FULVIO IRACE Politecnico di Milano METROPOLIS * “Alla scultura ormai non resta come futuro che il campo urbano e sociale, e la misura e i modi che ne conseguono”. Francesco Somaini In un appunto senza data (ma certamente scritto attorno al 1974) custodito, insieme a tanti altri fogli di disegni e di pensieri, tra le carte d’archivio, Francesco Somaini abbozzava una stringata autobiografia, assai prossima però, per modi e contenuti, al messaggio di un possibile manifesto. “Dal 1970 – annotava – con disegni e scritti ed un libro con Enrico Crispolti ‘Urgenza nella città’ […] credo di aver messo a fuoco, oltre che una critica, la tipologia di una progettazione plastica urbana con un arco che va dall’intervento preesecutivo sino all’immagine contestatoria. Dal 1974 ho scelto come medium espressivo a questo fine il fotomontaggio.” L’annotazione contiene insieme un consuntivo e un programma: “il contenuto di un messaggio urbano e le sue implicazioni sociali postulano uno specifico di più vasta risonanza, atto ad incontri su una scala più ampia di quelli forniti dai circuiti privilegiati tradizionali dell’arte”. I primi anni settanta sono per Somaini densi di riflessioni, testimoniate da fitti e numerosi appunti manoscritti in cui egli riversa, con la foga di annotazioni subitanee, pensieri, studi e propositi da far poi confluire in una più pacata e argomentata redazione: se non scientifica, certamente icastica e definitiva. Un manifesto in fieri, insomma, in bilico sul confine labile che in quel decennio turbinoso metteva in discussione la separatezza delle discipline, avocando più stretta cooperazione tra scultura, architettura, paesaggio. Non è la sua una posizione isolata, giacché per tutto il decennio precedente crisi dell’arte e crisi della città erano state il sottofondo comune al generale stato di insoddisfazione e malessere che aveva alimentato l’insorgere inaspettato e virulento del pensiero utopico e della ricerca di possibili vie d’uscita. A partire dall’“anarchitettura” con cui Gordon Matta-Clark commentava fallimenti e disastri dell’architettura richiamando i diritti dell’anarchia, negli anni della land art e dei movimenti “radical” si configurano infatti nuovi format professionali: e se gli architetti si imparentano e si ibridano con gli artisti accogliendoli nelle loro fila o cooptandone le modalità operative, non sorprende che gli artisti escano dal guscio delle gallerie con l’ambizione di misurarsi con l’ambiente. Alla crisi della scultura come oggetto chiuso in sé corrisponde quasi simmetricamente quella dell’architettura come professione al servizio delle tecniche. Entrambe sentono di dover oltrepassare un limite, di dover intraprendere un viaggio di riscoperta che ridia una prospettiva e un senso a posizioni e attività sclerotizzate. Primo e comune punto di partenza è la critica alla città moderna e l’insoddisfazione verso quello stile internazionale che ha disseccato l’utopia delle avanguardie del primo Novecento nella formulazione burocratica di una tecnologia al servizio del capitale. Si tratta di un’onda lunga, avviata dalla messa in mora dell’idea di “modernità classica” e perseguita poi dal movimento discontinuo ma incalzante di messa a punto di nuovi strumenti, di nuove prospettive per superare d’abbrivio un’impasse più che storica, epocale. La soluzione non poteva essere trovata entro le istituzioni; andava sollecitata nell’ambiente urbano, perché la prova più evidente del fallimento erano proprio le distorsioni della metropoli, che in America Jane Jacobs aveva evidenziato con grande successo nel suo capolavoro del 1961, Vita e morte delle grandi città. Sostenitrice di una radicale revisione del modello di sviluppo urbanistico delle città moderne incentrate sulla scala del traffico e dunque ostili alle manifestazioni della vita di relazione, Jacobs non a caso è uno degli autori su cui maggiormente si accentra l’attenzione di Somaini, che tuttavia annota ai margini dell’edizione italiana del 1969: “giusto, ma troppo intimistico”. Come vedremo, infatti, per Somaini la disumanizzazione della metropoli contemporanea non può essere combattuta con il rifiuto della grande città. Al contrario, accettandone come irreversibile e insopprimibile la “forza attrattiva”, bisogna imparare a canalizzarne la potenza deviandola nella “forza d’urto” di una nuova tensione estetica. Non si tratta nel suo caso di posizioni improvvisate, ma anzi di scelte conseguenti un impegno silenzioso e ostinato di sistematica ricognizione nella vasta