Lago di Garda. Ben evidente è anche l’effetto di diminuzione
delle temperature massime con l’aumentare della quota (colli Euganei, Berici,
Montello e montagna).
La figura 5 riporta l’andamento delle temperature massime invernali; si osserva la
scomparsa dell’effetto di mitigazione costiera o lacustre e sulla Pianura i valori
termici massimi aumentano gradualmente verso settentrione; ciò è dovuto alla
minor frequenza delle nebbie sull’alta pianura e sulla pedemontana.
Esaminando l’andamento delle temperature medie annuali nel cinquantennio
1955-2004 (dati termometrici di 48 stazioni dell’Ufficio Idrografico del Magistrato
alla Acque di Venezia) si riscontra la presenza di un trend in aumento
statisticamente significativo.
Figura 6 – Trend delle temperature massime annuali nel periodo 1955-2004 (dati Ufficio
Idrografico).
In particolare in figura 6 viene riportato l’andamento delle medie annuali delle
temperature massime giornaliere. Nel periodo 1955-2004 il trend di aumento
risulta essere di circa 1.8 °C in 50 anni. L’incremento delle massime risulta essere:
 più marcato in estate ed in inverno (+2.3 °C in 50 anni)
 meno accentuato in primavera (+1.9 °C in 50 anni) e soprattutto in autunno
(+0.7 °C in 50 anni).
Anche le temperature minime presentano un significativo trend in aumento che su
base annua risulta essere di 1.1 °C in 50 anni. Anche in questo caso l’aumento delle
minime risulta essere:
 più marcato in estate (+1.6 °C in 50 anni) ed in inverno (+1.2 °C in 50 anni)
 meno accentuato in primavera (+1.0 °C in 50 anni) ed in autunno (+0.7 °C in 50
anni).
Tale trend è confermato anche negli anni più recenti dalle osservazioni effettuate
dalla rete di stazioni meteorologiche dell’ARPAV.
L’aumento delle temperature in Veneto trova anche delle conferme indirette
dall’esame di alcuni fenomeni:
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 dall’analisi delle somme termiche negli anni più recenti si evidenzia un
accorciamento del periodo di maturazione della vite valutato mediamente in
15-20 giorni; tale fenomeno trova conferma dalle indagini in campo effettuate
dal CREA – Centro di Ricerche per la Viticoltura di Conegliano (TV);
 è stata monitorata la progressiva riduzione, dal 1875, della superficie del
ghiacciaio della Marmolada; in generale la superficie glacializzata sulle
Dolomiti si è ridotta di circa il 49% negli ultimi 100 anni con un’accelerazione
della fase di ritiro a partire dal 1980 (si specifica che questo fenomeno è
comunque dipendente dall’effetto combinato di temperature e
precipitazioni).
4 - Il tempo atmosferico degli ultimi anni
L’anno 2014 in Veneto ha presentato le seguenti peculiarità:
 le precipitazioni invernali, come risulta in figura 7, (dicembre 2013-gennaio e
febbraio 2014) sono le più elevate dell’ultimo ventennio (ovvero da quando
ARPAV ha avviato le misure con stazioni automatiche) e dal 1920 hanno
raggiunto totali simili solo nell’inverno 1950-1951;
 anche le precipitazioni estive, come risulta in figura 8, sono le più elevate del
ventennio grazie soprattutto agli apporti del mese di luglio;
 le temperature medie dei mesi di gennaio febbraio e novembre risultano
molto elevate rispetto alla norma mentre le temperature di luglio ed agosto
risultano molto inferiori alla media;
 complessivamente l’anno 2014 risulta essere il più piovoso del ventennio e, su
buona parte dei punti di misura, risulta essere anche l’anno più caldo del
ventennio nonostante l’andamento delle temperature estive.
Nel corrente anno 2015 le temperature medie dei mesi da gennaio ad agosto
risultano tendenzialmente superiori alla media ventennale; in particolare, il mese
di luglio risulta il più caldo della serie ventennale. E’ interessante osservare che la
media delle temperature massime del mese di luglio se nel 2015 risulta la maggiore
dal 1994, nel 2014 risultava la minore.
St ima delle pre cipita zioni INVERNALI
in mm di a c qua ca duti sulla Regione Ve net o
mm
600
500
400
300
200
media
100
0
14/15
13/14
12/13
11/12
10/11
09/10
08/09
07/08
06/07
05/06
04/05
03/04
02/03
01/02
00/01
99/00
98/99
97/98
96/97
95/96
94/95
93/94
anni
Figura 7–Andamento delle precipitazioni invernali nel periodo 1994-2015.
S tima delle precipitazioni ESTIVE
in mm di acqua caduti sulla Regione Veneto
mm
500
450
400
350
300
m edi a
250
200
150
100
50
0
2015
2014
2013
2012
2011
2010
2009
2008
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
anno
Figura 8–Andamento delle precipitazioni estive nel periodo 1994-2015.
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Tra gli eventi “estremi” verificatisi di recente si ricordano:
 l’alluvione del 30 ottobre – 2 novembre 2010, durante la quale vengono
misurate precipitazioni di 400-500 mm in varie località delle Prealpi e con un
massimo assoluto di 587 mm sul Monte Grappa (BL);
 l’alluvione del 30 gennaio-4 febbraio 2014, particolare in quanto si verifica in
un periodo dell’anno tipicamente caratterizzato da scarse precipitazioni,
durante la quale vengono registrate precipitazioni sulle Prealpi di 250-400 mm
con massimo assoluto di 568 mm sul Monte Grappa (BL);
 l’allagamento di Mestre verificatosi durante il nubifragio del 26 settembre
2007 nel corso del quale vengono misurati a Campagna Lupia - Valle Averto
(VE) 301 mm di pioggia caduti in 6 ore;
il tornado abbattutosi sulla Riviera del Brenta (VE) l’8 luglio 2015 che sulla base dei
danni provocati è stato classificato come F4 (scala
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SCHEDA RIASSUNTIVA DELLA PRESENTAZIONE CLIMA GLOBALE E
FABBISOGNI ENERGETICI
Ernesto Pedrocchi
La presentazione “Clima globale e fabbisogni energetici” di Ernesto Pedrocchi al
Convegno di Padova “Storia ed evoluzione del clima terrestre” del 28-10-2014
dopo una premessa relativa alla differenza tra clima globale e clima locale e tra
inquinanti e anidride carbonica -CO2- (slides 2,3 e 4) si è articolata in 5 capitoli.
Il cap.1 presenta un quadro sintetico della storia del clima globale degli ultimi
500.000 anni tramite l’analisi della temperatura globale media (Tgm) per aiutare a
contestualizzare la situazione attuale. Risulta dalle slides 6,7,8 e 9 che ora siamo a
un livello di Tgm massimo rispetto a tutti i valori del periodo della rivoluzione
industriale, ma nei 10.000 anni dopo l’uscita dall’ultima glaciazione si sono
raggiunti valori maggiori; inoltre nell’ultimo periodo interglaciale, circa 125.000
anni orsono, la Tgm era nettamente superiore all’attuale e il mare mediterraneo
era a un livello di circa 8 m superiore all’attuale. In sintesi la temperatura del
pianeta è sempre variata per cause naturali ben prima che ci fosse l’uomo e la
situazione attuale non si presenta come anomala nella storia del clima.
Nel cap. 2 si analizza il legame tra aumento della concentrazione di CO2
nell’atmosfera ed emissioni antropiche dello stesso gas. Questo legame viene dato
per scontato, ma al riguardo ci sono alcuni dubbi. La tempistica di crescita delle
due grandezze: la concentrazione ha iniziato a crescere ben prima che le emissioni
fossero appena appena significative. La concentrazione cresce egualmente nei due
emisferi, mentre le emissioni antropiche sono prevalentemente concentrate
nell’emisfero nord sopra al tropico del cancro ed è scientificamente provato che
l’equatore è a livello atmosferico una barriera abbastanza rigida (slides 11, 12 e 13).
Infine le emissioni antropiche sono in continua crescita, ma hanno avuto dei
rallentamenti per cause varie di cui non è rimasto alcun segno nell’aumento della
concentrazione in atmosfera. In sintesi si può dire che è possibile che l’aumento
della concentrazione di CO2 in atmosfera sia anche conseguente le emissioni
antropiche, ma ci sono altri fattori che agiscono sul fenomeno.
Nel cap. 3 si analizza il legame tra concentrazione di CO2 in atmosfera e Tgm
evidenziando che nella storia del clima da circa 500.000 anni l’entrata e l’uscita
dalle glaciazioni sono sempre state innescate dai fattori orbitali sole/terra (questo
è riconosciuto anche da IPCC) e la variazione di concentrazione di CO2 segue in
generale la Tgm (slides 17 e 18). Inoltre si mostra che dall’uscita dall’ultima
glaciazione, all’incirca 10.000 anni fa, ad ora non c’è correlazione tra andamento
della concentrazione di CO2 in atmosfera e Tgm. In sintesi, pur essendo la CO2 un
gas serra, che ha però quasi esaurito il suo potenziale, non c’è prova nella storia
recente del clima che essa abbia avuto un’influenza significativa sul clima terrestre.
Nel cap. 4 si segnalano gli effetti del sole, molto probabilmente il driver naturale
più importante, sul clima terrestre. In particolare (slides 24 e 25) si evidenzia il
legame tra cicli delle macchie solari e clima terrestre e nella slide 26 si presenta
l’attuale sorprendente evoluzione dei cicli delle macchie solari.
Nel cap. 5 si analizzano le strategie a priori perseguibili per contenere i possibili
danni derivanti da cambiamenti del clima globale.
La strategia della mitigazione, ovvero il contenimento e la riduzione delle
emissioni antropiche di CO2, è attualmente molto perseguita, ma presenta diversi
problemi (slide 29). Non è scientificamente accertato che sia la CO2 antropica che
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causa l’aumento della concentrazione di questo gas in atmosfera, ne tanto meno
accertato che causi aumento della Tgm. Inoltre il contenimento delle emissioni
antropiche, se fossero responsabili di cambiamento del clima globale, dovrebbe
essere perseguito da tutti, ma ciò è impensabile per ragioni socioeconomiche
(tuttora i combustibili fossili coprono circa l’80% del fabbisogno energetico
mondiale). C’è il grave rischio della delocalizzazione delle attività particolarmente
energivore con peggioramento del quadro globale. In sintesi si può pensare che la
strategia della mitigazione, anche ammesso, come pura ipotesi, che le emissioni
antropiche di CO2 fossero responsabili del cambio del clima globale, è una strada
impercorribile. Ovviamente questo non comporta che non si debba perseguire la
strada dell’efficienza nella gestione dei processi energetici.
In alternativa c’è la strategia dell’adattamento che consiste in: (‘) Identificare gli
effetti dannosi più probabili e le aree più vulnerabili, (‘’) studiare e progettare
interventi graduali di adattamento e protezione, (‘’’) realizzare gli interventi con
una opportuna scala di priorità. Questa strategia è stata perseguita dall’uomo da
quando esiste e comporta notevoli vantaggi: (‘) Interventi validi
indipendentemente dalla causa antropica o naturale del fenomeno, (‘’) Interventi
mirati, con tecnologie note e già praticate, tempi di intervento congruenti con
l’insorgere dei danni, con buona probabilità di successo su problemi in generale già
esistenti, (‘’’) strategia valida anche se perseguita unilateralmente.
In sintesi la strada da seguire per contenere gli eventuali danni conseguenti a
cambiamenti del clima è la strategia dell’adattamento e della efficienza energetica
non quella del solo contenimento delle emissioni di CO2. Questo è anche il risultato
di un importante studio attuato nel 2015 dal “ Copenhagen Consensus Center” (B.
Lomborg) al quale hanno partecipato alcuni tra i più prestigiosi economisti, di cui 7
Premi Nobel.
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LE ERUZIONI VULCANICHE E IL CLIMA: DALL'ANNO SENZA ESTATE (1816)
AL RISCALDAMENTO DEGLI OCEANI
PAOLA PETROSINO
Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e delle Risorse Università di
Napoli Federico II
In questo intervento vengono affrontate le relazioni che intercorrono tra le eruzioni
vulcaniche e il clima, in termini di effetti sia a livello locale che a scala globale.
