Il traduttore deve dar prova della stessa eloquenza e dello stesso

Linguistica
applicata
6/11/08
“Il
traduttore
deve
dar
prova
della
stessa
eloquenza
e
dello
stesso
livello
di
conoscenza
dell’autore
tradotto;
dev’esser
colui
che
meglio
conosce
la
lingua
da
cui
traduce
e
quella
in
cui
traduce
,
affinché
vi
sia
in
esse
la
massima
uguaglianza.
Sappiamo
che
il
traduttore,
quando
parla
due
lingue,
fa
un
torto
ad
entrambe,
poiché
ognuna
di
esse
attira
l’altra,
da
essa
attinge
e
ad
essa
si
oppone.
Come
può
il
traduttore
padroneggiare
entrambe
le
lingue
con
la
competenza
che
avrebbe
se
ne
parlasse
una
sola,
dal
momento
che
ha
una
sola
forza
e
quando
parla
una
lingua
riversa
su
di
essa
quella
forza?
Lo
stesso
dicasi
quando
egli
parla
più
di
due
lingue:
la
traduzione
ne
soffrirà
ancor
più.
Infatti,
più
una
scienza
è
difficile
e
ardua
(e
meno
numerosi
sono
coloro
che
la
conoscono),
tanto
più
arduo
risulta
il
compito
del
traduttore,
maggiormente
indotto
a
commettere
errori.
E
non
si
troverà
un
traduttore
degno
di
quei
dotti”
(Al‐
Ǧāḥiẓ)
“I
traduttori
seguono
due
metodi
diversi:
il
primo
[…]
consiste
nel
prendere
in
considerazione
ogni
singola
parola
greca
ed
il
suo
significato,
sostituirla
con
una
parola
araba
corrispondente,
e
procedere
così
finchè
si
completa
la
frase
che
si
vuol
mettere
in
arabo.
Tale
metodo
però
non
è
valido
per
due
ragioni:
innanzitutto,
fra
le
parole
arabe
non
si
trovano
parole
corrispondenti
a
tutte
quelle
greche.
Così,
nel
corso
di
questa
arabizzazione,
molte
parole
greche
sono
rimaste
tali.
Inoltre,
le
caratteristiche
grammaticali
e
sintattiche
non
sempre
hanno
un
corrispondente
nell’altra
lingua,
e
si
può
anche
incorrere
in
errore
nell’uso
delle
metafore,
che
sono
molte
in
tutte
le
lingue.
Il
secondo
metodo
di
arabizzazione
[…]
consiste
nell’esaminare
la
frase,
penetrarne
il
significato
per
esprimerlo
nell’altra
lingua
con
una
frase
corrispondente
alla
lettera,
oppure
che
da
essa
differisca”
(aṣ-Ṣafadī).
Al‐Kindī, Epistola
sulle
definizioni
e
descrizioni
delle
cose
ṭīna
‘materia’
falsafa
‘illa
‘causa’
šay’
‘cosa’
VIII‐XI
secc.

nessun
saggio
interamente
dedicato
alla
traduzione
in
arabo
Terminologia
limitata:
tarǧama
‘tradurre’,
tarǧumān
‘traduttore’;
naqala
‘trasportare’,
ḥawwala
‘trasferire’
e
‘trasporre’;
‘arraba
‘arabizzare’,
ta’rīb
‘arabizzazione’
Lingua
araba

elemento
grazie
al
quale
viene
circoscritta
la
stessa
estensione
del
termine
‘arabo’:
gli
Arabi
sono
i
detentori
della
lingua
araba
“L’unico
criterio
da
conservare
per
delimitare
l’ambito
arabo
è,
dunque,
d’ordine
linguistico”
(Blachère)
Le
lingue
dei
popoli
che
hanno
aderito
all’Islàm
posseggono
un
vocabolario
impregnato
non
solo
di
termini
mutuati
direttamente
dal
Corano,
ma
anche
di
loro
derivati
formati
dagli
specialisti
di
diritto
canonico,
dai
teologi
o
dai
mistici.
“[Gli
Arabi]
avevano
perduto
il
loro
senso
geografico,
le
loro
memorie
razziali,
politiche,
storiche
[sotto
gli
Ottomani].
Ma
s’aggrappavano
alla
lingua
di
cui
avevano
fatto
quasi
una
sorta
di
patria”
(Lawrence).
Periodo
preislamico:
‘capo’
come
‘colui
che
dice,
che
parla’:
sayyid,
amīr,
qā’il
(radice
‘dire’)
Poeta:
šā’ir
(radice
‘sapere’)
Diglossìa
(Ferguson
1959):
lingua
letteraria/lingua
parlata
Il
testo
coranico
Il
problema
delle
vocali:
7,
10
o
14
letture
ufficiali
Studi
linguistici
presso
gli
arabi
Importanza
dei
commenti
coranici
Importanza
dei
grammatici

sacralizzazione
della
lingua
Grammatica,
fiqh
e
kalām
Fiqh ‘scienza della legge religiosa, diritto canonico’. Disciplina
normativa che si propone di stabilire le regole concernenti l’intero
comportamento, tutti gli aspetti della vita religiosa, politica e civile
Kalām: teologia
Arabo
classico

lingue
‘neoarabe’
(Meillet)
Differenze
tra
i
dialetti
arabi
delle
varie
aree
geografiche
(dialetti
del
Magreb,
dialetto
egiziano,
dialetto
siro‐libanese,
dialetti
della
Penisola
Araba)

