leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it p I edizione: marzo 2010 © 2010 Arcana Edizioni Srl Via Isonzo 34, Roma Tutti i diritti riservati Cover: Laura Oliva La presente opera di saggistica è rivolta all’analisi e alla promozione di autori e opere di ingegno. Si avvale dell’articolo 70, 1° e 3° comma, del Codice Civile circa le utilizzazioni libere, nonché dell’articolo 10 della Convenzione di Berna. ISBN: 978-88-6231-181-6 www.arcanaedizioni.com Ferdinando Molteni Alfonso Amodio Controsole Fabrizio De André e CRÊUZA DE MÄ prefazione di Ezio Guaitamacchi arcana Indice Prefazione di Ezio Guaitamacchi 9 Introduzione 13 1. Genesi di un meraviglioso falso 2. Una musica creata dal nulla: Mauro Pagani e CRÊUZA DE MÄ 3. Il racconto della registrazione 17 23 29 4. Sette canzoni per un capolavoro Crêuza de mä Jamin-a Sidùn Sinàn Capudàn Pascià ’Â pittima ’Â duménega D’ä mê riva 35 35 36 37 38 39 40 5. Il viaggio del disco 6. Il tour del 1984 43 45 7. L’intervista ritrovata 8. La fortuna del disco 9. Un album, tante edizioni 10. CRÊUZA DE MÄ dopo CRÊUZA DE MÄ 11. CRÊUZA DE MÄ dopo De André 53 67 71 73 75 12. 2004 CRÊUZA DE MÄ. La possibile impresa di Mauro Pagani 77 13. Commenti e interviste Pepi Morgia, Come cantare in arabo Max Manfredi, Un’emozione climatica Patrizio Fariselli, Non conosco CRÊUZA DE MÄ Riccardo Tesi, Un disco meraviglioso Vincenzo Zitello, La riscrittura della tradizione Beppe Gambetta, CRÊUZA DE MÄ e la nostalgia di casa Patrick Vaillant, Il mandolino e il calamaio Eugenio Bennato, Un album rivoluzionario Teresa De Sio, Un disco pazzesco Danila Satragno,Voleva essere completamente libero 81 82 86 88 91 93 95 98 100 104 108 14. Un incanto che continua Note 113 115 Ti me perdunié u magùn ma te pensu cuntru su. Mi perdonerai il magone ma ti penso controsole. Fabrizio De André, D’ä mê riva Prefazione Il mistero di CRÊUZA DE MÄ Era nato come un disco “anti-americano”. E invece, ironia della sorte, proprio un americano ne decreta l’imperitura gloria. Accade agli inizi degli anni Novanta quando, alla rivista «Rolling Stone», David Byrne dichiara: “Se un Paese ha un artista capace di produrre un album come CRÊUZA DE MÄ può solo andarne fiero”. Non solo: la “testa pensante” delle Teste Parlanti decide di inserire il disco di Fabrizio De André tra i dieci migliori degli anni Ottanta. Da quel momento, per tutti (anche per quelli che lo avevano snobbato al momento dell’uscita o, peggio, pure per coloro che lo avevano superficialmente bollato come operazione intellettualoide e un filo noiosa), CRÊUZA DE MÄ diventa “il capolavoro di Fabrizio De André”, e come tale studiato da critici e sociologi, analizzato da storici e musicologi, smontato, rimontato, denudato e coverizzato. Ma, nonostante ciò, ancora oggi (a quasi trent’anni di distanza dalla pubblicazione) CRÊUZA resta uno dei misteri più gaudiosi 9 della musica del Novecento. Un mistero che continua a emanare lo stesso irresistibile fascino “esotico”, il medesimo inebriante profumo mediterraneo, l’uguale originalissima freschezza di allora. CRÊUZA DE MÄ, a tutti gli effetti, è una pietra miliare della world music. Dato che nella musica, come nell’arte, la primogenitura rappresenta un valore, allora è giusto ricordare che l’album esce un paio d’anni prima delle escursioni sudafricane di Paul Simon (GRACELAND), quasi un quinquennio in anticipo sulle avventure etno-discografiche di Peter Gabriel (Real World) e dello stesso David Byrne (LUAKA BOP) o che addirittura precede di un decennio le ubriacature roots di Sting, Cooder e Springsteen. Questo dimostrerebbe che De André, almeno in quella