L'intervento affronta la storia della relazione tra vulcani e clima, le osservazioni, i
fattori e gli effetti delle eruzioni vulcaniche in rapporto al clima, gli strumenti per
estendere il record dei dati osservati e investigati con un approccio scientifico e, da
ultimo, il vulcanismo sottomarino in termini di potenziale fonte di calore e CO2 per
l'oceano.
Vulcani e clima: storia di una relazione
Le eruzioni vulcaniche possono essere di tipo effusivo, durante le quali il magma
viene emesso in maniera tranquilla e senza che si crei un accumulo di gas, e i cui
prodotti sono rappresentati da flussi di lava più o meno viscosa a seconda delle
caratteristiche (contenuto in silice, temperatura…) del magma di partenza. Le
eruzioni vulcaniche esplosive, invece, sono caratterizzate da risalita del magma in
condizioni tali che l'effetto della diminuzione della pressione su di esso sia
un'improvvisa e violenta liberazione dei gas che porta alla frammentazione del
magma stesso e delle rocce incassanti, e alla dispersione in atmosfera di una
miscela di frammenti di differenti dimensioni e gas (prevalentemente H2O, CO2,
SO2). I frammenti eiettati, le cui dimensioni variano a partire da dimensioni
dell'ordine dei micron, sono detti piroclasti e vanno a costituire una colonna
eruttiva di altezza compresa tra alcuni chilometri e 50 chilometri a seconda della
VEI (Volcanic Explosivity Index) dell'eruzione.
Nel passato non è stato facile mettere in relazione piccole variazioni della
situazione meteorologica con eruzioni vulcaniche che magari avvenivano in aree
molto distanti, soprattutto in assenza di mezzi di informazione come quelli attuali
grazie ai quali le notizie viaggiano in tempo reale. Benjamin Franklin fu il primo ad
ipotizzare una connessione tra l'attività vulcanica e il clima. Quando nel 1784
prestava servizio a Parigi come ambasciatore dei "neonati" Stati Uniti d’America,
infatti, scrisse che durante l'estate del 1783, quando ci si sarebbero aspettati cieli
limpidi e temperature elevate, una fitta nebbia ricopriva tutta l'Europa e gran parte
del Nord America, e che l'inverno del 1783-1784 poteva essere considerato di gran
lunga il più rigido di quelli registrati da molti anni. Egli poneva in relazione questi
fenomeni con un'eruzione avvenuta in Islanda, in particolare nel vulcano Hekla, che
all'epoca era senza dubbio il vulcano islandese più noto. Ora noi sappiamo che il
1783 fu l'anno dell'intensa eruzione fissurale del Laki, in Islanda, a cui andrebbero
piuttosto ascritti gli effetti osservati da Benjamin Franklin. La densa nebbia fu
notata da molti studiosi britannici; in particolare Thomas Barker, un signorotto
inglese appassionato di osservazioni meteorologiche, descrisse il fenomeno e
scrisse che esso si poteva paragonare a quello enumerato da Plutarco tra i prodigi
verificatisi in concomitanza della morte di Cesare nell'anno 44 a.C. Baker
testimoniava anche che, a differenza dell'estate descritta da Plutarco per il 44 a.C.,
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l'estate del 1783 in Inghilterra era stata calda, cosa che aveva notevolmente
anticipato la maturazione dei raccolti e che, soprattutto nell'Europa
Settentrionale, in conseguenza dell'acidità della foschia i raccolti erano stati
notevolmente danneggiati.
L’eruzione del Tambora, stratovulcano dell'isola di Sumbawa, situata
nell'arcipelago indonesiano della Sonda, avvenuta l’11 aprile del 1815, fece
registrare un VEI (Volcanic Explosivity Index) pari a 7, e comportò il rilascio di 50
km3 , espressi in termini di Dense Rock Equivalent, di magma trachiandesitico, in
parte messi in posto come prodotti da caduta da una colonna pliniana, ma in
massima parte come correnti piroclastiche e relativa nube co-ignimbritica.
L'eruzione viene ricordata soprattutto per i suoi effetti sul clima, e per i particolari
effetti ottici che si verificarono in concomitanza di essa (Stothers, 1984).
Questa eruzione ebbe conseguenze climatiche che vennero avvertite in tutto il
mondo, ed in particolare in Europa, USA e Canada. Il 1816 fu definito l’anno senza
estate. Negli Stati Uniti orientali, in luglio e agosto le temperature medie rimasero
attorno a 4°C. Attorno al 20 agosto le minime scesero sotto lo zero. Per tutta
quell’estate gelo e neve distrussero i raccolti. Sembra che come conseguenza di
questa eruzione l'emigrazione verso l'Ovest degli Stati Uniti abbia subito un
impulso. Per quanto riguarda l'Europa, l'eruzione, che avvenne solo un anno dopo
la fine delle guerre napoleoniche, sommò i propri effetti a una situazione
economico-politica già molto disastrata, e nel mondo occidentale si verificarono
carestie, epidemie e tumulti, e forte fu l'impulso verso un'emigrazione su larga
scala.
Tramonti dai colori brillanti e crepuscoli prolungati furono un altro degli effetti che
l'eruzione fece registrare nell'Europa centro-settentrionale, effetti che furono
facilmente classificabili come anomali, nonostante il rosso dei tramonti fosse
comunemente registrato nei cieli grigi di Londra. Questo fece sì che l'eruzione del
Tambora lasciasse un segno anche nell'arte: William Turner, detto anche “il pittore
delle luce”, avrebbe dipinto i tramonti e le albe di Londra con una luce che appariva
condizionata dagli effetti dell’eruzione. Trascorrendo la piovosa e fredda estate del
1816 sul Lago di Ginevra, Mary Shelley ebbe l'opportunità, forse condizionata
dall'impossibilità di uscire a passeggio, di comporre il suo fortunato romanzo
Frankenstein e Lord Byron scrisse, nel poemetto Darkness, del 1816, versi che
richiamano la cupezza del tempo e delle atmosfere che probabilmente lo
circondavano.
L’eruzione del Krakatau, anch’esso situato nell'arcipelago indonesiano, a sud di
Sumatra, avvenuta tra il 26 e il 27 agosto 1883, fu caratterizzata da una colonna
eruttiva la cui altezza superava i 40 km. I frammenti più grossolani caddero al suolo
piuttosto rapidamente, ma quelli più sottili furono trasportati per alcuni mesi nella
fascia intertropicale dell'atmosfera. A far ricordare il Krakatau sono stati
soprattutto i fenomeni ottici legati agli effetti dovuti al dust veil che
caratterizzarono i mesi successivi all’eruzione. Il report prodotto da Rollo Russell e
Douglas Archibald per la Royal Society of London aveva infatti come sottotitolo
"On the unusual optical phenomena of the atmosphere, 1833-1866, including
twilight effects, coronal appearances, sky hazes, colored suns, and moons, etc."
Anche l’eruzione del Krakatau ha lasciato la sua traccia nell’arte. Tra tutti va
ricordato l’artista norvegese Munch, che racconta lui stesso come il dipinto “L’urlo”
(1893) fu ispirato da un tramonto particolare, a cui egli assistette ad Oslo:
"Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse
all'improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad una
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palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I
miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che
un grande urlo infinito pervadeva la natura". Agli anni successivi al 1883 rimandano
anche i cinquecento acquarelli dell’artista britannico Ashcroft, della collezione
“Cieli del Krakatau”, in cui sono dipinti gli effetti dell'eruzione sui cieli di varie città.
Per quanto riguarda la letteratura, va ricordato il poemetto di Tennyson intitolato
"St. Telemachus", parte della sua ultima opera, The Death of Oenone, Akbar's
Dream, and Other Poems, pubblicata nel 1892. Nei primi versi del poemetto il
poeta parla delle ceneri di un vulcano, che sono in grado di attraversare l'atmosfera
dell'intero globo. Il riferimento al Krakatau è chiaro, se teniamo conto del fatto che
nel 1883 la notizia era stata riportata dalla stampa occidentale con dovizia di
particolari.
Vulcani e clima: le osservazioni
Fin qui quelle sono state trattate relazioni tra eruzioni vulcaniche e clima che ci
provengono da fonti indirette, diciamo così, più descrittive che scientifiche (Francis
e Oppenheimer, 2004). Tre importanti eruzioni accadute nel secolo scorso,
l'eruzione del Agung, a Bali, in Indonesia, verificatasi il 17 maggio 1963, l'eruzione
del vulcano El Chichòn, in Messico, del 28 Marzo 1982 e l'eruzione del vulcano
Pinatubo, Filippine, accaduta il 12 Giugno1991, hanno permesso di investigare con
un approccio scientifico
le conseguenze sul clima di eruzioni vulcaniche.
Si è innanzitutto dedotto che le eruzioni vulcaniche iniettano gas e aerosol nella
stratosfera. Nella maggior parte dei casi, l'altezza delle colonne eruttive è tale che
l'iniezione di SO2 avviene direttamente nella stratosfera; in altri casi, come è
accaduto per l'eruzione del 2011 del vulcano eritreo Nabro, la miscela di gas e
piroclasti raggiunse la troposfera e fu il monsone estivo asiatico a favorirne il
trasporto all'interno della stratosfera. Solo se il magma che alimenta l'eruzione è
particolarmente ricco in SO2 si formerà una nube di aerosol che rimarrà nella
stratosfera per un significativo periodo dopo l'eruzione. Il passaggio da SO2 (e, in
minor misura, da H2S) a H2SO4 che costituisce gli aerosol avviene in presenza di
vapore acqueo ancora per alcune settimane dopo l'eruzione (Robock, 2000). Le
particelle solide di dimensioni più significative, invece, sedimentano piuttosto
rapidamente per cui possono avere effetti di breve durata sul solo clima locale.
L'effetto della dispersione degli aerosol è quello di ridurre la radiazione incidente
dall'atmosfera aumentando il suo backscattering; nel contempo, la radiazione
emessa dalla superficie terrestre viene dispersa con più difficoltà. Il risultato di
questo complesso bilancio è un raffreddamento degli strati più prossimi alla
superficie terrestre e un riscaldamento all'interno della stessa fascia degli aerosol.
Le eruzioni vulcaniche hanno un effetto anche nel diminuire il contenuto di ozono
in atmosfera: dopo l'eruzione del Pinatubo, ad esempio, si registrò una
diminuzione del 10% dell'ozono sugli Stati Uniti. la colpa, tuttavia, non è da
ascriversi all'eruzione vulcanica in sé, quanto all'effetto congiunto degli aerosol e
dei composti di Cl, come i CFC, presenti in atmosfera. Gli aerosol vulcanici, infatti,
forniscono solo delle superfici su cui reazioni chimiche complesse spostano il
bilancio dei composti di azoto da forme reattive a forme più inerti che, a loro volta,
contribuiscono a trasformare il Cl antropogenico da forme più innocue (come HCl)
a forme più reattive (come HClO) che possono distruggere l'ozono. Stanti le
normative attuali, che limitano drasticamente l'uso di CFC, possiamo sperare che
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una prossima eruzione con caratteristiche simili a quella del Pinatubo trovi in
atmosfera un quantitativo minore di questi composti, e quindi abbia un effetto più
ridotto sull'impoverimento dello strato di ozono.
Vulcani e clima: i fattori
Numerosi sono i fattori che regolano la relazione tra l'attività vulcanica e il clima,
primi tra tutti la VEI dell'eruzione e la posizione geografica del vulcano. A parità di
tutti gli altri fattori, è infatti intuitivo pensare che più alte saranno le colonne
eruttive di eruzioni esplosive maggiore sarà la probabilità che le ceneri e i gas
costituenti le stesse raggiungano la stratosfera. In realtà, anche la latitudine a cui si
trova il vulcano gioca un ruolo importante. Per le eruzioni che avvengono alle
basse latitudini, la via per la distribuzione degli aerosol è sicuramente la
stratosfera, in quanto dalla troposfera essi vengono facilmente rimossi dalle
frequenti precipitazioni. Per come è impostata la circolazione nella stratosfera, se
un'eruzione avviene in un emisfero gli aerosol ad essa relativi si distribuiranno per
lo più all'interno di quello stesso emisfero. Solo le eruzioni che originano da vulcani
localizzati nella fascia intertropicale hanno più probabilità di distribuire aerosol in
entrambi gli emisferi. Un altro fattore latitudinale che va considerato, però, e i cui
effetti in qualche modo controbilanciano il fatto che è difficile che un'eruzione da
un vulcano a latitudini elevate distribuisca i suoi aerosol su ampi areali, è l'altezza
diversa della tropopausa, che è mediamente 20 km all'equatore e 10 km ai poli,
cosicché un'eruzione anche da colonne di altezza minore che avvenga a latitudini
più elevate può disperdere i propri aerosol nella stratosfera. Può essere questo uno
dei motivi per cui la eruzione fissurale del Laki del 1783, pur non avendo
componente esplosiva, ebbe un effetto condizionante sul clima.