diverso
sostrato
Tratti
comuni

assenza
dalla
lingua
parlata
della
flessione
casuale
e
modale,
assenza
del
cosiddetto
‘stato
costrutto’
(nome
determinato
da
un
altro
al
genitivo),
presenza
di
certi
prefissi
che
indicano
l’aspetto
Versteegh

dialetti
arabi
come
risultato
di
un
processo
di
pidginizzazione
“Fino
ai
giorni
nostri
potremo
seguire
questa
tensione
fra
una
corrente
sotterranea,
che
in
un
certo
senso
conduce
la
lingua
verso
la
semplificazione,
e
la
forte
corrente
contraria
che
spinge
a
ritornare
al
prototipo,
ad
allontanarsi
a
qualsiasi
prezzo
dai
dialetti
parlati,
proprio
al
fine
di
conservare
intatto
quel
valore
simbolico
che
viene
attribuito
alla
lingua
letteraria”
(Anghelescu).
Mutamenti
lessicali:
la
lingua
araba
dispone
di
grandi
possibilità
di
derivazione
(minori
quelle
di
composizione)

formazione
di
un
bagaglio
di
termini
per
le
scienze
‘arabe’
o
assimilate
prestiti
e
calchi

traduzioni
dal
greco
(logica)
“Un’altra
‘lezione’
che
i
linguisti
arabi
contemporanei
hanno
tratto
dall’esame
della
lingua
dei
testi
tradotti
dal
greco,
riguarda
la
capacità
dell’arabo
di
adattarsi
a
nuovi
contenuti
ricorrendo
soprattutto
a
procedimenti
interni:
la
lezione
insegna
che,
se
questo
è
potuto
accadere
undici
secoli
fa,
può
accadere
anche
ai
nostri
temoi,
in
cui
l’arabo
deve
far
fronte
all’assalto
della
civiltà
moderna”
(Anghelescu)
Ibn
‘Abbās,
cugino
di
Maometto

‘scoperta’
che
una
serie
di
parole
coraniche
sono
di
origine
straniera
Diglossia
“La
diglossia
è
una
situazione
linguistica
relativamente
stabile
in
cui,
in
aggiunta
ai
dialetti
primarii
della
lingua
(che
possono
includere
uno
standard
o
più
standard
regionali),
esiste
una
varietà
sovrapposta
molto
divergente,
altamente
codificata
(spesso
più
complessa
grammaticalmente),
che
fa
da
veicolo
ad
un
ampio
e
rispettato
corpus
di
letteratura
scritta,
sia
d’un
periodo
più
antico
sia
d’un'altra
comunità
linguistica:
varietà
che
viene
appresa
generalmente
attraverso
l’istruzione
ufficiale
e
usata
per
la
maggior
parte
delle
necessità
di
espressione
scritta
o
orale
elevata,
ma
che
non
viene
usata
da
alcun
settore
della
comunità
per
la
conversazione
quotidiana”
(Ferguson)
arabo
medio

forma
semplificata
di
arabo
letterario
mezzi
di
comunicazione
di
massa
Situazione
di
Tunisi
“Esaminando
i
risultati
di
questo
studio,
possiamo
pensare
che
i
nostri
studenti
vivano
un
intenso
problema
linguistico.
Nessuna
lingua
e
nessun
livello
di
lingua
può
servire
a
comunicare
tutte
le
loro
esperienze
a
tutti
i
loro
interlocutori,
in
tutti
gli
ambienti
della
società
tunisina.
L’arabo
letterario
è
forse
il
più
rispettato,
ma
di
gran
lunga
il
meno
usato.
É
la
lingua
ufficiale
del
Paese,
è
la
lingua
del
Corano,
della
civiltà
arabo‐musulmana,
in
breve
è
la
lingua
di
prestigio.
Ma
l’ambito
d’uso
di
questa
lingua
si
limita
alle
lezioni
e
a
qualche
attività
letteraria.
Che
fare
per
le
altre
attività
non
culturali?
Per
gli
ambienti
non
universitari?
L’unica
lingua
che
i
nostri
studenti
possono
utilizzare
per
ogni
scopo
è
il
francese.
Ma
tutto
congiura
per
impedire
che
il
francese
diventi
l’unica
lingua
degli
studenti:
il
sentimento
personale,
nazionale
e
religioso,
soprattutto
un
popolo
che
non
parla
francese.
Il
francese
è
una
lingua
capace
di
servire
perfettamente
all’università
ma
è
una
lingua
straniera.
I
nostri
studenti
usano
il
francese,
ma
non
possono
oggettivamente
e
soggettivamente
farne
la
loro
unica
lingua.
L’arabo
dialettale
può
riuscire
dove
il
letterario
ha
fallito?
Certamente
no.
L’arabo
dialettale
è
sì
la
lingua
madre,
quella
che
ogni
tunisino
può
usare
con
ogni
altro
tunisino,
e
farsi
comprendere,
a
condizione
tuttavia
di
parlare
soltanto
d’affari
quotidiani
banali.
Non
è
ancora
la
lingua
culturale,
se
si
escludono
pochi
saggi
letterari.
I
nostri
studenti
rifiutano
l’idea
vhe
possa
un
giorno
esser
la
lingua
della
cultura”
(Habib
Ounali)