letteratura scientifica nell’ambito soprattutto della sociologia e dell’antropologia urbana che l’industria editoriale in quegli anni mette a disposizione del lettore italiano: la lista è lunga, ma tutt’altro che casuale, e la frequentazione della biblioteca dello scultore riserva a studiosi e ricercatori molte sorprese. Punto di partenza – e testo di riferimento per l’intensa frequentazione – è La città nella storia di Lewis Mumford (di cui l’artista possiede l’edizione del 1967); ma la lista si allunga a comprendere, tra altri, Henri Lefebrve (Il diritto alla città, 1970), Alexander Mitscherlich (Il feticcio urbano), Michel Ragon (La cité de l’an 2000, 1968), Aldo Rossi (L’architettura della città, 1970), Carlo Aymonino (Origini e sviluppo della città moderna, 1965), Jane Jacobs (Vita e morte delle grandi città, 1969), Clarence S. Stein (Verso nuove città per l’America, 1969), Willy Hellpach (L’uomo della metropoli, 1960), oltre a due classici d’inizio secolo: Città in evoluzione di Patrick Geddes, nella traduzione italiana del 1970 per Il Saggiatore, e La città lineare di Arturo Soria y Mata, pubblicato in traduzione italiana dalla stessa casa editrice nel 1968. La sua sembra più la biblioteca di un architetto impegnato che quella di un artista: non a caso Somaini stesso si definisce “operatore estetico, scultore, compagno di via dell’architetto”. Le sue letture sono avide e metodiche e, soprattutto, tutt’altro che estemporanee: inseguono con precisione una linea a cavallo tra urbanistica, storia, psicologia ambientale, antropologia e sociologia. Somaini è lettore vorace ma selettivo: le pagine dei testi della sua biblioteca sono intarsiate di sottolineature che mirano a isolare nel flusso del ragionamento punti chiave da trasformare in punti d’azione: impressionante l’intensità con cui chiosa pagine e passaggi con riflessioni e commenti attinenti alla sua specificità. Sulle pagine di Una città più umana di Hans Paul Bahrdt (nell’edizione De Donato, 1960) annota: “non critica al concetto della grande città come operato dalla critica conservatrice ma da un lato affermazione della necessarietà e ineluttabilità della grande città e dall’altro percezione e figurazione della sua tragicità immanente di oggi”. Legge con partecipe attenzione Teorie e storia dell’architettura, il rovente saggio in cui Manfredo Tafuri faceva tabula rasa delle grandi narrazioni di cui si alimentava ancora il mito salvifico delle avanguardie, trovando nelle sue tesi radicali un supporto alla convinzione per cui “un frammento architettonico ha la capacità di investire di nuovi significati un insieme precostituito”. La tesi critica, cioè, viene assimilata e riportata alla sua urgenza di incisione sulla realtà urbana attraverso la particolare espressione della sua arte. Si rinsalda così la ricerca di una scultura “scioccante” – capace cioè di entrare in rotta di collisione con l’inospitalità della metropoli – ma anche il suo deciso rifiuto di soluzioni troppo facili, come gli appaiono – negli anni della loro massima declinazione – i tentativi delle neoavanguardie. Si tratta di un punto fondamentale, perché la cultura di quella che Tafuri aveva ironicamente definito “internazionale delle utopie” era allora al suo apogeo, consacrata dalla pervasiva circolazione di nuove immagini di città che promettevano una via d’uscita dall’apocalisse urbana nei paradisi artificiali di metropoli sospese, di armonie riconquistate e ricomposte nel vuoto antropizzato, dagli oceani ai deserti, addirittura galleggianti come nuvole tecnologiche nell’aria. Appare dunque netto il suo rifiuto di quell’utopismo di maniera (particolarmente feroci gli strali contro l’Arcology di Soleri) e ancora più lucida l’equiparazione di quei mondi perfetti alle gated community americane, risultato di una privatizzazione dello spazio sociale sottoposto a ferreo controllo centrale. “Oggi […] non è lecito avere sogni non possibili. L’utopia astratta fatta di avvenirismo puro porta in sé un troppo largo margine di errore ed è un rischio che non si può correre.”1 Contro quest’utopismo sterile, si dichiara a favore di “una concentrazione dell’analisi su limitati insiemi settoriali, individuati però fra gangli vitali della struttura urbana”. Coerentemente, dalla lettura di L’architettura della città di Aldo Rossi (di cui possiede l’edizione del 1970) è spinto a riflettere sulla necessità di individuare i “luoghi primari” su cui far convergere le sue azioni. Milano, 12 gennaio 2017 * Estratto dal testo in catalogo Skira