Il parallelo tra il grado di esplosività (VEI) dell'eruzione e i suoi effetti sul clima si è
scoperto non essere così immediato: un sicuro fattore di controllo è il contenuto in
SO2 del magma che alimenta l'eruzione, che è molto variabile. Un esempio è dato
dall' l’eruzione di El Chichòn verificatasi in Messico nel 1982, che fu caratterizzata
da una VEI intermedio-bassa, ma il magma andesitico che la alimentò era
estremamente ricco in zolfo, tanto da far cristallizzare anidrite (CaSO4), un
minerale che cristallizza in situazioni magmatiche solo da magmi ricchi in maniera
anomala di zolfo. Questo ci porta a dover fare una considerazione: in generale, per
le eruzioni avvenute in epoca passata e quindi non osservate direttamente, in cui
non è stato possibile misurare i contenuti di SO2 della nube, i contenuti di SO2 del
magma vengono stimati da dati petrologici. Essi, in generale, risultano di molto
inferiori a quelli determinati dalle osservazioni, come nel caso del Pinatubo. Se
questo è vero anche per altre eruzioni accadute in passato, molte di esse
potrebbero aver lasciato segni sul clima, che noi non riusciamo ad ipotizzare e i cui
effetti non riusciamo ad individuare con chiarezza.
Vulcani e clima: gli effetti
Dell'effetto di raffreddamento globale al suolo di cui sono causa le eruzioni
vulcaniche si risente per alcuni anni dopo l'eruzione, arrivando a circa un secolo se
si somma l'effetto di più eventi eruttivi (eruzioni multiple). Facendo un confronto
tra le temperature medie degli ultimi 150 anni e la presenza di episodi eruttivi, si
nota come l'effetto di abbassamento delle temperature conseguente l'eruzione si
risente mediamente per tre anni. Dallo stesso confronto si nota come manchi
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totalmente nel record degli abbassamenti significativi di temperatura legati ad
eruzioni vulcaniche il segnale dell’ eruzione più importante dello scorso secolo,
quella del Katmai del 1912, a testimonianza del fatto che il contenuto in SO2 del
magma di partenza, molto basso per l'eruzione del Katmai, è un importante
fattore si controllo degli effetti delle eruzioni sul clima globale. L'effetto di
raffreddamento globale causato dalle eruzioni è in qualche modo smentito da un
riscaldamento che caratterizza gli inverni immediatamente successivi all'eruzione
nell'emisfero settentrionale, dovuto a una risposta non lineare attraverso le
complesse dinamiche della atmosfera. Dopo l'eruzione del Pinatubo nell'inverno
1991-1992 le temperature sul Nord America, l'Europa e la Siberia erano molto più
alte della norma e quelle sull'Alaska, la Groenlandia, il Medio Oriente e la Cina
erano più basse del normale. Quell'inverno fu così freddo che nevicò a
Gerusalemme, un fatto molto anomalo, e i coralli sul fondo del Mar Rosso
morirono a causa del raffreddamento della parte superficiale delle acque e del
successivo rimescolamento convettivo. L'aumentato apporto di nutrienti causò
anomale fioriture algali e di fitoplancton, che soffocarono i coralli. Quello che
accade è che in corrispondenza della tropopausa i venti più forti in inverno (jet
streams o polar vortex) si trovano a latitudini intermedie. La forza del jet stream
dipende dal gradiente di temperatura tra i tropici e le regioni polari, che è più
significativo in inverno, quando i poli si riscaldano. Per un'eruzione che avvenga in
zone intertropicali, il riscaldamento per effetto degli aerosol è più forte ai tropici
che ai poli, contribuendo ad aumentare il gradiente. Il jet stream viene così
rafforzato producendo un pattern di venti troposferici caratteristico, che tende a
riscaldare alcune regioni e a raffreddarne altre. Questo pattern è la cosiddetta
"Oscillazione Artica", che viene spostata verso la sua fase positiva da un'eruzione
intertropicale. Questo effetto advettivo sulle temperature è più significativo in
inverno rispetto a quello radiativo che domina alle latitudini più basse e in estate
(Robock, 2015). Per circa un anno dopo l'eruzione si risentirà anche di una ridotta
precipitazione nelle aree intertropicali, legate alla ridotta evaporazione, e fino a
due anni dopo l'evento si risentirà anche della riduzione degli effetti del monsone
estivo in Africa ed Asia, a causa del raffreddamento del continente e la
diminuzione del contrasto termico tra terra e mare.
Dopo le eruzioni di Angung, El Chicòn e Pinatubo, molti dei fenomeni ottici in
atmosfera descritti, ad es., dopo l'eruzione del Krakatau, hanno trovato una valida
spiegazione scientifica. I cieli al tramonto sono normalmente rossi: in realtà
durante il giorno essi appaiono blu perchè lo scattering dei raggi del sole è più forte
alle lunghezze d'onda più corte dello spettro del visibile. All'alba e al tramonto il
forward scattering fa sì che noi vediamo soprattutto le lunghezze d'onda del rosso;
tale effetto è amplificato dalla presenza di aerosol o particelle sub-micrometriche,
come quelle iniettate in atmosfera dagli incendi o dalle eruzioni vulcaniche, in
concomitanza dei quali i tramonti appaiono rosso sangue. Gli anelli di Bishop,
osservati dal reverendo Sereno E. Bishop alle Hawaii dopo l'eruzione del Krakatau,
come aloni che circondavano il sole, risultarono il prodotto della diffrazione dei
raggi solari in corrispondenza della nube che contiene particelle vulcaniche
opache.
Vulcani e clima: il record esteso
Fin qui abbiamo parlato di eruzioni osservate o studiate con un approccio
scientifico per poter capire quale sia la relazione tra eruzioni vulcaniche e clima. E'
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ora il momento di tentare di estendere il record alle eruzioni non osservate, con
tutti i limiti che questo comporta. Per estendere questo record prima di tutto, una
volta acquisita la conoscenza dei possibili effetti di un’eruzione vulcanica sul clima,
si possono rileggere le cronache d’epoca per ritrovarvi indizi di una possibile
eruzione. L’esempio più emblematico, tra quelli riportati da Stothers e Rampino
(1983), è la «Mistery Cloud» che avrebbe interessato l’area mediterranea nel 536
d.C. Rileggendo gli scritti di Procopio di Cesarea, Giovanni il Lidio, Giovanni di
Efeso, contemporanei all'eruzione, o quelli più tardi di Michele Siro, si deduce che
nel 536 d.C. a Costantinopoli il sole non riusciva a riscaldare l'aria e i frutti non
maturavano, per cui non era possibile la vinificazione. Effetti simili sono riportati
anche nel documento cinese Nan Shi, Storia delle dinastie meridionali, in cui si
parla di nevicate in Agosto sempre per il 536 d.C. Recentemente è stato proposto
che l’eruzione in questione potrebbe essere stata la causa del periodo freddo
cosiddetto Dark Ages, che interessò l’emisfero settentrionale tra il VII e il IX secolo
d.C. Quale vulcano abbia eruttato è ancora incerto. Da un’attribuzione
dell’eruzione al Rabaul (Papua Nuova Guinea), si è passati a proporre un paleoKrakatau, poi un vulcano di El Salvador (Terra Blanca Joven dell’Ilopango Caldera),
fino a una serie di eruzioni nel Nord America.
Testimonianza indiretta degli effetti delle eruzioni può essere trovata nelle carote
di ghiaccio (Stenni et al., 2002), che conservano testimonianza dei picchi di H2SO4
conseguenti le eruzioni (spikes). Studiando le carote di ghiaccio, però, si hanno dei
risultati sorprendenti, perché carote vicine spesso non recano testimonianza degli
stessi spikes, probabilmente per effetti locali, e ci sono alcuni spikes che non si
riescono a correlare ad eruzioni note. Un altro contributo per estendere il record
delle relazioni eruzioni vulcaniche-clima viene dalla dendrocronologia. I tronchi
degli alberi risentono di temperature estremamente basse durante la loro stagione
di crescita, mostrando anelli di accrescimento di spessore ridotto o danneggiati.
Studi recenti (Mann et al., 2012) postulano addirittura la possibile assenza di anelli
di accrescimento durante gli anni rigidi che seguono le eruzioni vulcaniche, il che
andrebbe a compromettere il principio di base dell'uso della dendrocronologia, che
è proprio quello della presenza di un anello per ogni anno di accrescimento. Un
approccio multiproxy, che tenga conto dei limiti emersi per le tre metodologie di
individuazione e collocazione crono-stratigrafica degli eventi presentate e che si
avvalga della possibilità di eseguire datazioni 14C per i prodotti delle eruzioni
individuate, o di analizzare eventuali frammenti di materiale juvenile all’interno
delle carote di ghiaccio, per risalire con precisione al vulcano sorgente e, ove
possibile, all'evento eruttivo, consente di verificare l’affidabilità delle correlazioni
effettuate. Nonostante ciò restano comunque episodi non correlabili in tutti e tre i
record, da attribuirsi per lo più a fattori locali.
Va detto che tra gli studiosi che contribuiscono a queste ricerche di tipo multiproxy
(paleontologi, palinologi, tefrostratigrafi, dendrocronologi) c’è un accordo
generale nel ritenere che il clima globale sia influenzato da fattori astronomici
(forcing astronomico). Se le grandi eruzioni possano o meno causare meccanismi
di feedback tali che il forcing vulcanico possa soppiantare quello astronomico è
ancora materia molto dibattuta. In linea generale, si è portati a pensare che in
corrispondenza delle deglaciazioni si alleggerisca il carico litostatico sul mantello,
potenziale sorgente del magma, e questo causi proprio un impulso alla produzione
del magma, seguito, dopo un certo periodo di tempo dipendente dal tasso di
risalita del magma, da un aumento dell'attività eruttiva. Per continuare il circolo,
questo picco di attività eruttiva potrebbe significare un raffreddamento globale del
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clima e, per conseguenza, rappresentare un nuovo impulso verso la glaciazione.
Vulcani e clima: le eruzioni sottomarine
L'ultimo problema che affrontiamo è quello di capire se l'attività vulcanica
nell'oceano possa rappresentare una sorgente di CO2. L'attività vulcanica
sottomarina si concretizza per lo più in termini di magmatismo lungo le dorsali
medioceaniche, in corrispondenza delle quali viene prodotta nuova crosta
oceanica grazie all'emissione di lave basaltiche fluide, in forma per lo più di pillow
lavas. Tale attività vulcanica non è distribuita in maniera continua nel tempo,
recenti ricerche (Tolstoy, 2015) hanno infatti individuato una relazione tra
eccentricità, emissione di CO2 e inspessimento crostale (indizi, questo ultimi, di
presenza di attività vulcanica sottomarina) in corrispondenza del tratto
meridionale dell’East Pacific Rise, cioè la dorsale Medio Pacifica. Questo
porterebbe ad affermare che ci sono alcuni picchi di attività lungo le dorsali a cui
corrispondono picchi nell'emissione di CO2. Se e come questa CO2 possa in qualche
modo passare all'atmosfera non è ancora chiaro. Ancora ci possiamo porre il
problema se esista un effetto di fattori geologici sul riscaldamento delle acque
oceaniche, e ancora una volta dobbiamo invocare fenomeni che accadono lungo le
dorsali, dove ricordiamo la presenza di black e white smokers , che sono dei geyser
sottomarini comuni in questi ambienti. Sono vent idrotermali che rilasciano getti di
vapore caldo, e da cui precipitano molti minerali utili. Tipiche sono anche le forme
di vita adattate a vivere negli ambienti estremi, come, ad es., dei batteri
estremofili. Una recente ricerca ha esteso l'effetto black smokers a zone molto più
ampie del fondo oceanico. Grandi quantità di acqua oceanica circolano sul fondo
del mare, perché si infiltrano all’interno di rocce permeabili, percorrono distanze
pari o superiori a 50 chilometri, e risalgono poi di nuovo sul fondo marino quando
incontrano uno strato di rocce meno permeabile (Winslow e Fisher, 2015). Questo
meccanismo, detto di tipo «sifone», sarebbe in grado di trasferire all’oceano circa il
30% del calore che fuoriesce dalla crosta terrestre.
