Alla ricerca della statualità Aperture interdisciplinari della storia delle istituzioni Convegno della Società per lo studio della Storia delle istituzioni Verona, 22-23 febbraio 2012 Aula T1, Polo Zanotto, Università di Verona Sintesi dell’intervento del prof. Francesco Di Donato (Ordinario di Storia delle Istituzioni all’Università di Napoli “Parthenope”) Lo Stato dei giuristi e la statualità dei cittadini (e degli studiosi) A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo la giuspubblicistica tedesca (culminata nella grande, notissima opera di sintesi di Jellinek, la Allgemeine Staatslehre uscita nel 1900) seguita poi a distanza nel corso della prima metà del XX da quella francese (soprattutto con Carré de Malberg) elabora la nozione giuridica di Stato imperniata su tre elementi strutturali: popolo, territorio e sovranità. Su questa base, che sul piano storiografico appare però ancora oggi piuttosto confusa per superficiale scontatezza nei confronti di questa idée reçue divenuta un luogo comune che quasi tutti gli studiosi accettano come un dato di fondo indiscutibile, si è costruita tutta la dottrina giuridica del diritto pubblico e con essa la trasmissione del sapere dei giuristi contemporanei nell’Europa continentale, influenzando profondamente la nascita delle costituzioni e la concezione dei diritti e doveri fondamentali dei cittadini. Molti dei giuristi formatisi a quella scuola di pensiero e imbevuti di quelle nozioni riconosciute come un patrimonio comune dei Paesi più avanzati hanno costituito il nerbo dei gruppi dirigenti nei rispettivi Paesi, assumendo anche ruoli chiave negli organi giurisdizionali o nelle istituzioni politiche, ovvero esercitando attraverso il magistero accademico una sensibile influenza su di esse. Per diversi decenni la dottrina giuridica (costituzionalistica ma non solo) ha tramandato il nesso concettuale inscindibile tra Stato e Costituzione (intesa come “carta costituzionale” fondata sostanzialmente sulla tripartizione suddetta), utilizzando solo concetti tecnico-giuridico-formali e senza tener conto di reticolati interdisciplinari più complessi. Ma la crescente complessità interna e internazionale della vita delle comunità statuali, con riflessi rilevantissimi nel campo economico e tecnologico, ha determinato ben presto l’asfissia di quel modello teorico semplicistico. I prodromi di questa stagione di turbolenza intellettuale si erano già avvertiti in vari campi del diritto nel corso della stessa seconda metà del XIX secolo. Fu la stagione dei cosiddetti «giuristi inquieti» (da René Demogue à Édouard Lambert, da Raymond Saleilles a François Gény) sui quali si è tenuto nel giugno 2011 un interessantissimo seminario internazionale di studio presso la Law School dell’Università di Harvard (Franco-American Legal Influences, then and now) che ha mostrato la loro influenza sui grandi giuristi americani da Oliver Wendell Holmes fino a Benjamin Cardozo e Jerome Franck. Quella fase si risolse però in un eclettismo giuridico (esemplare il caso di Gény) che fu il classico rimedio peggiore del male e che servì soprattutto al «recupero» corporativo del ceto giuridico (come ha dimostrato A.-J. Arnaud, Da giureconsulti a tecnocrati. Diritto e società in Francia dalla codificazione ai giorni nostri, Jovene, Napoli 1993). Come spesso accade la crisi, generata dall’inadeguatezza del modello teorico a dar conto di una realtà incomparabilmente più complessa, ha finito invece con il coinvolgere indebitamente anche l’oggetto stesso della speculazione, in questo caso l’entità statuale in quanto tale (e non solo il suo correlato concettuale insufficientemente descrittivo). È nata così la sterminata, monotona, stucchevole e acritica letteratura giuridica sulla “crisi dello Stato”, con diverse varianti, tipo “declino” o – nei casi più estremi ed ermeneuticamente violenti addirittura – “epicedio”. In Italia, ambiente dove