LETTERATURA ITALIANA MODERNA E CONTEMPORANEA (MONOGRAFICO II SEMESTRE A.A. 2012-13) PROF. GIUSEPPE LANGELLA A.A. 2012-13 Università Cattolica del Sacro Cuore - Facoltà di Lettere e Filosofia Introduzione Il corso di Letteratura italiana moderna e contemporanea è tenuto dal prof. Langella. Esso è tenuto solo per studenti laureandi in lettere, sia moderne sia antiche, invece per gli altri rami della facoltà di Lettere e filosofia è necessaria l’approvazione del docente (ottenibile senza problemi), poiché normalmente gli altri studenti sono affidati al corso di Letteratura italiana moderna e contemporanea del prof. Elli. Esso si articola in due semestri, affinché chi ha solo 6 cfu possa seguire indistintamente il primo o il secondo semestre: a lezione, il professore tiene dei corsi monografici, tra loro slegati, il cui argomento cambia di anno in anno. In maniera autonoma e domestica è assegnata agli studenti, per ogni semestre, la preparazione sul relativo corso istituzionale, ossia i contenuti fissi ed immutabili della letteratura italiana, dell’Ottocento per il primo semestre e del Novecento per il secondo (per i quali si rimanda alle altre dispense di Scribamates). Il corso monografico del secondo semestre 2012-13 ha per tema le storie e le tipologie degli oggetti nella letteratura italiana contemporanea. Esso prevede, nella bibliografia: - i testi (reperibili nei materiali didattici, alla pagina web del professor Langella – oppure presenti nei volumi del corso istituzionale: Letteratura.it vol. 3a o 3b), coi relativi commenti fatti a lezione, fondamentali per il corso; - la lettura domestica di alcune novelle di Pirandello (quali siano è specificato nell’apposito programma, disponibile alla pagine web del professore) - il volume D. Savio, Il carnevale dei morti, Novara, Interlinea, 2013. La dispensa qui presente contiene gli appunti completi delle lezioni del professore, che sono preamboli teorici ed analisi e commento di alcuni testi (quelli appunto scaricabili dall’aula virtuale del prof.), ma accanto ad essi contiene il riassunti precisi di tutte le novelle di Pirandello richieste all’esame, con anche il loro commento, che su alcune è stato condotto a lezione, mentre su altre non si trova altrove, se non qui; inoltre, è presente un sintetico ma esauriente e completo riassunto del volume di Savio, Il carnevale dei morti. L’esame è lungo ed abbastanza complesso, più per la parte istituzionale che per questa monografica, ma sia il professore, sia gli assistenti (a parte uno) sono molto comprensivi e disponibili. Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 1 Appunti delle lezioni del prof. Langella Definizione - Un oggetto è cosa (non una persona né un animale) materiale (che si può vedere e toccare) fatta dall’uomo (non esistente in natura) per un determinato scopo (ha quindi valore strumentale). L’oggetto è dunque tale solo perché legato alle persone, che si circondano e si avvalgono di essi. “I Promessi Sposi” del Manzoni - Capitolo I. Il primo oggetto nominato nel libro è una sega, tirata in causa come similitudine per indicare la forma spezzata e frastagliata del monte Resegone, che domina il panorama lecchese, ed inoltre fa parte della semantica degli oggetti artigianali, del popolo piccolo, che è il rivoluzionario protagonista de “I Promessi Sposi”. Il secondo oggetto nominato è il breviario, cioè il libro di preghiere, di don Abbondio, per indicare il valore della cultura e della conoscenza, fondamentali nel romanzo. Gli oggetti che capitano al terzo posto compongono l’abbigliamento e l’armamentario dei bravi, che li caratterizza propriamente ed identifica il Seicento come il secolo degli scontri, dei duelli: la reticella verde, il ciuffo enorme, i baffi arricciati, la cintura di cuoio con due pistole, il corno pieno di polvere da sparo, poi uno spadone con il marchio del padrone don Rodrigo. Infine, quando prende vita il ritratto di don Abbondio, dopo il colloquio coi bravi, si interrompe la narrazione e si fa un’anamnesi, un ritratto retrospettivo del personaggio, incentrato sulla mancanza di coraggio e sulla debolezza: il curato è paragonato, quotando la seconda lettera ai Corinzi di san Paolo, ad un vaso di terra cotta, fragile e cagionevole di contro alla violenza della storia, costretto a vivere a contatto con molte persone forti e malvagie, che sono dei vasi di ferro. - Capitolo II. Importanti sono l’acconciatura ed il vestiario di Lucia, pronta per un matrimonio contadino, baggiano: gli spilloni d’argento, che tengono i capelli acconciati, disposti a mo’ d’aureola, poi una veste di granati con bottoni d’oro, quindi un bustino a fiori, una gonnella corta di seta e due calze vermiglie. - Capitolo III. Gli oggetti dello studio dell’Azzecca-garbugli sono oggetti d’arredo, simbolo di una cultura imponente ma passata, che esiste da sempre ma è male usata, lasciata ad impolverarsi: i ritratti dei dodici Cesari, uno scaffale ricco di libri, una tavola piena di leggi e carte, circondata da sedie e da un seggiolone a braccioli. - Capitolo IV. Il Seicento è il secolo della pompa magna, cioè dell’estro e dell’esuberanza, dello sfarzo e del lusso, e la descrizione scenografica della schiera di parenti ed amici dell’ucciso da fra Cristoforo, pronti ad accoglierlo per ricevere le sue scuse, è fatta tutta per metonimia (è la “retorica discreta” del Manzoni, non pomposa come nel barocco, ma moderata): non si descrivono i personaggi nobili ed elitari, alteri e sdegnosi, ma essi sono descritti tramite i loro vestiti, cioè gran cappe, alte penne, durlindane pendenti, gorgiere crespe e rabescate zimarre. Con grande umiltà, fra Cristoforo chiede scusa così solennemente da convincere il fratello dell’ucciso che la morte del parente fosse quasi colpa del medesimo, e non sua, così tutta la schiera teatrale dei nobili rimane scossa dall’atteggiamento del frate. L’oggetto fondamentale di padre Cristoforo è il cosiddetto pane del perdono, donatogli dal fratello dell’ucciso per il viaggio, simbolo imperituro della sua conversione, ed esso è portato su di un piatto d’argento, da parte del nobile, e riposto in un’umile sporta, un cofanetto spartano, da parte del frate: questi due oggetti, il piatto e la sporta, assumono un valore sociologico, cioè rappresentano da un lato la pomposità estrosa dei nobili, dall’altro l’essenzialità e la modestia dei frati. - Capitolo V. La carrellata scenografica, dal basso all’alto, del palazzotto di don Rodrigo, lo caratterizza per deminutio, cioè per diminuzione: è un signorotto, che ha un piccolo regno, di un piccolo paese, come un avvoltoio che si nutre delle carcasse (in contrasto con la descrizione del palazzo dell’Innominato, fiera aquila che domina l’intero cielo). Le casupole attorno al palazzo di don Rodrigo fanno intuire un certo tipo di società grazie agli oggetti che si intravedono in queste case: sono tutti oggetti agricoli (zappe, rastrelli, cappelli di paglia) o armi (reticelle e fiaschi di Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 2 polvere), ad indicare che le persone che gravitano attorno a don Rodrigo sono sia contadini sia bravi, dalle facce torve e cattive. - Capitolo VI. Renzo si reca da Tonio per chiedergli d’essere testimone nel matrimonio a sorpresa. La casupola di Tonio è un ambiente povero e contadino, caratterizzato con grande realismo, a mo’ della pittura del Pitocchetto o del verismo: il focolare, il paiolo con la polenta (poca, data la carestia), il tavolo con le seggiole, la tafferìa di faggio (i piatti di legno). La cucina è l’ambiente dove si cucina, dove si mangia e dove ci si riscalda, il locus principale della vita di casa. - Capitolo VII. Di sera, i contadini, finito il faticoso lavoro, tornano stanchi dai campi verso le case. Sono caratterizzati dalle vanghe e dalle zappe che portano sulle spalle, che li identificano in quanto tali. I rintocchi della campana, invece, scandiscono il tempo, che è un tempo rustico ed agreste, poiché le campane suonano alla fine del giorno lavorativo. - Capitolo VIII. Don Abbondio riceve Tonio per saldare i debiti che questi ha contratto. Sia il fatto che il parroco faccia da usuraio, sia il fatto che abbia oggetti con l’area semantica del vecchio e del superato, quasi non volesse cambiarli per avarizia (vecchia seggiola, vecchia zimarra, vecchia papalina, luce scarsa della lucerna), sia il fatto che si giri e si rigiri i soldi che gli dà Tonio (le berlinghe con su sant’Ambrogio), sia il fatto che conservi addosso la chiave del suo armadio e si guardi attorno sospettoso quando lo apre (per tirare fuori il pegno che Tonio ha dato per avere il prestito, la collana di sua moglie Tecla), fanno di don Abbondio un personaggio avaro. Fondamentali oggetti sono anche carta, penna, calamaio e polverino (si mette un po’ di polverina sulla pagina scritta per far cristallizzare la scrittura) ed il tappetino del tavolo, che sono lanciati verso Lucia quando questa tenta di pronunciare la formula per il matrimonio a sorpresa. - Capitolo XII. Durante l’assalto al forno delle grucce, nei tumulti di san Martino, i popolani rivoltosi prendono prima pane e farina, poi i soldi, infine gli attrezzi per fare il pane, i quali però sono portati in piazza per farne un falò (sono la màdia, il cassone, il frullone, la gramola, la paniera ecc...). Manzoni sottolinea poi come non sia un’idea né utile né geniale quella di distruggere gli attrezzi per la panificazione, schierandosi contro l’irrazionalità secentesca: si impedisce in tal modo di poter produrre in futuro altro pane, ed anche Renzo, da buon contadinotto ed esterno spettatore, si rende conto di ciò. I “Canti” leopardiani - Ne “La quiete dopo la tempesta”, che ha l’intento di dimostrare la schopenhaueriana teoria del piacere negativo (per cui il piacere è solo assenza di dolore), i protagonisti sono esclusivamente la natura e gli umani, indagati minuziosamente in molte tipologie. L’unico oggetto è un carro che fa tintinnare i sonagli (con maestria musicale nel verso, tra allitterazioni ed onomatopee), quasi a celebrare la tempesta passata. In dittico con la precedente poesia è “Il sabato del villaggio”, anch’esso riguardo alla teoria del piacere negativo, dove però, in mezzo ai personaggi (dalla donzelletta alla vecchierella, dai fanciulli al zappator, dal legnaiuol al garzoncello) ed alla natura (il mazzolino di rose e viole, contestato da Pascoli, poiché rose e viole fioriscono in momenti diversi, dunque non possono essere contemporaneamente in mano ad una donna), spiccano sempre pochi oggetti: la squilla, cioè la campana, che ha il compito, battendo il tempo, di scandire i ritmi della giornata; il martello e la sega, oggetti rustici ed artigianali, legati esclusivamente al lavoro. C’è dunque grande penuria di oggetti nella letteratura italiana del romanticismo, dove importano più le persone ed i loro sentimenti, che differenziano ogni persona dalle altre, di contro all’illuminismo che ha reso ogni individuo uguale in base al fatto che la ragione fosse posseduta da tutti. Arrigo Boito e la diatriba tra scienza e poesia sugli oggetti - Nella poesia “Lezione d’anatomia”, lo scapigliato Boito tratta una lezione universitaria tenuta da un professore, il quale disseziona davanti agli studenti un corpo umano di una donna incinta, secondo il tema macabro ben noto alla scapigliatura. La poesia diviene un pretesto per criticare il positivismo e la scienza da parte del poeta e della poesia, poiché queste due discipline intendono il corpo diversamente: è un oggetto, non più una persona, per la scienza positivista (“ecco le valvole, Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 3 ecco le celle, ecco l’aorta”, come l’Arcimboldi, pittore barocco che dipinge le persone componendole con la frutta: l’uomo è degradato e ridotto a mera cosa), invece è una persona, non già un oggetto, per la poesia. Essendo gli scapigliati al crocevia della letteratura, vicini in parte al decadentismo, gli oggetti iniziano ad introdursi nella poesia. Giovanni Verga e gli oggetti del verismo - Ne “I Malavoglia”, quando ‘Ntoni, esule e sradicato, partito in viaggio attratto dalla sirena del progresso, ritorna con la coda tra le gambe, fallito, alla casa del Nespolo, dove lo aspettano i fratelli sopravvissuti, egli vuole rivisitare la casa per poter rivivere i suoi ricordi, prima di andarsene per sempre, per espiare le sue colpe, che non possono essere assolte. Nel visitare la casa, si nota ancora come la descrizione sia più degli ambienti che degli oggetti, i quali non sono ancora parte della letteratura italiana: nella cucina si nota il forno, nella stalla niente, nelle camere manco meno. - In “Rosso Malpelo”, novella di “Vita Dei Campi”, il padre di Rosso Malpelo, il ragazzo indemoniato che lavora nella cava, si chiama mastro Misciu, grosso, bonario e minchione, e muore quando gli frana addosso la miniera: il figlio assiste alla tragedia, chiama i soccorsi che tardano, scava con le unghie, ferendosi, per liberare il padre, ma questi muore. Un giorno si ritrovano degli oggetti personali di mastro Misciu, e poco dopo il cadavere: benché Rosso Malpelo non voglia vederlo, accetta e si lega moltissimo alle vesti (che la madre gli aggiusta su misura) ed al piccone del padre. I panni e lo strumento di lavoro divengono quindi una sorta di oggetto transizionale, che accompagnano Malpelo durante la crescita e sostituiscono il padre che non c’è; si caricano dunque di un plusvalore emotivo ed affettivo, tale che Malpelo può continuare la vita del padre ed invocarlo grazie a tali oggetti. - Nella novella “La Roba”, la cosiddetta roba, che fa da fil rouge alla poetica verghiana, ossia i beni immobili (la terra, gli edifici ecc...), non è importante in sé, in quanto oggetto, ma in quanto indica il proprietario, in quanto posseduta: ecco perché, in martellante iterazione, all’inizio del brano ogni cosa vista e sentita è “di Mazzarò”. Avviene dunque quello che Giacomo Debenedetti ha chiamato “feudalesimo della roba”, in cui prevale il primato dell’avere, la smania di possedere, che intacca persino le persone, considerate a mo’ di cosa, cioè reificate (dal latino res,ei). Pascoli ed i “Poemetti” - Arditamente, ma a buon diritto, si può dire che gli oggetti fanno una comparsa vera e propria da protagonisti nella letteratura italiana solo con la poetica di Giovanni Pascoli. Con “Il Fanciullino” si compie infatti quello che per la critica è un “allargamento del poetabile” e per Gianfranco Contini è una “democrazia poetica” (ma il più acuto a riconoscere ciò è Edoardo Sanguineti, il quale parla marxisticamente di abolizione della lotta tra le classi verbali, in modo di porre tutte le parole sullo stesso piano), invero i soggetti protagonisti delle poesie dell’autore non sono più gli eccessi di cultura alta, gli sfoggi classicistici ed il puro ornamento, ma ci sono nuovi soggetti: le piccole cose, modeste e quotidiane (è la cosiddetta poetica degli oggetti), mai considerate dalla tradizione, dato che con la veggenza del fanciullino il poeta può scovare persino in esse un significato vero e profondo, nobilitando la materia più umile e facendo compiere una radicale metamorfosi alla realtà bassa, semplice e comune, infatti “trova la poesia in ciò che lo circonda. Inoltre, la poesia delle piccole cose ha anche una forte implicazione concettuale, quella dell’accontentarsi del poco, del gioire del piccolo, un ideale che gli proviene direttamente dal poeta latino Orazio e dalla sua “aurea mediocritas”, infatti “esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre”: non a caso, la posizione ideologica dell’autore è quella di un socialismo umanitario di stampo contadino, teso a valori, interclassisti ed evangelici, di conciliazione e fratellanza, vagheggiando, come nella sua cara e felice fanciullezza, una realtà immersa nella natura, semplice ed ingenua, dove le modeste persone vivono tra piante ed animali e sono paghe dei pochi e piccoli oggetti che hanno. - Nei “Primi Poemetti”, c’è una poesia chiamata “Le armi”: Pascoli odia le armi, gli ricordano la guerra, la violenza della storia e soprattutto la morte del padre, dunque in realtà queste armi sono gli Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 4 arnesi del contadino, gli strumenti del mestiere, e Pascoli usa questa metafora riprendendola dal profeta Isaia (libro di Isaia, 2,4), il quale dice che, quando ci sarà la pace universale, le lance e le spade verranno fuse e trasformate in vomeri e falci. I “Poemetti” sono, secondo il parere di Giorgio Bàrberi Squarotti, un “romanzo georgico”, dove nelle poesie si racconta la storia di una famiglia di contadini della Garfagnana, che è quella operante proprio in questa lirica. - All’inizio della poesia, il padre dice al figlio Nando di andare a prendere delle nuove armi, che saranno sue, poiché prima di allora ha usato solo quelle di altri: Nando si reca nello stendino (cioè nella caverna, nella fucina) del fabbro Aladino, per farsi fare gli strumenti, ed il fabbro forgia, battendo il maglio (una macchina, azionata dalla forza motrice dell’acqua, la quale picchia sul ferro per dargli la forma, a mo’ di martello: anticipa in un certo qual senso il mito della macchina, caro al Novecento letterario, ma rimane pur sempre un mezzo, uno strumento, qualcosa di sfruttato dalla perizia dell’uomo, non c’è ancora il capovolgimento del rapporto tra uomo e macchina, in cui sarà la macchina a guidare l’uomo) sul tasso (l’incudine), la lancia e la spada, donde la citazione di Isaia, che contribuisce alla sacralizzazione degli oggetti e del mondo agricolo. Si è come nella fucina di Efesto, di Vulcano, che plasma le armi leggendarie, oppure si è al principio dei tempi, al momento del dio platonico, il demiurgo, che forgia la kora, ossia la materia del mondo; tutto in maniera mitizzata. - Inizialmente, questi strumenti saranno ruvidi e neri, ma, con l’uso, la fatica e l’impiego quotidiano, diventeranno lucidi e belli, sempre più personali: ancora una volta, gli oggetti sono tali quando usati dall’uomo, migliorando con il sudore umano. Poi, Pascoli esprime la sua visione di una società utopica di contadini, piccoli proprietari terrieri che da sé provvedono al proprio sostentamento, in maniera evangelica (dalla Genesi: l’uomo si sostiene lavorando la terra): “fate armi nuove per ognun che viene nuovo nel mondo”. - Sulla strada, Nando vede i sintagmi della primavera, cioè le operazioni della potatura (forbici e pennato, con il loro rumore onomatopeico, tipicamente pascoliano, sono gli strumenti deputati a ciò) e la pioggia, prevista dal padre. Poi assiste ad una antropomorfizzazione degli oggetti, perché il maglio diviene un gigante rosso, in maniera quasi epica. Quasi Achille che si reca dagli dei per avere le armi mitologiche, il maglio già sa chi è Nando e perché lì si è recato. Il maglio spiega che le armi, ossia i soliti attrezzi del mestiere contadino, sono sei, ed in maniera umile ed evangelica, essi sono tre fratelli e tre sorelle, che apparterranno a Nando per tutta la sua vita (ciò è espresso dal ciclo della natura, ossia da quando sorge a quando cade la Gallinella, ossia la costellazione delle Pleiadi, la famosa Chioccetta). - Il primo strumento, cioè il primo fratello, è la vanga, che serve a triturare e smuovere le zolle di terra, già solcate grossomodo dall’aratro, ma spacca la schiena anche al contadino. Spiega quindi come si forgia dal nulla una vanga. Per secondo c’è il piccone, il quale da un lato ha la zappa e dall’altro ha la scure, dunque ha una doppia vocazione, poiché serve a scavare, ad andare in profondità, dentro la terra ma anche dentro la memoria collettiva. Al terzo posto c’è la falce, che serve a mietere l’erba ed il grano, paragonata implicitamente alla luna e richiamata da Caino, che si dice esser stato il primo contadino della storia; la crinella è la falce più piccola, per l’erba e basta, invece la frullana è la falce grande, quella per il grano della mietitura, quella tipica dell’iconografia della morte. Per quarto c’è il pennato, detto in gergo la roncola, una variante lunga dell’accetta, fatta non per spaccare la legna, ma potare con colpo netto i rami sottili e leggieri, che servono per il fuoco, per il cibo agli animali ed anche per costruire piccoli e grandi oggetti. Quinto viene il marrello, un modo toscano di definire la zappa, che serve a muovere la terra per posare i semi e poi per ricoprirla dolcemente. Ultimo e sesto posto va al badile, cioè la pala, col suo manico lungo e con la punta differente rispetto alla vanga, che serve a sollevare la terra per poi ricoprire i punti scoperti. D’Annunzio ed “Il Piacere” - Nel romanzo “Il Piacere” prende vita una nuova poetica degli oggetti, quella estetica, fatta di oggetti eleganti, raffinati, preziosi, rari, ma fini a se stessi, frivoli, vuoti, inutili, in parallelo Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 5 all’estetismo (infatti spesso l’estetismo medesimo, benché vorrebbe evitare ciò, degenera nel kitsch, ossia in oggetti che hanno pretesa d’essere artistici, ma in realtà sono volgari), i quali divengono, per la prima volta nella letteratura italiana, un elemento di status symbol, da cui insomma dipendono il rango sociale ed il gusto del proprietario dell’oggetto stesso (l’idea è già anticipata ne “La Roba” di Verga). Si è insomma nell’atmosfera decadente della fin de siècle, dove la società diviene di massa, anonima ed alienata, e contemporaneamente gli oggetti divengono insignificanti, di pessimo gusto, quotidiani e comuni, fatti in serie, dunque l’estetismo ha una pretesa reazionaria, quella di ripristinare un antico splendore, quella di rivendicare il proprio individualistico “vivere inimitabile” (secondo la definizione che Annamaria Andreoli ha dato della vita di D’Annunzio) e la singolarità delle proprie cose, di contro alla società di massa ed agli oggetti banali. Ecco che quindi gli oggetti favoriti dall’estetismo sono delle vere e proprie opere d’arte, status symbol di una società nobile, alta ed antica, sono cose artefatte, artificiali, opere dell’uomo. Si assiste all’estetizzazione degli oggetti. - La scena del passo antologizzato si apre con una vendita all’incanto, cioè un’asta, la quale diventa un evento mondano, un’occasione per gente d’élite, dove si offrono alcuni oggetti, e l’entrare in possesso degli oggetti in vendita fa dimostrare ai presenti la propria ricchezza e la propria eleganza, infatti le cose altro non sono se non segno dello status symbol del loro proprietario. Segue una enumerazione, tecnica tipicamente dannunziana, degli oggetti esposti. Che cosa dà prestigio a questi oggetti, e dunque ai loro proprietari? 