Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti (Silvia Moronti)

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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
STUDI ETNOBOTANICI
NELLA PROVINCIA DI RIETI
di Silvia Moronti*
Questo lavoro intende avere come oggetto lo studio della considerazione e
dell'impiego delle piante nella Provincia di Rieti attraverso una ricerca storica
tesa al recupero di usi, tradizioni e credenze proprie del territorio considerato,
dall'epoca romana sino ai nostri giorni. L'indagine ha una linea scientifica ma
racchiude in sé anche il significato profondo della riscoperta delle tradizioni e
delle radici culturali di un territorio.
Le osservazioni si riferiscono sia alle diverse coltivazioni che in passato
hanno inciso e in parte continuano ad esercitare importanti influssi sul profilo
socio-economico locale, sia agli usi popolari di specie vegetali spontanee tanto
nel campo culinario quanto in quello della medicina, della veterinaria, nei riti
magici e religiosi.
The present study is about the consideration and the use of plants in the province of Rieti through an historical research that wants to recover customs, traditions
and beliefs connected with them. The survey proceeded with a scientific approach and
it also contains the profound sense of rediscovery of a territory cultural roots. The
comments refer both to the different types of past cultivations and their socio-economic influences and to popular uses of wild plant species in cooking, in medicine, in
veterinary medicine, in games in magical and religious rites.
Le piante nella cultura erboristica romana e dell’antica Sabina
È
noto che la storia di Rieti è sempre stata intrecciata con
quella di Roma. Romani e Sabini, furono a lungo in guerra fino a quando Romolo e Tito Tazio crearono un’alleanza con la quale divisero il potere regio. Conseguentemente al
processo di romanizzazione, si ebbero molti cambiamenti nel
territorio reatino, sia nelle forme insediative preesistenti e nelle
strutture economiche sia negli usi e costumi. È quindi facilmente intuibile come vi siano stati scambi reciproci tra i due popoli
venuti a contatto, anche per quanto riguarda l’arte di conoscere,
coltivare e utilizzare le piante per scopi terapeutici, cosmetici,
nutritivi ecc. I romani si avvalsero e svilupparono conoscenze
già note ai greci facendo in modo che l’erboristeria acquisisse
*
Biologa
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una grande diffusione ed applicazione nella medicina romana.
In particolare, tra le piante più utilizzate, ci fu ad esempio la salvia (Salvia officinalis L.) che aveva un valore sacro e religioso:
doveva essere raccolta in tunica bianca e con i piedi scalzi e ben
lavati, senza l’intervento di oggetti di ferro. Il suo stesso nome è
testimone delle virtù che i romani le riconoscevano: salvia infatti deriva dal latino salus (salvezza, ma anche salute). Tra i principali effetti riconosciuti vi era quello antisettico, quello digestivo
e calmante. Anche l’aglio (Allium sativum L.) era molto utilizzato. Nelle Bucoliche Virgilio parla di una bevanda di timo (Thymus vulgaris L.) e aglio che i pastori consumavano per proteggersi dai morsi delle vipere. Anche Dioscoride considerato il fondatore dell’erboristeria, lo menziona come antitodo al morso dei
serpenti. L’aglio veniva poi impiegato per curare i problemi del
cuore, contro il raffreddore e l’influenza1. Il fieno greco (Trigonella foenum-graecum L.) fu un’altra pianta che i romani usarono
per curare una vasta serie di disturbi dai problemi dei bronchi
all’abbassamento della libido. Tuttora al fieno greco vengono
riconosciute ottime proprietà ricostituenti ed è talvolta utilizzato nella cosmesi. Un‘altra pianta molto adoperata dai romani era
il silfio, una specie di finocchio gigante che al tempo rappresentava la maggiore risorsa commerciale della Cirenaica2 e che oggi
possiamo vedere ritratto in alcune antiche monete di questa
città. In medicina era usato per trattare tosse, gola irritata, febbre, indigestione, dolori, verruche e in genere tutti i tipi di malattie. Sono stati svolti numerosi studi sull’identificazione botanica
della specie e, secondo alcuni autori, sarebbe estinta. Una indagine sul campo svolta negli anni ‘90 nella zona della città di Cirene, ha invece portato al ritrovamento di una stazione di Cachrys
ferulacea L. Calestani, specie rinvenuta anche in Sardegna nel
1976 (Manunta, A.- 1996).
Anche le virtù del salice (Salix sp.), in particolare delle foglie e
della corteccia, sono descritte dal celebre medico greco Ippocrate
che ne vanta le proprietà antidolorifiche e antinfiammatorie già
nel V secolo a.C. Successivamente queste qualità furono ricono1 www.romabeniculturali.it
2 La Cirenaica storica era costituita dalla regione compresa tra l’Egitto e la Numidia che sconfinava nel deserto del Sahara.
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sciute anche da personalità come Plinio e Dioscoride e il salice
divenne un’altra pianta molto impiegata nella medicina romana3.
Altre piante medicinali vengono poi descritte da Virgilio nelle sue
opere; tra esse troviamo il papavero (Papaver rhoeas L.), utilizzato
prevalentemente come anestetico e come cura per l’insonnia. Una
pianta largamente impiegata come afrodisiaco era la rucola (Eruca
sativa Mill.), di cui parla anche Columella4 nel “De re rustica”; le
sue foglie venivano utilizzate nei filtri d’amore e talvolta la coltivazione veniva effettuata nei terreni che ospitavano le statue falliche erette in onore di Priapo, dio della virilità5. Non è stato possibile trovare fonti dirette che illustrano le tradizioni e gli usi legati
alle piante in questo periodo nel territorio reatino; è tuttavia probabile, come già detto, che le usanze romane abbiano qui trovato
larga diffusione e che gli stessi romani abbiano avuto modo di
apprezzare gli aspetti della cultura erboristica sabina. L’olio sabino ad esempio, veniva molto utilizzato dai romani per preparati
curativi come consigliava anche Galeno, medico greco, padre
della farmacopea6. La coltivazione dell’ulivo è stata sempre un
simbolo di grandezza e di ricchezza ed ha rivestito un ruolo
importante per la Sabina sin dal IV sec a.C. come dimostrato dagli
scavi effettuati intorno all’antica città di Curi, nei pressi dell’attuale Fara Sabina. La produzione dell’olio crebbe ancora di più a partire dal I secolo d.C.7. Le varietà dell’olivo sabino furono ampiamente illustrate nelle opere di Catone, Orazio e Varrone i quali
ritenevano l’olio liquido sabino il migliore degli oli in uso. Oltre
che indispensabile come medicamento, l’olio veniva utilizzato
come nutriente per la pelle, come sapone, per l’illuminazione,
come lubrificante, per lucidare pietre preziose, come combustibile, per riti religiosi oltre che per l’alimentazione.