sul difetto di spirito analitico s’innesta una diffusa e generale tendenza a seguire ciecamente le mode e dove si ha una sorta di piacere innato nel cavalcare le ondate di idee nuove ma non innovative, cioè, se si preferisce, idee che appaiono “nuove” nella presentazione esteriore ma che in realtà sono vecchie e insuscettibili di generare piste di ricerca e di vero avanzamento culturale (vino vecchio e acetato, insomma, travasato in otri nuovi e luccicanti, buoni solo per impressionare e intorbidare, non certo per favorire decantazione e limpidezza), in Italia, dunque, questo filone della “crisi dello Stato” ha avuto un particolare e persistente successo che ha coinvolto non solo molti ambienti accademici, ma è giunto perfino a contaminare le linee di tendenza del mercato editoriale. Si è arrivati al colmo del paradosso nel caso di un libro (S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari 2002) la cui tesi centrale è che lo Stato, pur dovendo «dimagrire» nell’era del libero mercato, non può essere affatto considerato un modello obsoleto, quantomeno nell’area occidentale: l’editore, nella convinzione che ciò favorisse le vendite, ha scelto d’imporre un titolo nel quale campeggia la fatidica espressione “crisi dello Stato”, il che contraddice frontalmente il contenuto del volume. In un altro caso – e qui la cosa si fa grottesca oltre che gravissima sul piano della correttezza del metodo scientifico – un libro di Rudolf J. Rummel, pubblicato in lingua inglese con il titolo Death by government, Transaction Publishers, New Brunswick (New Jersey) 1994, è stato tradotto in italiano con il titolo Stati assassini (Rubbettino, Soveria Mannelli 2005). Il dato non ha bisogno di commento, se non per il fatto che è chiaro indice di una mentalità e di una arrière pensée (invero arrière ma anche arriérée) del tutto anti-scientifica che denota una preconcetta ostilità a una realtà e a un concetto (nel caso di specie quello di “Stato”), visti a priori come entità negative e addirittura considerate obbrobriose per definizione. Siamo, è evidente, agli antipodi della mentalità scientifica che è fondata invece sulla curiositas e sul desiderio di scoperta senz’alcun apriori. L’unica domanda che vien da formulare di fronte a casi del genere è questa: che bisogno c’è di compiere l’improba, faticosa e lunga impresa della ricerca empirico-fattuale quando la Verità è già evidente ictu oculi per via di rivelazione? Se i risultati sono anticipati rispetto all’indagine analitica e se il concetto ottunde la realtà anziché disvelarla e descriverla, si può tranquillamente fare a meno della ricerca: essa, in quest’ottica, è fastidiosa, inutile e per giunta pure antieconomica. In una parola, nell’ambito del concettualismo logico-formale, del cognitivismo etico e della dogmatica (giuridica e no) la ricerca è semplicemente insensata. I due casi riportati non sono isolati, ma costituiscono esempi lampanti di una mentalità diffusissima nell’accademia peninsulare, dove al centro dell’attenzione e della speculazione non vi sono l’impresa scientifica e i suoi oggetti di studio, bensì fiorisce il culto della personalità degli operatori (in molti casi) pseudo-scientifici. Questo spiega l’assenza di dibattito o (ciò che è peggio) l’orgia di dibattiti finti di cui è disseminata la vita accademica italiana, appuntamenti nei quali un profluvio di parole in libertà soffoca la sobria durezza del confronto dialettico tra posizioni e linee scientifiche diverse. È così che in Italia, in quella che Michel Foucault chiamava con sottile e garbata ironia «la patria della diplomazia», non basta essere ricercatori e proporre idee, ma occorre prima di tutto essere accreditati dalla e nella pseudo-comunità scientifica. E va da sé che tale accredito non può avvenire in base alla sola qualità delle idee proposte, ma avviene di regola in base ad altri criteri tra i quali campeggiano i rapporti