occasione, è stato avanti di un passo nei confronti delle menti più raffinate del pop rock di fine Millennio, quelle capaci cioè di trovare attraverso la contaminazione con musiche e culture “altre” l’ennesimo filone rivitalizzante per il vecchio rock’n’roll. Per queste e per molte altre ragioni ho pensato che il fortuito ritrovamento di un vecchio nastro negli archivi di Radio Savona Sound potesse essere il pretesto non tanto per svelare il mistero di CRÊUZA, quanto per riaccendere la luce su uno dei progetti musicali di cui noi italiani dovremmo andare fieri. Non ho mai avuto la fortuna di intervistare De André ai tempi di CRÊUZA, o semplicemente di parlarne con lui nelle varie occasioni informali in cui mi è capitato di incontrarlo. Ma ho avuto l’opportunità di condividere con Mauro Pagani un anno di programmi radiofonici. Nel nostro show (World Gate sulle onde di LifeGate Radio) è successo spessissimo di parlare della collaborazione artistica e dell’amicizia tra Mauro e Fabrizio nonché, ovviamente, della genesi di CRÊUZA DE MÄ . 10 Pagani mi ha raccontato più volte di quella famosa audiocassetta con cui ha presentato a De André il progetto: le stesse canzoni e la stessa scaletta che verranno poi mantenute da Fabrizio per la versione definitiva. Mi ha ricordato la sua passione (nata dalle frequentazioni con Demetrio Stratos) per le musiche balcaniche e nordafricane, i suoi studi sugli strumenti etnici, la sua cotta per il bouzouki e i ritmi dispari e tutto quel patrimonio etnomusicologico che ha portato alla nascita di CRÊUZA DE MÄ . Mi ha narrato tanti aneddoti straordinari del rapporto tra lui e Fabrizio, e di quel colpo di genio che l’artista di Pegli ha avuto nell’individuare quel linguaggio dialettale antico che ha dato il tono a tutto il lavoro. “Obliqua, aerea e imprendibile, eppure così tellurica. Turgida e disseccata al tempo stesso una lingua anomala: un azzardo poetico”: così l’ha definita su «Jam» Guido Festinese (altro ligure), un’autorità quando si parla di musica etnica in Italia. Una lingua e una musica capaci di incantare il mondo. “Non so quante cassette ho duplicato di CRÊUZA DE MÄ per fare felici i miei amici”, ha di recente ammesso proprio David Byrne. Sempre una piccola audiocassetta è il mezzo che nel 1985 consente a un regista tedesco – che qualche anno prima aveva dichiarato che “il rock gli aveva salvato la vita” – di scoprire il mistero di CRÊUZA: “Ero in America a girare un film”, racconta Wim Wenders a Roberta Scorranese sul «Corriere della Sera», “e mio fratello mi ha spedito questo nastro con un biglietto con su scritto: ‘Ascolta questa canzone’. Non sapevo nulla, a malapena avevo sentito il nome di Fabrizio De André. Mi ha colpito il fascino malinconico di quella lingua esotica e quella voce così toccante. Da allora mi sono iscritto alla setta: già, la congrega dei seguaci di Fabrizio, uno dei più grandi poeti e cantautori del XX secolo”. 11 Manco a dirlo, anche per Wenders, CRÊUZA DE MÄ è l’album preferito della discografica di De André. Se non lo è già anche per voi, credo proprio che lo diventerà dopo la lettura di questo libro. Ezio Guaitamacchi 12 Introduzione Ogni anno la chitarra di Fabrizio De André viene portata in processione come una Madonna Pellegrina. Ogni anno decine di musicisti mettono mano al suo repertorio e ne fanno quello che vogliono. Ogni anno vengono intitolate strade e scuole a De André. Ogni anno escono libri su De André. Trovare un motivo per farne uscire un altro non era facile. E infatti né noi né l’editore ci avevamo pensato. Poi, dai polverosi archivi di una storica radio libera sopravvissuta alla fine