In Sabina intorno all’anno Mille
Il sapere e le conoscenze ereditate dagli antichi hanno fatto delle
erbe uno degli elementi fondanti della medicina medievale.
3 www.wikipedia.org
4 Scrittore romano del I sec. d.C.. Il “De re rustica” in dodici volumi è una fonte preziosa di
informazioni sull’agricoltura romana
5 www.romabeniculturali.it
6 www.culturalazio.it
7 A.A.V.V- Rieti- Percorsi tra Storia, ambiente e cultura - Fondazione Varrone 2007
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Queste venivano utilizzate sia da medici sia da contadini che
conservavano la conoscenza di alcuni rimedi medici soprattutto
grazie agli usi e alle tradizioni tramandate oralmente. Lo studio
delle piante medicinali si sviluppò principalmente nei monasteri. È infatti grazie alla tradizione monastica che sono arrivati sino
a noi diversi erbari e da questi è stato possibile risalire alla passata sapienza erboristica e medicinale. Essendo i monaci occupati anche ad accogliere poveri, mendicanti e malati, possedevano grandi orti con colture di ortaggi ed anche di piante con proprietà medicamentose. Nel “Capitulare de villis”, un’opera
importantissima fatta risalire allo stesso Carlo Magno, viene
riportato un lungo elenco di piante “orticole” di cui viene fortemente consigliata la coltivazione. Alcune specie elencate nel
testo del Capitulare, sono citate anche nei testi utilizzati per questa ricerca. Le piante, allora come adesso, venivano usate quindi
a scopo culinario e medicamentoso e spesso le loro proprietà
venivano sfruttate per associarle ai riti magici e usanze scaramantiche.
Le erbe curative
Nel secolo IX in Sabina le erbe medicinali, che costituivano ancora la base delle sostanze curative, erano rappresentate da oltre
sessanta specie. Cosi ad esempio il navone o colza (Brassica napus
L.) era usato per le infiammazioni, la valeriana (Valeriana officinalis L.) per l’isterismo così come l’artemisia (Arthemisia absintium L.). Particolarmente efficace per le malattie mentali era considerato l’estratto di elleboro (Helleborus sp.). Si pensava che
curasse la pazzia, l’epilessia, la mania depressiva ed il cosidetto
ballo di S.Vito (Di Mario, R.- 1997). La verbena (Verbena sp.) veniva utilizzata per la lombaggine, per le nevralgie e dolori muscolari, la violetta (Viola odorata L.) e il ricino (Ricinus communis L.)
per le malattie digestive ed urinarie. La violetta e il succo di rosa
rossa sortivano anche effetto lassativo mentre quello del rosmarino (Rosmarinus officinalis L.) veniva usato per l’arresto del
vomito (Di Mario, R.-1997). Infusi di prezzemolo (Petroselinum
crispum L.) e di rabarbaro (Rheum sp.) venivano usati contro il
mal di stomaco e d’intestino (Di Mario, R.- 1997). Il baccaro (Asarum Europaeum L.), che sembra abbia dato il nome al paese di
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Collebaccaro presso Contigliano, era un ottimo rimedio per l’emicrania e per la dissenteria (Di Mario, R., 1989) e sembra venisse usato anche per arrestare l’epistassi (Di Mario, R.-1997); il
sambuco (Sambucus nigra L.) curava la diarrea (Di Mario, R.1989) e la rosòlia (Drosera rotundifolia L.), oggi specie protetta in
Toscana, Piemonte e Val D’Aosta, veniva utilizzata per la gotta.
Dai germogli e dalle foglie di timo (Thymus vulgaris L.) si otteneva invece un liquido oleoso in grado di eliminare e di uccidere
batteri e vermi intestinali (Di Mario, R- 1989).
Il prezzemolo veniva utilizzato anche per la cura di una malattia
molto diffusa soprattutto tra i feudatari e membri dell’alto clero:
la pellagra. La terapia era costituita da succo di prezzemolo e da
una quantità quadrupla di ruta (Ruta graveolens L.) abbrustolita
in tegame con olio di oliva da applicare sulla parte dolorante (Di
Mario, R.- 1997).
Presso Poggio Mirteto e nelle zone limitrofe, si produceva anche
un gradevole vino di mirto (Mirtus communis L.) per alleviare i
mali degli occhi, le coliche addominali e i dolori al costato (Di
Mario, R.- 1997).
Si usavano il seme di finocchio (Foeniculum vulgare Mill.) e di lino
(Linum usitatissimum L.) contro la tosse.
Svariati erano anche gli usi dell’aglio (Allium sativum L.). A
scopo terapeutico si adoperava nelle affezioni reumatiche, vermifere, nei frequenti contagi di peste e nei disturbi respiratori
(Di Mario, R.- 1989).
Anche la cipolla (Allium cepa L.), cotta sotto la cenere, pestata e
ridotta in poltiglia, veniva utilizzata per il raffreddore ed il mal
di gola (Di Mario, R.-1997). Nelle zone collinari ed incolte vegetavano la borragine (Borago officinalis L.) che alleviava le affezioni polmonari (Di Mario, R.- 1989) e che veniva usata contro la
rosolia e le affezioni delle vie urinarie (Di Mario, R.- 1997). Sembra che il Monte Boragine presso Cittareale prenda il suo nome
proprio da questa pianta.
La farmacopea medievale sabina attribuiva anche ai fichi (Ficus
carica L.) molti poteri curativi. Mentre per i disturbi d’asma si
usavano i fichi secchi macerati con acquavite, il latte di quelli
non maturi, mescolato con il miele, si usava contro le punture di
api e di vespe (Di Mario, R.- 1989).
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Se le malattie respiratorie erano un problema comune, dall’esame dei resti di persone decedute intorno all’anno mille rinvenuti a Cotilia, nei pressi di Cittaducale, risulta in maniera molto
evidente che l’artrosi e le malattie delle ossa erano estremamente diffuse in Sabina. La cura dei decotti di borragine raccolta nel
monte di Cittareale, di rosmarino, di ortica (Urtica dioica L.), di
edera terrestre (Glechoma ederaceae L.) risultavano ottimi palliativi in tali disturbi (Di Mario, R.- 1997).
Anche infusi di sambuco, già citato per la cura dei disturbi intestinali, venivano usati per la paralisi degli arti (Di Mario, R.1997). Sembra che il “Castello di Sambuco”, fiorente nel XII secolo nel Cicolano, abbia acquisito tale nome proprio per l’enorme
diffusione in quei luoghi di questa pianta (Di Mario, R.- 1989).