1) L’antichità (quadri della scuola toscana, arazzi fiamminghi, maioliche del Metauro, orologi del XVIII secolo). 2) La preziosità dei materiali (gemme, medaglie, monete, argenti, cristalli di Ròcca). 3) La lavorazione dell’uomo, magari anche d’autore (mobili intarsiati, quadretto del Foppa, elmo cesellato da Antonio Del Pollaiuolo, centauro intagliato nel sardonio [madreperla] per Lorenzo il Magnifico, gioielli del tempo di Ludovico il Moro, codici miniati a lettere d’oro su pergamene azzurre). Gli oggetti divengono quindi delle opere da collezione, è il collezionismo, singolare ed elitario, il fenomeno cui soggiacciono i partecipanti all’asta, insomma gli esteti. Elena Muti conquista nell’asta il centauro fiorentino, ed Andrea Sperelli si complimenta con lei, giudicandola “un’eletta” (è la concezione elitaria e di aumento sociale che comporta l’estetismo) e pensando quali piaceri Elena può dare ad un “amante raffinato” come lui (nell’edonismo estetico, fatto di piaceri e di culto dei sensi, la donna stessa si reifica, diviene un oggetto, capace di dare voluttà). D’Annunzio spiega poi ciò che va di moda nell’elegante Roma umbertina, appunto la “mania” del biblot e del bric-à-brac (il ninnolo, il soprammobile, l’oggetto da mettere in casa) comprato in una vendita privata; non a caso, D’Annunzio lavora come giornalista analizzando tutte le tendenze del momento, che soggiacciono al fascino dell’estetizzazione (ecco che i cuscini si fanno con pineta e piviale, ornamenti dei vestiari dei sacerdoti, ecco che i fiori si mettono nei vasi di farmacia o nelle coppe di vino, ecco che i gioielli appartenuti ai nobili sono assai pregiati). Sul finire della scena, Elena suggerisce ad Andrea un “gioiello mortuario”, epigone del gusto del macabro che caratterizza l’Ottocento, che è un orologio fatto a mo’ di teschio ricavato nell’avorio, il quale sottolinea una tematica cara a tutti gli esteti: l’inevitabile scorrere del tempo (è il topo del tempus fugit, tanto caro non solo al classicismo, ma anche al Seicento), che indica la momentaneità e la frivolezza del piacere sensuale, un tempo cui solo l’arte può sottrarsi, ma non la vita. - Nel secondo passo antologizzato, prende vita la descrizione dell’alcova, del nido del piacere dell’esteta, che sembra anticipare e pregustare la voluttà stessa. In questo caso la donna oggetto di piacere è Maria Ferres, la donna angelica, bellissima, spirituale e casta, che l’esteta deve violare, usare, sporcare, in una sorta di profanazione e sacrilegio nei confronti della donna santa, appunto la madonna, incarnata nel nome di Maria: l’eros perverso ed esacrante, al limite dell’eccesso, è l’esito più radicale dell’estetismo stesso, ma fa comunque parte dell’estetismo europeo (è, insomma, un piacere malato). La descrizione è infatti condotta, oltre che con la solita enumerazione di D’Annunzio e con i soliti criteri oggettistici già anticipati (1-antichità; 2-preziosità dei materiali; 3lavoro dell’uomo, magari anche d’autore), nell’area semantica del sacro, pronto appunto ad essere esacrato: le stoffe ecclesiastiche, gli arazzi di soggetto sacro (annunciazione, parabole, vita di Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 6 Maria), il baldacchino di velluto, il paramento, il pagliotto, il pluviale, la sagrestia in legno, le dalmatiche con la Creazione, le stoffe liturgiche, le maioliche di Luca della Robbia ed il trittico di Hans Memling. Giorgio Bàrberi Squarotti ha parlato di “simulacri del sacro cristiano” ne “Il Piacere” del Pescarese, ossia di oggetti di cui, di cristiano, non rimane che l’esterno, il superficiale, fatto apposta per la volontà estetizzante di profanarlo. Il critico Pupino dice che soltanto il sadico non ha nessun motivo per fare del male, dunque è molto più grave di chi lo fa con motivo, perché è fatto gratuitamente per il solo gusto di avvilire e distruggere: ecco la grossa differenza tra i personaggi malvagi dell’Ottocento, come il signorotto don Rodrigo, spinto in fondo in fondo dall’amore, ed i personaggi del decadentismo, come appunto l’esteta Andrea Sperelli, spinto dal solo gusto di far del male, che è profondamente malato (sarà nel conte Sperelli quella “maladie de la volonté” di cui parla lo psicologo francese Paul Bourget). Gozzano e “le buone cose di pessimo gusto” - Il critico marxista Edoardo Sanguineti ha introdotto il concetto di “poetica [...] dell’obsolescenza” a proposito di Gozzano, spiegando che le persone e gli oggetti stessi descritti dai crepuscolari, di cui appunto Gozzano è capofila, sono vecchi, passati di moda, di cattivo gusto, kitsch, come del resto la stessa parola “obsoleto”, piuttosto inusitata: quelli dei crepuscolari non sono più gli oggetti antichi, classici, intramontabili, sempre da mostrare, che sono stimati dal classicismo e dall’estetismo ottocentesco, ma sono cose polverose, meno nobili, quasi da vergognarsi di mostrare. Perché i crepuscolari hanno quest’idea? Poiché sono consapevoli della crisi sociale e culturale di cui sono partecipi, e poiché vivono tutta una vita triste, malinconica, appartata, addirittura nell’attesa della morte dato che sono malati, allora non rimane loro che prendere le distanze, allontanarsi, mettere la sordina dalla vita presente e consolarsi colle cose obsolete del tempo remoto. - Nella poesia “L’amica di nonna Speranza”, tratta da “La Via Del Rifugio”, Gozzano riprende la tecnica dannunziana dell’enumerazione, ma tramite essa crea un trionfo di oggetti démodées, bruttini e vecchiotti, che descrive guardando una foto, d’età preunitaria, di un stanza di una casa torinese in cui l’allora giovane nonna Speranza è ospite di un’amica. Tra le cose che spuntano: un pappagallo imbalsamato, il busto dell’Alfieri, la frutta di marmo messa in campane di vetro, i mosaici veneziani, ecc... L’intento di Gozzano è quello dell’ironia, che è infatti il suo sigillo, con cui abbassa il tono e riconduce tutti questi soprammobili ad oggetti di scarso valore, che però, da buon crepuscolare, si accinge a cantare, per ammettere la crisi della società di cui è testimone. - In un passo de “La Signorina Felìcita”, poemetto tratto da “I Colloqui”, l’ambiente privilegiato non è più quello nobile ed alto del salotto, dove si ospitano ed intrattengono gli ospiti, ma quello da un lato della cucina, dove lavora Felìcita, tra sporco e macchie, tra odori e scarti, e dall’altro del solaio, un luogo polveroso ed impresentabile, pieno di disordine e robe inutili: sono stanze umili, marginali, periferiche, in linea con l’ideale obsoleto e kitsch crepuscolare. Michaìl Bachtìn, critico russo, nell’opera “Estetica E Romanzo” inventa la categoria del “cronotopo”, ossia di un luogo che suggerisce una particolare idea di tempo: in questo caso, la cucina e la soffitta dei crepuscolari sono il cronotopo del passato remoto, di qualcosa di vecchio ed inutile. Nella strofe IV l’avvocato e Felìcita sono nella soffitta di villa Amarena, dove, tra il tanto “ciarpame reietto” buttato in qualche maniera, ci sono vecchi arnesi, materassi e ceste, robacce di altri tempi, ma permangono ancora un dipinto dell’ultima marchesa che ha posseduto la villa ed un quadro di Torquato Tasso. - 1) Il ritratto della marchesa, di gusto settecentesco, arcadico ed a stile impero (con anche tocchi di area semantica sepolcrale: “riposata”, “tomba”, “dorme”, “ciò che è stato”, il tutto in riferimento all’obsolescenza), permette di spiegare che villa Amarena era la dimora estiva di alcuni nobili, che, in decadenza ed indebitati, l’hanno venduta ai contadinotti da cui discende Felicita, così ora l’altisonante quadro, che di solito domina gallerie e sale principali, è buttato in qualche modo nel solaio. L’oggetto diviene così il segno di una trasformazione sociale particolarmente acuta alla fine dell’Ottocento, quella della crisi della nobiltà e dell’ascesa dei popolani; infatti il padre della donna altro non è se non, come detto più avanti nel poemetto, un “mercante inteso alla moneta”, cioè un sempliciotto rustico dedito solo al guadagno. È l’obsolescenza sociologica. 2) Felicita, che non Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 7 brilla per cultura, chiede perché sul capo di Tasso ci siano delle foglie di ciliegio: con un filo di bonaria ironia alla Gozzano, l’avvocato, perito umanista ed uomo acculturato, sorride e spiega che, in realtà, esse sono foglie d’alloro, una cui corona era solitamente data ai grandi poeti (appunto laureati, cioè cinti del laurus, l’alloro). L’oggetto, ancora una volta, significa che la società decadente, ormai improntata su altri valori, ha perso la stima e l’utilità della letteratura e della cultura in generale, ed i crepuscolari confermano ciò: alla fine del poemetto, Gozzano afferma “mi vergogno d’esser poeta!”. È l’obsolescenza culturale. Pirandello ne “I Vecchi E I Giovani” - Il meno pirandelliano dei romanzi, infatti è un romanzo storico, è ambientato in Sicilia alla fine dell’Ottocento, e non è privo di tocchi di autobiografismo nelle vicende del romanzo e nei suoi personaggi, che si ispirano alla famiglia di Pirandello. Si allineano nel testo tre generazioni: il generale Gerlando Laurentano, ossia il nonno (già il nome è parlante, il suffisso “ger” in greco indica vecchiaia) che si batte per i moti del ’48, poi Roberto Auriti, un nipote, che si batte ad unificazione avvenuta, ed infine il nipote giovanissimo, Lando Laurentani, che partecipa ai fasci siciliani. Quando si invecchia, Pirandello spiega che si possono imboccare due vie: o si spengono poco a poco gli ideali della gioventù, prendendo vita la corruzione e la decadenza (è il caso dello scandalo della banca romana), oppure, rimanendo fedeli ai propri ideali di gioventù, si perde il contatto con la storia, poiché si rimane cristallizzati in vecchi valori, mentre il mondo è cambiato; è questo il caso del personaggio di Mauro Mortara, il fedele servitore del generale Gerlando, che, anche dopo la sua morte, continua ad adorare. Quando, negli anni ’90, al culmine dello scandalo della banca romana, Mauro Mortara arriva a Roma, ha l’aspettativa di trovarsi nel caput mundi, nella gloria eterna di una città immortale e cristallizzata nel suo passato antico, perché è ancora legato ad ideali passati che ha percepito nella sua giovinezza, così gira estasiato per le strade della capitale, inciampando spesso perché distratto dal panorama; dunque si rifiuta di vedere tutto il male, la corruzione e lo scandalo che c’è nella Roma di quegli anni (su cui, non a caso, Pirandello continua a far piovere, è autunno, c’è fango ovunque, ad indicare proprio il deterioramento dell’epoca), in una sorta di espressionistica deformazione grottesca che Pirandello fa del personaggio. - Dentro a questo romanzo, il Siciliano descrive accuratamente la stanza del generale Gerlando, chiamandola “il camerone”: in essa sono raccolte, a mo’ di piccolo museo, le reliquie di un eroe di guerra, che per il Mortara sono cimeli e simboli di un passato eroico, sigilli altisonanti di una grande età, pregni dei suoi ideali, una sorta di sacrario venerabile ed antico custodito gelosamente dal Mortara in memoria del suo padron Gerlando (infatti è lui che possiede la chiave della stanza). Mauro tiene le finestre e le persiane chiuse, quasi per non far disperdere dal sole il respiro stesso del generale racchiuso all’interno della stanza, in cui tutto è rimasto proprio come Gerlando l’ha lasciato. L’area semantica è proprio quella della sacralità (“chiesa”, “santuario”, “preghiera”, “reliquia” ecc...). Michaìl Bachtìn, critico russo, nell’opera “Estetica E Romanzo” inventa la categoria del “cronotopo”, ossia di un luogo che suggerisce una particolare idea di tempo: in questo caso, il museo della stanza del generale è il cronotopo del passato prossimo. È un passato che è finito, concluso, morto, ma soltanto da poco, tanto che se ne vedono gli effetti, infatti attraverso il Mortara gli oggetti della stanza, i mobili e gli ideali stessi dell’epoca rivivono, trovano nuova luce, sono ripristinati ed hanno ancora valore, dunque sono ancora validi, servono a ricordare, sono utili (è la situazione opposta del cerpame reietto dei crepuscolari, che sono trapassati, non servono a niente). “Come in chiesa un divoto nella preghiera” dice Pirandello quando Mauro, respirando l’aria della stanza, ricorda e fa rivivere tutto un glorioso passato. Tra i tanti oggetti, ci sono: “suppellettili” che sono anticaglie di salotti napoleonici, “mobili decrepiti” dissestati e con qualche crepa, “divani” sbiaditi, “lastre” metalliche poste sul tetto per far reggere il soffitto, “ciotole” per raccogliere l’acqua che percola dal soffitto, tanto che i topolini stessi vi fanno capolino, a segno dell’ammaloramento dell’ambiente. Poi un “leopardo” imbalsamato ed impolverato (il generale è stato un cacciatore, assiduo frequentatore di safari in Africa), ancora quattro medaglie, epigoni di Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 8 riconoscimenti in guerra attribuiti al Laurentano, infine una lettera ingiallita e sbiadita, l’ultima lettera del generale, esiliato a Malta in quanto nobile, nonostante abbia lottato per il regno d’Italia, che è un eroe romantico, il quale lotta per una causa persa, così, per non darla vinta al destino, alla fine si suicida (Mauro si commuove quando la rilegge dopo anni). - In questo palazzo aristocratico del generale vive anche don Cosmo, il fratello del generale, il quale è un filosofo, distaccato e disincantato, che è il portavoce dell’idea di Pirandello: egli sa che il palazzo è vecchio e cade a pezzi, è un passato ormai antico, dunque non ha più valore, bisogna commisurarlo col mondo moderno e non tenerlo cristallizzato al passato. Con l’umorismo suo tipico (che è assieme commedia e tragedia, sorriso divertito e riso amaro e consapevole), Pirandello spiega che i valori ormai sono passati. “Amore A Cape Town” di Bianca Garavelli - La sensibilità maschile conserva gli oggetti che hanno valore storico, pubblico, civile, invece la sensibilità femminile conserva gli oggetti che hanno un valore privato, personale e familiare. La protagonista, alter ego di Bianca Garavelli, è una grande viaggiatrice, la quale ama viaggiare non solo per visitare posti nuovi e provare nuove esperienze, ma anche per poi gustare il piacere di tornare nella propria casa (è una sorta di nòstos ulissiaco, cioè il tema del ritorno in patria). Del resto, il viaggio è uno dei grandi archetipi della letteratura occidentale (a partire dall’Odissea, si parla proprio di tema odeporico, cioè di letteratura di viaggio), che è metafora della vita stessa, del cammino della vita insomma. L’oggetto, in “Amore A Cape Town”, diviene il mezzo per ricordare il viaggio compiuto, con il piacere della scoperta ed il piacere del ritorno: la casa della protagonista, che è il luogo stabile dell’essere, è piena di oggetti, che sono la traccia mnestica del viaggio stesso, il luogo della memoria, infatti la casa altro è se non il riflesso della propria esistenza e del proprio vissuto, dove si accasano tutti i ricordi. Ecco perché la casa va colta “nei suoi particolari prima ancora che nel suo insieme”, nei soprammobili prima che nei mobili e nelle pareti. Pirandello in “Serafino Gubbio” - I “Quaderni Di Serafino Gubbio Operatore” è il grande romanzo cinematografico di Pirandello, dove il protagonista, Serafino Gubbio, è un operatore cinematografico, il quale ha il compito di girare la manovella con cui la pellicola, catturando la luce dall’esterno, è impressionata e registra progressivamente le immagini dell’ambiente circostante. Si è nei tempi del cinema muto e primordiale, tra gli anni ’10-’20, infatti la prima stesura, col titolo di “Si Gira…”, è del 1916, ma l’edizione definitiva è del 1925. Il tema è quello della modernità tecnologica, cioè del mito della macchina: c’è una degenerazione del rapporto tra uomo e macchina, perché l’uomo non è più il padrone ed il dominatore degli oggetti, ma ne è schiavo, vive in funzione delle cose, è totalmente alienato dalla sua autenticità e sottomesso alle leggi della roba. Quando ci si chiede chi è il protagonista del romanzo, bisognerebbe in realtà chiedersi che cosa è il protagonista, e la risposta la dà Pirandello stesso: Serafino è “una mano che gira una manovella”, una sineddoche (la mano al posto dell’uomo), ossia una persona che non è più tale perché ha solo il compito di dipendere da un oggetto, e tutto il resto della sua persona è da buttare. L’alienazione di Serafino lo porta ad essere lui stesso una macchina, è una reificazione (ossia un passaggio a semplice materia), diventa un prolungamento stesso della cinepresa, infatti il protagonista è un meccanismo in primo luogo ritmicamente regolare, cioè che gira la manovella a cambio di velocità in base alle esigenze della scena, ed in secondo luogo impassibile, cioè che non si fa condizionare da ciò che lo circonda, non prova sentimenti. - Mentre stanno girando un film sul safari, il cacciatore spara per gelosia non alla tigre, come da copione, ma alla prima attrice, e la uccide, così la tigre si spaventa e sbrana il cacciatore, e tutti gli altri sul set devono sopprimere la tigre prima che faccia altri danni. Sono morti insomma il protagonista, la prima donna e la tigre, ma Serafino continua a girare, costante nella ripresa ed immutevole davanti allo scempio: sente però la necessità di raccontare questa cosa, per vendicarsi rispetto alla sua alienazione, al suo essere solo una mano che gira una