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Edizione nr. 71 del 20/02/2016
INFLUENZE ASTRONOMICHE E OSCILLAZIONI NATURALI DEL CLIMA
TERRESTRE
Nicola Scafetta
(Dipartimento di Scienze della Terra, dell'Ambiente e delle Risorse, Università di
Napoli Federico II, Napoli)
Sommario:
La teoria dell’origine antropica del riscaldamento globale, sostenuta
dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), presenta notevoli limiti
che sono stati discussi nella mia relazione per il convegno “Storia ed evoluzione del
clima terrestre” tenutosi a Padova il 28-10-2015.
In sintesi, l’uomo contribuisce ai cambiamenti climatici ma sicuramente meno di
quanto dichiarato dall’IPCC perché la stima proposta è basata su modelli climatici
dimostratisi incapaci di riprodurre la variabilità naturale del sistema. L’analisi della
fenomenologia dei cambiamenti climatici globali dimostra che almeno il 50% del
riscaldamento della Terra osservato sin dal 1850 (circa 0.8-0.9 oC) è stato indotto
da numerose oscillazioni naturali con periodi variabili dalla scala annuale a quella
millenaria. E’ stato dimostrato che molte di queste oscillazioni sono correlate ad
oscillazioni solari, lunari e planetarie. La presenza di oscillazioni naturali di origine
astronomica permette lo sviluppo di modelli fenomenologici con una elevata
probabilità predittiva.
Alcuni di questi modelli empirici sono stati proposti e hanno superato alcuni test di
verifica. Per il futuro questi modelli indicano una probabile stabilizzazione della
temperatura globale della Terra fino al 2030-40 con possibili massime nel 2015 e
2020. A causa dei cicli naturali e della sensibilità del clima alle emissioni antropiche
che è ridotta della metà rispetto alle stime dell’IPCC, la temperatura media della
superficie del mondo difficilmente potrebbe salire al di sopra dei 2 oC tra il 2000 e il
2100 anche in assenza di sostanziali politiche per mitigare le emissioni antropiche
di gas serra.
Per un’analisi dettagliata di questi risultati consultare almeno questi due lavori:
1) Scafetta, N.: Discussion on climate oscillations: CMIP5 general circulation
models versus a semi-empirical harmonic model based on astronomical
cycles. Earth-Science Reviews 126, 321-357, 2013.
2) Nicola Scafetta: “Prevedere i cambiamenti climatici in uno scenario allargato del
sistema Terra-Sole”. Capitolo in “Prevedibile/imprevedibile. Eventi estremi nel
prossimo futuro” a cura di E. Guidoboni, F. Mulargia, V. Teti. pp. 67-93, 2015.
Punti principali discussi nella mia presentazione
A) La teoria del riscaldamento globale antropico (Anthropogenic Global Warming
Theory)
Sin dal 1850 la temperatura globale della terra è cresciuta di circa 0.8-0.9 e sin dagli
anni settanta la temperatura è cresciuta di circa 0.5-0.6 oC. Questo aumento della
temperatura è stato concomitante con un forte aumento nell’atmosfera di alcuni
gas serra, soprattutto CO2, prodotto dalla combustione di materiali fossili
(carbone, petrolio, metano) ad opera dell’uomo. L’Intergovernmental Panel on
Climate Change (IPCC 2014) ritiene che l’uomo abbia causato più del 95% del
riscaldamento globale sin dal 1900 e praticamente il 100% del riscaldamento
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globale sin dal 1970: questa teoria è nota come l’Anthropogenic Global Warming
Theory. Secondo questa stessa teoria un contributo astronomico, più
propriamente solare, sarebbe presente ma è minimo e praticamente trascurabile.
L’IPCC fu formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l'Organizzazione
meteorologica mondiale (WMO) ed il Programma delle Nazioni Unite per
l'Ambiente (UNEP) per studiare i cambiamenti climatici antropici su scala
mondiale.
Il messaggio dell’IPCC è che se nei prossimi anni e decenni le emissioni di gas serra
globali non verranno seriamente mitigate, per il 2100 esse potrebbero causare un
riscaldamento del pianeta di 3-5 oC sopra le temperature odierne. Un
riscaldamento secolare superiore ai 2 oC potrebbe essere troppo dannoso per
cercare di risolvere le conseguenze negative dei cambiamenti climatici solo con
l’adattamento, per cui sarebbe necessario contenere il riscaldamento globale al di
sotto dei 2 oC riducendo notevolmente le emissioni dei gas serra.
Questa è la ragione per cui il gas CO2 è considerato dall’IPCC un inquinante
nonostante sia uno dei gas fondamentali per lo sviluppo della vita sul pianeta.
Infatti, il CO2 è il gas ‘verde’ per eccellenza essendo il cibo principale delle piante e,
di conseguenza, elemento fondamentale per la vita di tutti gli esseri viventi,
incluso evidentemente l’uomo stesso.
In breve, l’argomento politico non è se ulteriori emissioni di gas serra possano o no
causare un riscaldamento del pianeta, ma se esse possano causare un
riscaldamento superiore ai 2 oC per il 2100. Il problema è decidere se è meglio che
l’uomo si adatti ai cambiamenti climatici (come ha sempre fatto sin dall’antichità)
oppure se costosissime politiche di mitigazione debbano essere necessariamente
implementate per prevenire catastrofi planetarie.
B) Il problema dell’incertezza nella sensibilità climatica ad un aumento di gas serra
I fattori forzanti che secondo i modelli usati dall’IPCC, conosciuti come General
Circulation Models, hanno causato i cambiamenti climatici sin dal 1750 hanno solo
una natura radiativa. Alcuni, come il CO2, danno un contribuito positivo, e quindi si
ritiene che abbiano causato un riscaldamento climatico. Altri forzanti danno un
contribuito negativo, come gli aerosol dispersi nell’aria che bloccano parte
dell’irraggiamento solare diretto alla superficie causandone un raffreddamento. Il
vapore acqueo è il più importante dei gas serra, ma funziona come un feedback
interno regolato dalle equazioni del clima, e non come un forzante esterno o
aggiuntivo del sistema.
Tuttavia, determinare l’intensità dei forzanti radiativi non è sufficiente per capire
come il clima cambia di conseguenza. Uno dei parametri più importanti in
climatologia è l’equilibrium climate sensitivity che indica di quanto la temperatura
del pianeta aumenta all’equilibrio se la concentrazione di CO2 atmosferico
raddoppia. Questo parametro misura la risposta del sistema climatico ai forzanti
radiativi. Purtroppo, il valore numerico di questo parametro è ancora
estremamente incerto. Secondo i modelli climatici adottati dall’IPCC, se la
concentrazione atmosferica del CO2 raddoppia, la temperatura media del pianeta
potrebbe aumentare tra 1.5 e 4.5 oC (cfr. Lewis, 2013). Questa larga incertezza
mostra egregiamente il problema scientifico, che dovrebbe suscitare forti
perplessità sulla attendibilità delle interpretazioni dei cambiamenti climatici
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proposti dall’IPCC sulla base di modelli analitici. Questa incertezza è fisica ed è
dovuta al fatto che non si sanno ancora modellare bene i principali meccanismi
climatici di feedback, cioè il vapore acqueo, le nuvole e la circolazione delle acque
oceaniche che dominano i cambiamenti climatici.
Facciamo un esempio per capire meglio il significato fisico di questo argomento
fondamentale. Se immaginiamo che la vera sensibilità climatica al raddoppio della
concentrazione del CO2 sia vicina ad 1.5 oC invece di essere vicina a 3 oC, che è il
valore medio predetto dai modelli dell’IPCC, i forzanti radiativi rappresentati in
figura 2 sarebbero in grado di predire solo il 50% del riscaldamento osservato sin
dal 1850. La logica conclusione sarebbe che alcuni meccanismi e forzanti ancora
ignoti all’IPCC sarebbero responsabili dell’altro 50% del riscaldamento globale. In
questo caso, i modelli adottati sarebbero fisicamente incompleti e, quindi, incapaci
di riprodurre una parte della variabilità climatica naturale che avrebbe un peso
consistente. Conseguentemente, anche le previsioni dei cambiamenti climatici per
il XXI secolo mostrate in figura 1 dovrebbero essere rigettate perché inattendibili.
C) Il significato della temperatura di Mann nota come l’Hockey Stick del 1998 e il
cambiamento di prospettiva avvenuto sin dal 2005 non ancora ben capito
Perché una maggioranza all’interno della comunità scientifica ha accettato la
teoria del riscaldamento antropico nonostante la persistenza dell’incertezza fisica
dei processi climatici manifestata dall’elevata incertezza della sensibilità climatica
ai forzanti radiativi discussa sopra? Cerchiamo di capire cosa è successo.
Mann et al. (1998) pubblicarono una delle prime ricostruzioni della temperatura
globale durante gli ultimi 1000 anni: questa ricostruzione è comunemente
conosciuta come l’Hockey Stick ed è dipinta in figura 5. Questo grafico suggerisce
che prima del 1900, cioè dello sviluppo industriale, la temperatura del pianeta era
pressoché costante (si osserva una variazione climatica media di circa 0.2 oC) e che
sin dal 1900 un riscaldamento anomalo di circa 0.8 oC sarebbe avvenuto. Diversi
gruppi scientifici, tra i quali quello di Crowley et al. (2000), usarono semplici
modelli climatici e conclusero che l’Hockey Stick implicava che il clima è quasi
insensibile al sole ed ad altri fattori naturali, e che il riscaldamento osservato sin dal
1900 poteva essere interpretato solo come dovuto alle emissioni antropiche del XX
secolo. Crowley concluse: “The very good agreement between models and data in
the pre-anthropogenic interval also enhances confidence in the overall ability of
climate models to simulate temperature variability on the largest scales.”
Quindi, in un certo qual modo, l’Hockey Stick dava una conferma predittiva, anche
se qualitativa, che la variabilità climatica naturale è minima come i modelli basati
sui forzati radiativi simulavano allora e simulano ancora oggi. Conseguentemente,
i modelli potevano essere ragionevolmente accettati per interpretare il pattern
generale della temperatura globale e questi interpretavano il riscaldamento
globale sin dal 1900 come dovuto quasi completamente all’uomo.
Tuttavia sin dal 2004/2005 l’Hockey Stick è stato seriamente criticato su più fronti,
soprattutto matematici e storici. Ricostruzioni alternative del clima degli ultimi
millenni sono state proposte (Moberg et al. 2005, Mann et al. 2008, Ljungqvist
2010, Christiansen & Ljungqvist 2012). Queste suggeriscono una notevole
variabilità climatica pre-industriale di almeno 0.6-0.7 oC che è tre-quattro volte
superiore alla variabilità climatica pre-industriale rivelata dall’Hockey Stick.
Quindi, mentre intorno al 2000 poteva anche essere legittimo credere nei modelli
climatici dell’IPCC, oggi questi devono essere messi in discussione dato che ora si
sa che questi modelli non ricostruiscono le temperature del passato e predicono
che il sole contribuisca solo marginalmente ai cambiamenti climatici. Tuttavia, le
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evidenze empiriche ci raccontano un’altra storia.