Nel medioevo molto diffuso era anche l’uso di sciroppi confezionati con frutta bollita e filtrata in sacchetti di lino. Erano
molto utilizzati anche i succhi d’indivia (Cicorium endivia L.) e
d’anice (Pimpinella anisum L.) contro le febbri e di luppolo
(Humulus lupulus L.) contro l’itterizia; l’edera (Hedera helix L.), la
verbena (Verbena officinalis L.), il lauro (Laurus nobilis L.), lenivano invece rispettivamente l’asma la lombaggine e le nevralgie
(Di Mario, R.- 1997).
L’impiastro caldo delle foglie di lappa (Arctium Lappa L.) risanava le piaghe e mitigava i dolori in genere.
Nell’infermeria dei conventi non mancavano inoltre vino, aceto,
olio di rose, ruta (Ruta graveolens L.), laserpizio (il famoso silfio)
per la cura di piccole escoriazioni (Di Mario, R.- 1997). Prima
degli interventi chirurgici invece si cercava di anestetizzare la
parte interessata con un panno imbevuto di giusquiamo (Joscyamus niger L. o Joscyamus albus L.) o di infuso di radici di mandragora (Mandragora autumnalis Bertol.) poggiato sul naso e sulla
fronte del paziente (Di Mario, R.- 1997).
Dai semi di belladonna (Atropa belladonna L.) e giusquiamo si
ottenevano anche filtri con effetti sedativi ed anestetici. Oltre ai
conventi, intorno al 1100 nacquero numerosi ospedali lungo la
via Salaria per ospitare i pellegrini diretti verso Roma, fatti
costruire dal vescovo di Rieti Benincasa (Di Mario, R.- 1997).
Furono però soprattutto i monasteri benedettini di Farfa, S. Salvatore Maggiore, S. Quirico e S. Leonardo che specie durante le
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guerre e le incursioni barbariche, si presero cura dei malati e dei
mendicanti. Le terapie si formulavano grazie agli erbari e i pigmentari (i farmacisti di allora) e si preparavano, dosandoli ad
occhio, impiastri di olii, decotti, polveri, succhi, sciroppi, cataplasmi infusi di piante ed erbe officinali ricavate dall’orto dei
monasteri.
Spesso per la confezione dei farmaci si servivano anche di un
antidotario che conteneva nozioni tramandate da Galeno, da Plinio il Vecchio e in taluni casi persino dall’antica medicina araba.
Ad espedienti naturali si ricorreva pure per preparare miscele
mortali di cicuta (Conium maculatum L.), aconito (Aconitum napellus L.), stramonio (Datura stramonium L.) e belladonna (Atropa
belladonna L.) (Di Mario, R.- 1997).
Le specie coltivate negli orti medievali del reatino
Le più diffuse piante odorifere negli orti erano il prezzemolo
(Petroselinum sativum Hoffm.) e il basilico (Ocymum basilicum L.)
usati per insaporire i cibi, il rosmarino (Rosmarinus officinalis L.)
usato già allora nella preparazione degli arrosti e per la cura del
rachitismo e dei reumatismi, la salvia (Salvia officinalis L.) curativa delle diarree dei bambini e della circolazione sanguigna, la
malva (Malva sylvestris L.) efficace contro le infiammazioni intestinali, con un’azione tonica e diuretica e il mal di denti, la melissa (Melissa officinalis L.) astringente dal sapore aromatico amarognolo che si assumeva come digestivo ed antispasmodico, la
camomilla (Matricaria chamomilla L.) usata contro le malattie
dello stomaco, i problemi digestivi, il mal di capo, le coliche e i
dolori in genere. (Di Mario, R.- 1997). Tali erbe, erano spesso
associate alla coltivazione di specie orticole. Come si ritrova
anche nel “Capitulare de Villis” (Rottoli; M:- 1996) i cavoli (Brassica oleracea L.), gli agli (Allium sativum L.), i ceci (Cicer arietinum
L), le cipolle (Allium cepa L.), i cetrioli (Cucumus sativus L.), i
fagioli (Vigna unguicolata L. Walpers), le lattughe (Lactuca sativa
L.) le rape (Brassica rapa L.) e le fave (Vicia faba L.) alle quali si
attribuivano poteri afrodisiaci, erano ampiamente coltivati negli
orti, situati in posizione scoscesa al di sotto delle mura e delle
torri castellane sostenuti da muretti a secco e da ingegnosi terrazzamenti (Di Mario, R.- 1989).
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Molta cura era dedicata anche ai meloni (Cucumis melo L.), carote
(Daucus carota L.) e coloquintidi (Citrullus lanatus Thunb. Mansfeld).
Non era invece diffuso l’uso della frutta nella dieta della famiglia contadina poiché era considerata superflua e si preferiva
cotta o secca. Nell’orto frutteto veniva spesso praticata anche la
coltivazione intensiva: insieme a qualche pianta di lino (Linum
usitatissimum L.) o di canapa (Cannabis sativa L.) prosperavano
meli (Malus domestica Borkh.), susini (Prunus domestica L.), peri
(Pyrus communis L.), nespoli (Mespilus germanica L.), gelsi (Morus
alba L.), ciliegi (Prunus avium L.), mandorli (Amygdalus communis
L.), sorbi (Sorbus domestica L.), noccioli (Corylus avellana L.) e fichi
(Ficus carica L.) (Di Mario, R.- 1997).
Non mancavano negli orti anche le rose (Rosa sp.), i gigli (Lilium
sp.), i garofani (Dhiantus sp.), i gelsomini (Jasminum sp.), le viole
(Viola sp.), i mughetti (Convallaria majalis L.), i fiordalisi (Centaurea cyanus L.), i papaveri (Papaver sp.) e le margherite (Leucanthemum vulgare L.).
Gli speziali ed i medici confezionavano le loro medicine con
piante medicinali coltivate negli orti o cresciute allo stato spontaneo nei boschi (Di Mario, R.- 1997).
Da notare che chi danneggiava le piante e le coltivazioni, specie
di notte, oltre a pagare una multa era tenuto a risarcire il danno
provocato (Di Carlo, E.A.- 1988).
Assai diffusa negli orti, ma anche nella conca reatina e nelle pianure alluvionali del Salto, del Farfa, la coltura delle piante tintorie: il croco per il giallo (Crocus sativus L.), la robbia (Rubia tintctorum L.) per il rosso ed il guado (Isatis tintoria L.) per il blu, colore di gran lunga preferito in Sabina.