manovella, così inizia a Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 9 scrivere dei “quaderni”, come se la letteratura avesse il compito di raccontare ciò. Ecco spiegato il titolo. - Questo messaggio di schiavizzazione dell’uomo all’oggetto, da parte di Pirandello, è diametralmente opposto a quello che Svevo lancia alla fine di “Zeno”. Per Svevo, se tutti gli animali hanno avuto in dono una qualità fisica che li aiuta nel loro ambiente (in maniera creazionistica, gli uccelli hanno le ali, i pesci le pinne ecc...), l’uomo ha invece un sacco di mancanze nelle qualità fisiche, infatti è inadatto all’ambiente, però ha un’unica grande qualità psicologica, ossia l’intelletto, l’intelligenza, con cui è stato capace di creare degli oggetti a proprio uso e consumo per adattare l’ambiente a sè: essi sono “ordigni” per Svevo, delle protesi, delle cose fatte dall’uomo per l’uomo, di cui esso è creatore, proprietario, dominatore. È insomma l’uomo a prevalere sugli oggetti. - Nel testo in antologia, una persona si avvicina a Serafino e chiede se non hanno trovato ancora un ordigno per sostituire l’uomo che gira la manovella (questo personaggio, di cui c’è un’accurata descrizione, altri non è se non Pirandello stesso: occhi acuti, barbetta ecc...). Serafino risponde di no, ma la sua giustificazione è stupida e banale: se una macchina sarebbe altrettanto impassibile, non potrebbe tuttavia regolare il ritmo in base alla scena. È insomma l’ultimo spiraglio di umanità e di personalità nell’epoca contemporanea, che sta pian piano dando sempre più spazio alle macchine. Pirandello, nel romanzo, intende allora che quando le macchine sostituiranno l’uomo, allora sarà davvero un problema, ed altro non è se non il preannuncio dell’automazione che caratterizzerà tutto il Novecento, un problema sempre più detonante nel XX secolo. Montale e gli oggetti - Con Montale ed il modernismo europeo l’oggetto subisce una metamorfosi: non ha più un valore d’uso, ma ha un valore metafisico (in un’accezione similare ma leggermente diversa rispetto al tardosimbolismo). Negli anni ’50, per definire Montale, Luciano Anceschi ha sigillato una “poetica dell’oggetto”, in contrapposizione alla “poetica dell’analogia” tipica del tardosimbolismo. Essa è l’alta frequenza di cose (mari, scogliere, dirupi, serpi, alberi, uccelli) che popolano la poesia di Montale: rispetto ad una poesia che deve essere mera descrizione sentimentale, la lirica che si riempie di cose è una rappresentazione del reale, ma una rappresentazione nuova, con qualità innovative ed inedite, in cui gli oggetti vanno oltre il loro esserci, acquisendo un valore metafisico, rinviando cioè ad un pensiero o ad una riflessione, poiché sono palesemente delle allegorie. Thomas Stearn Eliot, il capofila del modernismo, riprendendo i poeti metafisici del ‘600 inglese, parla proprio in un testo nel 1920 di correlativo oggettivo (“objective correlative”), ossia di un qualcosa di esteriore (spesso proprio un oggetto) che si collega a qualcosa di astratto, una “direct sensuous apprehension of thought”, ossia un afferramento del pensiero che si ottiene per mezzo delle vie sensoriali. Un oggetto che il poeta ha caricato di vibrazioni multiple, che concentra in sé tante cose, evitando la descrizione annacquata di tanti sentimenti. Montale scrive le stesse cose prima che Eliot teorizzi il correlativo oggettivo, ma è il sentimento dell’epoca ad essere comune, a partire soprattutto dai modelli francesi della poesia simbolista. La poetica degli oggetti in Montale è molto più presente ed abbondante in “Ossi Di Seppia”. - L’erto muro. Lo scalcinato muro. La gran muraglia. La rete che ci stringe. Il lento franamento. Il crollo di pietrame. Questi sono gli oggetti chiave di “Ossi Di Seppia”: significano esclusione, imprigionamento, sofferenza, “impietrato soffrire senza nome”, dunque, il famoso “male di vivere”, cioè la coscienza della crisi e della condizione dolorosa in cui è costretto a vivere l’uomo del Novecento. Inizialmente sono interpretate come descrizioni del paesaggio marino della Liguria. Solo Contini si accorge di una “crisi nell’ordine teoretico”, ossia inizia ad intendere Montale come un profilarsi, a partire dalla bassezza e dalla mancanza del reale, di uno sbocco, della ricerca di una via d’uscita. Nella sezione “Mediterraneo”, Montale vede nel mare una presenta paterna e rigenerante, portatrice, nel suo respiro, di un solenne ammonimento, ossia della possibilità di entrare, panteisticamente, nel ribollire dell’elemento acqueo, di abbandonarsi alla sua forza. Il tracciato psicologico del libro è quello dell’autoconoscenza, ossia quello di “coscienza di sé in divenire”, in un processo continuo di spostamento, di rettifica, di modifica. Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 10 - La poesia “Crisalide”, l’ultima della prima edizione degli “Ossi”, è dedicata a Paola Nìcoli, una delle giovani coetanee delle estati passate a Monterosso, un bozzolo di bellezza destinata a divenire farfalla. Importantissimi sono i versi 58-67, in cui si concentra tutta la poetica degli “Ossi”: sofferenza, male di vivere, (la muraglia immane, il determinismo, la necessità filosofica, l’imminenza del fato che non si può cambiare ed è inevitabile) e speranza, attesa di essere liberato (la crisalide che sboccia, il fatto che non era necessario, la contingenza filosofica, lo spiraglio che evade la necessarietà degli eventi, il “miracolo laico”, la libertà). - La lirica “Casa sul mare”, ai versi 16-33, sviluppa sempre la dialettica montaliana, tipica degli “Ossi”, tra necessarietà e contingenza, tra ineluttabilità e speranza, tra prigione e sofferenza contro libertà ed emancipazione. Vuole “passare il varco”, ma sa che non ogni persona “che vuole s’infinìta”, cioè approda alla salvezza. Nel frattempo Montale assume dalla tradizione elementi stilistici (Eliot parla di “sposarsi col rinnovamento della tradizione” nel saggio “Tradition and individual talent”) per ribadire la sua poetica innovativa: “vanisce” è citazione di Ecclesiaste, Dante, Petrarca e Leopardi. Luigi Blasucci parla proprio di “riscatto del quotidiano concettuale”. - La poesia “Incontro”, Dedicata ad Anna degli Uberti, ragazzina che veniva d’estate a fare il bagno nella Monterosso montaliana, va oltre la dialettica tra male di vivere e liberazione, ed approfondisce il tema dell’autoriconoscimento, tra i versi soprattutto 41-55: è l’incontro, la relazione, il legame che ripristina la conoscenza di sè e del mondo che il poeta possiede, riscattando la sua ignoranza. Chiuso in sè, si smarrisce, ma nel dialogo con l’alterità, si ritrova. La donna è dunque come l’angeletta stilnovistica di Dante, è un’apparizione salvifica, un’epifania joyceana, alla stregua di un correlativo oggettivo, la quale rivela che l’uomo deve scendere nel mondo, deve superare la viltà dell’autoesclusione, deve accettare la vita. - Eusebio, Arsenio ed altri sono i nomignoli che gli amici danno ad Eugenio: ecco perché la poesia “Arsenio” la si vede spesso in maniera autobiografica. Qui la poetica degli oggetti si vede molto bene, poiché tutte queste cose, benché non proprio oggetti, che rappresentano la tempesta (versi 123) sono sbattute sulla pagina e servono a far intuire che Arsenio vorrebbe suicidarsi. Si presenta ancora la dialettica tra l’immobilismo impassibile e necessario, il delirio della paralisi, il rovello interiore, cioè il male di vivere, di contro alla volontà, in questo caso, di espiazione, di desiderio di farla finita, di cessare di vivere. Però Montale desidera essere liberato, non liberarsi, quindi non può agire, non può nemmeno farla finita, può soltanto rimanere bloccato, come fa l’uomo del Novecento, nella coscienza della crisi. Egli accetta allora il male di vivere, come un “giunto”, flebile e pronto a piegarsi, facendo riferimento a Dante, in Purgatorio I. Egli allora si arrende a vivere in una “ghiacciata moltitudine di morti”, ossia i traditori incastrati nel Cocìto, con allusione alla “Divina Commedia”. Questi oggetti banali e quotidiani, i giunchi ed il ghiaccio, sono recuperati in una chiave letteraria altissima. Oggetti reali nella linea lombarda - Luciano Anceschi, in un’antologia del 1952, riconosce una “linea lombarda” iniziata da sei poeti del Nord nel secondo dopoguerra, che poi proseguirà negli anni con altri protagonisti. Anceschi, di scuola fenomenologica in filosofia, celebre professore di estetica e fondatore della rivista “Il Verri”, è un intellettuale il quale, sebbene più tardi rispetto alle produzioni del movimento della linea lombarda in sé, ha tracciato una sorta di poetica di tale linea all’interno della prefazione alla sua antologia, la quale si applica a tutti gli autori, precedenti e successivi, di questa linea lombarda. L’antologia che Anceschi crea, accogliendo questi sei poeti, è dunque una critica militante, pratica e concreta. - Nella prefazione di Anceschi, fatta ancora un po’ secondo i canoni della prosa d’arte, cioè elegante e forbita ma anche un po’ sfuggente, è chiaro il contenuto che la linea lombarda, di contro alle tendenze tardo-simboliste dell’orfismo, dell’ermetismo e degli altri movimenti coevi, recupera la realtà. Non a caso, il retroscena culturale che è appena stato è quello della fenomenologia filosofica, che pone in rilievo gli enti concreti e le relazioni tra di essi, e quello del neorealismo letterario e cinematografico, che pone al centro la quotidianità e la problematicità della vita materiale. Infatti, Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 11 nella linea lombarda, gli oggetti tornano ad essere emblemi di concretezza, sono il recupero di istanze realiste, è a partire da essi che la poesia scaturisce, dopo una stagione tutta trascorsa nel segno dell’analogia, dell’evocativo, dell’astratto, in cui gli oggetti sono stati assunti come simboli, perdendo i loro connotati di realtà. Ecco perché Anceschi parla di “una poesia in re” per i lombardi, di contro alla “poesia ante rem” della lirica precedente, troppo intangibile, che ha la smania di abolire il reale (hantise de abolir). Inoltre, per la linea lombarda, questi oggetti, pur essendo reali e pratici, hanno un sovrasenso eletto a dimensione dell’universale (ma non come per la lirica pura dei tardo-simbolisti, dove gli oggetti diventano solamente un simbolo totalizzante, indecifrabile ed arbitrario scelto in base alle sensazioni dell’autore, perdendo del tutto il loro significato vero e concreto): per dire ciò, Anceschi parla di “massimo di intensità”, cioè di un significato valido e comprensibile da ciascuno per questi oggetti trattati. - Vittorio Sereni è il maggior poeta e quello più anziano ed autorevole della iniziale linea lombarda. Nella sua opera “Diario D’Algeria” (che è un libro di prigionia, dato che Sereni combatte in Africa durante la seconda guerra mondiale ma è fatto prigioniero, dunque in realtà la guerra non la vive sul campo), c’è un poemetto titolato “Il male d’Africa”. La poesia inizia con uno sguardo sulla Milano grigia e meccanicizzata, per poi passare alla nostalgia del continente nero, appunto il cosiddetto mal d’Africa. - Gli oggetti in “Il male d’Africa” sono in primo piano: motocicletta e pentola; invece le persone sono in secondo piano: l’anima e noi. La motocicletta solitaria è accostata all’anima attardata, in una frase tutta nominale e caratterizzata dall’ipallage (non è la moto ad essere solitaria, bensì l’anima che la cavalca): ecco che dunque la motocicletta è personificata, prende il posto del motociclista, che scompare. A conclusione, ciò che la poesia stessa vuole dire ha origine dall’oggetto, con una sorta di metonimia, dove l’agente è sostituito dall’agìto, dove l’oggetto, concreto e reale, ha un sovrasenso che lo elegge a rappresentante della persona. Ecco dove sta la “poesia in re” di Anceschi. Allo stesso modo, nei versi successivi, la pentola prende il posto di qualcuno che cucina, grazie all’aggettivo familiare: ecco che la pentola è personificata, è il nucleo domestico ed intimo che viene ricordato, dove l’oggetto tangibile ha un sovrasenso che rappresenta una persona. Oltre alla vista, inoltre, è tirato in gioco l’udito, con la parola “eco” e l’onomatopea indiretta “borbottìo”. Poetica dell’oggetto nell’école du regard - Nello stesso anno in cui a Palermo prende vita il cosiddetto “gruppo ’63”, che è alla base del movimento della Neoavanguardia in Italia, in Francia Alain Robbe-Grillet, il capofila, assieme ad altri autori, dà luogo al gruppo dell’école du renard (cioè la scuola dello sguardo). Questo movimento, nato appunto nel 1963 a Parigi dal manifesto di Robbe-Grillet, intitolato “Pour un nouveau roman”, dà un grandissimo rilievo alla poetica degli oggetti. Infatti, la scuola dello sguardo, osservando il mondo come registrazioni meccaniche di un obiettivo fotografico, toglie tutta la centralità all’uomo, toglie tutto il soggettivismo di ascendenza romantica, ed elegge a protagonista della vita l’oggetto, ossia la realtà inanimata, materiale ed estranea delle cose, fino ad allora rimaste schiacciate e sullo sfondo dal predominio della presenza umana. Non c’entrano più allora nei romanzi i personaggi, i sentimenti e la trama, ma gli oggetti che fanno da sfondo, tanto che, come bloccati in un’istantanea fotografica, anche le persone divengono immobili e mere cose. Il nouveau roman fa ciò in maniera provocatoria e sperimentalista, per sottolineare l’alienazione e la reificazione cui è sottoposto l’uomo contemporaneo (un concetto già presente in molti autori novecenteschi, come Pirandello), messo in disparte ed in secondo piano dal modus visendi dell’école du regard. Nel suo manifesto, Alain Robbe-Grillet spiega che è stufo di conferire un’anima, una manciata di aggettivi ed una miriade di significati alle cose, eleggendole a persone ed a costanti antropologiche, poiché le cose sono cose, meri oggetti, e l’unico senso che essi hanno è esistere, esserci, stare “qui presenti”. Gli oggetti hanno un “falso mistero”, essi non hanno “alcun segreto”, sono senza un significato recondito, essi hanno semplicemente la loro “inconsistenza”, ci sono, punto e basta, senza quella felice formula de “il cuore romantico delle cose” che tanto è stata Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 12 cara agli autori a cavallo tra Ottocento e Novecento. Gli oggetti non hanno cuore, non sono il correlativo oggettivo di nulla, non hanno psicologia o sociologia, e rimangono totalmente “estranei all’uomo”: le cose che l’uomo si è fabbricato a proprio uso e consumo hanno conquistato un’autonomia ed un ruolo di primo piano, mentre l’umanità, alienata e sola, è ridotto a mero fondo scenico. Calvino e l’oggettività - Nell’articolo “Il mare dell’oggettività”, uscito sulla rivista “Il Menabò” nel 1960, la svolta epocale che Calvino registra è l’abolizione del dualismo tra io e mondo, tra interno ed esterno, poiché il soggettivismo viene sommerso dal “mare dell’oggettività”. È una svolta che non è stata prevista né calcolata, ma in cui l’uomo si trova dentro. Precedentemente, durante il primo quarantennio del Novecento, insomma fino allo spartiacque del secondo dopoguerra, c’è stata invece una resistenza passiva o attiva da parte degli artisti e dei letterati, che hanno chiuso il loro io in un guscio in opposizione all’esterno del mondo: ecco da dove nascono, in Italia, l’ermetismo, “Solaria” e la vena del magico. C’è stata dunque un’irriducibilità della propria coscienza al mondo esterno, una “inondazione soggettiva” che ha manipolato tutto ciò che la circonda secondo i propri e singolari canoni, ecco perché in Europa si hanno il modernismo, l’espressionismo, il surrealismo ecc... Come già Calvino ha detto nella postfazione al cosiddetto “ciclo dei nostri antenati”, l’io contemporaneo non fa più attrito, non si aggrappa né si impone più nella sua vita, ma si lascia scivolare tutto il mondo addosso, si lascia fluire sopra la lava e l’inondazione dell’oggettivismo. La resa incondizionata a questo mare dell’oggettività è causata, secondo l’autore, dalla “crisi dello spirito rivoluzionario”: infatti è venuto meno il tentativo dell’uomo di indirizzare ed interpretare il corso del reale, di manipolare e correggere il mondo secondo le proprie idee, poiché l’umanità è stata messa di fronte ad una realtà troppo complessa e labirintica, con uno sviluppo esponenziale ed autonomo, in cui le cose vanno avanti da sole, dai costumi agli stili di vita, dall’arte alla letteratura alla società; l’esterno è troppo articolato, insomma, per essere piegato a proprio piacere dalla coscienza di ogni singolo individuo. “Palomar” di Calvino - Calvino, in un momento di autoesegesi, afferma che gli Americani dicono Pàlomar, in riferimento al grande centro d’osservazione, ma lui si è rifatto alla parola spagnola palomàr, che significa colombaia, dunque così va pronunciato, tuttavia in realtà la colombaia nulla c’entra col romanzo. Calvino ha chiamato così il protagonista del libro poiché gli ha evocato la figura del palombaro. Il signor Palomàr è un uomo che si mette in marcia lungo il cammino della conoscenza, per conoscere la verità della società e della storia, ma il suo arrovellarsi ed il suo continuo ipotizzare sono immediatamente smentiti da continue verifiche, che si avvicinano al vero ma si fermano sempre al di qua della conferma. - Ogni testo di Calvino, come spiega in calce al suo ultimo romanzo (penso sia Palomar), è identificato da tre numeri in sequenza, che indicano la tipologia di ciò di cui si parla. Quando troviamo il numero 1, è un testo descrittivo, che corrisponde ad un’esigenza visiva che ha per oggetto le forme della natura, vicino insomma alla scienza; il numero 2 è un testo narrativo, che ha a che fare con le azioni dell’uomo, è antropologico e culturale, riguarda la letteratura, è un racconto; il numero 3 è un testo riflessivo, più filosofico, che riguarda i grandi temi che fanno scattare la meditazione e la speculazione, dunque è la filosofia. “Palomàr” è 3.3.1, dunque molto filosofia ed un po’ di scienza. - Già nel suo romanzo neorealista, “Il Sentiero Dei Nidi Di Ragno”, all’interno della postfazione detta i canoni del neorealismo, e sembra divertirsi a buttare dentro una serie di tesi, poi a smontarne alcune ed a convalidarne altre. Anche ne “Le Città Invisibili”, in alcune note in corsivo mette i discorsi suoi, sotto la maschera di Marco Polo, con Kubilai Khan, in cui smonta le certezze dei luoghi comuni e mette in questione le idee chiare e distinte, con una facie divertita. Calvino si pone dunque come un intellettuale problematico e critico, che, da contemporaneo qual è, mette in dubbio Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 13 ogni convinzione, è abilissimo nella pars destruens, però senza mai smettere di cercare la risposta convincente, di proporre ipotesi, di inseguire la verità, di restituire una visione unitaria, organica, sintetica e totale del cosmo (è l’enciclopedismo, tipico della contemporaneità), in mezzo alla complessità labirintica e difficile del reale, ma sempre fermandosi un po’ prima di dettare una verità oggettiva, poiché il mondo e l’esistenza sono troppo intricati per averne una per davvero. - Nel testo antologizzato, si spiega che il signor Palomar, dopo aver iniziato a cercare per semplice diletto la ricchezza delle cose del mondo, decide di procedere ad un’osservazione sistematica ed organica di tutto ciò che lo circonda, in maniera enciclopedica: “prova a fissare tutto ciò che gli capita a tiro”, in un atto conoscitivo totalizzante. Tuttavia, le realtà da registrare sono tante e tali da impazzire, da mandarlo in crisi e da non provare più piacere a compiere ciò: è la complessità labirintica del reale che lo ferma. Allora, per superare ciò, Palomar avanza l’ipotesi di fare una selezione delle realtà da analizzare, per poter giungere insomma ad una conclusione, ad una verità frutto di una visione pseudo-enciclopedica, tuttavia incappa in problemi di scelte, esclusioni, gerarchie di preferenze, che necessitano per forza il tirare in causa