Schede degli esperimenti LA DISPERSIONE DELLA LUCE DESCRZIONE DELL'APPARATO SPERIMENTALE Materiale - lampada per proiezioni - prisma su piattaforma girevole - fotodiodo scorrevole lungo una scala graduata - Display per la lettura della sua uscita L'apparato sperimentale è in fase di ristrutturazione, sarà compattato in modo da renderlo più idoneo alla mostra, ma i suoi componenti principali sono quelli in figura. Il fotodiodo scorre lungo l’asta graduata dietro l’apposita fessura Il segnale emesso dal fotodiodo viene elaborato e inviato su un display Questo esperimento si inserisce al termine del percorso storico sulla comprensione del meccanismo della visione e apre il tema dei colori e della natura della luce. Dopo l'opera di Keplero il meccanismo della visione sembra definitivamente chiarito: KEPLERO: 1. Da ogni punto dell’oggetto partono raggi di luce in ogni direzione (diffusione) 2. La luce viaggia con velocità infinita disponendosi su superfici sferiche (fronti d’onda?) in cui i raggi sono analoghi alle traiettorie dei corpi in movimento. (sono le sfere e non i raggi ad avere coesistenza fisica) 3. La luce non ha colore che viene acquisito nella riflessione sui corpi colorati 4. L’immagine si forma capovolta sulla retina, ma la psiche ha facoltà di interpretarla correttamente. La pupilla ha la funzione di modificare il cristallino per consentire la messa a fuoco dell’immagine sulla retina. 5. In conclusione ogni punto del corpo emette raggi in ogni direzione, questi vengono a colpire l’occhio che forma la base del cono incidente e quindi individua la distanza del punto oggetto; i raggi vengono rifratti focalizzati sulla retina. Rimane in evidenza una questione: Il colore è una proprietà dei corpi (come affermava Keplero) o della luce? L'esperimento consiste nella semplice osservazione dello spettro della luce bianca emessa dalla lampada e dispersa dal prisma. Si richiama l'interpretazione data da Newton a questo fenomeno, descritta nel relativo cartellone che, per comodità riportiamo qui di seguito: Tra il 1665 e il 1666 Newton realizzò una serie di esperimenti che modificarono profondamente le concezioni relative alla natura della luce e dei colori. La luce, infatti, secondo le concezioni che si erano affermate dai tempi di Aristotele fino a Cartesio, era per sua natura “bianca”; i colori comparivano come modificazioni accidentali indotte dagli oggetti che essa colpiva o attraversava. Newton selezionò un piccolo fascio di luce solare attraverso foro circolare praticato nella finestra del suo studio completamente oscurato. Pose un prisma sul suo percorso, orientandolo in modo tale che l'immagine venisse proiettata su uno schermo posto a diversi metri di distanza. Sullo schermo apparvero nitidamente i colori dell'arcobaleno, in una striscia non circolare ma di forma allungata: lo spettro della luce bianca. Per dimostrare che il colore non era una modificazione accidentale della luce indotta dal prisma, selezionò uno dei raggi colorati, lo fece passare attraverso un secondo prisma ed osservò che il suo colore rimaneva sempre inalterato. Organizzò infine l'esperimento cruciale; facendo passare il raggio scomposto dal prisma attraverso una lente convergente rigenerò il fascio di luce bianca. Dai suoi esperimenti Newton dedusse che la luce non era una sostanza elementare “intrinsecamente bianca”, ma una miscela eterogenea di “raggi di diverso colore”, che lo spettro appariva di forma allungata perché i raggi sono rifratti in modo diverso a seconda del colore, in quanto presentano indici di rifrazione differenti. Per primo si accorse che differenti distribuzioni spettrali sono indistinguibili per l'occhio umano, aprendo la strada alla moderna concezione secondo la quale ad ogni “colore percepito” corrisponde