Il guado, fondamentale per la colorazione dei panni, veniva
usato anche per curare i tumori e l’ulcera grazie alle sue proprietà essiccative e per foraggiare suini ed ovini (Di Mario, R.1989). Molto estesi erano anche i campi di canapine circoscritti
da siepi nei terreni pedemontani e nei piani del Cicolano e della
Bassa Sabina. I prodotti delle canapine erano largamente utilizzati ovunque nel medioevo e sono stati coltivati fino agli anni ’40
(Di Mario, R.- 1989).
La canapa veniva coltivata anche nella piana reatina dove trovava terreni freschi e profondi e nell’ampio spazio antistante porta
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D’Arce dove si sviluppo’ specie in età comunale, una vera e propria azienda di produzione di fibre tessili.
La canapa più piccola di prima scelta veniva destinata alle filatrici per gli indumenti. La canapa più rozza, di “valle”, serviva
per l’imbottitura dei vestiti (Di Mario, R.- 1997), per comporre
legacci per orti, fili e spaghi per calzolai e funi per le bestie e
tiranti.
Si confezionavano anche corde per impiccagione (addetti erano
i lebbrosi che operavano in rioni distanti dalle mure cittadine);
della canapa veniva utilizzato anche il seme soprattutto per preparare nutrienti zuppe (Di Mario, R.- 1989).
Il lino (Linum usitatissimum L.) risulta invece scarsamente documentato in Sabina. Pene severe erano stabilite per il furto di canapa e lino…”si qua persona carpserit canepam, seu acceperit ipsam, sive
linum, de canapina aliena, gurgo sive spasario aut aliunde”…
Canapa e lino erano quindi particolarmente protetti sia nella
canapina sia al macero nel gorgo (o maceratoio) sia quando
erano messi ad asciugare (Di Carlo, E.A.- 1988).
Nei terreni della piana reatina e della Sabina si coltivavano nel
basso Medioevo, oltre alla canapa ed al lino, anche grano (genere Triticum), segale (Secale cereale L.), saggina (genere Sagina) ed i
cereali come il miglio (Panicum miliaceum L.), la spelta (Triticum
spelta L.) e il farro (Triticum spp.), il sorgo (Sorghum vulgare Pers.)
e l’orzo precoce (Hordeum vulgare L.). Inoltre, allo scopo di
aumentare la produzione, si operavano dei miscugli, il più diffuso dei quali era quello del frumento con la segale (Di Mario,
R.- 1989). Non di rado i coloni si nutrivano con pane di farina di
spelta e di orzo mescolata con quella di fave, di acini d’uva, fiori
di nocciola e radici di felci.
Diffusa era la coltura delle leguminose seminate in primavera,
come i lupini (Lupinus spp.) e le cicerchie (Lathyrus sativus L.).
La veccia (Genere Vicia) veniva usata come foraggio e l’avena
(Avena sativa L.), utile per l’alimentazione equina era piuttosto
rara in sabina (Di Mario, R.- 1997).
A volte un tritello di avena veniva utilizzato nella polenta di
miglio (Panicum miliaceum L.). I monaci di Farfa, raccolti nell’abbazia in seguito alla dispersione legata ai trenta anni di incursioni saracene che si conclusero con la vittoria dei sabini presso
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Tremula Mutuesca (antica città romana, oggi Monteleone), all’inizio del 915, erano soliti fare un frugale pranzo in cui consumavano pietanze cotte, teneri legumi e frutta.
Il pane, fatto all’inizio con foglie salate di faggio bollito (Fagus
sylvatica L.), fu impastato in seguito con farina di grano e miglio
(Di Mario, R.- 1997).
Le usanze legate alle piante nel medievo sabino
Negli ampi manti forestali del Terminillo e dell’alto Cicolano
proliferavano utili piante di cardi dai caratteristici fiori azzurroviola (Silybum marianum L.). Gli estratti delle loro foglie fornivano una sostanza tonica, sudorifera, mentre la parte mangereccia
era costituita dall’abbondante nervatura carnosa. I capolini secchi e spinosi del cosiddetto cardo dei lanaioli (Dipsacus fullonum
L.), invece, era utilizzato per cardare la lana e pettinare le stoffe.
Tra i cosmetici più in uso in sabina vi era la pasta di mandorle
(Prunus dulcis Mill.) per eliminare le varie impurità delle pelle, la
camomilla (Matricaria recutita L.) per lavare i capelli e renderli
biondi.
Per colorire le gote si usava lo zafferano (Crocus sativus L.). Nelle
botteghe dei barbieri che anticamente svolgevano anche il lavoro di medici dentisti e chirurghi, era facile acquistare anche
distillato di rose e grasso per il rossetto, impasti di uova, senape
(Sinapis arvensis L.) e aceto per mantenere giovane la carnagione,
la corteccia di noce (Juglans regia L.) trattata con vino salato per
la pulizia dei denti (Di Mario, R.- 1997).
Interessante anche l’uso delle piante nei riti magici. Ad esempio,
i bulbi dell’aglio (Allium sativum L.), appesi sugli alberi, servivano ad allontanare gli uccelli, gli animali e gli spiriti nocivi (Di
Mario, R.- 1989).
L’estratto di mandragora (Mandragora sp.) era usato per sonniferi e filtri magici e amorosi (Di Mario, R.- 1997).
Sul Terminillo cresceva anche la c.d. “erba della concordia”
(forse Dactylorhiza maculata L.) dal cui tubero si ricavava una polverina che si pensava ridestasse amicizie ed amori sopiti.
A quei tempi erano molti i falsi guaritori che mescolavano medicina, stregoneria, superstizione e sopravvivenze pagane. Attribuivano guarigioni miracolose a bacche di ginepro (Juniperus sp.)
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oppure rassicuravano le persone morse da serpenti ponendo del
legno di ornello (Fraxinus ornus L.) grattugiato sul morso. Tra le
erbe magiche proponevano la ruta (Ruta graveolens L.) contro
l’invidia, le piante spinose contro le fatture e l’asaro (Asarum
aeropaeum L.) contro le lodi eccessive. Il ciclamino (Cyclamen sp.)
era invece propizio per le partorienti.
È importante l’uso delle piante che si faceva allora durante celebrazioni e feste. Ad esempio, quando l’imperatore Ottone III fece
una visita inaspettata il 22 Settembre 999 presso l’Abbazia di Farfa,
l’Abate convocò i suoi collaboratori e ordinò un lungo corteo.
Centinaia di monaci incedevano disposti due a due e all’imperatore furono dati in dono i vangeli incensati e benedetti con un
mazzolino d’issopo (Hyssopus officinalis L.) (Di Mario, R., 1997).