degli anni Settanta, alle tv commerciali, alla rivoluzione informatica, al digitale e al berlusconismo, ecco spuntare una musicassetta C60. Dentro, prima di un’intervista a Pino Daniele (la radio, ligure di Savona, le cassette le sfruttava all’infinito), ecco spuntare la voce baritonale, strascicata e un po’ brilla di Fabrizio De André. Una perla venuta dal passato, un palpitante documento di uno straordinario artista all’apice della sua vicenda creativa, un documento sfuggito al rastrello di quanti, in questi anni, hanno lavorato sul materiale inedito del genio genovese. 13 Lontanissimi dall’idea di farne qualcosa, se non, al più, regalarla all’archivio deandreiano della Fondazione amorevolmente diretta da Dori Ghezzi, l’abbiamo infilata in un riproduttore. Quello di noi due che l’aveva registrata, l’11 agosto 1984, nello spogliatoio del campo sportivo di Pietra Ligure dopo il primo concerto del De André di CRÊUZA DE MÄ sul suolo natìo, ricordava un Faber loquace e curiosamente interessato ai passaggi radiofonici. Poco altro. Dal riproduttore e da quella C60 ecco invece uscire la meraviglia di un De André spossato, orgoglioso, ciarliero, persino un po’ saccente. Un De André vero, appassionato, ingenuo, profondamente umano. Inedito, dunque, nei contenuti e nel tono. Quell’intervista doveva diventare un libro, ci siamo detti a quel punto. Doveva diventare il cuore di un viaggio dentro CRÊUZA DE MÄ, dentro al De André più grande, dentro i misteri e le soluzioni di un capolavoro che ancora oggi lascia senza fiato, per la sua bellezza e la sua profondità. Il libro ha preso forma grazie al contributo dei tanti che hanno lavorato a quel disco, che hanno collaborato con De André, che hanno trovato in quel lavoro sostentamento creativo, dignità, idee. Questo libro è dunque un corale omaggio all’arte di uno dei più significativi artisti italiani del Novecento. Alla sua intimità e alla sua opera maggiore. Fabrizio De André si è raccontato raramente nelle sue canzoni. Ha scritto di altri, ha espresso i suoi punti di vista, i suoi giudizi, la sua visione del mondo. Ma raramente ha raccontato di sé, non in senso strettamente autobiografico, ma intimo e introspettivo. Marinella Venegoni, in una bella intervista uscita su «La Stampa» qualche giorno dopo il concerto di Pietra Ligure e riproposta in questo libro, chiede a De André a quale canzone non rinuncerebbe nei suoi concerti. E lui risponde, non a caso, Amico fragile. Che è il viaggio nella sua intimità, ma è un viaggio ancora incompiuto. 14 Quella “biografia” aveva bisogno di un nuovo capitolo. Quel capitolo si trova alla fine di CRÊUZA DE MÄ e s’intitola D’ä mê riva . È una canzone che svela il De André maturo e finalmente sobrio (Amico fragile fu il prodotto di una sbornia solitaria e dolente), capace di fare i conti con sentimenti che avrebbe un tempo giudicato imbarazzanti, come la nostalgia di casa, l’amore per una moglie silenziosa e rinunciataria, per un baule pieno di piccole cose utili solo a cementare il rapporto con la patria e la famiglia (il mandolino, il calamaio). In quella canzone ci sono due versi che sintetizzano tutto il De André maturo e, per certi aspetti, crepuscolare: “Ti me perdunié u magùn / ma te pensu cuntru su”. Anche il duro marinaio, quello che appena girato la prora verso la nuova meta avrà subito una Jamin-a a cui pensare, è capace per un istante, quello del controsole, di provare una forma dolorosa e profonda di commozione. De André, con CRÊUZA DE MÄ, ci ha raccontato di sè più di quanto non abbia fatto con tutto il resto del suo meraviglioso lavoro. Abbagliato dal controsole dunque, e