Dall'ordine naturale alla virtù artificiale. a. La virtù dei filosofi e i cristiani. In Grecia, prima e fuori delle scuole filosofiche, poeti e oratori avevano parlato delle qualità che rendono un uomo pregevole, delle virtù, come si diceva. A quella letteratura si rifecero i filosofi greci, ma senza assumerne il contenuto e anzi proponendo, in modi più o meno radicali, tipi di vita alternativi a quelli che ritenevano propri dei loro concittadini. Per questo i cristiani trovarono nei filosofi pagani un imbarazzante precedente alla propria pretesa di opporsi alla società pagana. Ma essi ritenevano di disporre della grazia, e così confinarono l'etica dei filosofi al piano della natura. Solo dopo un lungo travaglio la cultura cristiana smise di vedere nella natura un'espressione del disordine e del peccato, come aveva fatto Agostino, e vi scorse un momento anteriore a quello della grazia. Così la virtù dei pagani, nell'immagine costruita dai filosofi, potè diventare il prodotto della ragione naturale, anch'essa un comando divino, sia pure non assistito dalla grazia. In questa sistemazione, diventata canonica con Tommaso d'Aquino, ebbe una parte importante la teoria etica di Aristotele che, pur essendo una delle dottrine filosofiche meno radicali, era rimasta abbastanza inattiva nell'antichità. Nell'Etica Nicomachea Aristotele ammetteva, oltre alle virtù intellettuali (o dianoetiche), principalmente proprie dei filosofi, le virtù morali (o etiche), proprie del cittadino, che consistono nel giusto mezzo, cioè nell'abito a praticare la moderazione di fronte agli eccessi ai quali possono indurre la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. Ma il cristianesimo mise anche d'accordo la virtù con la legge. La cosa non era facile per i filosofi antichi, che spesso consideravano le leggi delle città convenzioni più o meno arbitrarie, delle quali coloro che praticavano le virtù autentiche non avevano bisogno. Platone nella Repubblica e nelle Leggi aveva escogitato città immaginarie per trovare una legislazione adatta ai filosofi, e gli storici avevano parlato di una legge naturale, l'unica che il sapiente, indipendente dalla città reale, debba seguire. Anche i cristiani avevano problemi con le leggi: la loro Chiesa, erede del popolo ebraico che pretendeva di aver ricevuto direttamente da Dio la propria legge, si era dovuta adattare alle leggi pagane e da ultimo a quella romana. La cultura cristiana medievale utilizzò l'idea della legge di natura, articolandone i contenuti e facendone l'espressione dell'ordine naturale, lo stesso che si realizza anche nella virtù naturale. b. La natura e l'artificio. Il miraggio della cultura antica come espressione della razionalità naturale continuò ad agire nell'Europa dei conflitti religiosi, nel mondo della Riforma come in quello della Controriforma e negli scrittori liberi, non collegati alla cultura ecclesiastica; in particolare la letteratura morale continuò a essere modellata sui manuali costruiti sull'impalcatura scolastica. Anche autori come Cartesio, Hobbes, Spinoza o Locke, che sono considerati filosofi moderni tipici, continuarono a ritenere che gli uomini per natura fossero spinti ad agire in primo luogo dal piacere e dal dolore. Lo avevano sostenuto i filosofi classici, che pure avevano svolto in modi diversi questo tema. Per i filosofi moderni diventarono particolarmente interessanti gli epicurei, che sembravano aver inteso la morale come una semplice amministrazione razionale dei piaceri e dei dolori. Anche gli epicurei però avevano poi finito con il proporre un'etica ascetica perché, come quasi tutti gli altri filosofi antichi, avevano sostenuto che bisogna evitare i piaceri mescolati ai dolori. E poiché quasi tutti i piaceri lo sono, bisogna soprattutto evitare il dolore, scartando anche i piaceri derivanti dalla soddisfazione di desideri non necessari. Sulla base dell'ascetismo filosofico antico filosofi come il Cartesio delle Passions de l'âme del 1649 e lo Spinoza dell'Ethica more geometrico demonstrata del 1677 poterono creare una teoria che faceva della conoscenza intellettuale pura lo strumento per godere delle emozioni senza restarne prigionieri. Questa teoria reintroduceva il contrasto tra i 'filosofi' e gli uomini comuni, che si orientano sulle emozioni del momento e che solo premi e punizioni possono sottrarre alla pressione del piacere e del dolore immediati. Quando aveva scritto il Discorso sul metodo (1637) Cartesio, dopo aver cercato la verità esercitando il dubbio su tutte le