il soggettivismo: l’io, il suo sistema di valori, le proprie convinzioni e le proprie manie, il suo relativismo, gli permetterebbero di arrivare ad una verità vacillante, filtrata e non autentica. Bisogna “lasciare da parte l’io” per non prevaricare l’attendibilità del risultato, allora il mondo, con tutte le sue cose e le sue persone, si sdoppia e si piazza davanti alla finestra del signor Palomar: ci sono dunque due mondi, un mondo fuori, che si fa guardare, ed un mondo dentro, quello in cui vive Palomar e di cui fa parte, il quale sta osservando. Allora anche il soggetto, l’io che guarda, è un oggetto, è qualcosa di osservato, poiché è parte del mondo, ed è un buon risultato. La soluzione sarebbe dunque l’osservare il mondo con gli occhi del mondo, ossia guardare le cose dal di fuori, con uno sguardo che viene dall’esterno, e non dalla propria soggettività: la visione del mondo dovrebbe dunque cambiare, essere oggettiva e veritiera. “Macchè. È il solito grigiore”: anche questa ipotesi viene scartata e non serve. L’uomo non si arrende alla complessità del reale, dispersivo e disarticolato, ma affronta la “sfida al labirinto”, tanto cara a Calvino, tentando di dare risposta ai propri quesiti, di ricercare la verità, di aprire un varco nel labirinto. La soluzione proposta alla fine del brano è che, nel corso della vita passata alla ricerca della realtà, non si arriva ad una soluzione certa, ma può capitare, accidentalmente ed in maniera del tutto fortuita, che ci sia una congiunzione favorevole, quando meno ce lo si aspetta, che illumina un pochino di più la verità e la rende manifesta all’individuo (è, alla lontana, l’epifania di Joyce, l’intermittenza del cuore di Proust, care anche a Pirandello). Erri De Luca e l’oggetto contemporaneo - Autore contemporaneo, si è occupato molto dell’aspetto religioso ed ebraico della letteratura italiana contemporanea, conciliandola con la sua passione, tutta francescana, per le scalate a piedi nudi, tra montagna e scogli. Nella prosa “Penultime Notizie Circa Ieshu/Gesù” parla delle esperienze giovanili nella vita di Gesù Cristo, sottolineando molto la sua dimensione modesta, di figlio di falegname. Con la frase in antologia, Erri De Luca spiega che la nostra società contemporanea, fredda e tecnologica, ha creato il prototipo del prodotto finito, completo, massificato, il quale ha perso la sua autenticità, la sua origine, la sua materia prima, tutti elementi che diventano irriconoscibili ed immateriali. Una volta, invece, i prodotti di un tempo sono stati più calorosi, più spontanei e più validi, dove la materia prima rimane riconoscibilissima. Si pensi alla semplicità di una seggiola di legno di contro al sofisticato e composito monitor di un computer. Si pensi all’impianto centralizzato di riscaldamento di contro al caminetto ed al focolare domestico. Neoavanguardia, romanzo apocalittico e società dei consumi - La società dei consumi, massificata, industrializzata e spersonalizzata, ha trasformato, in età contemporanea, l’oggetto in semplice e bassa merce. Questo concetto, sebbene già presente in nuce nel clima decadente (soprattutto dell’estetismo, che vuole l’esclusività dell’oggetto estetico [che diviene status symbol] di contro a quello popolare), è chiarito totalmente con l’avvento vero e proprio della società dei consumi negli anni ‘60, da parte del movimento del gruppo ’63, i cosiddetti Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 14 “novissimi”, quelli insomma della neoavanguardia. È molto vicina all’idea della pop art inglese ed americana. Nel testo “Piangi piangi”, il poeta Edoardo Sanguineti, capofila della neoavanguardia, vuole sottolineare il carattere ormai artificiale dell’oggetto (idea già in nuce nell’estetismo): esso è spersonalizzato (ti compro un fratellino e lo chiami Michele), fatto di materiale sintetico e chimico (spada di plastica, capodoglio di gommapiuma), industrializzato (ci sono gli oggetti di marca, con un marchio di fabbrica che dà prestigio, come la Bosch o la Montecatini). In questa aenumeratio, tra giocattoli ed elettrodomestici, Sanguineti elenca anche armi, in riferimento alla corsa agli armamenti della guerra fredda. - Nel romanzo “Dissipatio H. G.”, Guido Morselli parla del dileguo dell’H. G., cioè dell’humani generis, del genere umano. Il protagonista, un vero e proprio misantropo, schifato dagli uomini e dalla società, si suicida, ossia arriva a dileguarsi, a dissiparsi. Il suo suicidio però fallisce, ed il protagonista torna a vivere sulla Terra, ma si trova solo: l’umanità intera è scomparsa, in maniera sconvolgente ed angosciante, ma anche ironica, poiché non si sa perché, non è spiegato dove sono finite le persone. Se il misantropo voleva uscire lui di scena, invece sono state le persone a precederlo. Inizialmente, tutta la sua misantropia lo rende felice, ma col tempo inizia a sentire il peso della solitudine e della propria coscienza, così, vagando solo per un mondo deserto, si trova a che fare solo con oggetti, a cui dà un’anima umana virtuale e fittizia, alla ricerca di un po’ di compagnia. Nel passo antologizzato, il protagonista decide di innalzare un cenotafio all’umanità: esso è un monumento funebre che però non contiene la salma del morto, fatto solo per evocare il suo ricordo. Il cenotafio è fatto di materiali tipici della pop art, insomma della società dei consumi, dominata da oggetti che vanno dalle grandi marche alle cose banali e commerciali, insino ai grandi manifesti pubblicitari. Complice il terrorismo degli anni di piombo e l’imminenza della guerra fredda, negli anni ’70 in Europa va di moda il romanzo apocalittico, che narra di catastrofi di livello globale e della condizione di pochi deputati che sono costretti a sopravviverci: è questo il genere di “Dissipatio H. G.” di Morselli, il quale, pur non facendo parte della neoavanguardia, ne assorbe l’elemento della società dei consumi e lo applica al suo romanzo apocalittico. Oldani ed il realismo terminale - Per il poeta milanese Guido Oldani (vivente), le persone che hanno varcato la soglia del terzo millennio sono frutto di uno “squilibrio della distribuzione dei popoli”, poiché la maggior parte degli esseri umani vive condensata in città, in una “catasta” del mondo, e dunque è divenuta qualcosa di antropologicamente diverso, vicina piuttosto ad un oggetto, ammucchiato in un insieme. Privo di cultura ed intelligenza, senza la mente, ridotto a qualcosa di fisso, immobile, inerte, l’uomo vive una “autocensura nelle intelligenze”, per cui non può più esprimersi, non è più libero, non ne è più in grado e nemmeno lo vuole, ha quasi paura di dire ciò che pensa e si autodifende tenendo gli occhi chiusi, perché è incastonato in e ridotto ad oggetto (infatti nel Novecento il ruolo dell’oggetto è andato sempre in crescendo, finché la relazione tra uomo ed oggetto si è rovesciata, prendendo esso il sopravvento sulle persone, diventando esso il soggetto, mentre l’uomo è divenuto oggetto). Tutte le analogie e le metafore che si utilizzano nel mondo nuovo, quello del terzo millennio, sono dunque “similitudini rovesciate”, infatti si assiste ad una “rivolta del linguaggio”: il secondo termine di paragone non è più la natura, ma l’oggetto, che diviene quindi il nuovo protagonista, il nuovo governante degli esseri umani (l’amore è una camera a gas, l’amante è come una moto, la donna è come un conto in banca). L’uomo non fa più i conti con la verità, vive in una realtà totalmente artificiale, dove regnano gli oggetti, la natura altro non è che un qualcosa di addomesticato, come del resto l’uomo. Tutte queste concezioni stanno nei libri, editi da Mursia nel 2010 e nel 2012, ossia “Il Realismo Terminale” e “La Faraona Ripiena”, che sono i saggi teorici. Il libro di poesie su questo realismo terminale è invece “Il Cielo Di Lardo”, sempre del 2012. - Nella poesia “Cravatte”, la similitudine rovesciata, la rivolta del linguaggio sta nel fatto che, durante un incendio: il fuoco sono cravatte rosse verso il cielo, il fumo è grigia carta che incarta le cose infiammate, il camion dei pompieri ha una pancia piena d’acqua che alza la gamba e fa pipì sul fuoco. Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 15 Novelle di Pirandello: riassunto e commento La giara - Don Lollò, contadino tirchio che per ogni nonnulla corre a chiamare l’avvocato, compra un’enorme giara per raccogliervi l’olio, ma essa un giorno è rinvenuta rotta. Il conciabrocche Zi Dima, nel ricomporre le due parti della giara col suo mastice miracoloso, rimane però chiuso al suo interno poiché la bocca della giara è troppo stretta per uscirvi. Don Lollò si accorda allora con l’avvocato per rompere la giara e far uscire il conciabrocche, a patto che questi poi gliela ripaghi, ma Zi Dima non vuole e vi rimane dentro. Quella sera, mentre gli altri contadini urlano e danzano demonicamente attorno alla giara, ubriachi al chiaro di luna, e Zi Dima canta dentro di essa, don Lollò, seccato ed irascibile, la butta a terra e la spacca. - Zi Dima è il genio incompreso, che vuole far valere la sua arte nel riparare le cose, invece don Lollò è una maschera espressionista arcigna e contorta, come un ulivo saraceno. La situazione è all’apparenza, di primo impatto insomma, comica, nel senso del paradossale, poiché fa scoppiare la risata, però quando Zi Dima e Don Lollò riescono a litigare su di una soluzione così semplice e che hanno sotto gli occhi, la situazione rivela la propria natura umoristica, nel profondo della comprensione della realtà, in bilico tra risata e pietà per tali personaggi. La stessa giara diviene simbolo della prigione della forma, insomma di un’identità forzata in cui sia Zi Dima sia don Lollò si calano, non volendo uscire dal proprio punto di vista, non volendo cedere la propria parte al mondo, non volendo rinunciare al proprio soggettivismo: la frantumazione della giara, che segna la fine della novella, segna allora la rottura di questa prigione e l’apertura, per quanto brutale e forzata, del punto di vista di don Lollò a darla vinta a Zi Dima. Pensaci, Giacomino! - Il professor Toti, intellettuale, vecchio e ricco, ha sposato, per salvarsi la facciata, una giovane moglie, Maddalena, da cui ha avuto un neonato viziato e capriccioso, Ninì; tuttavia ha un alunno prediletto, Giacomino, al quale tiene più di se stesso e vuole lasciare in eredità ogni cosa, dato che, in realtà, Ninì è figlio proprio di Giacomino, avendolo egli concepito con la moglie del professore su monito di ques’ultimo. Nella vita, ricerca la pace ed il riso, poiché si comporta con Giacomino, moglie e Ninì in maniera bonaria e paternalistica, non da marito, da genitore o da maestro: tutte le persone ridono di lui e non capiscono il suo piacere di accondiscendere, come un nonno, alle frivolezze di questi tre, che lo trattano male. Un giorno la moglie ha una crisi e si chiude in una stanza, così il professor Toti si reca col figlioletto da Giacomino, ma fatica ad entrare nella di lui casa poiché la sorella del ragazzo non vuole che frequenti il vecchio e pure col figlio illecito, e per di più Giacomino è stufo delle intrusioni, dei favori e del suo stesso rapporto col professore, infatti rivela d’essersi fidanzato. Toti allora si sente offeso e triste, scoppia in lacrime, si appella al fatto che è un vecchio destinato a morire e che per tutta la vita altro non ha fatto che dare attenzioni e soldi a Giacomino, il quale si dimostra irriconoscente. Il ragazzo, addolorato ma stufo, esplode allora negli insulti e lo invita a smettere di farsi coprire di ridicolo da tutta la gente del paese. Tuttavia, Toti, se il ragazzo non accetterà di raccogliere la propria eredità, avendo in dono la sua famiglia ed il suo denaro, minaccia di andare dalla fidanzata di Giacomino a screditarlo, grazie al piccolo Ninì, e di togliergli tutti i favori che gli ha fatto: infatti, andandosene, ripete: “Pensaci, Giacomino!”. - È la base per quella che probabilmente è la più famosa pièce teatrale di Pirandello, recitata nel 1916 in siciliano e nel 1917 in italiano, a Roma. È l’eterno impasse del relativismo, per cui ogni cosa è vista da occhi diversi e soggettivi: secondo Toti, lui sta aiutando Giacomino, ma secondo Giacomino, Toti lo sta rovinando; entrambe queste tesi sono vere, ma nessuna delle due è la verità. Anche la diatriba tra apparenza e realtà è importante, poiché Toti salva le apparenze solo in superficie, mascherando la propria ignominia (e forse latente omosessualità) col matrimonio, benché tutti in paese ridano di lui, invece Giacomino non si sa bene se sia sottomesso o se sia solo Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 16 stato ammaliato dai favori di Toti, però tenta di salvare le apparenze sino in profondità, volendo troncare qualsiasi rapporto col professore, ma non si sa se potrà mai uscire dalla sua “prigione della forma”. Pallottoline! - In cima al monte Cavo, nel Lazio, c’è un osservatorio meteorologico abitato dal professor Maraventano e dalla sua famiglia, aperto ai turisti solo per pochi mesi, per il resto isolato. La moglie, Guendalina, e la figlia, Didina, vorrebbero avere una vita sociale e premono per conoscere i turisti, invece il professore ama la solitudine, non si fa vedere e passa il tempo a studiare astronomia in maniera filosofica, vagheggiando e sognando il profondo dello spazio. Maraventano si diverte ad insegnare le sue teorie a moglie e figlia, annoiate, spiegando con polemica, sdegno e rabbia la piccolezza dell’uomo, che è solo un verme, le cui invenzioni, come auto e ferrovie, non sono nulla contro la velocità della luce. Un giorno Didina piange perché vuole un vestito nuovo da sfoggiare la domenica, l’unico giorno in cui la famiglia scende a Roma per andare a messa: il professor Maraventano spiega che ciò è roba da ridere, perde di significato in confronto alla profondità dell’universo, e non glielo compra. - Maraventano è la caricatura espressionista di un uomo selvaggio, barbuto e capellone, altero e rabbioso, che non si mostra mai e vive ad una distanza cosmica dal mondo: infatti, se il cannocchiale ha lo scopo di avvicinare gli oggetti distanti, il suo è un cannocchiale rovesciato, che allontana gli oggetti vicini, ed in ciò consiste l’umorismo della novella, poiché sembra una cosa buffa ma in realtà è un dramma umano. C’è pure il relativismo, ossia le “pallottoline” che sono i pianeti del sistema solare, il pulviscolo minimo che è l’umanità, nei confronti dell’infinita sterminatezza del cosmo (sembra riecheggiare alcuni “Pensées” di Pascal). Il confronto è facile con “Dialogo D’Ercole E Di Atlante”, un’operetta morale di Leopardi in cui Ercole è inviato a sostenere la terra sulle spalle al posto di Atlante, ma alla fine i due titani si mettono a giocare a palla con la terra, dato che essa sembra fissa e smorta, eppure è talmente sgonfia come palla che cade: anche qui, la terra è ridotta a pallottolina, con l’ironia tipica delle “Operette Morali”, poiché l’uomo, visto da lontano, in realtà è qualcosa di insignificante e privo di senso (è la stessa conclusione della “Seconda Premessa” a “Il Fu Mattia Pascal”, dove si spiega che, dopo la rivoluzione copernicana, l’uomo ha capito la sua posizione di secondo piano nell’universo, non più al suo centro). L’illustre estinto - Appena nominato ministro del lavoro, a Roma l’onorevole Ramberti ha un infarto e finisce in ospedale in fin di vita, così si prefigura, da uomo illustre che è stato, un funerale teatrale ed in pompa magna: processioni magistrali, presenza di massime autorità, discorsi pubblici, carri e fiori e veli, articoli sui giornali, silenzio sacrale. Morto Ramberti, il funerale però ha diversi imprevisti: la giornata si rivela soleggiata e ricca di risate; nel silenzio della camera ardente, il cadavere si caga addosso; la bara viene scambiata con quella di un seminarista abruzzese, e finisce in Abruzzo. - La poetica dell’umorismo vuole che la “digestio post mortem” non sia solo l’occasione di una risata, cioè non sia solo comica, ma anche l’occasione per una profonda riflessione che porta a ridere e piangere assieme, porta all’umoristico, poiché la cagata dell’onorevole apre gli occhi al lettore, è una sorta di epifania che rivela come vedere in profondo, in realtà, il testo, svelando l’inutilità di tutta quella pompa magna e la “sciocca pupazzata” che è la vita, un carnevale di maschere che mettono in scena una parte, nel pieno del relativismo. Padron dio - Un umile ed anziano pastore che vive sui monti della Sicilia, per guadagnare, scende in paese e posa per una pala d’altare, inconsapevolmente recitando un giudice ebreo: gli è dunque affidato il nomignolo di Giudè e ciò causa la sua ignominia in città. Ora vive di un’elemosina particolare, poiché si presenta nelle ville in qualità di esattore, dichiarando che la terra appartiene a dio e che dunque i ricchi debbono pagare una tassa per usarla: modo migliore di sdebitarsi non è che fare Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 17 l’elemosina ad un povero come lui. Vive da senzatetto, immerso nella natura, e trova luogo sopratutto in mezzo alle erbacce, alle quali si paragona: esse crescono nelle proprietà terriere che non sono rivendicate da nessuno, così come lui è emarginato. Decide allora di coltivare quelle terre di dio, seminando il frumento per mangiare, ed il grano cresce alto e biondo; ma una febbre terribile lo costringe all’ospedale per qualche giorno, così quando Giudè torna al suo piccolo podere, lo trova cinto da una siepe e sorvegliato da un cane: qualcuno l’ha occupato, e lui non può raccogliere ciò che ha seminato. - È la base per il poemetto lungo contenuto nella raccolta poetica “Zampogna” del 1901. - In Giudè (quasi un primitivo di “Vita Dei Campi”, per la sua ingenuità e selvaticità) ci sono il sentimento del contrario e la prigione della forma, cioè l’umorismo ed il relativismo. Anzitutto la sua situazione fa ridere ma, se ci si riflette, mostra la profondità e la lungimiranza di pensiero di Giudè. Poi lui è cristiano ma dalla gente è ritenuto un terribile giudice ebreo, così, con un pizzico di follia, sfrutta questa occasione per calarsi nella maschera grottesca di un esattore divino. Egli si rifà al principio del “Pentateuco” dell’Antico Testamento, quello per cui ogni cosa sulla terra è di dio [da cui il titolo], quello per cui va messa in comunione ogni cosa tra tutte le persone, quello per cui si lavora la terra duramente per farla produrre. Eppure la svolta nel testo avviene quando lui, uomo evangelico e “comunista”, che predica che ogni cosa è di dio e va condivisa, si trova spiazzato perché la SUA terra, che dovrebbe essere di tutti-nessuno, è stata usurpata. Canta l’epistola - Tommasino Unzio avrebbe ricevuto un’eredità consistente da un lontano parente se si fosse fatto prete. Divenuto suddiacono, ha compiti ed affari umili in chiesa, tra cui quello di cantare le lettere: per questo ruolo povero tutti lo scherzano e lo chiamano Canta l’epistola. Eppure, in seguito ad una crisi di fede, Canta l’epistola si è tolto l’abito di religioso, perdendo l’eredità, tra le furie del padre: egli si chiude perennemente in camera sua, concedendosi al massimo qualche passeggiata solitaria. Ingrassa ed inizia a vivere tanto per vivere, senza neanche rendersene conto, come nuvole e vento che passano senza meta, svelando la vanità che si cela dietro a tutto ed il tedio dell’esistenza umana. Un giorno Canta l’epistola è sfidato a duello dal tenente De Venera poiché ha offeso la sua fidanzata per un motivo per lui grave ma per gli altri insignificante (è il topos del duello d’onore, di origine feudale e di recente ripreso dal Manzoni e dal De Marchi, ma anche nel “Mattia Pascal”): infatti da tempo Canta l’epistola proteggeva un filo d’erba, quasi a proteggere la sua vita nel mondo, appeso ad un minuscolo filo, e quella donna vi si era seduta sopra. Durante il duello è ucciso, e confessa d’esser morto, paradossalmente, per un filo d’erba. - Nella prigione della forma, relativistica, anche dopo lo scioglimento dei voti, Tommasino è chiamato