vittima di un inatteso e dolcissimo magone. Ferdinando Molteni Alfonso Amodio 15 1. Genesi di un meraviglioso falso CRÊUZA DE MÄ nasce da una voglia e da una stanchezza. La vo- glia di musica mediterranea da un lato, e dalla stanchezza della musica americana dall’altro. Così sintetizza lo stesso De André la genesi del progetto: “Ho voluto fare questo disco per molti motivi. Fondamentalmente, ne avevo fin sopra i capelli di sentir parlare di idioma mediterraneo. Sono almeno quindici anni che si utilizza il termine musica mediterranea, e io dico: ‘Ma dov’è questa musica mediterranea, voglio proprio ascoltarla!’. E allora ho voluto farlo io, questo disco. Ci ho messo cuore e impegno, e credo di aver dato una gran pedata a una porta chiusa da secoli sulla musica etnica… E poi una buona volta mi sono scrollato di dosso la musica americana. Ma sì, la fanno bene, e chi lo discute? Però sono sempre le stesse cose, chitarre elettrificate, sintetizzatori, tecnologie avanzate. Noi ci abbiamo impiegato mesi per mettere insieme gli strumenti, qualcuno lo abbiamo trovato sulle bancarelle, magari con una cassetta della frutta come cassa armonica”1. 17 I primi anni Ottanta sono, per il cantautore genovese, ricchi di soddisfazioni. De André esce caricato dai consensi dell’INDIANO del 1981 e della successiva tournée. Si rende conto che il linguaggio folk può arrivare facilmente ai giovani. Si convince che la strada giusta sia questa e prova a lavorare su un progetto in sardo, dedicato all’amata Gallura. Non ce la fa. Lingua e musica non vanno d’accordo. L’operazione si rivela ardita e improbabile. Ma da quella difficoltà ecco scattare la scintilla che porterà al capolavoro. “E così”, dice, “ho preso baracca e burattini e me ne sono tornato a Genova. Qui ho trascorso parecchio tempo sugli scogli in riva al mare, tra i pescatori del mercato del pesce, nel basso borgo del porto di Genova. Ho respirato l’aria della mia fanciullezza e ho ritrovato vecchi amici. E, come in Gallura, anche a Genova ho riscoperto il fascino della lingua, di una cultura fatta di mare e di donne, di marinai, di vino e prostitute, di storie da osteria”2. La marcia di avvicinamento a CRÊUZA DE MÄ è incominciata. Alla voglia e alla stanchezza di cui si diceva, s’aggiunge anche la nostalgia. Un sentimento solo in apparenza poco deandreiano. Lo confesserà più volte durante i concerti e nelle interviste. Nel corso dello spettacolo al Teatro Brancaccio di Roma del 1998 parlerà di nostalgia mobile (quella che riguarda l’individuo e la propria esperienza esistenziale) e immobile (quella che ricollega a un passato non vissuto, ma considerato comunque proprio). L’idea di fondo di CRÊUZA DE MÄ è dunque tutta intellettualistica, in larga parte elaborata a tavolino, eppure capace di conferire al disco una fragranza che sembra folk, senza in realtà averne i presupposti. De André spiegherà, molti anni dopo in modo illuminante e definitivo, la natura del progetto: “CRÊUZA è stato il miracolo di un incontro simultaneo fra un linguaggio musicale e una lingua letteraria, entrambi inventati. Prima di CRÊUZA mai il bouzouki era stato suonato in quel modo e mai il genovese aveva assunto così 18 evidenti connotati di lingua arabo-turco-ligure, fino alla storpiatura della stessa foné originale. CRÊUZA è il frutto della ricerca di un linguaggio musicale e letterario che è da ascriversi più al sogno che alla coscienza: un esperimento sincretistico tendente a inventare un linguaggio in cui si riconoscessero e si identificassero tutte le genti del Mediterraneo. Per questo è un disco fuori dal tempo e possono convivere nella stessa