relazionali, la cordialità asociale, il verbalismo elusivo dei veri problemi. In sintesi: il soffocamento dell’impresa scientifica in Italia passa attraverso la cooptazione non virtuosa e l’annientamento del dibattito realizzata attraverso l’eccesso di (finto) dibattito. È così che all’assenza di vera discussione scientifica corrisponde in Italia un trionfo dello spirito polemico e una continua personalizzazione dei confronti, la cui partecipazione è peraltro considerata e vissuta come un privilegio piuttosto che come un libero diritto di ogni attore sociale nel campo scientifico di proporre e di trovare ascolto e cooperazione persino nella smentita e nella confutazione. Partecipare è già insomma un privilegio accordato, si potrebbe dire octroyé, dai maggiorenti verso i “minorenti”. Prima di quello stadio (che non corrisponde necessariamente ai gradi della carriera accademica) c’è il deserto dell’indifferenza e lo snobismo dell’altèrigia che sempre copre il vuoto delle idee e della vera ricerca. Spesso, troppo spesso si afferma e riscuote consenso in Italia (così nei circuiti mediatici come nei concorsi universitari) la brillantezza priva di (vero) talento. Da diversi secoli nel paese senza statualità l’intelligenza vera e profonda è scavalcata dalla furbizia e dalla scaltrezza (anche questo è un effetto dell’assenza di «spirito di Stato»). Del pari l’individualismo sociale è stato completamente fagocitato dall’individualismo (micro-)feudale. Coperto dall’«invenzione dell’Italia unita» (così ben descritta nell’omonimo libro di Roberto Martucci), questo spirito del microfeudalesimo è trasmigrato in ogni manifestazione della vita pubblica, dai partiti politici alle istituzioni universitarie e si è radicato, per così dire ‘sublimandosi’, nella forma mentis diffusa e nel disvalore ironico e disincantato corrispondente a ogni tentativo di far prevalere l’interesse generale su quelli particolari. I pochi superstiti del naufragio modaiolo, resisi conto dell’insoddisfacente definizione dello Stato fondata sui soli presupposti giuridico-formali e avvertita l’angustia di una definizione pangiuridica del diritto e dello Stato di diritto, hanno coniato la categoria dottrinale fondata sulla distinzione tra «Stato-apparato» e «Stato-comunità». Fu già un importante passo in avanti, ma pur sempre un concetto anch’esso di derivazione logico-dottrinale, partorito all’interno della forma mentis giuridica tradizionale, concettualmente innovata, ma ben radicata sull’impianto del linguaggio della vecchia scienza del diritto. L’idea dello Stato-comunità resta, infatti, eminentemente legata all’idea di Stato come entità a sé, costruzione spirituale del Giuridico e termine e misura fondamentale al quale ogni cittadino e la comunità sociale nel suo complesso non può fare a meno di rapportarsi e – che lo si dica esplicitamente o no – di essere assorbito. In fondo, si tratta di uno Stato che si sforza di raccordarsi alla comunità attraverso un suo riconoscimento giuridico. La comunità è quindi concepita come un’entità a sé, un elemento che resta ben distinto dall’apparato istituzionale, quand’anche esso ne sia l’espressione rappresentativa attraverso la fictio juris della rappresentanza elettorale. Anche quest’ultima, all’interno dell’ordine del discorso costituito dalle categorie precomprensive determinate dall’ideologia giuridica, è un fenomeno eminentemente regolato dalla sfera del diritto e dalla sua ipostasi concettuale e dottrinale ed è quindi destinata a subire la triste sorte formalistica della normazione ordinaria. In ogni caso, nella concezione dei giuristi nulla fa pensare alla “comunità” e alle sue complesse articolazioni psicosociali come al fondamento della statualità. Quest’ultima nozione è nella mentalità giuridica semplicemente inesistente o identificata con lo Stato toutcourt. Lo Stato-apparato e la sua costruzione idealgiuridica diventano