un'intera classe di distribuzioni spettrali. Queste idee di Newton trovarono un formulazione rigorosa nei secoli successivi grazie ai lavori di illustri fisici e matematici (Grossman, Rieman, Helmotz...) Per descrivere i fenomeni osservati, dopo alcuni ripensamenti, Newton adottò il modello corpuscolare; secondo la sua concezione, la luce bianca era composta da una miscela di particelle differenti (una per ogni colore). La teoria newtoniana della luce e dei colori suscitò un ampio dibattito, soprattutto nel confronto con la teoria ondulatoria sostenuta da Huygens. DIFFRAZIONE DA UNA FENDITURA O DA UN OSTACOLO ONDE MECCANICHE (ESPERIENZA CON L'ONDOSCOPIO) Se il colore è nella luce ogni modello della radiazione (ondulatorio o corpuscolare) dovrà renderne conto. In questo esperimento si analizza una fenomeno caratteristico del modello ondulatorio: la diffrazione attraverso una fenditura. Si può partire dal confronto fra il suono e la luce. Se una persona parla in una stanza chiusa e insonorizzata ovviamente dall'esterno non si sente e non si vede nulla. Se si pratica un foro nella parete e nella stanza una persona parla, per vederla bisogna mettere l'occhio esattamente nella direzione individuata dalla persona e dal foro, invece per ascoltare la sua voce ciò non è necessario. Se ne deduce che, all'apparenza, il suono, che è un'onda, passando attraverso un foro si allarga in tutte le direzioni (diffrazione da una fenditura), mentre la luce non lo fa. La stessa cosa succede se si incontra un ostacolo: il suono aggira gli ostacoli, mentre la luce no. Questa semplice osservazione convinse Newton e la maggior parte dei suoi contemporanei e respingere il modello ondulatorio per descrivere la natura della luce, optando per il modello corpuscolare. Huyghens invece rimase un convinto assertore del modello ondulatorio. Egli descrive dapprima la complessità dell’orlo dell’ombra di un piccolo ostacolo, come un capello, un ago, proiettata su una schermo bianco mediante un sottile pennello di raggi solari entranti da un forellino praticato in una imposta:l’ombra non è nettamente delimitata per quanto sottile sia il foro, ma dimostra che la radiazione luminosa invade la parte che avrebbe dovuto essere oscura e vi si distribuisce in series, cioè in filetti chiari e scuri che oggi si dicono frange. Osserva inoltre Huyghens che anche le onde meccaniche evidenziano il fenomeno della diffrazione solo se il foro è dello stesso ordine di grandezza della lunghezza d'onda. Con fori molto più grandi il fenomeno svanisce. Ipotizza quindi che la luce sia un'onda la cui lunghezza d'onda è molto piccola per cui il fenomeno della diffrazione si evidenzia solo se il foro o l'ostacolo sono di dimensioni ridottissime. Questo esperimento consente di verificare la diffrazione delle onde meccaniche. Tramite un ondoscopio, simile a quello in figura, si genera un'onda piana che successivamente attraversa un piccolo foro (oppure incontra un ostacolo). Si osserva che dal foro (o dall'ostacolo) emerge un'onda sferica che si propaga in tutte le direzioni. DIFFRAZIONE DELLA LUCE DA UNA FENDITURA VARIABILE E/O DA UN CAPELLO La luce emessa da un laser viene inviata su una fenditura variabile e l'immagine raccolta su uno schermo. Regolando la fenditura si osservano delle frange di interferenza con un massimo centrale più largo ed intenso e massimi secondari più stretti e di debole intensità. Man mano che la fenditura si riduce di dimensioni le frange diventano sempre più larghe e deboli, il massimo centrale tende ad occupare quasi tutto lo spazio (fenditura quasi puntiforme) ed i massimi secondari non sono più percepibili. Si può quindi pensare ad un'onda sferica emergente dal foro, in analogia con quanto osservato mediante l'ondoscopio. Al posto della fenditura può