atemporalità episodi come ’Â duménega, che si svolge nella Genova di fine Ottocento, e Sidùn, in cui si parla della guerra arabo-israeliana di qualche anno fa”3. Il bouzouki, insieme allo shannaj di Mario Arcari, è il tratto distintivo del lavoro. Ma anche in questo caso, l’uso dello strumento di origine greca è “piegato” alle esigenze armoniche e melodiche occidentali. Avverte Mauro Pagani: “Il bouzuki è accordato come le quattro corde più alte della chitarra, ma un tono sotto. Quindi, partendo dal cantino, è re, la, fa, do. Io invece tendo a usare due accordature: una completamente modale (partendo dall’alto è re, la, re, la: quindi, tonica, dominante, tonica, dominante), di cui le due corde più alte suonano all’unisono, e le corde più basse suonano all’ottava l’una con l’altra. L’altra accordatura è re, la, re, sol al basso, che è più interessante, perché praticamente ha due mondi tonali sovrapposti… in realtà, molta della musica etnica si suona in quella tonalità. Se vuoi cambiare tonalità, riaccordi lo strumento. Usando questo strumento, accordato in questo modo, si è potuto ottenere il passo, la pennata, le armonie, il suono, le corde simpatiche, queste cose qui… però accordato alla occidentale. Così abbiamo potuto mettere le tastiere sopra, eccetera. Poi, è ovvio che tutti gli altri strumenti, ad esempio l’oud, non avendo tasti, si possono adattare”4. Alla reinvenzione musicale ne corrisponde una linguistica. Del resto, il rapporto con il dialetto è, per De André, complicato. Il genovese non è, come accade per tanti suoi colleghi, la lingua madre, ma una lingua acquisita. Spiega l’artista: “Il genovese non l’ho im19 parato in casa, ma con gli amici di via Piave, via Nizza e via Trento. In casa mia non si parlava dialetto, perché i miei erano di origine piemontese”5. Del resto, De André non ha in animo di realizzare un disco di musica popolare. Spiega: “Il mio non voleva essere, e non è, un prodotto folcloristico. È un tentativo di dar corpo a un diverso rapporto tra suono e parola, e credo modestamente d’esserci riuscito. Tra l’altro si noterà che ho usato sovente tonalità differenti dalle mie consuete. Ho trovato molta difficoltà nel farlo, ma anche tanta gioia. Mi piacerebbe che CRÊUZA fosse il veicolo per far penetrare nelle orecchie dei genovesi (e non solo nelle loro) suoni etnici che appartengono alla loro cultura”6. L’artista è tuttavia consapevole del rischio che la sua opera, così complessa, venga assimilata ad altre della tradizione genovese che le sono invece assai distanti. Non è un caso che De André critichi in modo pesante tutta la canzone dialettale ligure: “La canzone genovese commerciale, quella di Ma se ghe pensu7 o di Cheullia8, è una faccenda molto spuria: valzer, tanghi, mazurke. Tutte cose estranee alla nostra tradizione, come se Genova fosse un sobborgo di Buenos Aires o di Vienna. Per tanti cantanti dialettali il modello non è la cultura di casa, piuttosto sembrerebbero rifarsi a Luciano Tajoli o Claudio Villa. Ma non c’è niente di meno ligure di quei falsetti, quel lagno, quegli emigranti che rimpiangono la Lanterna e intanto hanno fatto i soldi in America: perché non tornano, dico”9. Molto si è detto e scritto sulle fonti di CRÊUZA DE MÄ. È un album che viene da lontano, ma non troppo. I precedenti si possono ravvisare in una manciata di dischi usciti negli anni Settanta e, anche se in minima parte, nella stessa produzione di De André. Fondamentale tappa d’avvicinamento al capolavoro è, senza dubbio, la prima canzone da lui scritta non in italiano: Zirichiltaggia contenuta nel disco RIMINI del 1978. Così Massimo Bubola racconta la