insomma, nell’ordine del discorso dei giuristi, termine e misura di ogni dimensione statuale, compresa quella dello «Stato-comunità», una categoria, non a caso, considerata di recente e senza mezzi termini «erronea» e sostituita cone quella, senza dubbio più onesta, ancorché del tutto endogiuridica (anzi in questo caso palesemente endogiuridica), di «Statoordinamento» (S. Cassese, L’Italia: una società senza Stato?, Il Mulino, Bologna 2011, p. 16). Non è certo privo di significato che la concezione dello Stato fondata sulla tripartizione (popolo, territorio, sovranità) abbia attecchito maggiormente in quelle realtà (come la Germania e l’Italia) la cui storia di lungo periodo era stata tutta all’insegna della pressoché completa assenza della dimensione aggregativa propria delle aree statualizzate. In queste ultime invece – specialmente nelle realtà geopolitiche inglese e francese – la riflessione si è indirizzata piuttosto sui temi assai più concreti del rapporto tra autorità (o sovranità) e libertà (Hauriou e Duguit: quest’ultimo respingeva apertamente «la terminologia dei giuspubblicisti tedeschi che distinguono tra il potere pubblico e la sovranità») e sulla dimensione giuridico-istituzionale intesa come qualificazione strumentale del Politico (Vedel, Eisenmann, Burdeau), per pervenire infine a una raffinata definizione dello Stato come del «nome che si dà al potere politico quando si esercita in una certa forma, la forma giuridica» (Michel Troper, Per una teoria giuridica dello Stato, trad. it. Guida, Napoli 1998, p. 170). Ma queste sintesi sono a loro volta il frutto di un ambiente socioculturale capace di generare potentissime strutture precomprensive nelle quali la forma mentis imperniata sull’organizzazione statuale è stata dominante se non egemone. Le società francese e inglese avevano fin dall’inizio del millennio trovato potenti forme organizzative di aggregazione e di cooperazione, sviluppando per un verso i concetti di «cittadinanza» e di «patria» (basti ricordare al riguardo il bellissimo saggio classico di Ernst Kantorowicz, Pro patria mori, trad. it. in Id., I misteri dello Stato, Marietti, Genova-Milano 2005, pp. 67-97; va sottolineato, poiché questo particolare ha grande importanza, che si tratta del Kantorowicz nella fase americana e non in quella tedesca) e per un altro sperimentando forme sempre più sofisticate e raffinate di fiducia individuale e sociale tanto orizzontale (tra individui) quanto verticale (tra individui e istituzioni e viceversa). Ciò fu reso possibile dal superamento del provvidenzialismo metafisico e da un deciso processo di laicizzazione, prodromo del convenzionalismo contrattualistico e di una scepsi non nichilistica, ma propulsiva (esemplare al riguardo la personalità di Michel de Montaigne in Francia, che spianò la strada al potente razionalismo cartesiano). Furono questi i padri nobili del costituzionalismo e, sulla longue durée, della statualità democratica contemporanea, come seppe genialmente intuire Tocqueville. In tal modo si è determinata una costruzione dal basso della statualità sociale che è del tutto opposta alla costruzione giuridico-istituzionale calata dall’alto dell’astrazione concettuale, ossia dedotta dalle categorie della teoria giuspolitica elaborata dalla forma mentis di un gruppo elitario d’iniziati (come accadde nel mos italicus). Così, dalle radici culturali e antropologiche della struttura sociale è venuto formandosi quello che Pierre Bourdieu ha indicato come «l’interesse al disinteresse» quale valore fondamentale per la costruzione dello Stato inteso «come luogo neutro» nel quale «i valori del disinteressamento sono ufficialmente riconosciuti» (Sur l’État. Cours au Collège de France 1989-1992, Seuil, Paris 2012, pp. 13 ss.). Proprio la presenza di questi assets socioculturali, favoriti da un terreno religioso propizio ai processi di laicizzazione (perfettamente descritti da