Intorno all’anno Mille, a Rieti si celebravano anche dei riti liturgici come reminiscenze di antiche processioni pagane. Il primo
giorno dell’anno era infatti consacrato al dio Giano considerato
il protettore della casa. A lui si offrivano in dono i cosiddetti granicoli cioè rami di verbena (Verbena officinalis L.), frutta e focacce
con miele (Di Mario, R.- 1997).
Di carattere agricolo propiziatorio erano il rito del “toro ossequioso” del 5 Agosto che culminava nella triplice genuflessione
dell’animale e con l’offerta di grano sul sagrato delle Chiese di
Bacugno.
A Castel S. Angelo in occasione della festa della Madonna del
Santo Amore l’8 Settembre, si portavano fasci di grano al centro
della chiesa (Di Mario, R.- 1997).
Carichi di significati magici erano pure i fuochi accesi la notte
dell’Ascensione.
In Bassa Sabina si facevano dei grossi “foconi” con le ginestre
(Spartium junceum L.).
Le ceneri benedette del focone del sabato santo venivano distribuite insieme ad un ramo di ulivo ed una spiga di grano alle
famiglie in segno propiziatorio.
In quella civiltà nutrita di magia e superstizione erano molti ad
offrire pratiche negromantiche al diavolo. In suo onore si bruciavano ambra, incenso ed aloe (Aloe vera L.) (Di Mario, R.- 1997).
Nella notte magica di S. Giovanni, quando si dice che le streghe
corrano lungo le vie del cielo per recarsi al loro tradizionale conSILVÆ - Anno VII n. 15/18 - 281
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vegno, per impedire che entrassero all’interno delle case, si
ponevano davanti agli usci olivo (Olea europaea L.) benedetto,
alloro (Laurus nobilis L.), fico (Ficus carica L.), ginepro (Juniperus
sp.), noce (Juglans regia L.) e rosmarino (Rosmarinus officinalis L.)
(Di Mario, R.- 1997). Nei riti nuziali dell’epoca era fondamentale il rosmarino.
Dopo lo scambio degli anelli infilati di solito nel pollice, la stretta di mano destra degli sposi, il bacio sulla guancia, l’abito di
colore rosso della sposa e il banchetto, un corteo di bambini con
rametti di rosmarino (Rosmarinus officinalis L.) accompagnava la
coppia a casa del marito per la consumazione del matrimonio a
cui a volte dovevano assistere anche testimoni (Di Mario, R.1997). I funzionari del Comune invece, erano obbligati all’atto
dell’investitura a giurare su Dio e sui Vangeli toccando le Sacre
scritture ed un ramoscello d’alloro (Laurus nobilis L.) e dovevano
pronunciare la formula “temo Dio e la Vergine” difendendo i
privilegi ed i possessi della Chiesa.
Le piante venivano usate anche nel culto dei defunti. Il defunto
era preso in consegna dalle donne di casa, veniva denudato,
calato in una tinozza di acqua calda, asciugato, vestito del suo
abito migliore e profumato di salvia (Salvia officinalis L.), aloe
(Aloe vera L.) e altre essenze aromatiche.
Durante il corteo funebre in cui non mancavano corone di fiori
si effettuava il gesto simbolico dell’abbattimento di un albero
verde a dimostrazione dello sradicamento della persona provocato dalla morte, specie se molto giovane. All’inizio del XV secolo, quando il corteo funebre entrava nel cimitero, il clero si dirigeva verso la tomba aspergendola con acqua benedetta e deponendovi un ramoscello di lauro (Laurus nobilis L.) e di edera
(Hedera spp.) che simboleggiavano l’immortalità dell’anima.
Gli usi delle piante nella Provincia dal XV sec. Fino all’inizio
del XX sec.
Nel XV secolo il territorio di Rieti continuava a produrre in
abbondanza il guado (Isatis tinctoria L.). Il guado, chiamato
anche “pastello” era una pianta tipica della Valle reatina: oltre a
servire per la colorazione delle sete e delle lane era utilizzato
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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
come foraggio, come pianta medica per le malattie dell’intestino
e come cosmetico (Caprioli,G.-1933).
La coltivazione, venne incrementata tra il XVI e il XVII secolo e
poiché numerosi erano i mulini lungo il fiume Velino, per risolvere i problemi legati alle scorie si rese necessaria una legislazione che impose la collocazione dei mulini del guado a valle
rispetto a quelli che producevano farine alimentari. Inoltre, la
fermentazione delle foglie produceva uno sgradevole odore
ammoniacale di cui parla anche Loreto Mattei8.
Nel sonetto “L’abbondanza di Rieti” (Formichetti, G.- 1997)
descrivendo le coltivazioni praticate nella pianura reatina alla
fine del ‘600 il poeta scriveva: “...De au ce n’è lu morbo che percote...” ovvero vi è una tale quantità di guado che l’odore è ammorbante.
Nel reatino l’industria del guado andò a scomparire verso la fine
del Settecento a causa della diffusione dell’indaco per poi riprendere se pure brevemente nel periodo napoleonico.
Infatti, come si legge in un documento presente all’Archivio di
Stato di Rieti datato 27 Giugno 1784, il marchese Ludovico
Potenziani riuscì ad estrarre un succedaneo dell’indaco dal
guado con l’aiuto dell’operatore chimico farmacista Giovanni
Petrini.
La Francia tentò anche, invano, di sottrarre il merito dell’invenzione al reatino (Caprioli, G.-1933).
La coltura venne tuttavia abbandonata con il tramonto di Napoleone.
Oltre a quella del guado, molte erano le colture diffuse nel territorio reatino. Dal Cabreo, libro di Catasto di tutte le terre e gli stabili del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria in Cittaducale realizzato da Luca Lambrecche, pubblico agrimensore di Cittaducale e conservato nella biblioteca del monastero di Santa
Caterina, emerge in particolare che le colture più diffuse a Cittaducale nel ‘600 erano quelle dell’olivo, degli alberi da frutto,
delle viti. Molte terre risultavano inoltre “cannapinate” ovvero
destinate alla coltura della canapa tessile (Cannabis L.), coltura
già diffusa nel medioevo.
8 Noto poeta reatino del seicento.
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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
Il ‘600 è un secolo importante perché proprio a partire da questo
periodo e fino all’ottocento si diffonde una buona cultura botanica e, ad esempio, l’impiego delle erbe utilizzate nella cura delle
malattie raggiunge un livello di grande interesse.
A tal riguardo un documento di fine ottocento rinvenuto presso
gli archivi di Cantalupo in Sabina dimostra come in quella zona
fosse presente in quel periodo una farmacia.