Canta l’epistola, benché abbia rivelato di esser divenuto prete per vocazione, e non per avere l’eredità, ma del titolo attribuitogli non si può più liberare. C’è una corrispondenza concettuale (ma anche filologica, nelle parole riprese alla lettera), col Vitangelo Moscarda di “Uno, Nessuno E Centomila”: l’autocoscienza è la causa prima dei mali dell’uomo, la quale imprigiona nelle forme, dunque bisogna rinunciare alla coscienza per poter vivere; è una filosofia nichilista, di ascendenza leopardiana, che vede la vanità di ogni cosa ed il tedio dell’esistenza, entrambe prive di senso o di fine. Ecco perché decide di accettare il duello, essendo leopardianamente la vita inutile, dato che, con un pizzico di follia, egli ha protetto quel filo d’erba come fosse il significato della vita stessa, ed ora vede la morte come una via d’uscita: ne risulta una visione da comica ad umoristica, cioè che inizialmente fa ridere, ma poi continua a far ridere però fa anche piangere. La trappola - Il signor Fabrizio racconta come sia angosciato dalla verità della vita, che è buio, è inconscio irrazionale, è riflesso, mentre ciò che le persone credono di vivere è solo è maschera, è finzione razionalizzata, è una luce illusoria, ossia morte. Spiega di stare cercando di cambiare continuamente aspetto, opinione, relazioni, di essere libero e vitale, come in un flusso continuo, mentre invece è chiuso ed imprigionato in una forma, che è una trappola per la vita. Lamenta poi che la vecchiaia gli Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 18 sta impedendo di fuggire da questa trappola. Quindi si scaglia contro le donne, schiave della propria bellezza, che intrappolano gli uomini, lui compreso: infatti, di recente, si è innamorato di una donna, e, credendola sterile, ha avuto da lei un figlio, confermando la donna il suo ruolo di trappola per la vita. Fabrizio rivela di vivere con in casa il padre, in stato vegetale da tanti anni, il quale non vede l’ora di essere liberato da quella trappola che è la vita: pensa allora di suicidarsi e di portare con sé il padre, dando fuoco alla casa. - Novella con palese dichiarazione di poetica, riprende del tutto l’antinomia basilare tra “flusso” e “prigione della forma”, dunque tra verità e finzione, alla base de “L’Umorismo”, per cui la realtà che ci circonda può essere percepita solo in maniera relativistica, cristallizzando il flusso autentico della vita in idee, convenzioni, caratteristiche e maschere che sono valide solo dal punto di vista di chi le applica, ma in realtà false. É una lunga confessione in prima persona, pienamente decadente. Percorre tutto il testo l’idea che la vita sia in realtà morte se vissuta nella prigione della forma, così si nasce già morti, e non resta all’uomo che aspettare di morire del tutto, dunque di liberarsi dalla trappola della vita. Il modo per fuoriuscire dalle maschere è allora la follia, cioè la tendenza al suicidio del protagonista. I pensionati della memoria - Il protagonista racconta che, se tutte le persone morte vengono sepolte e lì rimangono, i suoi morti invece gli ritornano, infatti ha sempre la casa piena di persone morte, in realtà per lui vive. Si spiega meglio: dato che le persone le conosciamo solo secondo la nostra ottica, infatti in maniera relativa noi, arbitrariamente, attribuiamo categorie e finzioni alle persone, allora, pur morendo esse, in realtà sopravvivono le maschere che noi abbiamo attribuito loro, poiché le abbiamo create noi e le portiamo nella nostra memoria, immutabili e fisse. Racconta poi di ricordarsi di un suo conoscente tedesco che vive a Bonn, il signor Herbst, che fa il cappellaio e che, anche se sarà morto, lui lo ricorda fissato nella sua forma, secondo una sua idea, unicamente sua, che non può cambiare né morire mai. Le persone piangono allora i propri cari morti soltanto perché non possono più continuare a dargli la forma che gli hanno sempre dato. - È il relativismo pirandelliano a fare da padrone in questa novella: ogni realtà la si conosce solo relativamente, secondo il proprio punto di vista soggettivo, come ben definito nel saggio “L’Umorismo”. Pirandello ha studiato a Bonn, quindi nella novella c’è pure un tratto di autobiografismo. I pensionati della memoria sono personaggi che sono ricordati come tali anche dopo la morte, in quanto vittime della “prigione della forma” pirandelliana, per la quale si attribuisce arbitrariamente un profilo, alcune caratteristiche, una maschera insomma, alle realtà che ci circondano, però in maniera relativa soltanto al nostro punto di vista, dunque sbagliata, e per di più, una volta attribuita tale identità ad una realtà, è impossibile togliergliela; si può pensare a ciò quale il tema classico della funzione eternatrice della scrittura, il monumentum aere perennius di cui parla Orazio, di bacchilidea e pindarica memoria, ribaltato però secondo l’ottica di Pirandello. La toccatina - In una Roma grigia, Cristoforo Golisch, romanaccio ciccione, si reca a trovare l’amico di vecchia data Beniamino Lenzi, mingherlino, poiché questi ha subito un colpo apoplettico, un tocco della morte insomma, ed ora è mezzo paralizzato e mentalmente ritardato: mentre lo vede fare i suoi esercizi di riabilitazione, prova un misto di tristezza e rabbia per la condizione dell’amico, ed agli altri riferisce che avrebbe preferito sparargli. Un mese dopo il colpo apoplettico tocca anche Cristoforo, rendendolo mezzo paralitico e mezzo rimbambito. Il medico dice che si riprenderà, ma la sorella per precauzione getta via le pistole di casa. Il fatto è che Cristoforo, quasi per incanto, parla solo tedesco e non è consapevole di aver avuto una toccatina. Riacquisiti un po’ di movimento ed un po’ di italiano, si reca da Beniamino perché vuole fare i suoi stessi esercizi di riabilitazione, come se fosse divenuto consapevole della malattia. Cristoforo e Beniamino si allenano assieme ed un giorno si recano a casa della loro vecchia amica Nadina, che, vedendosi arrivare due handicappati, non sa se ridere o piangere, ma decide di scherzare con loro. Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 19 - La situazione all’apparenza è buffa e paradossale, perché dal nulla il destino di ogni uomo può cambiare improvvisamente, e ciò fa ridere, ma se ci si pensa un po’, la situazione è umoristica, ossia sì fa ridere, ma fa anche disperare, piangere e provare pietà per i due (è come accade a Nadina, che non sa se ridere o piangere). Entranti in una prigione della forma, ossia paralizzati, letteralemente, in quello stato, da esso è impossibile uscirne, in mezzo a tutto il relativismo pirandelliano: se inizialmente Cristoforo vorrebbe farla finita, sia con l’amico, ma anche probabilmente con se stesso, per liberarsi con pazzia da quello stato, poi, forse non del tutto consapevole, né lui né l’amico, della propria condizione menomata, continua ad esercitarsi invano con gli attrezzi per liberarsi dalla sua maschera, cioè la condizione di handicappato. La parvenza dei due uomini non può che essere, infine, quella di una deformazione espressionista, con la bocca semiaperta, le gambe non del tutto funzionanti, i movimenti a scatto e la faccia sformata. Quand’ero matto… - Il protagonista, Fausto Bandini, si dichiara savio e guarito, ma un tempo è stato matto, e gli sono successe un sacco di cose strane, poiché, da matto, ha pensato troppo, ha pensato che le altre persone hanno un’anima come la sua, dunque è stato troppo altruista, troppo aperto all’altro. Quando era matto, Fausto ha scritto un trattato di filosofia morale, con tanti dialoghi, apologhi e storielle che fanno riflettere, anche su dio, per convincere la moglie della propria sanità mentale. Quando era matto, Fausto si sentiva parte della natura, parte del ciclo della notte e del giorno, parte delle piante e degli animali, scrupolosamente attento a non calpestarli ed a non danneggiarli. Quando era matto, Fausto era sposato con Mirina, la quale lo disprezzava per il suo modo di concepire la vita, però il protagonista trovava consolazione nella sorella della moglie, la quale aveva un punto di vista simile al suo, tuttavia è morta: mentre fa visita alla camera mortuaria della cognata, un sibilo proveniente dagli alberi e dagli uccelli attira la sua attenzione su di una stanza della casa, in cui la moglie lo sta tradendo con il suo vicino; Fausto, presa in disparte Mirina, la porta davanti al cadavere della donna e le dice che lui la perdona per il tradimento, ma la moglie scappa via. Quando era Matto, Fausto ha permesso che tutti i dipendenti, che gestivano la sua fortuna, gli rubassero abbondantemente i soldi, lasciandolo povero: l’unico che gli ha rubato poco e gli è rimasto vicino anche nella povertà è stato Santi, primo marito di Marta; Santi, morto d’un colpo apoplettico, lascia allora in eredità ciò che ha accumulato, rubando a Fausto, proprio a Fausto stesso, e Marta, da buona consigliera, ha salvato il protagonista dalla pazzia e lo ha “fatto rinsavire”, sposandolo in seconde nozze. - Il testo è pieno di reminescenze: il trattato morale ricorda “Una Vita” di Svevo, il ciclo della natura ricorda l’“Alcyone” dannunziana, la voce del bosco e del chiù ricorda il Pascoli di “Myricae”. - La situazione è del tutto umoristica: lo stato di matto, in realtà, è migliore di quello di sano per il buon Fausto; se ciò inizialmente suscita l’irresistibile ilarità, con l’avvertimento del contrario, in realtà, quando ci si riflette sopra, giunge il sentimento del contrario: normalmente, un savio sta meglio di un matto, ma in questo caso non è così, bensì il contrario, e ciò fa ridere ma anche piangere. Non manca il relativismo: con le sue azioni da matto, Fausto è convinto di fare del bene, ed in effetti lo fa, ma i suoi gesti, come la scrittura filosofica, l’amore della natura, il perdono del tradimento ed il suo lasciarsi derubare, dagli altri sono intesi non come azioni di bontà, ma di stupidità. Nella stessa persona convivono allora due identità, una matta ed una savia, ma esse sono tali solo viste dagli altri, a seconda del fatto che Fausto compia azioni buone o no. La paura del sonno - Nella folkloristica Sicilia vive Saverio Càrzana, detto il Mago, un vecchio maestro nella fabbricazione dei burattini, uomo focoso e magniloquente, accanto alla moglie, Fana, donna placida e remissiva, che crea e cuce il vestiario di tali burattini, e troppo spesso si addormenta. Saverio si compiace delle sue creazioni e le crede più perfette degli uomini fatti da dio, pieni di acciacchi: infatti, una mattina, il troppo sonno è fatale alla povera Fana, che muore. La camera funebre è Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 20 allestita, e quivi tutti i burattini sembrano piangere la padrona. Frattanto, i compaesani consolano Saverio col vino. L’indomani ha luogo il funerale col trasporto della bara, cui Saverio non partecipa, affranto, ma al camposanto Fana rinsavisce, tra il clamore generale e le urla al miracolo. Riportata a casa, don Saverio sviene dallo shock, ma, rinvenuto, inizia poi a manovrare le sue marionette perché esprimano il suo baldanzoso stato di giubilo. Tuttavia, da quel giorno, le notti per la coppia divengono indormibili: Saverio ha l’ansia che sua moglie non si svegli più, invece Fana è continuamente svegliata dal marito che bada al suo essere viva. Finché la morte non la coglie in pieno giorno. - La situazione è umoristica: la morte apparente al principio può essere un momento di gioia, l’attimo di farsi una risata sopra lo scampato pericolo, ma, quando subentra il sentimento del contrario, ci si accorge che forse era meglio morire, dato che si vive nel terrore di morire, anzi non si vive proprio più, è un massacrante cotidie mori, è risata ma anche pietà e tragedia. Non manca anche il relativismo, cioè la soglia tra realtà e finzione, tra l’essere morti e l’essere creduti morti dalla gente. Particolare la similitudine parallelistica tra l’uomo, che sta a dio, ed i burattini, che stanno all’umanità, ma un’umanità rappresentata come maschera, come deformazione grottesca, come persone che hanno perso il fondamento. Formalità - In una Sicilia ardente, Gabriele Orsani è il giovane ereditiere di un’azienda dove lavora il vecchio contabile Carlo Bertone, il quale gestisce ogni cosa, non capendo nulla di amministrazione il giovane Orsani. In azienda si presenta un omino di nome Lapo Vannetti, che sembra un manichino per come si veste e si muove, per di più con un occhio di vetro e un difetto di pronuncia, il quale vende assicurazioni per le imprese e per la vita delle persone, ma viene gentilmente invitato ad andarsene. Frattanto Carlo avvisa Gabriele che la più grossa zolfara sta andando in malora e che l’azienda rischia il fallimento: Carlo intima allora al giovane di tagliare le spese di casa, ma Gabriele cade nella disperazione, sapendo di non poter fare nulla, poiché in vita sua non ha mai fatto niente. Il giovane Orsani vive in un matrimonio infelice e privo di comunicazione con la moglie Flavia: lui dà a lei i soldi e la lascia fare, e lei si occupa della casa e dei bambini. La prima volta che si parlano davvero avviene quando Gabriele le rivela che sono sull’orlo della bancarotta e si sfoga contro di lei, infine esplode nel pianto e sviene. Flavia chiama allora Lucio Sarti, vecchio amico che la famiglia Orsani ha cavato fuori dalla strada e sistemato dabbene, nonché innamorato di e segretamente ricambiato da Flavia, nonché medico, il quale, mentre Gabriele è svenuto, compie allusioni e proposte a Flavia, e nel frattempo riesce pian piano a far rinsavire il protagonista. Tuttavia Gabriele, pur svenuto, ha sentito tutti i discorsi di Lucio e Flavia e si è convinto che sia stato Lucio a mandargli l’omino dell’assicurazione, affinché, alla sua morte, rimanesse una cospicua eredità alla donna, poi sposabile da Lucio. Ed in effetti è stato così. Allora Gabriele decide di obbligare Lucio, in virtù degli aiuti che la famiglia Oriani gli ha dato, ad essere complice in una truffa ai danni dell’assicurazione, facendosi dichiarare sano e poi lasciandosi morire, affinché i soldi vadano a moglie e figli, ma Lucio non possa sposarla, altrimenti sembrerebbe palese che la sua dichiarazione di sanità sia stata viziata. Lucio è titubante sul daffarsi, ma in casa, chiamato da Carlo, si presenta il buffo assicuratore Lapo, e tutti cominciano a fargli pressione: costretto dalle circostanze, Lucio si arrende e compila le carte, tra la vocina stridula e difettosa dell’assicuratore che dice “formalità, formalità”, il quale, nel suo outfit ridicolo, gli sembra la predestinazione sconciata e malefica del proprio futuro. - La sconciatura espressionista dell’assicuratore Lapo Vannetti, che sembra un pupo mal riaggiustato, è il riflesso della vicenda sconcia, sul piano morale ed esistenziale, in cui Lucio si è fatto intrappolare da Gabriele. - Ciascuno dei personaggi della vicenda, soprattutto Gabriele, Flavia e Lucio, vive in una strettissima prigione della forma, con addosso una maschera davvero tremenda, costretto a recitare una parte per poter vivere, ed a tenersi addosso il giudizio della società e le convenzioni sociali della propria posizione: è un triangolo amoroso dai tratti contemporanei e meschini. Gabriele è Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 21 riuscito a veder chiaro, al di fuori del relativismo e delle verità soggettive che lo circondano, solo in punto di morte, da svenuto, da alieno ed estraneo alla vita, in un attimo rivelatorio, accaduto in un contesto insignificante e banale, in cui gli è parso chiaro che cosa fosse la propria vita e che cosa dovesse fare. Il finale della novella ha i tratti della beffa, dunque all’apparenza, in superficie, sembra ironico e ridicolo, sembra cioè soltanto comico, ma se si guarda in profondità al gesto cui arriva Lucio, non si smette di ridere per il ribaltarsi contro di lui della situazione, però non si può non provare tristezza e pietà tragica, dunque umorismo, per il destino sporco, lurido e disonesto che ha appena firmato. Lumìe di Sicilia - In uno sgargiante ristorante napoletano, coi camerieri indaffarati a predisporre la cena, entra Micuccio Bonavino, rustico e campagnolo, cercando di Teresina, la cantante, ma, assente la donna, è fatto accomodare in disparte. Micuccio ricorda di come, nella Sicilia natia, ha scoperto il talento vocale di Teresina e le ha pagato gli studi a Napoli, nutrendo nel frattempo amore a distanza per la donna, ma mai ricambiato direttamente. Rientrata al ristorante Teresina, con la sua vecchia madre Marta, si scopre che quella è una serata speciale ed elegante per festeggiare la carriera canora di Teresina, ma Marta, meravigliata e sconvolta di vedere dopo anni Micuccio, si fa apparecchiare con lui un tavolo in cucina, ed avvisa che Teresina è impegnata nelle sale. Quando Micuccio nota di sfuggita Teresina, rimane frastornato nel vedere una donna di città, sofisticata e cresciuta, troppo distante dal suo mondo impacciato e contadino, fuori portata per un amore già solo supposto da parte sua. Triste e sconsolato lui, ma anche Marta, intesi i sentimenti del ragazzo, Micuccio decide di andarsene senza neanche farsi salutare, donando però delle lumìe (un tipo di agrume). Arrivata Teresina, si rattristisce nel non averlo potuto salutare, ma è felicissima delle lumìe e, benché la madre le proibisca di portare in sala un frutto così rozzo e contadinesco, Teresina ne accaparra quante più può ed inizia a distribuirle tra i galantuomini, gridando e saltellando in giro per le sale. - È palese, ed anche molto triste, il relativismo di questa storia: è l’amore provato da una parte, ma non dall’altra, infatti l’interpretazione che Micuccio dà ai sentimenti di Teresina è molto diversa da ciò che effettivamente la donna prova. Il relativismo si esplica anche nella prigione della forma: giunta a Napoli, capitale partenopea ed elegante, la semplice contadinotta Teresina si trasforma in una raffinata e composta signora di città, e da quella forma non uscirà più, ingabbiata in quell’identità; nella forma ancora rustica e campagnola di Siciliana primitiva, invece, se la immagina ancora Micuccio. Eppure nel finale, grazie ad un pizzico di follia, sembra che Teresina ritorni alle origini, priva della maschera da gran signora con cui ora si identifica, mettendosi a saltellare ed urlare, distribuendo le lumìe della sua terra natale. Ciàula scopre la Luna - In una miniera di zolfo, nell’ardente Sicilia, una sera Cacciagallina, il supervisore, vuole far restare i minatori a lavorare di notte per finire il carico, ma nessuno lo ascolta: gli unici a rimanere sono Zi Scarda, un vecchio privo di un occhio e perciò assaporatore delle lacrime che dalla cavità vuota cadono, ed il suo caruso Ciàula, un trentenne così soprannominato per il vizio di fare il verso della cornacchia (in siciliano, Ciàula). Ciàula non ha paura del buio della miniera, che ben conosce, però ha paura del buio della notte, della quale non conosce niente: tutto è iniziato quando, esplosa una mina in miniera, che ha ucciso molti e fatto perder l’occhio a Zi Scarda, Ciàula è rimasto rintanato tutto il giorno in cava, ma, uscitovi di notte, si è smarrito nel buio ed è rimasto terrorizzato a vita. Quella notte Ciàula era impaurito per il buio che avrebbe trovato uscendo, ma, vicino agli ultimi scalini, si accorge di una luce e, strabiliato, lascia cadere il sacco di zolfo e si mette a guardarla. Tale luce è la luna, che il protagonista non ha mai visto così grande, vicina e bella, come se l’avesse appena scoperta, dunque scoppia in lacrime. - È un relativismo un po’ sentimentale ed appassionato quello di questa novella, per il quale la realtà si colora di una luce lunare diversa in base alla persona che la guarda. Per Ciàula, la mera visione della Luna diviene un fenomeno stupendo, purificante e limpido, qualcosa di inedito e mai provato Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 22 dal protagonista, mentre per altri la visione della Luna sarebbe stato qualcosa di diverso, in quanto normale. Il