J. R. Strayer all’inizio degli anni ’40 del XX secolo e solo da pochissimo tradotti per la prima volta e fatti conoscere in Italia agli studiosi di buona volontà, ahinoi! pochi), ha favorito il sorgere e il radicarsi della mentalità sociale imperniata sui valori della socialitas. Quest’espressione, usata da Samuel Pufendorf, fu poi destinata a grande fortuna elaborativa nelle élites intellettuali più acute d’Europa: si pensi solo al concetto di esprit de société in J.J. Rousseau. Ma l’idea della cooperazione sociale in Francia è molto più antica, se si pensa a figure come Incmaro di Reims (IX sec.), al Carmen ad Rodbertum regem di Adalberone di Laon o ai Gesta episcoporum cameracensia di Gerardo di Cambrai, entrambi, secondo la ricostruzione di Georges Duby, degli anni venti dell’XI secolo. Se si vogliono studiare lo Stato e la statualità bisogna andarli a cercare dove essi sono e non dove essi non sono e non possono essere. È questo, a mio avviso, il difetto maggiore di quelle interpretazioni che, prendendo a modello l’area germanica e poggiandosi sulla storiografia tedesca (soprattutto Hintze e Brunner), hanno inteso espungere da essa gli elementi fondamentali della storia dello Stato (Schiera, Fioravanti), facendoli diventare strutture universali applicabili sempre e ovunque, come entità dogmatiche e atemporali. Eppure tanto Max Weber quanto Carl Schmitt, quando parlavano dello Stato, avevano in mente la realtà storica francese e occidentale e non certo quella tedesca e dell’area germanica (è, d’altronde, proprio questo il motivo della scarsa fortuna iniziale di Weber in Germania e del suo postumo ‘rimbalzo’ parsonsiano dagli Stati Uniti all’Europa occidentale). Inoltre negli studi storico-giuridico-istituzionali peninsulari sullo Stato il profilo prettamente giuridico è egemone e totalizzante. Maurizio Fioravanti, che ne è in buona misura lo studioso più rappresentativo e conosciuto, ha dato una risposta recisamente affermativa al quesito «È possibile un profilo giuridico dello Stato moderno?» che gli era stato rivolto in un congresso svoltosi presso la Scuola Superiore di Studi Storici dell’Università di San Marino. Egli anzi ha rilanciato la posta in gioco, affermando in sede congressuale che la comprensione dello Stato moderno passa solo attraverso la delineazione di un profilo giuridico e sviluppando poi questo concetto in un discorso nel quale il protagonista esclusivo è lo «Stato» così come definito ex post dai giuristi (prevalentemente tedeschi e/o italiani intedescati) e dalla loro dottrina. Costruzioni di questo tipo non portano a migliorare la comprensione del fenomeno statuale in Occidente e realizzano solo una superfetazione delle categorie dottrinali endogiuridiche, contribuendo a isolare il diritto e la storia giuridica in un ghetto che solo i suoi prigionieri (gli storici che la producono) si figurano come una torre avoriata, ma che è in realtà un non-luogo d’isolamento totale del diritto e del suo sapere storico dalle scienze sociali. Si tratta, a rigore, di narcisismo illusionistico e anche in una certa misura di delirio di onnipotenza sotto specie di sindrome di completezza e autosufficienza (a dispetto del teorema di Gödel). Che cosa ha tutto ciò da spartire con l’interdisciplinarità di cui la scienza si nutre? Non è un caso se da anni lo studioso pratese (al pari di altri) si sia chiuso in uno sdegnoso silenzio e si rifiuti di rispondere a importanti questioni sollevate dalla sua lettura del fenomeno statuale. L’assenza di dibattito è conseguenza della scarsa propensione al confronto obiettivo, che invece dovrebbe essere sempre accettato e anzi favorito in una comunità scientifica. Se davvero si ha l’obiettivo di sviluppare un’analisi seria e motivata sullo Stato e sulla statualità, la via metodologica da seguire è, tutto all’opposto della costruzione idealgiuridica, lo studio dei fattori interattivi che determinano i