La dotazione dei farmaci era assai povera e come risulta anche
da una nota dei medicinali a cui ogni Comune o Casa di Soccorso doveva provvedere, la maggior parte di essi era di origine
vegetale (Di Carlo, E.A.- 1988).
Nella lista erano presenti la camomilla (Matricaria recutita L.), i
fiori di sambuco (Sambucus sp.) i fiori di tiglio (Tilia cordata L.) ma
anche ad esempio la canfora estratta dall’albero di canfora (Cinnamomum camphora L.).
La canfora è assorbita velocemente attraverso la pelle producendo
una sensazione di raffreddamento simile a quella del mentolo.
E’ possibile quindi che fosse utilizzata come blando anestetico o,
a causa dei suoi vapori come sedativo della tosse. Alcuni fonti
citano l’uso della canfora già nel ‘700 nel trattamento delle manie
e a causa del forte odore come repellente per rettili ed insetti
(Pearce, J.M.- 2008).
Ai semi di lino (Linum usitatissimum L.) venivano probabilmente
riconosciute le proprietà emollienti, rinfrescanti, l’utilità nei
disturbi intestinali e della vie respiratorie (Nardelli, G.M.-1987).
La “senapa” (Senape bianca o senape nera originaria dell’Asia
occidentale) era forse usata nei dolori articolari in quanto riscalda e stimola l’irrorazione sanguigna. L’Ipecuana (Cephalis ipecuanha L.) di origine indiana veniva forse contemplata nella lista
a causa delle sue proprietà antidiarroiche.
Il laudano invece era un preparato farmaceutico le cui virtù
erano indicate nelle patologie del sonno e di tutti i dolori forti,
nella cura delle emicranie, del mal di denti, dei dolori mestruali,
dei reumatismi cronici (Fumagalli, M.- 2000).
Veniva ricavato dall’oppio (Papaver somniferum L.).
Anche l’olio di olive veniva menzionato nella lista dei medicinali obbligatori probabilmente per le sue proprietà refrigeranti,
emollienti e digestive conosciute già nell’antica Roma.
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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
Che nell’ottocento molte erbe venissero utilizzate anche a scopo
medicinale lo dimostra anche “Monumenti Sabini” del Guattani
in cui vengono citate le proprietà medicamentose e gli usi del
ginepro sabina (Juniperus sabina L.):“ Fra l’erbe medicinali non si deve
preferire colei che di Sabina il nome porta Juniperus sabina…ha un odore
forte ed un sapore amaro aromatico e resinoso. Presa interiormente, dice
l’Haller9, viene riguardata come uno degli emmenagoghi più potenti e
più pericolosi. Esteriormente usata è detergente e risolutiva. Secondo il
Duhamel10 i maniscalchi se ne servono per eccitare l’appetito dei bestiami; preparata a dovere giova a risolvere i tumori de’ cavalli e delle pecore. Nasce a dir vero quest’erba in tutt’i climi ma il chiamarsi sabina fa
supporre che qui meglio che in altro luogo germoglia e fiorisce….
L’autore elenca anche altre erbe presenti nel territorio reatino che
venivano utilizzate come alimento per il bestiame:“....le colline
abbondano di serpilli e di timi, di nocciuoli aromatici e di erbe sostanziose
cosicché somministrano al bestiame un nutrimento, il più scelto per la produzione di latti odoriferi e di squisiti formaggi..”(Guattani, G.A- 1832).
Sembra inoltre, come viene riportato dal Guattani, che la raccolta dei funghi soprattutto nella zona di Cantalupo fosse diffusa
già nei primi anni dell’800 e che esistesse all’epoca un fiorente
commercio di funghi e tartufi nella zona di Roccantica con i
paesi più occidentali (Guattani, G.A- 1832).
Intorno alla metà del XIX sec., l’economia locale ruotava anche
intorno a nuove coltivazioni come quella del gelso (Morus alba
L.) a cui era legato l’allevamento del filugello (Baco da seta o
larva di Bombyx mori L.) e quella del tabacco (Nicotiana sp.).
Nell’annuale del Comizio Agrario di Rieti per l’anno 1879 reperito presso la Biblioteca Paroniana di Rieti viene tuttavia evidenziato come nonostante all’inizio la coltivazione del gelso cosi come il
mercato dei bozzoli fosse fiorente, successivamente a causa della
scarsa capacità imprenditoriale dei reatini e della diffusione della
pebrina, una malattia del baco da seta, questa industria andò a
scomparire: “Poca importanza ha in questo circondario l’allevamento
del filugello perciochè è scarso il numero dei gelsi coltivati.
Né al presente è a sperare che questa industria avanzi di molto, essendochè
i proprietari non si danno alcun pensiero di aumentare e migliorare le pian9 Poeta e medico svizzero del ‘700 con interessi botanici
10 Noto agronomo e botanico francese dell’epoca
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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
tagioni di gelso. La razza dei bachi ordinariamente preferita è la nostrana,
a bozzolo giallo. L’allevamento si eseguisce nelle case dei proprietari e talvolta in qualche casa colonica non essendovi apposite bigattiere. Quando la
pebrina ancora non infestava il filugello, si fatta industria ha sempre dato
ai coltivatori della Sabina soddisfacenti guadagni, quantunque, a dir vero,
non siano stati praticati i veri metodi razionali di allevamento. Quantità di
bozzoli venduti sul mercato nel 1869: 3714, nel 1878:1435”.
Per la coltivazione del tabacco gli esiti non furono dei migliori,
dimostrando anche in questo caso come colture che avrebbero
potuto portare ad una svolta economica la provincia, non andarono a buon fine :”.......e’ mestici però far distinzione per la coltivazione del tabacco per la quale i coloni reatini si adopererebbe molto
volentieri, ricordando gli abbondanti ed eccellenti prodotti ottenuti nei
tempi andati prima che le soverchie restrizioni fiscali rendessero impossibile siffatta coltivazione.......”11.
Il mondo vegetale è inoltre stato legato all’uomo non solo dal
punto di vista economico. Nei tempi andati, anche vegetali
poveri come la cannuccia, la ginestra e l’erica costituivano ad
esempio un materiale prezioso per la costruzione di capanni
usati sia come deposito di materiali, sia come ricoveri di fortuna
o a volte come abitazione (Landi, S.-1996).