essere anche posizionato un capello ed osservare le analoghe frange di interferenza. A questo punto ci si pone la domanda: nel modello ondulatorio, quale grandezza fisica è legata alla nostra percezione del colore? Come abbiamo già osservato, a parità di dimensioni della fenditura, il fenomeno della diffrazione sarà più evidente tanto maggiore è la lunghezza d'onda. Si può verificare che, utilizzando luci monocromatiche generate da laser di diverso colore, il fenomeno della diffrazione è differente, ha maggior ampiezza con un laser rosso e minor ampiezza con uno verde. Se ne deduce che la luce del laser rosso ha una lunghezza d'onda maggiore rispetto a quella del verde. Conclusioni: Nel modello ondulatorio luci monocromatiche con diversa lunghezza d'onda vengono percepite dall'occhio come luci di diverso colore. LUCE ED ENERGIA LO SPETTRO DELLA LUCE BIANCA EMESSA DA UNA LAMPADA AD INCANDESCENZA Per questo esperimento si ritorna al tavolo della “dispersione della luce” e si utilizza lo stesso apparato sperimentale. Si ritorna a guardare lo spettro della luce emessa dalla lampada per osservare che i vari colori hanno una diversa intensità. Ci si chiede quindi come sia distribuita l'energia del fascio sulle varie lunghezze d'onda. Si parte da una domanda: “Qual'è, secondo voi, il colore più luminoso?”. Si invita a rispondere scegliendo sulla scala graduata il valore ritenuto ottimale. Si procede poi alla verifica sperimentale spostando il fotodiodo lungo la scala graduata e leggendo sul diplay i risultati delle misure. Si consiglia di fare 3 o 4 misure: una nel violetto, una nel verde e l'altra nel rosso. Se si ha tempo, spostando il fotodiodo con continuità si può individuare il massimo dell'intensità. Inoltre può essere interessante spostare il fotodiodo nella zona dell'infrarosso, dove la radiazione è intensa benché non visibile e richiamare gli esperimenti di Herscel che hanno condotto alla scoperta dei raggi infrarossi. Conclusioni: • L'energia non è distribuita uniformemente sulle varie lunghezze d'onda ma l'intensità della radiazione in funzione della lunghezza d'onda è rappresentata da una curva a campana con un massimo ( corpo nero) • Il massimo della curva dipende dalla temperatura dell'oggetto incandescente. Aumentando la temperatura aumenta la frequenza ( diminuisce la lunghezza d'onda) della radiazione di massima intensità. Nel caso della lampadina il massimo è nel primo infrarosso, mentre ad es. per il sole il massimo è nel verde. • L'intensità da noi soggettivamente percepita non coincide con quella oggettiva misurata con il fotodiodo, perché il nostro occhio si è evoluto adattandosi alla radiazione solare, quindi è più sensibile a certe lunghezze d'onda che ad altre. Alcune Premesse 1) La dispersione della luce Fin dal Seicento Newton aveva mostrato come scomporre la luce nei suoi colori dal rosso al violetto disperdendoli mediante un prisma per ottenere uno spettro (“spectrum” significa appunto “dispersione”; nello spettro visibile il rosso è il colore meno deviato rispetto alla direzione della radiazione incidente e il violetto è il più deviato); ciò era importante perché dimostrava che il colore è una proprietà della luce e non degli oggetti che appaiono diversamente “colorati”; oggi noi sappiamo che tale proprietà è legata ad una grandezza caratteristica detta “lunghezza d’onda” (λ ), che venne misurata per la prima volta all’inizio dell’Ottocento da Young; violetto λ (nm) → ↓ 380 blu verde giallo arancio rosso ↓ ↓ 550 780 2) Il prisma e la separazione dei colori dello spettro Il prisma, messo sul cammino di un raggio, lo fa deviare dalla direzione iniziale a causa dell’interazione fra il raggio e il materiale trasparente di cui è formato il prisma. L’angolo di deviazione dipende dalla direzione