conoscenze ricevute, aveva trovato qualche difficoltà a ripetere la stessa operazione con le regole di comportamento; e in attesa di trovare una morale definitiva, si era accontentato della cosiddetta morale provvisoria. Per il momento avrebbe accettato le usanze e le credenze del paese in cui aveva scelto di vivere, e le avrebbe seguite con costanza, cercando di cambiare se stesso piuttosto che le cose. La costanza, una tipica virtù stoica, era quella che doveva contraddistinguere l'atteggiamento del filosofo cartesiano da quello degli altri uomini con i quali ha in comune leggi e fede religiosa. Ma a differenza degli stoici Cartesio non riteneva che ci fosse qualche rispondenza tra l'ordine della natura e la vita del sapiente. Le virtù dei filosofi antichi rimangono una buona guida solo perché liberano completamente dalle emozioni e sanciscono il primato dell'anima sul corpo. Infatti l'ordine dei corpi è completamente diverso dall'ordine del quale l'anima fa parte, e le emozioni servono in primo luogo soltanto a mettere in guardia contro i pericoli che minacciano il corpo: perciò è un bene per l'anima liberarsi da esse. Ma le emozioni possono essere recuperate se vengono collegate a stati non del corpo ma dell'anima. In questo aiuterà la conoscenza, che permetterà di andare oltre l'orizzonte ristretto delle cose con le quali si viene a contatto, e soprattutto rivelerà che l'anima non è messa in pericolo dalle cose che minacciano il corpo. Il saggio cartesiano perciò non ritiene che le cose rientrino in un ordine buono, che mira a un fine, ma piuttosto che esse non hanno in se stesse un significato, se non come occasioni per l'esercizio della superiorità dell'anima. Si dice di solito che Cartesio abbia sentito l'influenza di una vasta letteratura rinascimentale, rappresentata in modo esemplare dai Saggi (1580-1588) di Montaigne, sulla varietà e vanità delle credenze umane. Ma su questa letteratura Cartesio costruisce una morale che consiste nell'accettazione di un ordine del mondo non finalistico, un'accettazione che dovrebbe produrre quel piacere intellettuale del quale erano andati in cerca Platone e Aristotele. Questa idea sarà sviluppata in modo radicale dall'Ethica di Spinoza. Un'interpretazione delle emozioni analoga a quella cartesiana, tuttavia, produceva effetti anche nel modo di intendere la vita associata. Ugo Grozio nel De jure belli ac pacis (1625) aveva cercato di trovare nello stato di natura l'origine e la giustificazione delle diverse forme politiche. Originariamente gli uomini vivono in comunità naturali, dalle quali escono dando vita a forme politiche diverse, che però devono mantenere alcune delle relazioni già presenti nello stato naturale, rendendole più stabili. Grozio immaginava lo stato di natura soprattutto attraverso schemi giuridici, derivati dal diritto romano e dal diritto delle genti, cioè il diritto che regola le relazioni tra uomini che non appartengono alla medesima società politica. Thomas Hobbes, seguendo un cammino per certi versi parallelo a quello che aveva portato Cartesio a scorgere nel piacere e nel dolore i moventi fondamentali dell'uomo e partendo da un netto rifiuto del finalismo, nel De cive (1642) e nel Leviatano (1651) interpretava lo stato di natura in termini ben diversi da quelli di Grozio. Nella condizione naturale gli uomini vedono negli altri uomini una minaccia costante. Ma nello stato di natura tutti gli uomini sono uguali, hanno tutti la medesima forza e una conoscenza limitata, e non c'è nessuno che possa imporre una disciplina: per questo lo stato di natura è uno stato di guerra continua ed è ragionevole ritenere che in esso nessuna intesa è sicura. Solo l'istituzione di un'autorità permette di costruire una vita ordinata e di dare un significato agli stessi concetti morali: le valutazioni dei comportamenti sono tutti modi per designare ciò che produce piacere o dolore, ma danni e vantaggi sono determinabili in modo preciso solo dopo che si è istituito un ordine politico sicuro abbandonando lo stato di natura. Come Cartesio, anche Hobbes cercava di recuperare l'etica dei filosofi antichi accolta dalla tradizione cristiana, ma anche lui la reinterpretava assumendo che piacere e dolore sono gli unici moventi dell'azione umana e senza supporre che la realizzazione della virtù fosse il fine di tutta la realtà. Ma a differenza di Cartesio riteneva che gli uomini, più che le cose, fossero all'origine di ciò che può nuocere o giovare. Nell'interpretazione hobbesiana dell'etica le norme sono