D) Analisi armonica della temperatura superficiale globale e i grandi cicli di 20, 60 e
1000 anni
Numerose ricostruzioni della temperatura durante l’Olocene, cioè degli ultimi
12.000 anni, presentano un ciclo di circa 1000 anni che, per giunta, è ben correlato
con le concentrazioni di C14 e Be10 usate per ricostruire l’attività solare (cf.: Bond et
al. 2001, Kerr 2001). Infatti, esiste una correlazione molto forte tra record climatici
e record dell’attività solare (cf: Kirkby 2007, Scafetta 2012a, 2014a, Svensmark
2007). Il ciclo di mille anni ha regolato le maggiori fasi climatiche conosciute
storicamente come il Periodo Caldo Romano di circa 2000 anni fa, il periodo freddo
noto come “Secoli Bui” del 400-800 A.D., il Periodo Caldo Medioevale tra il 900 e il
1300 A.D., la Piccola era Glaciale tra il 1400 e 1800 A. D. e, infine, il Periodo Caldo
Moderno.
Durante gli ultimi anni è stato anche osservato che numerose serie climatiche
lunghe anche diversi secoli e fino a millenni presentano ampie oscillazioni tra cui
una con un periodo di circa 20 anni e una di circa 50-70 anni. Infatti, la temperatura
globale della superficie terrestre mostra i seguenti periodi di riscaldamento: 18501880, 1910-1940, 1970-2000. E i seguenti periodi di raffreddamento: 1880-1910,
1940-1970. Sin dal 2000 le temperature sono state piuttosto stabili. Si intravede
chiaramente una oscillazione di circa 60 anni con una ampiezza totale di circa 0.3
oC che modula un trend di riscaldamento.
In generale, analisi armoniche hanno messo in evidenza l’esistenza di oscillazioni
con periodi di circa 9.1 anni, 10-12 anni, 15 anni, 20 anni, 30 anni, 60 anni ed altre
(Scafetta 2010, 2013, Klyashtorin et al. 2009, Wyatt & Curry 2014). Tuttavia,
nessuno dei modelli dell’IPCC ha riprodotto questa variabilità naturale (Scafetta
2012b, 2013).
I modelli CMIP5 usati dall’IPCC non riproducono nessuno dei suddetti cicli, il che
dimostra che questi modelli non riproducono la variabilità naturale del sistema
climatico su tutte le scale temporali (Scafetta 2012b, 2013).
E) L’emergenza di una nuova teoria climatica basata su oscillazioni astronomiche
Il sistema solare appare caratterizzato da una misteriosa sincronizzazione tra i suoi
componenti (Scafetta 2014b). Questa proprietà è conosciuta come la musica delle
sfere sin dai tempi di Pitagora, Tolomeo e Keplero. I cicli orbitali di Milankovic e
della loro relazione con le grandi glaciazioni sono oggi ben conosciuti. Tuttavia, le
evidenze mostrate sopra suggeriscono influenze astronomiche su scale temporali
anche molto più piccole delle scale millenarie.
Se la temperatura presenta oscillazioni approssimativamente periodiche, la
spiegazione più ragionevole è che il sistema climatico è modulato da cicli
astronomici. Confronti tra le analisi spettrali mobili della temperature della
superficie terrestre e della velocità del sole relativa al baricentro del sistema solare,
che è un buon proxy per le oscillazioni gravitazionali astronomiche del sistema
solare, sono stati effettuati (Scafetta 2014c). La presenza di linee di massima
potenza comuni nei due record dimostrano la coerenza spettrale tra il clima e le
armoniche astronomiche come quelle vicino ai 20, 60 e 1000 anni, e molte altre. La
temperatura anche contiene una armonica di circa 9 anni che può essere associata
alle armoniche delle maree lunari.
Analisi approfondite delle oscillazioni gravitazionali del sistema solare e
dell’attività solare hanno messo in evidenza che questa è caratterizzata da un gran
numero di oscillazioni astronomiche per tutti i pianeti deducibile dalle scale
temporali di pochi mesi a quelle millenarie (Scafetta 2010, 2012c, 2014c, Scafetta
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& Willson 2013a). Anche i record di aurore presentano simili oscillazioni (Scafetta
2012d, Scafetta & Willson 2013b). Non è possibile ignorare queste evidenze
empiriche anche se i meccanismi fisici dei vari processi non sono ancora
pienamente capiti.
F) Come si possono prevedere i cambiamenti climatici?
Analisi empiriche dei record climatici suggeriscono che il clima è parzialmente
modulato da uno specifico set di oscillazioni. Queste oscillazioni appaiono coerenti
con alcune oscillazioni astronomiche. A queste si deve aggiungere l’effetto
dell’attività vulcanica e delle emissioni umane.
Quindi, per prevedere il clima è sufficiente osservare che una componente
armonica è facile da estendere nel futuro in prima approssimazione usando
appropriati modelli armonici, come si fa comunemente con le predizioni delle
maree oceaniche. Per la componente umana si possono proporre degli scenari
futuri di emissioni, ma c’è il problema di determinare la sensibilità climatica a
questi forzanti radiativi. La componente vulcanica andrebbe lasciata fuori dal
modello predittivo perché le eruzioni sono occasionali.
In una serie di studi (Scafetta 2010, 2012b, 2012d, 2013) ho proposto modelli
empirici per i cambiamenti climatici basati su alcune oscillazioni astronomiche:
oscillazioni di 9.1 anni di origine lunare e di 10.4, 20, 60, 115 e 983 anni, che sono
vari cicli solari ed astronomici (Scafetta 2012a, 2012c, 2014c). La componente
vulcanica e antropica è stata simulata stimando che la soluzione migliore era usare
le simulazioni dei modelli attenuate del 50%. Questa scelta implica che la
sensibilità climatica ai forzanti radiativi è la metà di quella dichiarata dall’IPCC, cioè
è tra 0.75 oC e 2.3 oC e che altri meccanismi climatici siano presenti ma ancora
ignoti. Ad esempio, ci potrebbero essere effetti elettromagnetici dello space
weather che potrebbero influire direttamente sulla nuvolosità della Terra (Kirkby
2007, Svensmark 2007) come gli studi sulle aurore suggeriscono (Scafetta 2012d,
Scafetta & Willson 2013b).
La capacità predittiva del modello empirico è stata testata calibrando il modello
durante il periodo 1850-1950 e verificando la sua abilità di ricostruire il periodo
1950-2010 e viceversa (Scafetta 2010, 2012b, 2012d). Il modello risalente al 2011 ha
correttamente predetto che la temperatura sarebbe cresciuta raggiungendo un
massimo nel 2014-2015 (Scafetta 2014a).
Nella presentazione faccio due confronti:
1) Confronto la temperatura superficiale globale (curva nera) e tutte le simulazioni
di tutti i modelli usati dall’IPCC per la ricostruzione climatica sin dal 1860 con
proiezioni fino al 2100 secondo quattro alternativi scenari di emissioni umane
indicati con rcp26 (emissioni minime), rcp45, rcp60 e rcp85 (emissioni massime).
Dal 1860 al 2015 questi modelli riproducono approssimativamente solo il
riscaldamento globale su scala secolare, ma nessun dettaglio climatico è ben
riprodotto. Come si vede bene dall’inserto che ingrandisce il periodo 1990-2030, le
simulazioni climatiche di questi modelli hanno predetto temperature decisamente
troppo alte rispetto ai dati. Sin dal 2000 i modelli hanno predetto in media un
riscaldamento di circa 2 oC per secolo mentre i dati non hanno mostrato nessun
riscaldamento significativo.
2) Confronto la temperatura superficiale globale (curva nera) e tutte le stesse
simulazioni adattate usando il modello empirico basato su oscillazioni lunari, solari
ed astronomiche in aggiunta alle componenti vulcanica ed antropica. Queste sono
state stimate come il 50% di quella prodotta dalle stesse simulazioni CMIP5 dipinte
in figura 12A. Quindi il modello usa gli stessi scenari di emissioni antropiche usate
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dall’IPCC per il XXI secolo. La figura 12B e l’inserto mostrano che il modello
empirico riproduce la variazione climatica osservata su scale decennali e maggiori,
con una buona precisione durante l’intero periodo sin dal 1860 includendo il
periodo seguente l’anno 2000. Esso predice un periodo caldo tra il 2014 e il 2015.
Secondo questo modello la temperatura potrebbe oscillare rimanendo piuttosto
stabile fino al 2030-2040. Per il 2100 il modello empirico mostra un possibile
riscaldamento medio globale medio di circa 1 oC mentre l’IPCC ha previsto un
riscaldamento globale medio di circa 2-3 oC.
G) Conclusioni
Un confronto diretto tra le simulazioni climatiche e i dati all’infuori del periodo di
calibrazione degli stessi, cioè all’infuori del XX secolo, è deludente durante tutto
l’Olocene. La divergenza dai dati diventa macroscopica anche dopo il 2000 dove i
modelli dell’IPCC hanno predetto un riscaldamento di circa 2 oC per secolo mentre i
dati non mostrano alcun riscaldamento significativo. In questi casi, il metodo
scientifico richiede di guardare con grande diffidenza le previsioni climatiche per il
XXI secolo ottenute con questi modelli. Alternativamente, ho evidenziato che
l’analisi dei dati climatici mostra che questi sono spesso caratterizzati da
oscillazioni più o meno periodiche, come cicli di circa 9, 10-12, 20, 60, 100-130 e
1000 anni e molti altri che sono coerenti con le maggiori oscillazioni solari, lunari e
planetarie del sistema solare.
L’esistenza di oscillazioni climatiche riconducibili ad oscillazioni astronomiche
prevedibili è ottimale per poter sviluppare modelli climatici con una elevata
capacità predittiva. I meccanismi fisici possono variare. Secondo questo modello la
temperatura potrebbe oscillare rimanendo piuttosto stabile fino al periodo 20302040 e per il 2100 la temperatura non dovrebbe crescere più di 1 oC in media
rispetto al 2000 secondo gli stessi scenari di emissioni antropiche dell’IPCC.
In conclusione, l’analisi di molteplici dati suggerisce che le tesi dell’IPCC, secondo
la quali l’umanità sarebbe in imminente pericolo a causa delle emissioni umane
come il CO2, sono basate su modelli climatici troppo semplicistici che
sovrastimano notevolmente il contributo umano e sottostimano quello naturale.
Questi modelli non prendono in considerazione numerosi meccanismi responsabili
delle oscillazioni naturali del clima, che sembrano a loro volta sincronizzati con le
oscillazioni del sistema solare indotte dal sole, dal movimento dei pianeti e della
luna. Tuttavia, già da ora una ricostruzione dettagliata del clima suggerisce che il
modello empirico è più soddisfacente e può essere più attendibile nel predire cosa
potrebbe succedere nel XXI secolo.
Se i prossimi decenni i cambiamenti climatici saranno moderati come il modello
empirico proposto suggerisce, i vantaggi economici potrebbero essere significativi.
Un modesto riscaldamento del globo dovrebbe essere più benefico che dannoso,
considerando che storicamente l’umanità ha sempre sofferto maggiormente
durante i periodi climatici più freddi mentre ha prosperato maggiormente durante
quelli più caldi. Inoltre, con una maggiore quantità di CO2 atmosferico la Terra
dovrebbe diventare più verde e produrre più cibo per tutti. Infine, per più modesti
cambiamenti climatici i progetti di adattamento oppure di mitigazione dovrebbero
essere più economici, così che risorse maggiori potrebbero essere disponibili per
progetti ambientali alternativi al fine di limitare l’inquinamento chimico, contenere
la deforestazione, risparmiare acqua ed altre risorse non rigenerabili: elementi tutti
che migliorano la qualità della vita.
Bibliografia
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pag. 62
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Iscrizione presso il Tribunale di Padova n.2187 del 17/08/2009
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irradiance and the TSI signature of the 1.09-year Earth-Jupiter conjunction cycle.
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Scafetta, N., Willson, R.C.: Planetary harmonics in the historical Hungarian aurora record
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Svensmark, H.: Cosmoclimatology: a new theory emerges. Astron. Geophys. 48, 18–24,
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L A P RIMA VE RA D I P RA G A : IL ’ 6 8 D E L L ’ E S T, UN
MA G G IO FRA NCE S E A L CONTRA RIO
Gianfranco Coccia
Sono trascorsi quasi cinquant’anni da
quando i fatti ai quali il presente
scritto si riporta. Non sono mancate,
nel tempo, occasioni per farne
oggetto di dibattiti e di riflessioni
visto, per di più, che quegli eventi
sono stati oramai consegnati alla
Storia. La caduta del Muro del 1989
ne aveva accelerato il processo per la
loro rivisitazione anche se va detto, e
sin da subito, che quei fatti, pur
straordinari se contestualizzati in quel luogo e in quel tempo, non hanno
assolutamente costituito i prodromi per la successiva disgregazione di quel blocco
monolitico allora chiuso e saldamente blindato nel Patto di Varsavia sottoscritto da
taluni paesi dell’est europeo nel maggio del 1955.