legami verticali e orizzontali tra le istituzioni e la società e che producono nella linfa di quest’ultima quegli elementi che favoriscono per un verso l’autodisciplina e la capacità d’introiettamento delle regole e per un altro il senso dell’organizzazione e della cooperazione nel rispetto dei limiti invalicabili di autodeterminazione di ciascun individuo-cittadino. Questo discorso ha una molteplicità polisemica incoercibile. Il più importante dei significati che esso implica è lo studio delle modalità storiche e dei contesti politico-istituzionali e antropologico-culturali che producono le determinazioni psicosociali. Senza un adeguato studio «psico-socio-analitico» (uso qui volutamente la nota espressione di Wilfred R. Bion ripresa in Italia da Luigi Pagliarani) dei percorsi storici determinatisi in ciascun agglomerato sociale e politico non si arriverà mai a comprendere di che cosa parliamo quando parliamo di statualità. Come ha sintetizzato perfettamente Serge Moscovici, il fondatore della teoria delle Social Representations, «è del tutto logico tener conto del fatto che i processi sociali e pubblici […] sono stati gradualmente interiorizzati per divenire processi psichici»; e perciò conoscere le rappresentazioni sociali e spiegare che cosa esse «significano, costituisce il primo passo in ogni analisi di una situazione o di un incontro sociale, e costituisce un mezzo di previsione dell’evoluzione delle integrazioni di gruppo». In tutte le scienze sociali – e vorrei vedere a chi venga in mente di mettere in dubbio che la storiografia vi appartenga a pieno titolo – diventa perciò prioritario «esaminare l’aspetto simbolico delle relazioni e degli universi consensuali. […] Questo è ciò che distingue il sociale dall’individuale, il culturale dal fisico e lo storico dallo statico» (Le rappresentazioni sociali, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 98, 93 e 99). Questa è la nuova frontiera delle scienze sociali che emerge dalla comparazione, dall’internazionalizzazione dei saperi e dall’interdisciplinarità. Nel contesto codino e con(trori)formista dei moralisti (di facciata) italiani (si veda al riguardo il bellissimo recente volume di Amedeo Quondam, Forma del vivere. L’etica del gentiluomo e i moralisti italiani, Il Mulino, Bologna 2010, che ne descrive origine e percorsi), permeata dallo spirito compromissorio medievale e microfeudale di cui i giureconsulti-esegeti furono gl’insuperabili campioni e dei quali i giuristi contemporanei sono per tanti versi gli eredi responsabili della paralisi giudiziaria e della rovina della cosa pubblica (oggi un’evidenza per tutti, ma storiograficamente ben dimostrata già da qualche anno in un importante studio di Raffaele Ajello, Eredità medievali, paralisi giudiziaria. Profilo storico di una patologia italiana, L’Arte Tipografica, Napoli 2009, pressoché ignorato dalla comunità pseudo-scientifica peninsulare), all’assenza cronica e disastrosa di statualità (ossia di organizzazione sociale: si veda al riguardo il bellissimo e sintetico lavoro di due studiosi non accademici, P. Pellizzetti e G. Vetritto, Italia disorganizzata. Incapaci cronici in un mondo complesso, Dedalo, Bari 2006) non poteva che corrispondere un’altrettanto ignominiosa dismissione critica della storiografia e della teoria giuridica, che restano abbarbicate alla storia delle norme e delle loro fonti formali e di regola non si occupano dei rapporti tra evoluzione socioculturale e formazione mutevole del diritto. La stessa storiografia istituzionalistica sembra sia stata influenzata da questo clima caratterizzato dall’esasperazione dei tratti formalistici e normativistici tipici della storia giuridica more italico. In reazione al quale essa ha finito con il chiudersi in un feticismo dell’atto documentario inteso quale unica fonte significativa di riferimento per la ricostruzione della vita istituzionale (Ettore Rotelli). Come