buio, al contrario, che fa normalmente paura a tutti e da tutti è considerato sempre uguale a se stesso, in realtà per Ciàula esiste in due tipologie, ossia il buio dell’interno, quello della cava, che lui ama, ed il buio esterno, quello all’esterno, della notte, che lui teme: ancora una volta la verità sta relativisticamente negli occhi di chi guarda. L’atto stesso della luce lunare è qualcosa di illuminante, dunque si può far rientrare nella categoria del pirandelliano momento rivelatorio, che accade in un contesto banale e quotidiano, grazie al quale il protagonista comprende il proprio stato, svela la propria condizione e si vede sino al profondo dell’anima. La buon’anima - Bartolino Fiorenzo sposa in seconde nozze Carolina Sarulli, la quale, vedova, ha avuto per primo marito la buon’anima di Cosimo Taddei, uomo intelligente e generoso, nella cui casa la coppia vive e nella cui casa è presente un’enorme sua fotografia appesa, che mette in soggezione Bartolino, più bamboccione ed ingenuo e per questo parodiato dalle amiche di Carolina, in specie da Ortensia. In viaggio di nozze a Roma, Carolina ripercorre con Bartolino tutte le tappe, i luoghi, le visite e le prassi già fatte con Cosimo, facendolo sentire sempre in inferiorità ed in imbarazzo, tanto che spesso s’immagina l’enorme foto del Taddei che lo irride, però decide di stare al gioco pur di vedere felice la moglie. Rincasata, la coppia trova morto il marito di Ortensia, la quale soffre di un dolore indicibile, troppo drammatico a parere di Carolina: quando Bartolino prova a consolare Ortensia, arriva lui a tirare in causa il fatto che anche Carolina avrà sofferto per la morte di Cosimo, ma la donna afferma di averlo subito superato. Eppure Bartolino constata il contrario, dato che gli fa fare tutte le cose dell’ex-marito. Per uscire da quella condizione asfissiante, decide di tradire la moglie con Ortensia, ma subito se ne pente. Un giorno però capisce che la collana di Ortensia si può aprire, e dal pendente che cosa può uscire, se non un’altra foto di Cosimo, che lo saluta beffardo pure in quel frangente, avendolo superato in anticipo anche con l’amante. - Ancora una volta, la situazione di primo impatto è comica, poiché in superficie non può che far ridere il complesso d’inferiorità di un uomo nei confronti di un morto, che pure ritorna vivo ogni volta che lo si guardi nelle fotografie, e saluta sbeffeggiando; eppure, la situazione, dopo un’attenta riflessione, ha nel profondo anche dei tratti di tragico. Con un tocco di pazzia, Bartolino tenta di uscire da quell’impasse, tradendo la moglie, per cercare di sopravvivere in quella penosa condizione; eppure poco cambia, poiché alla fine sempre una foto irridente di Cosimo si ritrova. Cosimo è una sorta di living portrait, un tizio che è morto ma di una morte apparente, poiché nella novella è più presente che mai. Soffio - Il protagonista viene a sapere da Calvetti, segretario del suo amico Bernabò, della morte di un conoscente visto poco prima, così afferma come basti un soffio per morire, ed accompagna la frase congiungendo pollice ed indice e soffiandoci dentro. Credeva quasi d’avere il potere di controllare la morte delle persone con quel gesto. D’improvviso Bernabò si presenta dal protagonista e riferisce che Calvetti è morto, così il protagonista ripete la frase e rifà il gesto, e stavolta a svenire, sotto i suoi occhi, è proprio Bernabò. Lo porta, rubicondo e moribondo, nella di lui casa, dove la sorella ed il medico assistono inermi alla sua morte. Il protagonista confessa alla donna ed al medico il significato del suo gesto mortale, e questi gli ridono dietro: anche lui ne ride, ma, rientrando a casa, sul vialone soffia su moltissime persone, e l’indomani sui giornali esce la notizia di un’epidemia che ha mietuto centinaia di vittime. Il protagonista si sente pazzo e matto, ma non può credere al potere delle sue azioni. L’indomani riprova il gesto soffiando su di un bimbo malato di un morbo terribile, e lo uccide immediatamente. Inizia a convincersi della sua forza mortale. Entrato in ospedale, trova il medico che era accorso da Bernabò, insiste ancora sul suo potere, ma tutto il reparto, infermieri compresi, lo schernisce pesantemente, così, stizzito, il protagonista soffia su di loro: una strage prende luogo, i corpi a terra scatenano le urla in corsia. Il protagonista si rifugia in una stanza in cui, davanti ad uno specchio, inizia a riflettersi, a toccarsi il corpo, a prendere Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 23 consapevolezza totale del proprio potere, di essere la morte, l’epidemia. Davanti allo specchio, soffia sul proprio riflesso, così muore e si ritrova, in bilico tra delirio e realtà, in un luogo idilliaco ed agreste. - La novella è narrata in prima persona dal protagonista. Il momento rivelatorio, accaduto in un contesto banale ed insignificante, accade davanti allo specchio, quando il protagonista si vede vivere, si vede di riflesso oltre la propria maschera, e svela la propria condizione originaria, quella insomma di un vivo che può uccidere, comprendendo appieno la propria identità. Il sentore della storia ha quasi dell’incredibile, dell’inverosimile, ma proprio in quanto impossibile questa storia è vera. Si parte da una situazione comica e buffa all’apparenza, che fa scattare l’irresistibile risata di un uomo convinto di poter uccidere col soffio, ma se si ragiona e riflette su ciò, si capisce come il comportamento del protagonista sia sì comico, ma anche drammatico e pietoso, insomma umoristico, avendo capito con quanta leggerezza la morte possa colpire le persone, benché di certo non sia in realtà per causa sua. Per uscire dalla situazione e liberarsi, non rimane che la follia come valvola di sfogo, che si attua nel suicidio. Prima notte - Una vecchia madre, Mamm’Antò, ripiega sapientemente la dote lasciata alla figlia, fatta di vestiti e lenzuola: per la donna, vedova da anni del marito, è tutto ciò che rimane di una vita dolorosa passata nel lavoro. La madre ha infatti deciso un matrimonio vantaggioso e combinato per la figlia, Marastella, con Lisi Chìrico, che però fa il becchino ed è vedovo da poco. Il giorno delle nozze ogni cosa è pianificata, con l’intervento di tutto il parentado, ma Marastella continua a piangere per il suo destino obbligato di sposa. Il corteo nuziale sembra più una parata funebre, e, terminate le cerimonie, la giovane si dirige sconsolata nella sua nuova casa, quella di Lisi, la quale si trova proprio accanto al cimitero dove lui lavora, in cima al colle del paesino siculo. Un po’ isterica, un po’ disgustata da Lisi, un po’ in terribile disagio, Marastella è un continuo piangere. La coppia finisce la prima notte di nozze col fare una passeggiata nel contiguo camposanto, dove lei compiange disperatamente il padre, che non avrebbe permesso tale matrimonio ed avrebbe dato una vita migliore alla famiglia, mentre lui compiange la sua da poco defunta prima moglie, il grande amore. - Il sentore umoristico è presente nel comportamento dei personaggi: all’apparenza, è buffa e ridicola l’idea che gli sposini passino la prima notte al camposanto, ma, dopo un’attenta riflessione, si evince che il loro comportamento è dettato da un destino avverso che ha fatto perdere loro il grande amore della loro vita, e con esso la possibilità di avere una vita migliore. Ecco che dunque, nel pieno del relativismo, Marastella e Lisi sono bloccati in un matrimonio senza amore, e, con addosso una maschera, si abitueranno a recitare una mera parte, bloccati dalla prigione della forma nelle figure di moglie e marito di una famiglia che in realtà non esiste. La rallegrata - Due cavalli si stanno abbuffando in una stalla. Fofo è il cavallo di casa, che osserva Nero, il nuovo acquisito, il quale è invece uno stallone appartenuto ad un principe e ad una principessa che però sembrano essersi disfatti di lui. Nero non sopporta Fofo, in quanto tutti i cavalli presenti in stalla non hanno ancora capito il perché della loro presenza lì, invece Fofo, presuntuoso e sicuro di sé, sembra essere certo del proprio compito e commenta gli altri palafreni con sufficienza. Questi cavalli, come dice Fofo, sono addetti a trasportare dei carri contenenti lunghe casse, e ad essere riveriti da lunghi cortei durante il trasporto. Mentre tirano quello che credono un normale carro seguito da una sfilata, Fofo anzitutto secca Nero coi suoi discorsi saccenti e commenta maliziosamente il passo degli altri cavalli, infine tenta di istruire Nero, nuovo al mestiere, sul procedere in modo elegante, impassibile e lento, ed a non fare la rallegrata, ossia a scalpitare, nitrire ed agitarsi. Seccato, Nero inizia a ribellarsi, la processione è scandalizzata, ma un uomo accorre a placare lo stallone: è Giuseppe, il vecchio stalliere di Nero quando egli lavorava ancora nelle scuderie principesche, prima d’essere scartato, il quale rivela a Nero che la cassa che trasportano è Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 24 la bara della sua stessa principessa, e che il seguito in clamore altro non è se non un corteo funebre. Fofo, borioso, arriva a mentire pur di sembrare il solito intelligente, affermando che lui lo sapeva già dall’inizio: loro trasportano i morti. - Nella novella è presente la tecnica dello straniamento: la narrazione, col relativo suo significato, è affidata al punto di vista, straniato, di un cavallo, e non di un normale uomo. Il momento rivelatorio arriva solo alla fine, nel solito contesto banale ed insignificante, ma è portato in maniera attiva da Giuseppe: grazie a lui, i cavalli finalmente escono dalla loro condizione inconsapevole, si vedono oltre il loro semplice ruolo e comprendono il significato del loro lavoro e con esso della loro esistenza. La situazione è comica per tutto il testo, sino alla fine, ossia sino al momento rivelatorio: è buffo, all’apparenza, un intero branco di cavalli che traina, inconsapevole, un mucchio di casse seguito da un corteo di persone, così come è carico di ilarità il comportamento sbeffeggiatorio e saccente di Fofo; tuttavia, smascherata la situazione, essa diviene umoristica, rivelando, oltre alla comicità della beffa, la tragicità ed il dramma che si nasconde, dopo un’attenta riflessione, dietro al lavoro di questi cavalli, costretti a trainare cadaveri. L’elemento più importante di questa novella è che la prigione della forma, ossia la recita mascherata che i cavalli fanno, eseguendo senza sosta, e senza saperne il motivo, il loro mestiere, privi di coscienza o di personalità propria, intrappolati nel ciclo eterno del loro compito, è compresa dai cavalli stessi soltanto alla fine. Di sera, un geranio - Il protagonista sembra essere al di fuori del proprio corpo, come un’anima che vaga sulla terra, ed al momento sta osservando il proprio corpo, rossastro, peloso e sporco, nonché la stanza in cui esso giace inerme, identificandosi di volta in volta con tutti gli oggetti d’arredo, dalla lampada al comodino. È questo quello che sente il protagonista: d’essere come morto. Tende allora un profondo sguardo verso l’ambiente naturale, osservando le foglie che cadono, l’orizzonte con l’alba che sale, gli alberi, i prati ed i campi lontani, e poi, vicino, nel giardino accanto alla stanza, un geranio: il protagonista si identifica con esso ed improvvisamente il geranio si accende di vitalità propria, quasi la povera anima fosse penetrata al suo interno. - La novella racconta una materia quasi fantastica, onirica ed allucinata, dove la realtà si distingue a malapena dal sogno, infatti appartiene alla tarda fase della novellistica pirandelliana, di argomento surreale. È la storia di un personaggio, anonimo e spersonalizzato, quindi l’uomo medio e comune, che sta trapassando, la cui anima si eleva dal corpo, morente. Il relativismo nella novella sta man mano diminuendo, poiché l’anima, disgregando la propria forma, perdendo la propria identità imprigionata nel corpo, sta assumendo casualmente la dimensione di tutto ciò che vede, dagli oggetti antropici iniziali ai paesaggi naturali finali, poiché, con la morte, si sta liberando della prigione della forma e sta tornando alle origini, al flusso incondizionato e vitale dell’esistenza, ancora caotico ed incontaminato, dunque autentico. La tragedia d’un personaggio - Il protagonista afferma che ogni domenica mattina riceve a casa sua tutti i personaggi dei propri futuri racconti, e li trova persone strane, assurde, al limite della vita, che vogliono essere compatite, in una ressa caleidoscopica e multiforme. Un libro regalato al protagonista contiene la storia del dottor Fileno, il quale ha scoperto il rimedio per tutti i mali, cioè far leggere libri di storie passate, affinché, attraverso un cannocchiale rovesciato, le disgrazie del presente sembrino piccole piccole, spedite nel passato da moltissimi anni e dunque non più dolorose. La domenica il dottor Fileno compare in fila dall’autore e gli racconta la propria tragedia, ossia quella di non essere una persona vera, che, faticosamente, può riuscire a cambiare il corso della propria vita, passando da una forma ad un’altra, da una condizione ad un’altra, ma di un personaggio fittizio, rilegato per sempre ad essere ricordato da tutti in una posizione immutabile, quella di un uomo che soffre e soffrirà in eterno. Allora Fileno chiede di essere messo in una storia dell’autore, per uscire dalla prigione di quel maledetto libro e per essere ricordato per sempre in un testo migliore. L’autore rifiuta, poiché Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 25 Fileno non è un suo personaggio, ma di un romanzo altrui, e gli suggerisce di applicare anche per sé quel famoso cannocchiale ribaltato, la cura di ogni male, che lui stesso ha inventato. - La situazione è umoristica, poiché può solo far ridere, alla prima apparenza, che una fiumana di buffi individui si rechi dal proprio autore, ma questi, benché faccia ironia su di loro, alla fine li compatisce in maniera tremenda, capendo il dramma umano, la tragedia di tali personaggi. È anche una metanovella, cioè una novella che parla di altre novelle, poiché in essa sono accennate storie di molti personaggi, alcuni di novelle vere, altre di novelle solo progettate e mai scritte. Il discorso che il dottor Fileno fa al protagonista esprime tutta la prigione della forma pirandelliana: dato che le persone le conosciamo solo secondo la nostra ottica, infatti in maniera relativa noi, arbitrariamente, attribuiamo categorie e finzioni alle persone, allora, pur morendo esse, in realtà sopravvivono le maschere che noi abbiamo attribuito loro, poiché le abbiamo create noi e le portiamo nella nostra memoria, immutabili e fisse, così come erano; è da questo dramma terribile, che dà il titolo al testo, che Fileno chiede di essere liberato, dalla prigione della forma del suo precedente romanzo, per essere posto in una nuova storia che esalti per sempre le sue qualità. Sembra il topos della funzione eternatrice della poesia, di Pindaro, Bacchilide ed Orazio, per cui il compito della letteratura è esaltare e far perdurare nella memoria collettiva l’identità di alcuni personaggi, travasato però nell’ottica della poetica pirandelliana. La patente - Il giudice d’Andrea, dall’aspetto bizzarro, ha problemi d’insonnia quasi tutte le notti, così durante esse pensa a come sbrigare i casi a lui sottoposti. Da più giorni sulla scrivania ha un caso insbrogliabile, cioè quello del protagonista, Rosario Chiàrchiaro, il quale ha denunciato per diffamazione due giovanotti che gli hanno fatto le corna per strada in senso scaramantico, poiché il Chiàrchiaro ha perso il lavoro ed è stato emarginato da tutti in quanto etichettato come iettatore, cioè uno che porta sfiga. Il giudice d’Andrea si strugge sul come risolvere il caso, perché la vittima c’è sicuramente, però non si può colpevolizzare i primi due che sono capitati male, così decide di chiamare in casa sua il Chiàrchiaro per convincerlo a ritirare la denuncia. Arrivato, lo iettatore si presenta proprio conciato come uno iettatore, in volto e nel vestiario, e si comporta come tale, dicendo di non toccarlo e di non parlargli troppo. Chiàrchiaro fa intendere al giudice d’Andrea che ha querelato i giovani non per farli condannare, ma perché vuole che il tribunale gli riconosca ufficialmente il suo potere iettatorio. Vuole insomma avere la patente per poter professare il mestiere di iettatore e guadagnare portando sfortuna alla gente e facendosi pagare per andarsene, dato che è senza lavoro e senza soldi. - Il giudice d’Andrea è ritratto con una maschera espressionistica davvero grottesca e paradossale, in bilico tra una candida bambola meccanica ed un pupazzetto con una parrucca afro. Anche il Chiàrchiaro, tuttavia, decide di sua spontanea scelta di mettersi vestiti logori e da pazzo, nonché di farsi crescere barba e capelli trascurati, da vero iettatore, in una caricatura vivente. Il comportamento del protagonista è inizialmente creduto comico, poiché fa scattare l’irresistibile ilarità il fatto che un tizio voglia esser etichettato come portatore di malocchio, eppure, dopo un’attenta riflessione, la vicenda fa sempre ridere, ma un po’ anche piangere, perché evidenza sino a che punto il dramma umano di questo personaggio, strozzato ed emarginato dalla società, sia costretto a spingersi. Il nucleo del brano è quindi il relativismo nel senso della prigione della forma: considerato da tutti uno iettatore, Chiàrchiaro non riesce più a liberarsi di questa etichetta, tanto da perdere il lavoro, vedendosi marchiata addosso una maschera terribile, insomma un pregiudizio sociale. Eppure, con la solita valvola di sfogo che è la pazzia, il protagonista riesce a campare, volendo sfruttare la sua fama di iettatore e continuare a recitare tale parte, pur di guadagnare qualcosa per vivere. Il treno ha fischiato - In ospedale è ricoverato Belluca, e molti, come l’anonimo protagonista, lo vanno a trovare, dicendo che ha avuto un attacco di delirio. Del resto era plausibile, poiché Belluca, contabile in una Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 26 grossa azienda, ha sopportato per anni ed anni, a testa bassa ed occhi chiusi, un lavoro sottopagato e sovrasfruttato, patendo rassegnato una posizione impiegatizia insostenibile. Il giorno prima era infatti accaduto che non avesse combinato niente per tutta la giornata lavorativa, ed, ai rimproveri terrificanti del capo-ufficio, che era arrivato a malmenarlo, avesse risposto soltanto di aver sentito fischiare il treno. Il protagonista arriva allora in ospizio e si rivela essere il di lui vicino di casa. Racconta di come persino la vita privata di Belluca sia disastrata, vivendo angariato con tre donne, cioè moglie, suocera e sorella, per giunta cieche, che urlano tutto il giorno, nonché con due figlie, vedove, ed i rispettivi nipoti, prive di voglia di badare ai bimbi, e dovendo logicamente mantenere tutte quelle bocche, irriconoscenti ed ingrate, da solo, portandosi anche a casa il lavoro di sera e di notte. Arrivato in stanza, Belluca racconta al suo vicino di come la notte precedente, sentito fischiare il treno passante lì vicino, abbia iniziato a vagare colla mente in tutt’Italia, guardando oltre la sua piccola cittadina, esplorando posti lontani e sconosciuti, vallate e campagne, mari e monti, città bellissime ed esotiche. Soltanto che si era ubriacato troppo di quel sogno, di quella boccata d’aria, ed il giorno seguente era ancora rintontito e mezzo pazzo: d’ora in avanti, Belluca sa come tirare avanti la propria vita, ascoltando il treno che fischia, ma non troppo a lungo. - Il protagonista è il tipico uomo della crisi novecentesca, costretto per campare ad indossare la maschera dell’impiegato ed a vivere recitando in silenzio la sua parte, vittima della società, del lavoro e della sua stessa famiglia. Il fischio del treno, per Belluca, è il famoso momento rivelatorio, in cui egli si vede al di fuori della sua situazione alienata, si vede vivere, così riscopre il mondo esterno oltre la sua dimensione