Fiori, erbe e varie essenze sono stati inoltre sempre utilizzati
durante celebrazioni, riti e feste. Nella rivista mensile Terra sabina del 1924 in una rievocazione di usanze di altri tempi ed in particolare del Carnevale con i carri festeggiato a Rieti in prossimità
dell’unità d’Italia si legge infatti: “bellissimi i carri dopo il risveglio
del 1860 per l’eleganza della protagonista bruna e ben fornita giovane del popolo circondata da bambini vestiti con i colori nazionali...Il
carro era completamente coperto di alloro, mortella12 e fiori e conteneva cesti con dolci, coriandoli ma anche mazzi di viole e aranci…” Un
altro settore di interesse dell’area di studio che esamina il rapporto fra tradizioni popolari, religiosità e il mondo vegetale è
rappresentato dalle infiorate, tappeti realizzati con fiori, parti di
fiori, foglie ed altro che si snodano per le vie dei paesi in occasione di feste religiose, prima di tutte quella del Corpus Domini.
Queste furono eseguite inizialmente in Vaticano forse per opera
11 Comizio Agrario di Rieti-1879
12 Con il termine “mortella” si indicavano due specie: il mirto (Myrtus communis L.) e il bosso
(Buxus sempervirens L.)
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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
dell’artista Gian Lorenzo Bernini come si legge dal trattato del
‘600 “Flora ovvero coltura dei fiori” e si diffusero successivamente
un po’ ovunque (Guarrera, P.M.- 2002).
Tale tradizione, viva in quegli anni, è stata conservata a Rieti
durante la processione di S. Antonio, a Poggio Moiano e a Leonessa durante le feste del Corpus Domini e di San Quirico.
Vari utilizzi delle piante nel periodo contemporaneo
Alcune colture hanno caratterizzato negli anni il mondo agricolo reatino e delle zone limitrofe come ad esempio quella del
guado di cui si è in precedenza parlato. La pianta era ampiamente usata anche in Umbria.
Si ritiene infatti che la città di Gualdo Tadino si chiami cosi proprio per la ricchezza di guado, in passato presente nella zona circostante (Guarrera, P.M.- 2006).
In Abruzzo, nelle Marche e nel Lazio gli usi delle piante tintorie
sono stati tuttavia abbandonati alla fine del XIX secolo o nei
primi decenni del XX secolo a causa della disponibilità di
moderni coloranti sintetici (Guarrera, P.M.-2006).
Anche la bachicoltura e la coltivazione dei gelsi, in Italia cosi
come a Rieti ebbe periodi floridi e tristi legati alle vicende politiche e epizooiche.
Come si è già accennato, dal 1848 l’atrofia parassitaria infatti
infierì a ridurre gli allevamenti di tre quarti. Durante il ventennio fascista si tentò di far rifiorire tutte quelle industrie che rappresentarono una fonte di ricchezza nel passato con specifiche
incentivazioni ad alcune coltivazioni13.
In considerazione della grande richiesta di bozzoli da parte dei
filandieri, delle foglie di gelso come mangime per il bestiame,
della redditività della attività che richiedeva poco lavoro, si attribuì quindi un grosso impulso alla coltivazione dei gelsi piantati
a ceppaia e a siepe prevalentemente lungo i viali, le scarpate e le
linee ferroviarie14.
Alcuni esemplari sono tuttora presenti e largamente visibili nella
piana reatina.
13 Rivista “Terra sabina”-1924- Il baco da seta in terra Sabina
14 Il fascismo in Sabina- Editoriale Eco 1993
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Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
Nella “piana” nei primi anni del ‘900 si coltivava ancora la canapa, coltura che dava degli ottimi risultati e diffusa, come si è già
detto, sin dal medioevo.
Nei primi anni del ‘900 fiorì anche la coltura della barbabietola
che oltre ad alimentare l’industria dello zucchero, rendeva più
alta la resa della terra. Infatti, dopo aver diretto per 30 anni le
acciaglierie di Terni, il cavaliere del Lavoro Amilcare Spadoni
istituì l’Associazione per lo sviluppo industriale ed Agricolo
della Sabina per valorizzare l’attività lavorativa. Poiché l’agricoltura rappresentava la prima risorsa economica della provincia, si adoperò per rendere più produttive le terre mediante
anche un’adeguata scelta delle colture in base ai terreni. Nella
piana reatina fu sostenuta proprio la coltura della barbabietola
da zucchero in funzione anche dell’attività di uno dei primi zuccherifici italiani sorto a Rieti fin dal 1872 grazie al Principe
Potenziani e seguito dopo 15 anni da Emilio Maraini (Di Mario,
R.- 1993).
Lo Zuccherifico e la Supertessile detta “Viscosa” (dove si produceva prima seta artificiale tramite la cellulosa e successivamente
rayon) elevarono Rieti a città industriale.
Tuttavia l’evolversi delle vicende economiche ed il mutamento
delle logiche di mercato portarono, sia pure con modalità e
tempi diversi alla chiusura delle due fabbriche e alla conclusione di una importante esperienza industriale in terra reatina.
La chiusura dello zuccherificio del 1973 ebbe molta risonanza sulla
stampa locale e fu un evento molto sentito dalla popolazione.
Anche il poeta Guglielmo Festuccia nella sua poesia “ La morte dde
lu zuccherificiu” scrive: ..Ppè Riete ‘sta fabbrica era un vantu, l’autorità
non n’ha tenutu cuntu: mò guardi fore e dapettuttu è un piantu, pare ddè
sta a guardà ‘nnè un campusantu.....Tuttu ‘n trattu non ajo resistitu, le
lacrime dell’occhi m’hau cecatu: m’è parsu ddè lascià quaci una tomba, m’è
parsu ddè lascià la pòra mamma……(Festuccia, G.-1976).
Nella zona di Magliano Sabina, invece era largamente coltivato
il tabacco per opera dell’On. Conte Valentino Orsolino Cencelli.
Come si legge nella rivista “Sabina Agricola” del tempo, egli riuscì a ricavare circa 600 quintali di tabacco essiccato di ottima qualità Kentuckj su una supeficie di trenta ettari di terreno con un
reddito lordo all’epoca altissimo di lire 15.000-16.000 ad ettaro.
288 - SILVÆ - Anno VII n. 15/18
Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
Nelle zone collinose della Bassa Sabina la coltura predominante
nei primi anni del novecento era invece quella tradizionale dell’olivo.
“L’oro liquido” della Sabina nelle sue varietà Carbonella, Leccina,
Olivastrone e Reina, conquistò i mercati romani per essere utilizzato a scopo terapeutico per le mialgie, gli avvelenamenti, le
malattie del fegato e della pelle, come eccipiente e solvente di
medicinali e naturalmente come indispensabile condimento alimentare.