del raggio incidente e da un numero caratteristico del materiale detto indice di rifrazione n. A sua volta n dipende dal “colore”, cioè dalla lunghezza d’onda, con variazioni che sono piccolissime: ad esempio fra il verde­giallo, λ ≈ 500 nm, e il rosso scuro λ ≈ 700 nm n diminuisce di circa lo 0,3%. Poiché l’angolo di deviazione cresce al crescere di n, il violetto è più deviato del blu, e questo è deviato più del verde, ecc., per cui i diversi colori si separano. Per valutare la separazione, abbiamo predisposto sullo schermo un righello che parte dal viola e va verso il rosso (asse y). La posizione in y serve tuttavia solo direzione del infrarosso per aiutare l’identificazione del colore, ma non è legata in modo semplice alla raggio incidente lunghezza d’onda, come si può vedere direttamente dallo spettro (ad esempio la separazione sullo schermo fra il verde­giallo e il rosso è molto minore della separazione fra il verde­giallo e il violetto, anche se le differenze fra lunghezze prisma d’onda sono circa 200 nm per entrambi i casi). angolo di deviazione rosso ultravioletto violetto 3) La radiazione IR (Infra Rossa) è una componente della radiazione elettromagnetica (come la radiazione emessa dal sole o da una lampada o da una fiamma o da un qualunque corpo); nello spettro della radiazione solare, quale si osserva in un arcobaleno oppure si ottiene con un prisma, appare “al di sotto” (infra) del colore rosso (cioè meno deviata del rosso rispetto alla direzione della radiazione incidente). Non è visibile: il nostro occhio infatti percepisce solo i colori che nello spettro stanno fra il rosso e il violetto; Ciò che differenzia la radiazione IR dalla radiazione visibile è l’energia portata dal singolo quanto di radiazione. Nel 1905 Einstein, interpretando i dati di un famoso esperimento (l’effetto fotoelettrico) dimostrò che la radiazione trasporta energia in singoli “quanti”, cioè in quantità discrete; il valore del quanto di energia è molto piccolo e dipende dalla “lunghezza d’onda”, cioè dal “colore” della radiazione (per un quanto IR è minore di 2,9⋅ 10­19J, mentre per un “fotone”, cioè un quanto di radiazione visibile, l’energia varia da circa 2,9⋅ 10­19J per il rosso a circa 6⋅ 10­19J per il violetto). La luce visibile ha lunghezze d’onda che vanno da circa 380 nm (1 nm=10­9m) per il violetto a circa 780 nm per il rosso scuro; il verde che sfuma verso il giallo ha lunghezza d’onda di circa 550 nm; la radiazione IR fu scoperta nel 1800 da Herschel in modo casuale: egli cercava di controllare, usando termometri con il bulbo annerito, se i diversi colori “scaldassero” tutti nello stesso modo e si accorse che giunge della radiazione che porta energia anche al di là del rosso (di qui il nome “infra­rosso”) ponendo un prisma sul cammino di un pennello di fascio di raggi solari per farli deviare; i raggi infrarossi sono anzi “più caldi” degli altri, cioè fanno salire più rapidamente la temperatura del termometro. 4) Che cosa è un “fotodiodo” e come funziona Il fotodiodo è un rivelatore di radiazione in grado di trasformare l’energia portata dalla radiazione in energia elettrica, in particolare di dare una corrente elettrica di intensità proporzionale all’intensità della radiazione incidente in modo circa indipendente dalla lunghezza d’onda, almeno nella banda che a noi interessa, fra l’IR e l’UV.Come funziona: un diodo è formato dalla giunzione di due semiconduttori “drogati” in modo diverso. Da un lato della giunzione c’è un semiconduttore “drogato n”, che è ricco di elettroni che possono muoversi e generare una corrente elettrica; questi elettroni tuttavia non possono passare dal lato “p” della giunzione perché non hanno sufficiente energia. Quando arriva la radiazione, l’energia portata dal singolo quanto di