privata, familiare o lavorativa, così cupa, angosciante e stretta, ed è più sereno, viaggiando con l’immaginazione. Questo piccolo tocco di pazzia è una via di fuga che permette allora a Belluca di continuare a vivere nel mondo in maniera meno infelice (tentando però di non abusare di ciò, altrimenti rischia un altro attacco come quello narrato). Il comportamento all’apparenza sembra comico, rivelando la risata che suscita un uomo che ascolta un treno e con esso delira in viaggio, ma, dopo un’attenta riflessione, si scopre umoristico, poiché continua a far ridere, ma rivela il tragico dramma dell’infelicità umana che è parte della vita di Belluca. La carriola - Il protagonista si presenta, dice di essere un irreprensibile avvocato, commendatore e docente universitario, gravato dal peso delle sue responsabilità pubbliche, ma anche private, avendo una famiglia da mantenere e da far rigare diritta, così, nel segreto più assoluto e spaventoso, dice di doversi sfogare una volta al giorno con una vittima che non può parlare, ma lo guarda con due occhi terrorizzati. Tornando un giorno da lavoro, si addormenta sul treno, e quando si risveglia, un po’ rintontito, si trova sulla soglia d’ingresso di casa propria: quivi si specchia nella targhetta metallica che contiene tutti i suoi titoli, ed improvvisamente si vede vivere, si vede fuori da se stesso, fuori dal suo ruolo sociale, come se ciò che avesse vissuto non fosse stata la propria vita, ma solo una maschera da indossare, una parte da recitare, rivelando come non sopporti la sua famiglia, i suoi titoli, il suo lavoro e la sua stessa vita. Entrato in casa, trova ancora tutto al proprio posto, ma ormai ha capito in che situazione alienante e soffocante sta vivendo, e necessita di essere liberato e di sfogarsi. Ecco perché, come ha detto in principio, si chiude a chiave nel proprio studio e, in gran segreto, si vendica con la sua vittima muta: fa fare la carriola alla propria cagnolina, che la guarda cogli occhi che sembrano comprendere il dramma terribile dell’atto che il protagonista compie. - La suspese domina tutto il brano, interrotto a metà dall’epifania, dal grande momento rivelatorio in cui il protagonista si specchia, in un momento banale ed insignificante, in qualcosa e si vede vivere oltre la sua maschera e la sua forma, dall’alto, comprendendo lo stato di alienazione ed oppressione in cui vive, recitando soltanto una parte che non è sua, vedendosi sino al profondo della propria vera anima. Il personaggio risulta dunque come sdoppiato, tra la maschera che si cala addosso e la prigione della forma in cui la società lo rilega, vittima delle convenzioni sociali e del ruolo che deve seguire, nel pieno del relativismo pirandelliano, e ciò che invece è l’uomo vero, incondizionato, che è libero ed autentico: a questo stato, il protagonista approda solo per brevi istanti, ogni giorno, grazie alla valvola di sfogo della follia, quella con cui si vendica di tutto ciò a Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 27 cui è costretto ed ottiene la sua rivincita, cioè il gioco infantile di far fare la carriola alla sua cagnetta. La situazione, palesemente comica in superficie, è in realtà umoristica, poiché dietro alla risata non può che esserci la pietà per il dramma umano che ogni giorno l’irreprensibile avvocato è costretto a vivere. Berecche e la guerra - Il professore di storia Federico Berecche ha un’adulazione immensa per la Germania, la migliore assoluta nella cultura, nella storia, nell’economia e nel militare, tanto da fingersi spesso tedesco. In birreria, accusa l’Italia di codardia perché, nonostante la triplice alleanza, nella prima guerra mondiale non s’è schierata con la Germania, ma è subito zittito da tutti i suoi amici, neutralisti o addirittura avversi alla Germania ed all’Austria-Ungheria. Berecche abita al limitare del suo paesino, una via disilluminata e remota, con molti alberi, immersa nella campagna praticamente, che il professore apprezza molto poiché spesso vi passeggia e pensa: quella sera, pensa a come andrà a finire questa maledetta guerra mondiale, pensa alla sua vita angosciata (ma, da rigido tedesco, non se ne lamenta affatto), con un figlio distante che studia lettere a Roma, una moglie che lo odia ed una figlia cieca e triste. Berecche poi ricorda di come, da bambino, assisteva ai dibattiti del padre e dei di lui amici sulla guerra franco-prussiana, discussi davanti ad una cartina dell’Europa con tanto di bandierine d’invasione. Oggigiorno, egli vorrebbe giocarci, prendendo le bandierine tedesche ed austriache e facendole espandere ovunque, dall’Inghilterra alla Russia. L’indomani, una notizia sconvolgente arriva in famiglia: i fratelli del fidanzato della figliola cieca, Gino Vesi, sono morti in guerra, combattendo per l’Austria in quanto Trentini. Tutti in famiglia evidenziano le prepotenze austriache, tranne Berecche che giustifica la sua amata Austria, assai adirato, consapevole anche che uno dei suoi figli, quello a Roma, inneggia alla Francia, e non alla Germania. Chiuso nel suo studio, il protagonista riflette molto, e pensa che, tra molti anni e generazioni, un nuovo professore di storia parlerà della guerra mondiale, dei grossi imperi di Germania ed Austria, bestioni enormi ed incontrollabili, e della misera Italia, loro alleata sottomessa: di tutto ciò, in realtà, rimarranno solo poche e brevi righe nei manuali di storia. Berecche pensa poi al marito di una delle sue figlie, tale Livio Truppel, svizzero, fa l’orologiaio, è una persona semplice e genuina, a modo; tuttavia si è visto distruggere dai dimostranti italiani il proprio negozio, a causa del suo cognome tedesco, e tra tali dimostranti c’era anche un figlio del protagonista, Faustino. La situazione diventa tragica quando Faustino e pure Gino Vesi non fanno ritorno a casa per molte notti, finché con una lettera non comunicano alla famiglia di esser andati a combattere in Francia per far vedere che anche gli Italiani hanno un po’ di coraggio battagliero. La moglie e la figlia, sua donna, scoppiano in lacrime e deprecano l’atroce guerra, ed anche Berecche si sente toccato personalmente, per la prima volta. Nei giorni seguenti, proprio Berecche inizia a ragionare, inizia a concepire l’idea che la sua bella Germania abbia sbagliato ad iniziare una guerra contro tutto il mondo. Allora, nell’esasperazione generale, di nascosto ed all’insaputa di tutti, il vecchio protagonista inizia ad equipaggiarsi per partecipare lui alla battaglia: compra un cavallo e partecipa ad un corso d’equitazione…tuttavia cade rovinosamente e ripetutamente, finché non si ferisce, finisce in ospedale e starà alla famiglia a riportarlo a casa. Tutto questo, conclude Berecche, grazie alla sua cara Germania! - La prigione della forma è il tema cardine di tutta la novella. Il modo in cui Berecche vede il mondo germanofono è adulatorio, idilliaco, privo di contatto col reale, fissato in un’identità ed in una categoria stabile ed immutabile. Il modo in cui, invece, sono viste Germania ed Austria dagli Italiani, è totalmente diverso, bloccati essi in una visione demistificata, maligna ed avversa. Il problema è che risulta pressoché impossibile cambiare un’opinione cementata e solidificatasi per tutta una vita, così, se si trovano motivi contrari, li si irride, ci si adira, si risponde sgarbatamente, si arrivano a brutti atti. È necessario un guazzabuglio del cuore umano, una serie ininterrotta di drammi e di catastrofi, che toccano pure il personale, per far cambiare forma all’idea positiva che di Germania ed Austria possiede Berecche. È uno scontro di punti di vista, di visioni parziali e soggettive, più corretto o meno, e tutta la vita è riducibile a questo: un perenne relativismo. La Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 28 caduta definitiva da cavallo di Berecche sembra quasi il folgore che abbacina san Paolo al galoppo sulla via per Damasco, e lo converte: benché la palinodia del protagonista sia già iniziata da prima, a differenza di san Paolo che si cristianizza d’improvviso, il parallelismo è innegabile. Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 29 Davide Savio – Il carnevale dei morti Il tema della morte attraversa tutta la produzione di Pirandello, dai romanzi alle novelle al teatro. Infatti, come ha sottolineato Giovanni Macchia nel capitale saggio “Pirandello O La Stanza Della Tortura”, l’autore: 1) mette in scena dei personaggi che poco hanno a che fare con la vita, dato che alcuni sono in una condizione sociale tale da renderli morti, altri vivono alienati, reificati e lontani dalla vita, altri ancora muoiono fisicamente e realmente, oppure muoiono solo in maniera apparente e presunta, altri infine sono fantasmi, spiriti, non sanno nemmeno di essere mai esistiti; 2) mette in scena dei luoghi di uscita, cioè soglia tra vita e morte, come manicomi, cimiteri, carceri, uffici di lavoro, camere ardenti o mortuarie, case ridotte a prigione. Nelle opere di Pirandello c’è allora una sfilata di personaggi e luoghi dannati, cioè un carnevale dei morti. Questo è il motivo conduttore di questo libro: la morte. Dalla sconciatura alla maschera - Applicando l’espressionismo (finalmente chiarito dallo studio “Pirandello E L’Espressionismo” di Graziella Corsinovi), Pirandello a volte rappresenta la realtà in maniera troppo sovraccarica, con un gusto paradossale, deformante, caricaturale, grottesco, nel quale i dati sensoriali di chi percepisce il reale sono piegati dalla sua interpretazione soggettiva, che dall’interno si proietta all’esterno, sulla realtà medesima, modificandola. Ne “L’Umorismo” Pirandello usa più volte il verbo “sconciare”, nel senso di sporcare, così a partire da ciò il critico Giacomo Debenedetti, nel suo celebre scritto “Il Romanzo Del Novecento”, conia il termine sconciatura, cioè bruttezza imbrattata; dunque, Debenedetti crea coerentemente la categoria del personaggio sconciato, in accordo con l’espressionismo pirandelliano, poiché molti personaggi delle opere del Siciliano sono delle sconciature, cioè hanno la fisiognomia brutta e imbrattata. Infatti, Debenedetti parla dell’“invasione vittoriosa dei brutti” nella letteratura italiana del Novecento proprio a partire da Pirandello, poiché, se più correttamente si può dire che i brutti entrano nell’intera letteratura europea con l’età contemporanea (ossia già con la bohème e la scapigliatura, il naturalismo ed il verismo, ma prima ancora gli incunaboli si trovano nel romanticismo europeo, dove subentrano i poveri, gli umili, gli strati bassi), Debenedetti spiega però che nell’Ottocento le deformazioni sono giustificate dal contesto sociale e storico, dall’esterno insomma, invece nel Novecento sono i fattori interni che si scatenano all’esterno e deformano grottescamente, in maniera espressionistica, i protagonisti delle storie. - In molte lettere, Pirandello pensa di avere il naso grosso, e proprio dall’osservazione del naso si scatena il romanzo “Uno, Nessuno E Centomila”: questi sono casi compiuti di deformazione espressionistica, la cui matrice va cercata nel “Tristram Shandy” del romanziere inglese Laurence Sterne, in cui fa da sottofondo l’idea che dalla grandezza del naso dipenda la grandezza della persona. Ma come Pirandello sia giunto all’idea dell’espressionismo, che poi ha portato alla sconciatura, è lungo spiegarlo. L’origine di tale modus va ricercata nella ritrattistica di Leonardo da Vinci, uno dei primi pittori a porre la psicologia nei dipinti, grazie alla sua teoria dei “moti mentali”, per la quale la psiche dei personaggi si esprime nell’espressione dei loro volti, somatizzandosi. Il passaggio alla caricatura, invenzione del Seicento, è allora molto breve. Ma il clou si ha nell’Ottocento, quando il positivista Cesare Lombroso afferma addirittura che i tratti somatici del volto dipendano dall’indole interiore, che li ha deformati, ed in tal modo crede facilmente distinguibili i criminali in base alla conformazione del cranio. A metà XIX secolo si colloca Honoré de Balzac, l’autore realista della “Comédie Humaine” (che tanto ha influenzato naturalisti e veristi): i suoi personaggi hanno tratti somatici rovinati e distrutti, in cui si colgono i segni della devastazione sociale. Un naso d’eccezione deriva dal “Caso Di Emilio Roxa”, una novella di Capuana, dove l’anomalia del naso diviene punto di partenza di un ragionamento per la rivelazione dell’oltre. Insomma, da un lato basta esagerare un piccolo particolare del corpo perché Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 30 esso rovini totalmente e interamente la figura di una persona, dall’altro quell’insignificante particolare è la scintilla che innesca ragionamenti sulla comprensione del tutto. - Nelle prime novelle pirandelliane, ad esempio la primissima del 1884, “Capannetta”, non c’è alcuna traccia di sconciatura, al massimo i personaggi sono un po’ caricaturali. La prima sconciatura pirandelliana è allora nella novella “Il no di Anna” del 1895, dove Mondino, il più bello del paese, non si accorge dell’amore per lui di Anna, convinto di poter avere di meglio; passa però la vita ad avere rifiuti, e da vecchio decide di accettare le effusioni dell’ormai anziana Anna, ma questa lo rifiuta a sua volta: Anna è descritta come decrepita ed imbruttita, sta morendo di morte naturale ed ha passato tutta la vita a morire dentro per Mondino. Da questa novella si capisce che il modo migliore di sconciare, cioè di imbruttire, i personaggi, è proprio la morte: Pirandello la chiama “toccatina”, un tocco della morte (è il colpo apoplettico) che in realtà non ti ammazza, però ti imbruttisce in uno stato in bilico tra vita e morte. Le toccatine arrivano ai protagonisti di moltissime novelle, una su tutte quelli de “La toccatina”, novella per antonomasia, i cui protagonisti sono vittime di un colpo apoplettico che li rende paralitici e ritardati. - La sconciatura, in generale, è una bruttezza imbrattata; tuttavia, ci sono alcune precise constanti dei personaggi sconciati: 1) si accorciano e, più spesso, si allungano, in una sproporzione grottesca e paradossale (come accade anche ad oggetti quali le cassapanche, che, allungandosi, ricordano le bare, tipo ne “L’illustre estinto”); 2) cambiano colore, dal rubicondo paonazzo e rossiccio (si veda “La toccatina”) sino al pallore biancastro della cera e del marmo (non a caso si arriva ad essere rigidi come cadaveri, in stato di rigor mortis, si veda “La paura del sonno”). - A tal proposito, nei primi esperimenti poetici, come in “Pasqua Di Gea”, Pirandello ha parlato delle larve, cioè degli spettri, dei fantasmi, di immagini candide e pallide, tipiche della letteratura classica, ma riprese anche da Dante e dallo stilnovo, che indicano le illusioni della vita. Queste, da essere semplici illusioni intangibili, man mano nel pensiero dell’autore prendono forma concreta, e divengono le maschere illusorie che le persone indossano, le quali deformano grezzamente il volto di chi le indossa, come un’illusione resa tangibile. - “La scelta”, uscita su Ariel, racconta di quando i bambini di Agrigento ricevono i regali andando alla fiera, in cui il piccolo Luigi Pirandello, accompagnato dal suo maestro Pinzone, finiva sempre davanti alla bancarella delle marionette; ora, Pirandello adulto si reca sempre presso quella bancarella, ma non in cerca di pupi, bensì di personaggi. Il passaggio da deformazione espressionistica, da sconciatura, da larva, sino al pupo, cioè al burattino, alla marionetta (che in Sicilia ha una lunga tradizione risalente all’alto medioevo, infatti tutti questi fantocci si usano nelle storie dei paladini di Carlo Magno e del ciclo carolingio-francese, in lotta contro gli infedeli saraceni), è molto breve, poiché l’espressionismo è tale da essere uscito dalla persona stessa ed essersi trasformato in una maschera da indossare, una forma fittizia attribuita dalla società o dalla persona a se stessa, vittima del relativismo che le convenzioni sociali impongono, costretta ad essere ciò che di lei si crede o ciò che vuol far credere. Ecco perché allora le persone sembrano tutte fatte di legno o di pezza, che si scheggiano, si sciupano, si staccano e si ricuciono, hanno occhi biechi e di vetro (sembra l’assicuratore in “Formalità”). La deformazione espressionista, la sconciatura o il pupo, la maschera insomma, è sintomo della crisi epocale del Novecento, in cui l’uomo, alienato, vittima del relativismo e dell’umorismo, ha perso qualsiasi fondamento. Vita e morte della maschera - Un importante tema affrontato da Pirandello ne “L’Umorismo” è il relativismo. Per l’autore, il mondo e l’esistenza sono un “flusso continuo”, cioè un movimento fluido ed un continuo divenire, in cui tutto si trasforma e non sta fermo in canoni costanti: il caos primordiale, prima della fissazione delle regole, è allora vita, poiché fa pensare mondo ed esistenza come qualcosa di libero ed incondizionato. L’uomo invece cerca, dentro a questo flusso, di trovare delle costanti, di fissare l’essenza delle cose e delle persone, di attribuir loro un’identità stabile, ma ciò è un’azione sbagliata ed arbitraria, mortificante, basata sul punto di vista parziale di chi giudica e sulle circostanze particolari in cui si è conosciuta una realtà, quindi si creano delle finzioni che non sono la verità Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 31 oggettiva ed assoluta (la quale rimane inconoscibile), ma un punto di vista soggettivo (infatti uno stesso ente, visto da più punti, può essere Tizio, Caio e Sempronio), inoltre, così facendo, si rilegano le cose e le persone in una “prigione della forma”, in una “maschera” che viene imposta o che ci si autoimpone, dalla quale poi è impossibile uscire. L’idea della vita come flusso perviene probabilmente dalla “durée” del filosofo francese Henri Bergson; la scomposizione molteplice delle personalità in un singolo individuo deriva invece dallo psicologo francese Alfred Binet, autore de “Les Altérations De La Personnalité”; la querelle sul relativismo, va segnalato, è molto accesa a quel tempo, avendo scoperto il tedesco Albert Einstein da poco le leggi scientifiche sulla relatività ristretta; infine, la diatriba tra realtà ed apparenza, ossia tra ciò che è veramente, cioè da un punto di vista oggettivo, e ciò che sembra alle persone, cioè da un punto di vista soggettivo, deriva dal pensiero del tedesco Arthur Schopenhauer. È chiaro, a conclusione, che il relativismo consiste nel fatto che: 1) le realtà possiedono identità diverse a seconda di chi le osserva, poiché tali identità sono solo verità soggettive che esistono negli occhi di chi le guarda; 2) solo il flusso incondizionato è vita, invece la forma attribuita è morte. - Tuttavia, è possibile riuscire a raggiungere uno stato di esistenza privo di maschere, al di fuori della prigione della forma: è quello che accade a Mattia Pascal, “forestiere della vita”, ma anche a Serafino Gubbio, che osserva distaccato attraverso un obiettivo, ed anche a Vitangelo Moscarda, alla fine del suo romanzo. Se non si raggiunge per sempre tale condizione, per lo meno si può raggiungerla in alcuni momenti, rari ed inconsueti, che accadono nel quotidiano, banali ed insignificanti, quasi coincidenti colle “epiphanies” di James Joyce e colle “intermittences du coeur” di Marcel Proust, tipiche del modernismo europeo, in cui appunto all’uomo è concesso cogliere il mondo proprio ed altrui spogliato dalle convenzioni e dalle relazioni fittizie entro cui conosce abitualmente la propria e l’altrui esistenza, e di venire a contatto con la verità oggettiva e la propria vera identità, diventando maestri del disincanto, con una visione oggettiva, distante e distaccata. In questo momento rivelatorio, l’uomo si vede vivere, si specchia in qualcosa, si vede di riflesso oltre la propria maschera, in maniera irrazionalistica. Si diviene insomma delle “Maschere Nude” (titolo della raccolta delle opere teatrali di Pirandello), un forte ossimoro che indica che ci si è tolti la maschera e si è usciti dalla prigione della forma. Non a