Ad incrementare e diffondere l’olivocoltura e a modernizzare gli
oleifici esistenti provvide la Cattedra Ambulante di Agricoltura
di Poggio Mirteto, la prima ad essere costituita in Umbria e nel
Lazio. Articolata in due sezioni con sede a Roccasinibalda per
l’Alta Sabina e a Rieti per i territori della Piana e in una vasta rete
di succursali, l’associazione si prefiggeva anche di migliorare la
produzione delle viti, di raddoppiare quella dei cereali e di curare più diligentemente la bachicoltura (Polia, M. 2002).
Anche la coltivazione del grano era molto diffusa in Sabina.
Durante il fascismo, furono molti gli agricoltori a figurare nel IV
Concorso Nazionale della “battaglia del grano” promossa da
Mussolini.
È tuttavia grazie all’opera di Nazareno Strampelli se la battaglia
del grano ottenne nei nostri luoghi un notevole successo.
Giunto a Rieti da Macerata fin dal 1903 l’illustre agronomo istituì nella zona di Campomoro (Rieti) la sede dell’Istituto Sperimentale di Granicoltura, utilizzando per la riproduzione l’appezzamento posto all’inizio della Valle del Salto e la tenuta di
San Pastore. Con incroci intergenetici ottenne sementi rinomate
in tutto il mondo.
A Leonessa, prima della seconda guerra mondiale e fino agli inizi
degli anni ‘50, erano invece impiegate per la semina tre qualità di
grano: la famijia undici, lo zuccu che aveva la spiga rossastra e
senza restre (“arzigli”), la biancola. Le tre qualità erano usate nell’alimentazione umana. Più tardi fu introdotto dalla Sardegna un
tipo di grano chiamato saragòla a spiga lunga con un maggior rendimento. Per quanto riguarda l’orzo erano seminate due qualità
principali: l’orzone e l’orzetta, il primo con la spiga più lunga e
seminato in autunno e il secondo con la spiga più corta e seminaSILVÆ - Anno VII n. 15/18 - 289
Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
ta nel mese di marzo. Se il tempo permetteva si seminava una
qualità speciale di grano detta grano marzarolo dai chicchi piccoli
e dallo scarso rendimento usato per l’alimentazione del pollame.
Un’altra granaglia chiamata mogo (Lathyrus cicera L.) veniva seminata a marzo. Aveva un sapore amarognolo, era destinata specialmente all’alimentazione dei piccioni. Non era indicata per le mucche perchè conferiva un sapore poco gradevole al latte. I primi di
aprile si seminava la cicerchia (Lathyrus sativus L.), un legume
destinato all’alimentazione umana ed animale; il farro (“farre”)
era usato per preparare minestre e polenta ed uno speciale orzo
chiamato “orzo da caffè” era destinato alla tostatura poiché il caffè
di importazione era raro e vero lusso da usare con molta parsimonia. Il caffè domestico era preparato facendo bollire nella “cuccuma” contenente circa un litro d’acqua, l’orzo tostato nel bruschino e macinato. I più facoltosi usavano aggiungere all’orzo
tostato qualche chicco di caffè vero: “cinque o sei vaga là nmezzu,
proprio come l’acqua santa” (Polia, M.-2002). Dopo la bollitura si
aggiungeva un po’ di acqua fredda per permettere ai fondi (pòsa)
di depositarsi sul fondo della caffettiera. Dopo l’Annunziata venivano seminate le patate entrate nell’uso nel XVIII secolo e divenute subito un ingrediente fondamentale nell’alimentazione. In
maggio si seminava una qualità di mais chiamata quarantino. Produceva chicchi piccoli e teneri. Oggi è sparito e si usa seminare
una qualità di mais chiamata dente di cavallo dai chicchi più lunghi
e grossi ma anche più duri. Con il quarantino si faceva una polenta molto buona. Assieme al granturco venivano seminati i ceci
usati nelle zuppe con la cicerchia e la lenticchia. Il grano, cosi
come le lenticchie ed il mogo venivano utilizzati anche il primo
giorno di quaresima in un rito propiziatorio in uso nel leonessano
ma anche nella zona di Antrodoco. Le ragazze di ognuna delle frazioni preparavano i vasi che sarebbero stati usati il venerdi santo
per adornare i sepolcri. A tal fine si seminavano i semi e si coprivano con un telo in un ambiente oscuro dove veniva posto ogni
tanto un braciere oppure le piantine venivano messe in un cassone coperto di letame per tenerle calde (a Collerinaldo era chiamato “vaschittu”). Al buio i germogli acquivano un colore biancogiallastro. L’oscurità simboleggiava quella del sepolcro in cui tuttavia è nascosta una vita destinata all’immortalità. La sera del gio290 - SILVÆ - Anno VII n. 15/18
Studi etnobotanici nella Provincia di Rieti
vedi i vasi erano portati in chiesa da ragazze che facevano a gara
a chi portava il vaso più bello. Davanti ai vasi era posta una lampada e l’altare era adornato con ginepro che si raccoglieva in montagna. (Polia, M. 2002). A Collerinaldo, l’8 Settembre, il giorno
della festa della Madonna della natività, si faceva “lu manocchiu”
ovvero una corona di grano che i locali offrivano in chiesa come
ringraziamento del raccolto, portavano in processione e poi vendevano all’asta. Se il grano rappresentava una pianta molto usata
per riti e usanze in quanto fonte principale di sostentamento,
anche altri prodotti erano utilizzati per l’alimentazione. Da alcuni
racconti è stato evidenziato, ad esempio, come circa cinquant’anni fa era molto diffusa la raccolta di prodotti dei boschi e dei
campi: “se jea pe’ funghi, cicoria, sparaci15, lupari16, cimitarule17, jenneri, moriche e, a Terminillu pure pe mirtilli e lamponi”18 cosi come,
negli estesi castagneti di Antrodoco erano molti a dedicarsi alla
coltura delle castagne. Anche in “La sabina e il Fascismo”19 troviamo scritto:” …le fragole, i funghi, i tartufi, l’asparago selvatico, le
nocciole, il vischio, le sorbe, i corbezzoli, le more, la menta selvatica, il
finocchio selvatico, la belladonna, la genziana, l’origano ecc, sono tutti
prodotti che costituiscono la piccola industria forestale che viene esercitata in maggior parte dalle donne e dai ragazzi della montagna che presentano questi prodotti al consumatore sui pubblici mercati della città e
dei paesi limitrofi. Le piante medicinali invece vengono vendute agli stabilimenti farmaceutici”. Questo dimostra come l’attività di raccolta
dei prodotti del sottobosco e di erbe fosse quindi molto diffusa e
non solo limitata al consumo familiare ma anche alla base di eventuali commerci.
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