costrutti artificiali, esattamente come sono entità artificiali le società politiche nelle quali gli uomini vivono e nelle quali pregi morali e istituzioni giuridiche hanno senso. Il carattere artificiale di tutti gli apparati normativi era venuto in luce con l'interpretazione giuridica della società politica data da Grozio, che distingueva l'interpretazione moderna, giusnaturalistica, da quella medievale della legge di natura. Ma all'interpretazione giuridica groziana Hobbes aveva sostituito una specie di “antropologia filosofica”, secondo la quale gli uomini sono ossessionati soprattutto dalla minaccia rappresentata dai loro simili e subordinano tutto, anche le regole morali, alla rassicurazione contro questa minaccia. Numerosi saranno i tentativi di correggere la teoria hobbesiana, accettando la sua antropologia ma evitando di trarne conclusioni radicali. Per Samuel Pufendorf (De jure naturae et gentium, 1672) come per John Locke (Trattati sul governo civile, 1690) la società politica è sì una costruzione artificiale prodotta da contratti, che serve ad assicurare agli uomini il godimento dei beni esterni, ma lo stato di natura non è quella condizione di guerra totale, di tutti contro tutti, disegnata da Hobbes. Già nello stato di natura si profila la possibilità che gli uomini pratichino comportamenti compatibili: e questo permette la costruzione di società che, pur dovendo tutelare soltanto i beni esterni, sono del tutto conformi alle regole morali, anche se queste impegnano soprattutto la coscienza degli individui. E le regole morali sono interpretate in gran parte secondo i canoni della tradizione filosofica e scolastica. Dalla discussione sulla legge di natura, dalla reinterpretazione dell'etica antica attraverso un'antropologia fondata sul piacere e sul dolore e dalla distinzione tra i compiti della società, deputata a proteggere i beni esterni, e gli obblighi individuali di coscienza deriva gran parte dell'assetto della teoria etica settecentesca. Da un lato essa cercherà di sviluppare soprattutto l'idea di artificialità della morale, facendo regredire l'interesse per la legge di natura e il contratto. Dall'altro riprenderà la distinzione tra le regole che presiedono le relazioni esterne tra gli uomini e quelle che vincolano solo la coscienza, approfondendo la distinzione tra le leggi giuridiche e la virtù morale, lungo una direttiva che condurrà a Kant. Lungo la prima linea Anthony Shaftesbury (Ricerca sulla virtù e il merito, 1699), Francis Hutcheson (Saggio sull'origine delle nostre idee di bellezza e di virtù, 1725), David Hume (Ricerca sui principî della morale, 1751), Adam Smith (Teoria dei sentimenti morali, 1759) attenueranno l'importanza di stimoli come piacere e dolore e porranno nel sentimento il principio speciale dell'azione morale. Ma soprattutto meriti e virtù diventeranno qualità artificiali, assai più vicine alle belle maniere, alla buona letteratura e alle arti raffinate che alle arcigne virtù filosofiche antiche, alla sospettosa morale cristiana o all'ossessione per la pace sociale dei filosofi seicenteschi, e Bernard de Mandeville nella Favola delle api (1705) parlerà del lusso e della ricerca dei piaceri, che i filosofi antichi consideravano vizi, come di "pubblici benefici", cioè di fattori di benessere collettivo. Se lo stato di natura, anteriore alla formazione delle società politiche, poteva essere assimilato alla vita dei popoli 'selvaggi', la società artificiale, delle belle maniere, della benevolenza e del lusso, era la società civilizzata. Società artificiali nel grado più alto sono le grandi monarchie moderne, che riescono a farsi sentire dai loro sudditi solo attraverso complessi apparati simbolici, a differenza dalle comunità originarie, che sono piccole e sono tenute insieme da rapporti di benevolenza. Per questo le grandi monarchie moderne possono anche essere intese come una degenerazione, alla quale occorre porre rimedio con un qualche “ritorno alle origini”. Oppure, proprio perché sono un corpo artificiale, le monarchie possono essere riformate, in quanto gli uomini si possono correggere e manovrare, come si fa con una macchina. Le leggi sono lo strumento delle riforme, leggi efficaci che agiscano sui moventi reali dell'azione umana, servendosi di sanzioni proporzionate ed effettive, capaci di generare benefici che tutti possano apprezzare. L'etica e il diritto tendono ad agire insieme: la morale garantisce il carattere non arbitrario delle leggi e queste traducono in pratica le indicazioni etiche.