caso, nella novella “La vita nuda”, quando un artista deve scolpire un monumento funebre con rappresentate la vita e la morte, la committente strepita ardentemente affinché la donna che rappresenta la vita sia “nuda, nuda, nuda!”, poiché il flusso vitale, che rappresenta la verità, è privo di vestiti, di maschere, di forme, di convenzioni fittizie. Non a caso, nella novella “Il tabernacolo”, ad un povero scultore è commissionato un tabernacolo con l’ecce homo (è l’episodio giovanneo in cui Ponzio Pilato mostra agli ebrei che Gesù è stato flagellato, come da loro richiesta) da un ricco notaio anticlericale, ma quando arriva il momento del pagamento, il notaio muore, ed i suoi eredi non pagano lo scultore perché sembra impossibile che il notaio, avverso alla religione, abbia ordinato un tabernacolo: per ribellione, l’artista si denuda e si mette a fare il cristo flagellato nel suo tabernacolo, mentre tutti i compaesani vengono a vederlo; si è dunque spogliato della propria maschera ed ha rivelato ciò che è realmente: un pazzo maltrattato e povero. - Qual è però il modo di togliersi la maschera, di uscire dalla forma? È un pizzico di follia, è un po’ di pazzia, è l’essere matto. È quello che accade nella novella “Quand’ero matto”, dove la bontà gratuita del protagonista c’è solo nella sua fase di folle. È lo stesso tocco di pazzia che avviene in “Uno, Nessuno E Centomila”, poiché solo grazie ad essa Vitangelo, alla fine del romanzo, è felice. È la situazione, privata e nascosta, del protagonista de “La carriola”, che si chiude in studio per giocare assurdamente colla cagnolina. Ma questa pazzia può avere anche l’estrema variante del suicidio o peggio dell’omicidio, ultimo e radicale gesto liberatorio dalla prigione della forma. Nella novella “Candelora”, la moglie Candelora, per procurare mecenati a suo marito, pittore, si prostituisce, ma, avendo deciso di smettere, non riesce a levarsi la nomea di escort, e, per uscire da quella maschera, si suicida inghiottendo veleno. In “Sole e ombra”, il protagonista, un exgaribaldino, deluso dall’Italia unita, che ha tradito i valori del risorgimento, si getta nel mare per galleggiare ed ingerisce veleno. In “La casa dell’agonia”, il protagonista è il tipico personaggio Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 32 sconosciuto, di cui non si sa nulla, con una fisiognomia sconciata, bloccato in casa ad attendere un ospite che non verrà mai, così, nel silenzio, si identifica con i mobili e gli oggetti del salotto, e si sente morto dentro: per uscire da ciò, decide, nel momento in cui un gatto sta facendo cadere un vaso di fiori, di gettarsi sotto di esso e morire. Il protagonista di “Soffio” acquista la consapevolezza di poter uccidere le persone semplicemente soffiandosi tra le dita. In “La trappola”, il protagonista vive angariato da cavilli filosofici e vive con un padre in stato vegetativo, e sul finale pensa di dar fuoco alla casa per uccidere sé ed il padre, liberando entrambi. In “La toccatina”, il protagonista, inizialmente, avrebbe preferito sparare al suo amico ed a se stesso, dato che entrambi hanno subito un colpo apoplettico e sono paralizzati dentro una vita da handicappati. In “La tragedia d’un personaggio”, il protagonista accoglie in casa propria i personaggi dei suoi futuri racconti, e li libera mettendoli in storie in cui poi li fa morire. Il doppio - Il tema del doppione e dell’alter ego (un classico della letteratura occidentale, canonizzato a partire dallo studio psicanalitico di Otto Rank, titolato “Il Doppio”) deriva a Pirandello da quell’ironia sdoppiante, cioè che pone le persone e le cose da un punto di vista straniato, incontrata in molti autori romantici tedeschi al periodo dell’università di Bonn, come Heinrich Heine, Adalbert von Chamisso, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann e Ludwig Tieck. Tale tema è funzionale al suo umorismo ed al suo relativismo, perché essi hanno a che fare con il limite tra apparenza e realtà, tra come si sembra e come si è, dando l’idea d’una doppia ottica rispetto al singolo ente, idea che si tramuta nella duplicazione dell’ente stesso. - La liberazione dalla vita pesante è ricercata da Pirandello medesimo, il quale vive con un tocco di pazzia, ma, pur avendoci pensato più volte, come rivelano le lettere, non arriva mai al suicidio (nonostante le sventure della propria vita): la sua liberazione avviene tramite i propri personaggi, i quali, con l’umorismo ed il relativismo, vivono ingabbiati in situazioni paradossali e con addosso una maschera limitante, ma riescono in gran parte a sopravvivere, grazie al solito pizzico di follia. I personaggi pirandelliani allora sono suoi doppioni, alter ego di Pirandello, che lo aiutano a liberarsi dalla vita pesante, come ben ha messo in chiaro Jean-Michel Gardair nello studio “Pirandello E Il Suo Doppio”. - Un primo tema del doppio si trova sotto forma di doppio fotografico, ossia piazzato nelle fotografie, privo di qualsiasi deformazione, sconciatura o maschera, in cui chi è fotografato è come se tornasse vivo e divenisse motivo di beffa per chi lo guarda. In “La buon’anima” il defunto primo marito di una donna, che ricorre nelle foto di casa e persino dentro il monile alla collana, irrita il secondo marito al tal punto da convincerlo a tradire la moglie. In “La maestrina Boccarmè”, la maestrina vive nel ricordo della gioventù, in specie d’una storia d’amore avuta con un uomo di cui venera la foto, ma presto viene a sapere da una vecchia amica che tale foto l’uomo la dà a tutte le donne con cui ha fatto sesso, così ne distrugge l’effigie. In “Pena di vivere così”, un marito, mortagli la seconda moglie, torna dalla prima, ma questa scopre nel cassetto un album di foto della seconda moglie, capendo di esserne solo uno squallido surrogato. - Un secondo tema del doppio si trova sotto forma di doppio pittorico, cosa che ricostituisce un topos letterario dell’Ottocento, quello del living portrait: un ritratto prende vita e riflette l’anima di chi lo guarda, come avviene nelle opere “Il Castello Di Otranto” di Horace Walpole, “L’Antiquario” di Walter Scott, “Il Ritratto Ovale” di Edgar Allan Poe, “La Caffettiera” di Théophile Gautier, “Gli Elisir Del Diavolo” di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann ed “Il Ritratto Di Dorian Gray” di Oscar Wilde. Pirandello usa il living portrait nel teatro, dentro il suo “Enrico IV”, in cui un attore caduto da cavallo si convince di essere l’imperatore Enrico IV di Germania che in quel momento stava impersonando per una battuta di caccia in maschera: tale personaggio ha come doppione un quadro che lo ritrae proprio mentre è vestito da Enrico IV, dunque è lui stesso una persona che prende vita da una tela, tanto che in nessun punto dell’opera compare il suo nome reale ed anagrafico, come se la sua esistenza appartenesse solo all’oltre pittorico. Nell’ultima novella pirandelliana, “Effetti di un sogno interrotto”, il centro del racconto è un quadro della Maddalena, la Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 33 quale è identica alla moglie defunta di un forestiero che, vedendo la tela, la vuole, ma il proprietario del quadro non può venderlo e così si attira le ire del forestiero: di notte, il proprietario sogna il forestiero e la Maddalena che si tengono per mano, poi si sveglia bruscamente, e l’indomani incontra il forestiero vestito cogli stessi vestiti che aveva visto in sogno. - La danza macabra è un topos pittorico squisitamente basso medievale, in cui uomini (simboleggianti la vita) e scheletri (simboleggianti la morte) ballano assieme, con funzione di memento mori, cioè di far ricordare che prima o poi bisogna morire. Nella danza macabra, gli scheletri risultano i doppioni degli uomini vivi, i quali sono consapevoli di dover morire e divenire scheletri. Nella novella “La morta e la viva”, un uomo sposa una donna, ma questa è creduta dispersa, così ne sposa la sorella, ma presto la donna torna in famiglia, così il marito si ritrova due mogli e fa un sacco di figli: la morte apparente ha funzione di beffa, ma concorre come memento mori e fa vivere assieme i vivi ed i morti. - Il fastidioso insetto chiamato mosca ha un connotato simbolico marcatissimo in Pirandello: stando e nascendo dove c’è putrido di cadavere, ella, svolazzando qua e là, tocca persone che sono morte dentro, psicologicamente, oppure a breve moriranno proprio fisicamente. Nella novella “Un po’ di vino”, un figuro alto e vecchio, ma cadaverico, è fatto accomodare da un ragazzo giovane, come se facesse sedere un fantoccio, e su questi inizia insistentemente ad inveire una mosca, che il figuro non scaccia con la mano, poiché è già morto: il narratore spiega proprio che le mosche toccano chi è in procinto di morire, e non può nemmeno alzare le mani per scacciarle. In molte altre novelle le mosche tornano, ed anche in Vitangelo Moscarda, il protagonista di “Uno, Nessuno E Centomila”, nel suo stesso nome. Il fantastico pirandelliano - Come ha chiarito Italo Calvino, Pirandello è stato il primo ad introdurre, seppur vagamente, una tematica che si può definire “fantastica”, la quale non c’entri però col gotico, col misterico e col meraviglioso d’ascendenza romantica nordica, nella letteratura italiana. C’è da dire che le basi della sua ironia sdoppiante derivano proprio da autori romantici tedeschi, portatori della fantasia nordica, come il romanzo “La Meravigliosa Storia Di Peter Schlemihl”, di Adalbert von Chamisso, in cui il protagonista vende l’ombra al diavolo in cambio di una borsa magica da cui estrarre infinite ricchezze, o “Gli Elisir Del Diavolo”, di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, la storia inquietante di un monaco che crea, da una Venere dipinta, un suo doppione infernale con cui celebrare riti pagani. Eppure, partendo da ciò, Pirandello elabora una visione del mondo allucinata, appunto fantastica, grazie anche all’espressionismo che permette di modificare la realtà che circonda l’uomo in base alla propria percezione. Il fantastico pirandelliano è allora conturbante, cioè fatto di ombre e di sogni; ecco perché, nelle storie pirandelliane, la realtà risulta piena di morti. A ciò concorre la “Divina Commedia”, a lungo studiata dal Siciliano, su cui ha abbozzato anche degli studi, considerandola un viaggio fantastico ante-litteram, dove le anime sono ridotte ad ombre trasparenti ed il corpo tangibile di Dante è visto come anomalo. A ciò potrebbe concorrere il platonico mito della caverna, citato direttamente da re Lear, dentro un saggio pirandelliano, quando il re denuncia i filosofi che hanno fatto accorgere l’uomo della sua piccolezza: Platone, nel mito della caverna, afferma che l’uomo vive al buio dentro una grotta e vede solo le ombre delle realtà, che stanno all’esterno illuminate dal sole. Di conseguenza, sono le ombre, simbolo del fantastico, che l’uomo vive tutti i giorni, e null’altro, poiché in realtà l’uomo vive un perpetuo sogno, da cui non si sveglia se non al momento della morte. - Le “Novelle Per Un Anno” che vanno dal 1931 alla morte di Pirandello rivelano una diversità d’impianto e di tono, che ha indotto i critici a parlare di una fase surrealista, metafisica, insomma fantastica, della produzione. In realtà tutto si spiega con l’avvicinamento dell’autore a Massimo Bontempelli, che ha fatto parte dell’esperienza del Teatro D’Arte, e con la lettura del romanziere Franz Kafka: è palese dunque l’adesione al loro realismo magico. A parte una drastica riduzione del dialogo e delle parti riflessive ed argomentative in favore del monologo, nonché un limitato ed accorto uso dei vocaboli, seppur sempre in un registro medio, i racconti trattano il viaggio, spesso Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 34 allucinato, del protagonista nella propria interiorità o nella propria interpretazione degli eventi quotidiani, con una percezione turbata della realtà e delle persone, dettata dallo stupore di chi distingue a fatica dal sogno e dalle ombre. - È il caso della novella “L’uscita del vedovo”, in cui il marito vive bloccato in casa in un matrimonio infelice che gli succhia tutta l’energia, e solo alla morte della moglie tenta di svegliarsi dal sonno e dalle ombre, ed, uscito di casa, incappa in un’avventura con una prostituta, eppure, anche volendo, non riesce a togliersi la maschera di morto che vive nel sonno tra le ombre, così non fa sesso con lei. È il caso di “Visita”, in cui la signora Wheil, appena morta, torna a far visita al protagonista per potergli parlare del loro primo incontro, e questi non riesce a capire se sta sognando o no, se la donna è vera o è un’ombra; tale novella è interessante perché mostra analogie e parallelismi con una particolare traduzione italiana fatta dell’opera “Donna Di Picche” del romanziere russo Puskin, dove una contessa che custodisce il segreto per vincere alle carte, appare in sogno da morta al protagonista, e gli svela tale segreto. Non manca il tema del fantastico anche sottoforma di spiritualismo e di occultismo, del resto concetti chiave del decadentismo e già molto cari a Capuana, dentro molte novelle pirandelliane e dentro “Il Fu Mattia Pascal”, dove Anselmo Paleari è proprio studioso dell’occulto e della teosofia, e Mattia-Adriano prende parte a molte sedute spiritiche organizzate in casa dal Paleari. La morte dell’autore - Pirandello evita la propria morte anzitutto grazie ai suoi doppioni, cioè i suoi personaggi, in cui si riflette e che fa liberare con un tocco di pazzia, la quale è una valvola di sfogo. Ma il Siciliano evita il problema della propria fine anche in un secondo modo, ossia velocizzando il tempo dei propri racconti, come per esorcizzare ciò che spaventa inculcandolo in uno spazio letterario. È ciò che accade in una novella della fase fantastica, molto tarda, cioè “Una Giornata”, dove il protagonista rivive tutta la vita in un solo giorno: rimasto senza memoria, è riconosciuto da tutti, trova la famiglia e dorme con la moglie, ma l’indomani mattina, vedutosi allo specchio, è improvvisamente vecchio, e non capisce ancora se è realtà o incubo. Il terzo modo di Pirandello per esorcizzare la sua morte rientra ancora nella categoria del primo, ossia ha a che fare coi propri personaggi: stavolta però, non è il conceder loro un briciolo di pazzia, ma è il mandarli a morire, liberandoli definitivamente e con loro esorcizzando la propria morte, come se l’autore fosse un mago, un demiurgo, un negromante che evoca le anime, cioè crea i personaggi, per poi avere il potere di ucciderle, salvando se stesso. Infatti, in accordo col tema del doppio, tutti temono un po’ la propria immagine, la propria ombra, il proprio riflesso sullo specchio, e, se inizialmente si guardano con narcisismo, finiscono poi per sfogare la rabbia, che provano, repressa, per se stessi, sul proprio doppio, uccidendolo. È questo il caso proprio de “Il Fu Mattia Pascal”, in cui Mattia suicida Adriano lasciando i suoi oggetti lungo un ponte tiberino. - Due sono i luoghi cardine delle opere pirandelliane, ossia la Sicilia, isola arida ed infuocata, coperta di zolfo e polvere, colta in una dimensione arcaica e folkloristica, quasi terra del mito e della superstizione, abitata dai contadini; e Roma, priva di monumenti e ritrovi mondani, senza sfarzo bizantino o politica, ma concepita come burocratica ed impiegatizia, teatro angusto, grigio ed asfissiante delle esistenze anonime e meschine nella modernità, abitata da piccoli borghesi. - Leonardo Sciascia ha detto che, per Pirandello, la sua Sicilia è una “Spoon River mediterranea”; la celebre “Antologia Di Spoon River” (1915) è una raccolta di poesie del poeta americano Edgar Lee Masters, in cui ogni lirica racconta, in forma di epitaffio funebre, la vita di una delle persone sepolte nel cimitero di Spoon River, in cima ad un colle, un piccolo paesino immaginario degli US. Pirandello e Masters nemmeno si conoscono, ma la vicinanza è chiara, poiché anche Masters prima libera i suoi personaggi con la morte (Pirandello li direbbe maschere nude), dopo li fa raccontar di sé. Uno dei luoghi chiave per Pirandello è allora il cimitero, sede della morte come pazzia che dà liberazione, presente soprattutto in collina, sulla cima di un colle, in una dimensione verticale insomma, dentro molte novelle, come “Prima notte”, dove una giovane coppia di sposini, nella prima notte di nozze, si reca al cimitero a compiangere ciascuno il rispettivo amore, morto e Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 35 sepolto, cioè il padre di lei e la prima moglie di lui, e come “La corona”, dove un vecchio dottore si sposa con una ragazza che ha la metà dei suoi anni, la quale è in realtà ancora innamorata di un giovane morto anni prima, sulla cui lapide sempre si reca. Ma si va oltre, perché Pirandello ed i suoi protagonisti divengono come i guardiani dell’aldilà, potendo lui creare personaggi, cioè evocare dei morti viventi, per poi farli uccidere: è un “figlio del Caos”, in riferimento alla contrada d’Agrigento da cui è nato, ma questa definizione è una citazione del “Faust” di Goethe (“des Chaos Sohn”), dunque Pirandello è anche il diavolo, è Mefistofele, è un negromante. Un altro luogo importante nelle novelle è l’uscita del paese, caratterizzata dal silenzio, dal mare o dalla campagna, in cui spesso i protagonisti si addentrano tramite un lungo viale, insomma un piano orizzontale, come in “La morta e la viva”, dove un uomo sposa una donna, ma questa è creduta dispersa, così ne sposa la sorella, ma presto la donna torna in famiglia, ed inizialmente tale prima moglie è ospitata in una cameretta in affitto al limitare del paese, o come in “L’uscita del vedovo”, dove il marito vive bloccato in casa in un matrimonio infelice che gli succhia tutta l’energia, e solo alla morte della moglie tenta di redimersi, ed, uscito di casa, arriva al limite del paese oltre un lungo vialone, ed incappa in un’avventura con una prostituta, o come in “Berecche e la guerra”, in cui lo stesso Berecche abita in una via buia ed isolata, in mezzo alla campagna, nel fondo del paese. Ma si va oltre, perché questo limitare, questo concetto di soglia, rappresenta la dialettica alternata al limite relativistico tra realtà ed apparenza, nonché al limite umoristico tra ridicolo e tragico. - Per Pirandello, la morte come liberazione coincide molto spesso, nei racconti ma anche nei romanzi (quando ne “I Vecchi E I Giovani”, muore Salvo, quando in “Uno, Nessuno E Centomila” muore Vitangelo, quando nella novella “Soffio” il protagonista si suicida, quando in “Di sera, un geranio” l’anima sta per dissolversi), con la visione di un paesaggio agreste ed idilliaco, con il recarsi verso la campagna, quasi fosse un back to origins, un ritorno alle origini, al suo paesino siciliano, quindi ad un ruolo al di fuori della forma, ancora caotico ed incontaminato, dunque autentico. - Nelle sue ultime volontà, Pirandello ha chiesto una morte silenziosa, senza notizia alcuna, e l’arsura del proprio cadavere colla dispersione delle ceneri: nessuno degli eredi avrà il coraggio di fare ciò, così si organizza un funerale e le polveri sono raccolte in un’urna. - In molte poesie giovanili, soprattutto quelle di “Zampogna”, Pirandello cita insistentemente la sua volontà di essere un albero, in quanto esso vive, ma non si sente, dunque sarebbe l’ideale doppio dell’autore, poiché privo della poetica umoristica e della prigione della forma. Infatti, nella novella “I due giganti”, sono descritti un pino ed un cipresso centenari, isolati verso il cielo, ai quali corrispondono i due giganti protagonisti della novella (che, velatamente, sono due innamorati, ossia Pirandello e la sua fidanzatina all’università di Bonn, tale Jenny), e che, formalmente, costituiscono la parola IO, cioè I (il pino, snello) ed O (il cipresso, bombato). Pirandello stesso è stato per tutta la vita molto affezionato ad un pino nella sua vecchia contrada del Caos ad Agrigento, e proprio lì di fianco, nella sua casa natia, è sepolto. Scribamates thinking good, feeling better! Pagina 36