radiazione, se viene ceduta a un elettrone, lo mette in grado di passare al lato p e di circolare poi liberamente. L’intensità della corrente I è proporzionale al numero di elettroni messi in circolo e quindi all’intensità della radiazione incidente. n p I 5) Le leggi di Kirkoff e lo “spettro di corpo nero” Durante tutta la prima metà dell’Ottocento gli “spettroscopisti” lavorarono a classificare e riconoscere tutti gli “spettri” di colore emessi e assorbiti dalle diverse sostanze, chiarendo così il ruolo che hanno i diversi modi di interazione fra la radiazione e la materia nel determinare il colore della luce; Un corpo può emettere radiazione (sorgente di radiazione) trasformando in energia radiante altre forme di energia (ad es. in una lampadina accesa si trasforma energia elettrica in energia radiante, attraverso diverse trasformazioni intermedie), oppure può assorbire in tutto o in parte la radiazione; se l’assorbimento è parziale, la radiazione non assorbita può essere trasmessa (corpi trasparenti) oppure diffusa, eventualmente in modo speculare (riflessione speculare). L’intensità della radiazione emessa o assorbita o diffusa alle diverse lunghezze d’onda (cioè ai diversi colori) dipende principalmente dalla temperatura: aumentando la temperatura aumenta l’emissione alle piccole lunghezze d’onda (lo spettro si sposta verso il violetto); per una buona emissione nel visibile occorrono temperature di migliaia di gradi (la temperatura della superficie del Sole è stimata essere intorno a 6500 K); a temperature inferiori, l’emissione nel visibile non è apprezzabile, mentre rimane importante quella nell’IR. A parità di temperatura, l’intensità della radiazione emessa, assorbita o diffusa alle diverse lunghezze d’onda (cioè ai diversi colori) dipende dal corpo: ad esempio un oggetto “rosso” diffonde prevalentemente alle lunghezze d’onda del rosso e assorbe gli altri colori, un oggetto “bianco” diffonde in modo circa uguale tutti i colori, un oggetto “nero” li assorbe tutti. Kirkoff, intorno alla metà dell’Ottocento, raccolse le leggi principali della spettroscopia nell’enunciato secondo il quale “un corpo assorbe la radiazione nello stesso modo con cui la emette”: una superficie che assorbe molto la radiazione, come una superficie nera, tende anche ad emettere molto; si ha uno “spettro di corpo nero” quando la superficie del corpo emette e assorbe in modo uniforme a tutte le lunghezze d’onda, come appunto fa un oggetto nero ideale, e quindi l’intensità della radiazione alle diverse lunghezze d’onda dipende unicamente dalla temperatura; E' possibile calcolare teoricamente lo spettro di copro nero partendo da principi primi statistici: la formula teorica corretta fu derivata da Planck nel 1901, postulando l’esistenza di una nuova costante naturale, il quanto di azione h, e proprio da questa formula iniziò la lunga storia della meccanica quantistica Lo “spettro di corpo nero” teorico per diverse temperature della sorgente intensità (unità arbitrarie) 250 UV visibile infrarosso 6000 K 200 3000 K 1000 K 150 100 50 0 0 400 800 1200 1600 2000 2400 2800 3200 3600 4000 lunghezza d'onda (nm) Formula di Planck E λ = C λ e 5 hc/ λkT −1 dove: E(λ ) = densità di energia alla lunghezza d’onda λ h = costante di Planck = 6,6 ⋅ 10­34 J⋅ s k = costante di Boltzmann = 1,4 ⋅ 10­23 J⋅ K­1 T = temperatura assoluta (in gradi kelvin) Scheda di approfondimento La fotoconducibilità e il fotodiodo Alcuni materiali sono detti semiconduttori in quanto presentano, dal punto di vista della conducibilità elettrica, un comportamento che si trova a metà strada tra i conduttori (ad esempio il rame che trova impiego nei fili elettrici) e gli isolanti (ad esempio la plastica o la gomma che trovano impiego come rivestimenti dei fili elettrici per isolarli