La Primavera di Praga, titolo poetico coniato nello scorcio finale di quel
Sessantotto dai media occidentali, è stata in un certo qual modo per i
cecoslovacchi una sorta di maggio francese, però al contrario, anche se identiche
erano le comuni attese di allora. Medesime, infatti, erano anche le istanze più o
meno dichiarate di libertà e di voler progredire, stessi i cortei di studenti, medesimi
gli scioperi. Dovendo, però, necessariamente fare i distinguo, si può dire che i
barricaderi parigini, come ai tempi di Marx e Lenin, contestavano il potere dello
Stato borghese finanche di nazione. A Praga e dintorni, invece, si desiderava solo
recuperare l’indipendenza scippata dalla dominazione sovietica: mentre nel ’56, a
Budapest, gli ungheresi erano arrivati a cancellare il primato del Partito Comunista
e la stessa appartenenza del loro Paese al Patto di Varsavia, diversamente nel ’68,
a Praga, non era minimamente in discussione l’alleanza con l’Urss e, tanto meno, il
ruolo guida del Partito. Si pensava, allora, soltanto come dare al Partito un “volto
umano” senza, però, che i promotori si stessero rendendo conto, almeno nella fase
embrionale del progetto, quanto provocatorio il tutto avrebbe potuto appalesarsi
agli occhi dell’Urss.
Andando leggermente a ritroso a quei fatti, già dalla metà degli anni Sessanta si
erano timidamente fatte sentire note dissonanti verso il Sistema: la
destalinizzazione avviata nel’56 da Kruscev, a Praga era stata, invece, molto più
lenta che nei paesi viciniori dell’universo comunista dell’est europeo. Difatti, iniziò
solo nel’63. Quindi, solo a dieci anni dalla morte del georgiano, questa attività di
destalinizzazione ancorchè avviata in misura modesta dai dirigenti cecoslovacchi,
aveva iniziato a creare delle concrete attese specie se poste in relazione con la
situazione economica che si stava aggravando e alle non mai risolte ineguaglianze
tra la Slovacchia e le altre regioni ceche, la Boemia e la Moravia.
Questa inversione di tendenza dei governanti cecoslovacchi aveva, comunque,
influenzato di lì in avanti abbastanza positivamente il contesto socio-culturale
locale. Gli intellettuali avevano iniziato a celebrare Kafka; la nuova cinematografia
aveva creato un indotto nel turismo tanto da portare nel Paese anche valuta
pregiata, così pure le mode dell’Ovest avevano cominciato a entrare timidamente
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nelle principali città. Vennero applauditi già celebri autori come Pavel Kohout,
Milan Kundera che in varie occasioni avevano fatto sentire la loro voce in questo
rinnovato clima di fiducia e di attese. In particolare, il teatro dell’assurdo
raccoglieva in quella stagione un lusinghiero consenso popolare. Di fianco al
rumeno Ionesco e all’irlandese Beckett, il pubblico trovava una perentoria
reinterpretazione locale nella commedia di un altro allora
sconosciuto
drammaturgo di nome Vaclav Havel destinato, post caduta del Muro, a diventare il
presidente della repubblica che “metteva sotto la lente d’ingrandimento la
neolingua di legno che caratterizzava il clima di surrealtà programmata, fetizzata, in
cui boccheggiava la Cecoslovacchia oppressa dal tallone di Antonin Novotny, primo
segretario segretario e presidente della repubblica” (*).
L’impulso culturale di Havel, la revisione filosofica di Kosik, le analisi economiche di
Ota Sik, costituirono la piattaforma intellettuale di un moto di opposizione di tipo
nuovo: programmatico, flessibile, sinuoso che tendeva a spingere le sue
ramificazioni all’interno della serra dello stesso potere comunista locale.
Ma il Dominus rimaneva ancora lui, Antonin Novotny, primo segretario del partito
dal 1951 e, dal 1957, anche presidente della repubblica. Fu così che la posizione di
questi cominciò ad indebolirsi tant’è che alla fine dell’ottobre del ‘67, sulla spinta di
Alexander Dubcek, proveniente dalle seconde file del partito, riformatore
prudente, leninista ragionevole, amico dei russi per aver vissuto nel loro paese nel
1944, ex allievo disciplinato di scuole partitiche sovietiche, gli fu chiesta una netta
e decisa separazione dei poteri fra il Partito e lo Stato determinandone così, la
rinuncia ad una delle due cariche. Ma dietro Dubcek, pulsava una nazione bramosa
di libertà. Alle spalle del partito chiuso da sempre in se stesso, le acque stavano
diventando più libere tali da poter essere assorbite da tutti i pori della società,
partito, fabbriche, scuole, caserme dando così vita alla vera e propria Primavera di
Praga. Inevitabile, quindi, che dopo settimane di esitazione, il Praesidium del
partito, nel gennaio del ’68 si pronunciasse a favore della separazione delle
funzioni vitali dello Stato nominando proprio Dubcek, primo segretario del partito
stesso. A completare la parabola discendente di Novotny, questi, il 22 marzo si
dimise e fu sostituito alla presidenza della repubblica da Ludvik Svoboda che, nella
lingua slovacca, significa libertà, già comandante dell’esercito cecoslovacco di
stanza in Russia durante la seconda guerra mondiale. E, altresì, l’8 aprile dello
stesso anno, Oldrich Cernik, fu chiamato ad assumere le funzioni di Primo Ministro
al posto di Josef Lenart. Le riforme politiche di Dubcek che egli chiamò “Socialismo
dal volto umano”, non si proponevano come ante si diceva, di rovesciare in toto il
vecchio regime allontanandolo dall’Urss, ma di mantenere il sistema economico
collettivista coniugandolo con una maggiore libertà politica, di stampa e di
espressione. “Dietro i professori di Praga e di Bratislava, non c’era il deserto, c’era il
nucleo dirigente di un partito comunista in parte riformato e destalinizzato…. Per le
strade, l’aria era di attesa paziente e insieme fervorosa. I cittadini, non più sudditi,
divoravano i giornali liberalizzati, si consultavano sottovoce sulle notizie del giorno.
Vivevano con calma mitteleuropea il miracolo dell’improvvisa quanto rischiosa
rinascita dopo l’ibernazione totalitaria” (**).
Rischiosa, è vero, perché non si poteva non tener conto della posizione geografica
della Cecoslovacchia posta esattamente al centro dello schieramento difensivo del
Patto di Varsavia: una eventuale sua defezione non avrebbe potuto essere tollerata
dal blocco sovietico in periodo di Guerra Fredda e con il rischio, non lontano, di un
effetto domino in tutto lo scacchiere dell’est europeo. Ma questo non rientrava nei
piani dei nuovi dirigenti del Paese anche se i Sovietici videro in questo
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cambiamento lo spettro della secessione dal blocco granitico come già lo avevano
pensato nel non lontano ’56, a Budapest. E così venne il 23 marzo 1968 quando, per
iniziativa di Breznev, si tenne a Dresda un vertice degli aderenti al Patto nel corso
del quale Dubcek venne duramente attaccato sulla libertà di stampa esistente a
Praga. Qualche giorno dopo questo summit, il Comitato Centrale del Partito
procedette ad un rimpasto senza, però, estromettervi in toto gli esponenti ancora
legati a Novotny.
Dubcek ebbe, nell’occasione, un pochino enfaticamente a dichiarare che...il
successo della nostra democrazia sarà il successo del socialismo in quanto tale. La
mancanza di coerenza o l’insuccesso…lasceranno a lungo una traccia disastrosa nel
movimento comunista internazionale” (***).
Il 18 giugno successivo, iniziarono proprio in Cecoslovacchia manovre militari
congiunte del Patto: non succedeva dal ’46, cioè da quando le truppe sovietiche si
erano ritirate post conflitto mondiale. Nel corso della sua visita a Praga, il generale
sovietico Yepichev non si trattenne dall’ invitare duramente i dirigenti
cecoslovacchi a riprendere saldamente in mano la situazione interna il che spinse
settanta eminenti personaggi del paese a pubblicare il 27 giugno il famoso
Manifesto delle 2000 parole con il quale essi esprimevano il loro sostegno al
governo “anche con le armi, fino a quando farà quello per cui è stato nominato “
(****).
Breznev reagì contro Dubcek definendo quel manifesto una “proclamazione della
controrivoluzione”. Tra una dichiarazione e l’altra scambiate d’ambo le parti, si
arrivò alla riunione del Patto di Varsavia che si tenne il 3 agosto a Bratislava che,
visto a posteriori, avrebbe fornito qualche giorno dopo il pretesto per l’intervento
armato del Patto secondo cui “Il mantenimento, il consolidamento e la difesa delle
conquiste del socialismo, rientrano nei doveri comuni a tutti i paesi socialisti”.
L’intervento poteva aver luogo, sempre secondo il Patto, in caso di attacco armato
diretto contro uno degli Stati Socialisti, ma anche per opporsi ad una “aggressione
indiretta” che potesse reputarsi sovversiva, antigovernativa o controrivoluzionaria.
Nel testo della Dichiarazione di Bratislava dello stesso giorno, vi si proclamava che
“i partiti fratelli oppongono con forza e risoluzione la loro incrollabile solidarietà e la
loro attivissima vigilanza contro tutti gli intrighi dell’imperialismo e di tutte le forze
anticomuniste che mirano ad indebolire il ruolo dirigente della classe operaia e dei
partiti comunisti.”
Che dire di più?
Ecco che, alle undici di sera del 20 agosto 1968, reparti sovietici e degli altri paesi
“satelliti”, iniziarono l’invasione della Cecoslovacchia. Nella riunione congiunta del
Governo, dell’Assemblea Nazionale e del Comitato Centrale, Dubcek commosso
con le lacrime agli occhi, ebbe ad alzare la propria voce dicendo:“che abbiano fatto
questo, quando ho dedicato tutta la mia vita alla collaborazione con l’Urss , è la più
grande tragedia della mia vita”. E non chiese di prendere in considerazione la
possibilità di una resistenza armata anche perché le truppe cecoslovacche, pur
numerose, bene armate ed addestrate, ma chiuse nel dispositivo del Patto, non
avrebbero avuto spazio di manovra alcuno. L’esperienza ungherese di dodici anni
prima ne era la prova provata e non lasciava speranze di nessun tipo.
Finisce appunto così in tragedia la Primavera di Praga.
La Dottrina Breznev, sebbene applicata sin dai tempi di Stalin post Yalta che
successivamente si qualificò come “sovranità limitata” degli stati satelliti dell’est
europeo, ne ebbe una nuova consacrazione che durò sino al 1989 quando si
sgretolò con le macerie del Muro di Berlino. Ma già aveva profetizzato il presidente
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francese De Gaulle mentre quell’esperienza politica stava maturando: ”Bella cosa,
ma vanno troppo in fretta e troppo oltre; i russi interverranno. Allora, come sempre, i
cecoslovacchi rinunceranno a battersi e la notte tornerà a cadere su Praga. Non
mancherà anche qualche studente pronto a suicidarsi”.
Calato il sipario sul palcoscenico di Praga, tutto andò, pertanto, avanti proprio così
per altri vent’anni prima che la “rivoluzione di velluto” li facesse uscire da quel lungo
processo di normalizzazione, rectius di ibernazione dopo aver vissuto “in un
conformismo e in una passività la cui generalizzazione sembrava aver messo il potere
comunista al riparo da qualsiasi scossa (*****).