se le istituzioni non “pensassero” (Mary Douglass, Come pensano le istituzioni, trad. it. Il Mulino, Bologna 19982, 1a ed. 1990) e come se per farle funzionare non occorresse un pensiero sottostante e préalable, a sua volta nutrito dal ribollire d’interessi, sentimenti politici e rappresentazioni simboliche dei quali si sostanzia la vita di un agglomerato sociale. Si assiste, inoltre, a una deriva di parcellizzazione ricostruttiva che isola le istituzioni e le studia come se esse fossero sospese nell’aere metafisico e non nel vivo della dura lotta per il diritto (per riprendere la celeberrima espressione di Rudolf Jhering), ossia per l’affermazione di idee su altre idee, che operano nella dimensione irrelata delle strutture mentali e sociali. Si spiega così come la grande maggioranza (per non dire la quasi totalità) degli studi italiani che hanno inteso porsi l’obiettivo di descrivere la vicenda dello Stato abbiano coniato e continuino a utilizzare categorie concettuali completamente sganciate dalla realtà e di pura fantasia (come la definizione di «Stato regionale», che serve solo per evitare di chiamare per nome la microfeudalità subalpina) o abbiano inventato «vie» particolari «allo Stato moderno», senza mai tener conto dei rilevanti progressi degli studi storici realizzati oltr’Alpe, tutti rigorosamente attestati, all’opposto, sul metodo della continua comparazione tra valori e fatti e tutti interessati a scoprire i nessi – visibili o sotterranei – attraverso i quali le vicende istituzionali della statualità s’innervano e si embricano con le norme effettivamente vigenti nel quadro dei comportamenti sociali e delle mentalità collettive (da Colette Beaune a Jacques Krynen e Albert Rigaudière, per non parlare di studi ormai classici come quello di Charles Petit-Dutaillis, La monarchie féodale en France et en Angleterre. Xe-XIIIe siècle, La Renaissance du livre, Paris 1933; o quello di Marcel David, di recente scomparso, La souveraineté et les limites juridiques du pouvoir monarchique du IXe au XVe siècle, Dalloz, Paris 1954; o ancora quello di Michel Mollat, Genèse médiévale de la France moderne, Seuil, Paris 1977; o, più di recente, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, l’enorme serie di pubblicazioni coordinate da Jean-Philippe Genet sotto il titolo generale di Genèse de l’État moderne). In effetti, è impressionante constatare come gli studi storico-giuridici o istituzionalistici italiani non si confrontino con quest’ampia letteratura storica e teorica e ruotino invece sempre intorno agli stessi vecchi testi, invero piuttosto appassiti. Solo raramente le note a pié di pagina dei libri italiani apportano citazioni bibliografiche contenenti innovazioni interessanti. Esse si limitano per lo più a citazioni meramente illustrative, quando non ad pompam o reverenziali, senza discutere quasi mai criticamente i contenuti dei testi segnalati. Il metodo della citazione ab auctoritate inaugurato nel medioevo bolognese da glossatori e commentatori è, tutto sommato, ancora in vigore. Da questo punto di vista si può concludere che la storiografia italiana sullo Stato, anche nelle sue manifestazioni più recenti e inizialmente promettenti, mantiene un’orgogliosa chiusura disciplinare, è caratterizzata da un’incapacità cronica ad aprirsi al confronto con le ben più avanzate storiografie transalpine e con i metodi delle scienze psico-sociali, e produce un ‘vanto’ corporativo, che non hanno, né le une né l’altro, alcuna ragion d’essere se non la difesa di un minuscolo territorio, oramai fertile solo nell’immaginario onirico, nel quale in realtà la sabbia desertica ha sostituito da tempo l’humus produttivo. Parole chiave: Stato e statualità; storiografia giuridica e storiografia istituzionale; metodo interdisciplinare e metodo comparativo; critica storiografica e assenza di dibattito scientifico in Italia; crisi della crisi dello Stato.