genesi della canzone: “È una storia vera. C’era un vicino, 20 un amico di Fabrizio, che aveva un fratello con cui aveva avuto un problema di eredità. Non si rivolgevano più la parola. Ci ispirammo a quella vicenda, anche riprendendo certe strutture antiche, come quella dell’alterco sardo, in cui i poeti si confrontano facendo delle rime uno contro l’altro, dicendosi spesso, come nel nostro caso, cose pesanti. Un omaggio alla Sardegna, alla Gallura, la terra tanto amata che ci accoglieva. Un pezzo folk, pescato in un mondo musicale vicino a Volta la carta, con una struttura da giga, sempre proveniente dall’area celtica, che è la base di tanta musica popolare italiana, specialmente la musica del Centro-Sud”10. Musica folk rivisitata e parole “pesanti”, dunque. Esattamente gli ingredienti di CRÊUZA DE MÄ. Tuttavia, dal punto di vista strettamente musicale, le intuizioni sono tutte di Mauro Pagani. Spiega il musicista: “Io avevo già pubblicato il mio album ‘solo’ e con la colonna sonora del Sogno11 stavo cominciando a inserire elementi nuovi, che ancora non si chiamavano world ma insomma, tiravano da quelle parti – liuti arabi, percussioni africane. Fabrizio era curioso, gli piaceva quell’idea del Mediterraneo nostro per farla finita con l’America degli altri12. In effetti tra le fonti primarie di CRÊUZA DE MÄ va annoverato il disco uscito nel 1978 e intitolato semplicemente MAURO PAGANI. In quell’album suonano, tra gli altri, Mario Arcari all’oboe e il chitarrista della Pfm Franco Mussida, che ritroveremo sei anni dopo nel disco di De André. Insieme a loro ci sono gli Area con, in testa, Demetrio Stratos, due percussionisti del Canzoniere del Lazio (Giorgio Vivaldi e Pasquale Minieri) oltre a Teresa de Sio, cantante e autrice delle parole di Argiento. Pagani, nel disco, suona violino, viola, mandolino, flauto di canna e, soprattutto, il bouzouki, lo strumento che tanta importanza avrà nel suono complessivo di CRÊUZA DE MÄ. Echi di quanto accadrà nel 1984 si rintracciano facilmente nella bellissima Argiento, non a caso giocata sul dialogo tra bouzouki e voce, ma anche nei mandolini de La città 21 aromatica e negli intrecci di strumenti a pizzico de Il blu comincia davvero scritta con il chitarrista Luca Balbo. Ma a sua volta, come acutamente osserverà più avanti nel libro Walter Calloni, il lavoro di Mauro Pagani deve non poco alla sensibilità etnica degli Area. È sufficiente ascoltare la parte introduttiva di Luglio, agosto, settembre (nero), prima canzone del loro album di debutto ARBEIT MACHT FREI del 1973, per cogliere le assonanze con il suono della gajda macedone13 che apre la canzone Crêuza de mä. Un altro precedente di CRÊUZA DE MÄ va tuttavia rintracciato, come abbiamo visto, nella colonna sonora composta ancora da Pagani, nel 1981, per lo spettacolo Sogno di una notte d’estate di Gabriele Salvatores cui seguirà, nel 1983, un omonimo film con relativa colonna sonora. Nel primo disco ci sono altri due musicisti che lavoreanno nel capolavoro di De André: il bassista Dino D’Autorio e il percussionista Maurizio Preti. Pagani suona numerosi strumenti, tra cui il bouzouki e il mandolino elettrico. Singolari e assai poco conosciuti, infine, i primi passi di De André, anche se in veste di autore delle musiche, nel mondo della canzone dialettale. Il primo vero contatto con la canzone in genovese avviene nel 1972 quando scrive le musiche di due pezzi del cantante folk Piero Parodi pubblicate nell’album PIERO PARODI CANTA ZENA. Si tratta de A famiggia di Lippe, su testo di Piero Campodonico, e La ballata triste (A cançon do Balilla), su testo di Vito Elio Petrucci. 22