(*)- La Primavera di Praga, Enzo Bettiza, Mondadori 2008 pagg. 14 15
(**)- Enzo Bettiza id. pagg. 13-14
(***) A. Fontaine – La Guerra Fredda – Ed Piemme pag. 332
(****) A. Fontaine, id
(*****) F. Fejto – La fine delle democrazie popolari – Mondadori 1994 pag. 151
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G IUS E P P E P A VA NINI: VE RS O L ’ O RO
Nicola Galvan
Gli sviluppi recenti della pittura di
Giuseppe Pavanini sono segnati dalla
scoperta dell’oro. Durante gli ultimi due
anni, la luminosità del metallo più
prezioso si è progressivamente insinuata
nelle immagini dipinte dall’artista, sino a
permearle della sua presenza. In esse,
l’oro si manifesta sia con la sua verità
materiale,
ovvero
attraverso
l’applicazione delle sue impalpabili
foglie, sia grazie alle possibilità di
simulazione offerte dal colore. Nell’uno e
nell’altro caso, si presta a rappresentare
ben più di un semplice complemento
decorativo dei dipinti, incidendo sulla
loro sintassi compositiva e regalando
nuove accezioni alla meditazione astratto informale che da sempre impegna
Pavanini. Se nell’ambito dei valori estetici l’elemento si dimostra una materia
duttile quanto seducente, nel campo di quelli poetici dispiega una sua peculiare
polifonia. Le numerose corrispondenze di natura culturale e spirituale che lo
riguardano sono ovviamente presenti all’autore, il quale però non premedita le
ripercussioni a vario titolo simboliche del suo utilizzo. Introducendo l’oro nei suoi
lavori, sembra piuttosto proporsi di estendere le possibilità di risonanza
dell’immagine nella psiche dell’osservatore: un fenomeno che la filosofia e lo
studio delle arti hanno in più momenti affrontato, e che nel recente passato ha
avuto in Gaston Bachelard uno dei suoi più acuti osservatori. Ne La poetica dello
spazio, ragionando sul rapporto tra la rappresentazione artistica e gli archetipi
assopiti nell’inconscio, il filosofo francese affermava come «tale rapporto non sia
propriamente causale. L’immagine poetica non è sottoposta ad alcun impulso,
essa non è l’eco del passato ma è piuttosto il contrario: attraverso una folgorante
immagine, il passato lontano risuona di echi e non si riesce a cogliere fino a quale
profondità tali echi si ripercuoteranno e si estenderanno. Nella sua novità, nella
sua attività, l’immagine poetica possiede una propria essenza, un proprio
dinamismo, dipende da una ontologia diretta […]».
I lavori del ciclo Gold Surface bene si prestano a rappresentare l’ineffabile potere
evocativo dell’opera d’arte, risultato che colgono senza fare affidamento a un
linguaggio di tipo figurativo o direttamente simbolico. Valorizzando la
componente della spontaneità, a volte quella del puro istinto creativo, Pavanini
ha dato vita a una serie di immagini a loro modo epifaniche, attraverso le quali
diviene possibile l’attivazione di quel retentissement psichico che lo stesso
Bachelard analizzava nelle pagine sopra ricordate. Pur non somigliando a nulla se
non a se stesse, queste pure astrazioni pittoriche esprimono una particolare
capacità di sollecitare sul piano mnemonico, emotivo e intellettuale lo spettatore,
trovando cioè riflesso nel suo personale patrimonio di esperienza, sensibilità,
cultura.
L’essere in possesso di una pregevole versatilità operativa ha consentito
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all’artista di presentare la materia dorata sotto differenti forme, alle quali
corrispondono un eguale numero di variazioni sul tema, ognuna in grado di
generare un proprio ambiente semantico.
L’oro può così apparire come traccia frammentaria, contribuendo a costruire le
texture cromatiche che abitano alcune superfici. Altrove, i suoi bagliori vengono
emessi da sfondi distesi e uniformi, destinati ad accogliere interventi pittorici di
ordine gestuale. Nella luce aurea che accende in modo discontinuo le
composizioni, o che si leva tra i flussi del colore, sembra affiorare l’ambizione
della pittura di trascendere la propria stessa materialità, per esprimere l’idea di
una compiuta, forse utopica, armonia.
Di segno diametralmente opposto, ma certo non meno interessanti, sono gli
episodi pittorici in cui l’artista corrompe la purezza dell’elemento, ne altera o ne
spegne la lucentezza. La foglia d’oro è soggetta a effetti di corrosione o usura,
che possono portare in emersione gli strati cromatici soggiacenti. A essere
suggerita non è più dunque l’immagine di un’armonia trascendente, ma bensì
quella di uno splendore in via di disfacimento, cui l’immaginario incedere del
tempo dona un fascino estenuato e decadente. In sintonia con tali richiami
poetici sono i casi in cui il colore dell’oro risulta semplicemente implicato, se non
mimetizzato, nelle ruvide haute pâtes che caratterizzano un ristretto gruppo di
lavori. Simili a porzioni di suolo, queste superfici vedono rotto il loro enigmatico
silenzio da graffi che le attraversano diagonalmente, forse inferti nel tentativo di
liberare la voce ancestrale della materia. Spogliato di ogni possibile aura sacrale o
simbolica, l’oro dorme ora nelle loro viscere, idealmente riconsegnato alla terra
da cui proviene.
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L’A LBE RO DE LLE S ORBE E A LTRE S TORIE
Prefazione di Luigi La Gloria
Scorrendo le pagine di queste tre narrazioni,
così intensamente formulate da indurre la
coscienza del lettore a non trascurare
un’attenta riflessione sul senso della vita, ci si
chiede quanto sottile sia la linea di confine,
tracciata dall’autore, che separa la realtà
dall’inventiva.
In queste tre storie, così geograficamente
lontane tra di loro e tuttavia tanto vicine,
accomunate da una medesima tragicità,
Giovanni La Scala, non nuovo a questo tipo di
effetto narrativo, crea un immaginario
orizzonte degli eventi dove il vero e l’illusorio
non sfuggono all’immane forza della verità
alla quale l’umanità affida le sue speranze di
riscatto morale.
Forse un messaggio per coloro che hanno smarrito il gusto di porsi domande sul
vero significato dell’esistenza? Oppure un monito rivolto a quel tipo di persone
divenute incapaci di indignarsi di fronte al male e al dolore?
Certo si è che questo suo particolare stile letterario, espresso in maniera assai
convincente anche in L’altra dimensione del tempo – sedici brevi storie pubblicate
dalla stessa Casa Editrice – svela la sua intima vocazione a mostrare a quella parte
di umanità, immersa in una sorta di svagato torpore, l’inquietante lato oscuro
della natura dell’uomo.
Ciò nondimeno l’autore, che crede con forza nella grandezza dell’anima,
ricompone con benevolenza le trame grigie delle condotte insane dettate
dall’inconsapevolezza e riscatta il bene attraverso l’amore e le azioni dei suoi eroi
senza gloria.
Ma il primario valore di quest’opera è che l’autore con la sua prosa lineare e
garbata, sapientemente dosata per non eccedere in drammaticità, benché le
vicende da lui narrate trasudino di quel tragico clamore che talvolta getta il
lettore nello sconcerto, le sue storie le ha attinte da quel luogo della mente dove
tiene custodite con cura e riserbo le sue personali esperienze composite ed
eterogenee di medico giramondo.
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A L P RIMO S G UA RD O
Opere inedite della collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova
e Rovigo
Rovigo, palazzo Roverella e palazzo Roncale
27 febbraio-5 giugno 2016
Le Collezioni d’arte della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo,
ricche di più di mille pezzi, vengono per la prima volta svelate al pubblico a
Rovigo. Per ospitare le circa duecento opere che rappresentano il fior fiore della
imponente raccolta di pittura e scultura sono state scelte due diverse sedi, tra
loro
vicinissime:
Palazzo
Roverella
e
Palazzo
Roncale.
La prima è la sede della Pinacoteca dei Concordi e di tutte le grandi esposizione
d’arte rodigine; il secondo, Palazzo Roncale, sorge dirimpetto al Roverella ed è un
imponente palazzo nobiliare rinascimentale, patrimonio della Fondazione, che ha
provveduto al suo completo restauro.
Questa mostra offre quindi anche l’occasione per ammirare gli interni restaurati
di questa nobile dimora. La scelta della Fondazione è stata di privilegiare, per
questa doppia mostra rodigina affidata alla curatela di Giandomenico Romanelli
e di Alessia Vedova, l’ampio corpus di opere riguardanti i due più recenti secoli,
l’Ottocento e il Novecento. Pur prevedendo alcune eccezioni, là dove questo
risulti indispensabile per dare completezza ad alcuni nuclei della grande
collezione della Fondazione. Per motivi storici e di appartenenza non c’è dubbio
che l’interesse maggiore si concentrerà sulla presentazione di un nucleo ancora
inedito della Collezione della Fondazione Cassa di Risparmio. Si tratta dei dipinti
riuniti nella collezione di Pietro Centanini, che recentemente l’ha voluta donare
alla Fondazione affinché possa mantenersi integra e soprattutto possa essere
goduta dalla collettività. La sua è una raccolta d’arte che unisce ai molti acquisti,
ben guidati, che il collezionista aveva fatto sul mercato, il patrimonio d’arte della
sua antica famiglia. Com’è testimoniato dall’esposizione, Pietro Centanini
indirizzava le sue scelte soprattutto sugli artisti veneti ma anche, in omaggio alla
moglie di origine partenopea, alla scola napoletana. Pur senza chiusure
aprioristiche.
In collezione si trovano infatti opere di gradissimo interesse di Palizzi, De Nittis,
Lega, Ghiglia, Boldini, Fattori, Soffici, Rosai, de Pisis, de Chirico, Guttuso, insieme
a Zandomeneghi, Milesi, Luigi Nono, Licata, Brass, Barbisan ma anche Utrillo e
Chagall. La Famiglia invece collezionava i vedutisti e i pittori di interni, compresi
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alcuni magnifici Guardi. Se la Collezione Centanini sarà una novità per tutti, il
nucleo maggiore della Fondazione Cariparo non mancherà di stupire per
ricchezza e varietà di contenuto. In esso sono testimoniati ben 5 secoli di storia
dell’arte veneta e italiana. Si passa più puntualmente a Oreste Da Molin,
Giuseppe Manzoni e al Cavaglieri, gloria rodigina. Il Futurismo è ben
rappresentato da Tullio Crali, mentre il secondo dopoguerra è presente con una
sequenza notevolissima di opere, a ricordare l’importanza del gruppo N e
dell’optical, con Biasi, Landi, Chiggio Massironi e infine tre opere di Castellani.
“Quella che presentiamo in questa mostra è solo una parte della nostra
collezione”, chiarisce il Presidente della Fondazione Antonio Finotti.
Complessivamente la Fondazione ha un patrimonio di oltre mille opere di pittura,
insieme a diversi nuclei di sculture (solo in minima parte qui esposti) e a incisioni,
disegni, manoscritti. Insomma un vero e proprio museo che incrementiamo
regolarmente con oculate acquisizioni. Ci sembrava doveroso e coerente con la
nostra missione rendere fruibile al grande pubblico un patrimonio artistico
costruito nel tempo anche con opere lasciate dai cittadini del territorio”.
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P INA COTE CA DE LL’A CCA DE MIA DE I CONCORDI E
DE L S E MINA RIO
Rovigo
Palazzo Roverella
E’ stata innanzitutto una manifestazione di affetto dei Rodigini per la loro
Pinacoteca. Così viene letto il numero veramente notevole di visitatori, 4.116
per l’esattezza, che in pochi giorni si sono recati ad ammirare i capolavori della
Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi e del Seminario, tornati nella loro
sede di Palazzo Roverella. Come si ricorderà, le opere erano state esposte
durante l’estate e l’inizio autunno al Forte di Bard, in Val d’Aosta, su richiesta
di quella Regione. A Bard la mostra dei capolavori rodigini, presentata con il
titolo “Da Bellini a Tiepolo”, era stata ammirata da 26.300 visitatori in poco più
di 4 mesi. E’ stata un’occasione importante di promozione della conoscenza
della prestigiosa Pinacoteca dell’Accademia dei Concordi e del Seminario
Vescovile e della città di Rovigo, in una sede espositiva qualificata, in un’area
interessante com’è quella del nord ovest d’Italia. Il brillante risultato di
visitatori venuti a salutare il rientro delle opere a Rovigo è stato ottenuto in
pochi giorni, dato che la Pinacoteca è stata riaperta il 20 novembre scorso e ha
chiuso i battenti nella serata di ieri, 7 febbraio. In queste poche settimane, la
visita era possibile solo nelle giornate di venerdì, sabato e domenica.