dall’ambiente esterno). In questi materiali (ad esempio silicio, germanio o arseniuro di gallio) solo una piccola parte degli elettroni degli atomi sono liberi di muoversi e di produrre una corrente elettrica quando viene applicato un campo elettrico (ad esempio una pila). Nei semiconduttori gli elettroni hanno una distribuzione energetica a bande; ovvero, solo alcuni intervalli di energia sono permessi. La situazione è analoga a quella degli elettroni in un atomo dove le energie permesse sono quantizzate (solo alcuni valori sono permessi) con la differenza che anziché singoli livelli, sono permessi intervalli di energia. Nello schema a lato le bande grigie si riferiscono ai valori di energia permessi, mentre quella bianca (detta gap proibita) si riferisce ai valori di energia che gli elettroni non possono assumere. Gli elettroni che si trovano nella banda di valenza sono quelli legati maggiormente agli atomi; in presenza di un campo elettrico essi non contribuiscono alla corrente elettrica. Solo gli elettroni meno legati che si trovano nella banda di conduzione contribuiscono alla corrente elettrica. In condizioni “normali” il numero di questi elettroni dipende dalla temperatura: infatti il calore è in grado di fornire sufficiente energia agli elettroni più legati (quelli in banda di valenza) per farli passare in banda di conduzione e quindi farli contribuire alla corrente elettrica. In un semiconduttore, quindi, la corrente elettrica (che è proporzionale al numero di elettroni in banda di conduzione) dipende dalla temperatura: ad alta temperatura aumenta la corrente elettrica. Un altro modo di aumentare massicciamente il numero di elettroni in banda di conduzione (e quindi la corrente elettrica in presenza di campo elettrico) è quello di illuminare con della luce il semiconduttore: poiché l’energia necessaria per portare elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione è piccola, è sufficiente illuminarlo con luce visibile, IR o UV. Si parla allora di fotoconducibilità perché la corrente elettrica (proporzionale come detto al numero di elettroni in banda di conduzione) dipende dal numero di fotoni che colpiscono il materiale (un’applicazione di questo fenomeno sono le celle solari). Per misurare in modo più sensibile la luce incidente, anziché utilizzare un materiale semiconduttore puro (in tal caso si parlerebbe di fotoresistenza) si utilizzano solitamente dei fotodiodi (come quelli presenti nei ricevitori del segnale proveniente da telecomandi; ad esempio nel telecomando dei televisori che lavorano nell’infrarosso). Nei fotodiodi, con la creazione di una giunzione p­n (drogaggio del semiconduttore con atomi di diverso tipo) si riesce a ridurre la corrente di buio (ovvero la corrente elettrica che circola in presenza di campo elettrico al buio) di diversi ordini di grandezza (si arriva da qualche mA per un semiconduttore puro a qualche nA in un diodo, dove 1 nA = 0.000000001 A). In questo modo, quando un fotone colpisce il diodo, viene “visto” più facilmente rispetto ad un semiconduttore puro in quando si riesce a distinguerlo meglio rispetto al “rumore di fondo”.E’ un po’ come usare un registratore di suoni per immortalare una voce (quella dei fotoni) nella stanza silenziosa di un sotterraneo (fotodiodo) oppure in una via trafficata (semiconduttore puro). Una fotografia dei fotodiodi utilizzati: si vede, attraverso la finestra trasparente di quarzo il quadratino grigio di semiconduttore (in queso modello della Hamamatsu si tratta di silicio) La curva di efficienza percentuale del fotodiodo utilizzato in funzione della lunghezza d’onda. (l’efficienza è il rapporto tra numero di fotoni misurati e numero di fotoni incidenti; in un rivelatore ideale si dovrebbe avere il 100% per tutte le lunghezze d’onda).