Da oggi la Pinacoteca è nuovamente chiusa alle visite perché sia negli
ambienti di Palazzo Roverella sia nel dirimpettaio Palazzo Roncale stanno
arrivando le circa duecento opere che rappresentano il fior fiore della
imponente raccolta di pittura e scultura della Fondazione Cariparo, opere che
si potranno ammirare a partire dal 27 febbraio nella grande, doppia mostra
intitolata “Al primo sguardo”. A Palazzo Roncale saranno esposte le opere
della collezione di Pietro Centanini, recentemente donata alla Fondazione
affinché potesse mantenersi integra e soprattutto potesse essere goduta dalla
collettività.
La sua è una raccolta d’arte che unisce ai molti acquisti, ben guidati, che il
collezionista aveva fatto sul mercato, il patrimonio d’arte della sua antica
famiglia. In collezione si trovano opere di gradissimo interesse di Palizzi, De
Nittis, Lega, Ghiglia, Boldini, Fattori, Soffici, Rosai, de Pisis, de Chirico,
Guttuso De Chirico, insieme a Zandomeneghi, Milesi, Luigi Nono, Licata,
Brass, Barbisan ma anche Utrillo e Chagall. Insieme a oli di vedutisti e i pittori
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di interni, compresi alcuni magnifici Guardi. Se la Collezione Centanini sarà
una novità per tutti, il nucleo maggiore della Fondazione Cariparo non
mancherà di stupire per ricchezza e varietà di contenuto. In esso sono
testimoniati ben 5 secoli di storia dell’arte veneta e italiana.
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LE ME RA VIG LIE DE LLO S TA TO DI CH OU
13 marzo-25 settembre 2016
Museo Nazionale Atestino di Este (PD)
Museo Archeologico Nazionale di Adria (RO)
Museo d’arte orientale di Venezia
Per la prima volta in Europa le testimonianze e la storia dell’antica civiltà dello
Stato di Chu. Due storie parallele nel tempo ma che si avverano a più di 8 mila
chilometri di distanza: nelle antiche terre dei Veneti, tra Po e Adige, e lungo le
sponde del Fiume Azzurro, in quella che poi sarà la Cina. In questi fertili
territori, nel millennio che precede l’era cristiana, si affacciano alla storia due
grandi civiltà, capaci di proporre manufatti di straordinaria raffinatezza e di
accogliere il meglio della cultura locale e dei popoli contemporanei. Civiltà che
diventeranno parte integrante e costituente di realtà molto più potenti:
l’Impero Romano nel caso dei Veneti, il regno di Qin per il futuro Celeste
Impero.
Un accordo tra Italia e Cina, e più precisamente tra Veneto e la Provincia
cinese del Hubei, consente per la prima volta in Europa di scoprire le
testimonianze, davvero magnifiche, della civiltà dell’antico Regno. Come,
successivamente, una Mostra allestita al Museo Provinciale del Hubei,
consentirà ai cinesi di avvicinarsi alla grande storia che precedette di secoli la
nascita di Venezia. A rendere del tutto eccezionale questo progetto
(promosso, per parte italiana, dai Comuni di Este e di Adria, dalla
Soprintendenza Archeologia del Veneto, dal Polo Museale del Veneto,
sostenuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e dalla
Regione del Veneto) è l’esposizione dei “reperti ospiti” dal Museo Provinciale
del Hubei accanto alle coeve testimonianze territoriali esposte nei Musei
Nazionali Archeologici di Este e di Adria, sedi delle mostre.
Nato come piccolo regno militare, Chu si espanse al punto da diventare, sul
finire del Periodo delle Primavere e degli Autunni (770 - 454 a.C.), una vera e
propria potenza e visse il suo momento di massimo splendore nel successivo
Periodo degli Stati Combattenti (453 - 221 a.C.). L'impressionante qualità e
stato di conservazione di reperti archeologici rinvenuti nella provincia di
Hubei, cuore dello stato di Chu, in uno straordinario contesto archeologico di
recente scoperta, testimonia come la supremazia del regno fosse culturale,
prima ancora che militare. Armi e giade che rappresentano i due punti estremi
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dello Stato di Chu: la supremazia terrena attraverso la guerra e il consenso
celeste attraverso l'offerta del bene più prezioso.
Bronzi rituali ding e dui, indicatori della ricchezza e del prestigio della classe
nobile. La loro forma, le fantasiose cesellature e le iscrizioni
votive sottolineano la grande abilità degli artigiani di Chu, in continuità con la
gloriosa tradizione dei bronzi Cinesi fin dalla più profonda antichità. Lacche
straordinarie sono tra gli oggetti più sorprendenti, solo se si pensa che esse
sono di legno e che grazie alla laccatura ci sono giunte pressoché intatte dopo
oltre due millenni e mezzo. Persino strumenti musicali, parte di vere e proprie
orchestre, sono segno di una padronanza dell’arte musicale senza eguali al
mondo nel V secolo a.C. Le campane di bronzo niuzhong e yongzhong
costituiscono senza dubbio i reperti più identificati con la cultura dell'epoca.
La loro forma del tutto originale e la speciale lavorazione oltre a farne oggetti
d'arte in sé sono espressione di eccezionali sperimentate conoscenze nel
campo della musica. La morfologia del vasellame rituale della Cina antica fornì
il modello di riferimento per i contenitori bronzei dei secoli successivi.
L’interazione con il passato è un tratto distintivo dell’immaginario intellettuale
e artistico della cultura cinese. Durante la più tarda dinastia Qing (1644-1911)
vennero infatti riproposti ding, guang, jué e i motivi decorativi che
caratterizzavano i vasi tradizionali più antichi, sebbene arricchiti da maggior
varietà esornativa e coloristica grazie al gioco di incrostazioni in oro e argento.
Presso il Museo d’arte orientale di Venezia si conservano bronzi Qing che
riprendono le antiche forme e testimoniano il gusto collezionistico della corte
e dell’aristocrazia del XVIII e XIX secolo. Dai corredi funerari di alcune tombe
nobiliari, la direzione del Museo provinciale del Hubei nella città di Wuhan, ha
scelto reperti di particolare interesse e bellezza che vanno a formare il "corpo"
di questa Mostra, suddivisa in tre sedi, ma di concezione unica. Con
l’organizzazione di Cultour Active, per la prima volta una Mostra di tesori
archeologici sarà completamente rivisitata integrando l’allestimento
espositivo in modo dinamico, multimediale e coinvolgendo il pubblico in
un’esperienza multisensoriale.
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S TORIA DE LL’IMP RE S S IONIS MO. I G RA NDI
P ROTA G ONIS TI DA MONE T A RE NOIR, DA VA N G OG H
A G A UG UIN
Treviso, Museo di Santa Caterina
29 ottobre-17 aprile 2017
"Storia dell'impressionismo"
Il prossimo 1 febbraio, a partire dalle ore 9, su https://biglietto.lineadombra.it
saranno messi in vendita i primi 1.000 “biglietti aperti” per le mostre
trevigiane, curate da Marco Goldin a Treviso. Ovvero la principale e tanto
attesa “Storia dell'impressionismo. I grandi protagonisti da Monet a Renoir, da
Van Gogh a Gauguin” e “Tiziano Rubens Rembrandt. L'immagine femminile
tra Cinquecento e Seicento. Tre capolavori dalla Scottish National Gallery di
Edimburgo” e “Da Guttuso a Vedova a Schifano. Il filo della pittura in Italia nel
secondo Novecento”. Tutte a Treviso, la Museo di Santa Caterina, dal 29
ottobre 2016 al 17 aprile 2017. Un solo biglietto per le tre mostre di Linea
d'ombra e la collezione permanente del Museo di Santa Caterina. Questi mille
sono biglietti “aperti”, ovvero senza vincolo di data e orario d'ingresso, e
saltando la coda. Lo stesso tipo di biglietto aperto lo si può anche regalare,
accompagnando il pensiero con un messaggio personalizzato che verrà
recapitato via mail. Dopo questa “anteprima”, dall'11 aprile saranno aperte
anche le prenotazioni per i gruppi, mentre dal 18 aprile, tramite sito e call
center (0422-429999) di Linea d'ombra, apriranno le prenotazioni per tutti:
privati, gruppi e scuole.
120 opere, quasi tutti dipinti, ma anche fotografie e incisioni a colori su legno,
per raccontare, come prima mai fatto in Italia, la Storia dell’impressionismo.
Saranno riunite - provenienti da musei e grandi collezione di mezzo mondo da Marco Goldin a Treviso, nel Museo di Santa Caterina, dal 29 ottobre di
quest’anno al 17 aprile 2017. La grande (aggettivo, in questo caso,
assolutamente legittimo) mostra è promossa Linea d’ombra e Comune di
Treviso – con la fondamentale partecipazione di Segafredo Zanetti e
UniCredit in qualità di Main sponsor, Generali come Special sponsor, assieme
a Unindustria Treviso e Pinarello come partner.
120 opere che documentano non solo quel mezzo secolo che va dalla metà
dell’Ottocento fino ai primissimi anni del Novecento, “ma anche – anticipa
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Goldin - quanto la pittura in Francia avesse prodotto, con l’avvento di Ingres a
inizio Ottocento, nell’ambito di un classicismo che sfocerà, certamente con
minore tensione creativa, nelle prove, per lo più accademiche, degli artisti del
Salon. Quindi mettendo in evidenza quanto preceda l’impressionismo ? e lo
prepari anche come senso di reazione rispetto a una nuova idea della pittura ?
e quanto da quell’esperienza rivoluzionaria, e dalla sua crisi negli anni ottanta,
nasca e si sviluppi poi, fino a diventare pietra fondante del nuovo secolo ai suoi
albori. Soprattutto con il magistero dell’ultimo Cézanne, al quale, non a caso,
è dedicato il capitolo finale”. Ma le diverse sezioni della mostra – nove in tutto
– non saranno mondi a se stanti e indipendenti, e invece la pittura accademica
sarà spesso inserita quale contrappunto nelle sezioni stesse, così da far
comprendere come il linguaggio nuovo dei giovani impressionisti, e prima di
loro dei pittori della scuola naturalistica di Barbizon, vivesse nel tempo stesso
del Salon. Non dunque un prima e un poi, ma un’esperienza storica che si
esprime in parallelo, e simultaneamente, nelle strade di Parigi. Quel Salon al
quale del resto, pur rifiutandone lo spirito di rievocazione e di conservazione,
gli impressionisti ambivano a partecipare, essendo comunque il solo luogo che
poteva garantire visibilità e fama. Ma in questa sorta di grande tavola sinottica
di un’epoca, non sarà solo la pittura di Salon a essere messa in rapporto con
l’impressionismo. Entreranno in gioco anche l’appena nata fotografia,
soprattutto nell’ambito del paesaggio che rievoca Parigi, il mare o la foresta di
Fontainebleau ? luoghi comuni di indagine e ancora una volta puntualmente
accanto ad alcuni dipinti ? e poi le celeberrime incisioni a colori su legno di
Hiroshige e Hokusai. Il tema dell’influenza della cultura giapponese sugli
impressionisti, darà senso a una sezione specifica, con alcuni dei fogli più belli
e più noti dei due grandi artisti, scelti quali riferimenti più attendibili. La
mostra avrà quindi anche un suo lato di stringente carattere storico, tale da
collocare le figure e le opere nel contesto dell’epoca. E con tutta l’evidenza
possibile non sarà solo una sequenza di opere pur bellissime e di capolavori,
ma giungerà al termine di tanti anni di analisi proprio da Goldin dedicate alla
pittura francese del XIX secolo. L’esposizione condurrà il visitatore a
emozionarsi in un percorso tra capolavori che hanno segnato una delle
maggiori rivoluzioni nella storia dell’arte di tutti i tempi. La qualità assoluta dei
prestiti, i confronti che essa stimola, le suggestioni che catalizza fanno di
questa mostra un’occasione unica di approfondimento e di scoperta di una
bellezza profonda.
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Vice Direttore
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