I linguaggi simbolici e rituali
Giorgio Bonaccorso
(NPG 1994/6, pp. 89-95)
La riflessione sui linguaggi simbolici e rituali presuppone l’abbandono di quella convinzione
molto diffusa secondo cui le forme espressive dell’uomo sarebbero solo delle attività
secondarie rispetto al puro
pensiero.
Indubbiamente quelle forme espressive, ossia i linguaggi verbali e non verbali, possono essere
ridotte a puri
strumenti
relegati in un magazzino da cui si prende ciò che di volta in volta serve.
[1]
È altrettanto vero, però, che vi è una dimensione più profonda che attraversa tutti i linguaggi,
una dimensione che chiameremo
simbolica,
in cui l’esprimersi dell’uomo non appare più come un semplice strumento del pensiero, ma
come fonte del pensare e del conoscere. Il linguaggio simbolico, o meglio la dimensione
simbolica del linguaggio, è quella che consente all’uomo di essere aperto alla realtà che lo
circonda, quella in cui la realtà può
rivelarsi
.
[2]
I simboli che incontriamo nell’esperienza artistica o religiosa sono da intendersi non come
particolari tipi di segni, ma come esempi della più globale dimensione simbolica. Quei simboli,
però, esprimono tale dimensione non isolatamente, ma in quanto parti di una rete più o meno
complessa che li collega. I simboli appartengono sempre a questo o quel contesto. Uno di tali
contesti è quello rituale. Il
rito
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è una particolare sequenza di
azioni
che, in un certo senso, ridisegna secondo criteri interni la rete simbolica. Esso non può esistere
senza simboli
[3]
e, quindi, dipende dal linguaggio simbolico, ma, allo stesso tempo, rimodella questo linguaggio
secondo criteri propri.
La dimensione simbolica del linguaggio e il contesto rituale interagiscono secondo un gioco di
rimandi quasi infinito. Vi sono, però, alcune condizioni fondamentali che quella dimensione e
questo contesto reclamano come irrinunciabili. Di seguito tenteremo di segnalare, molto
brevemente, alcune di tali condizioni. Parleremo, quindi, dell’immaginario, del sogno,
dell’amore, della corporeità e dell’inutilità, della libertà e del consumo, della festa e del piacere,
dei “nomi propri”, come di condizioni di possibilità del simbolo e del rito.
1. LA DIMENSIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO
Il simbolo è il linguaggio che esprime, in svariati modi, l’esperienza della solidarietà: la
solidarietà tra l’uomo e il mondo, la solidarietà dell’uomo con se stesso e la solidarietà tra gli
uomini.
1.1. Il simbolo tra l’uomo e il mondo: l’immaginario
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Nel linguaggio simbolico le cose del mondo diventano significative per la vita dell’uomo, per la
nostra esistenza. Potremmo dire che nei simboli l’uomo non conosce la realtà ma la sente, la
gusta, ne prova paura o piacere. Nel simbolo l’indifferenza è impossibile perché ogni cosa
viene colta e gustata nella sua originaria e irripetibile
differenza
. Se la scienza opera nella direzione dell’identità, in cui tutta la realtà viene ridotta a pochi
elementi subatomici, la simbolica è innamorata proprio della singolarità delle cose e
dell’irripetibile originarietà degli eventi. Non è il cadavere subatomico dell’acqua, del fuoco o
della pianta che interessa il linguaggio simbolico. L’acqua, il fuoco, un paesaggio, gli astri sono
vivi, respirano e ci parlano. Non è neppure la logica stringata e consequenziale della storia che
emerge nei simboli, ma la sorpresa del nuovo che irrompe nella vita quotidiana.
Il segreto del linguaggio simbolico consiste nel non costringere le cose e gli eventi a una
presenza ineludibile. C’è un tempo e un luogo dell’assenza e della distanza [4] che libera la
realtà dalla sudditanza ai nostri processi concettuali, consentendole di mostrarsi in una mirabile
varietà di aspetti. Il segreto del simbolo consiste proprio nel saper cogliere queste molteplici
differenze. Se molti linguaggi umani, più o meno scientifici, vogliono conoscere e spiegare le
realtà che ci circondano, il simbolo vuole semplicemente
comunicare
con quelle realtà, lasciando loro il diritto di esprimersi.
[5]
Il simbolo, rispettando la differenza, la distanza e l’assenza, concede la
parola
a tutto e a tutti.
Potremmo dire che il simbolo è la parola di tutte le cose. Per questo nel simbolo le realtà che ci
circondano non sono mai semplici “cose”, ma esseri che narrano la loro vita in cui troviamo le
radici della nostra esistenza. Le realtà del mondo non sono strumenti ma eventi; vivono e si
muovono nel tempo e nello spazio. E proprio in questo loro muoversi, in questo loro camminare,
ci parlano, si fanno parola narrativa. Le favole in cui gli animali, le piante o le montagne parlano,
non ci presentano un mondo inesistente; ci consentono di capire il linguaggio più profondo di
questo mondo e di solidarizzare con esso. Se la scienza concede la parola solo all’uomo, l’
immaginario
[6]
concede la parola anche alle cose, scoprendo all’uomo stesso spazi infiniti e mondi nuovi. In
questo senso l’immaginario è indispensabile al simbolo, e il simbolo ricorre all’immaginario, al
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mito, alla poesia, per “scorgere” o “accorgersi” di ciò che l’abitudine della vita quotidiana
nasconde dietro le certezze di una facile evidenza.
Nei mondi dell’immaginario non esiste questa evidenza che rende tutto indifferente, ma tutto è s
im-bolico
, ossia un
convenire delle differenze
. Insisto su questo punto perché in tale convenire delle differenze l’uomo scopre anche la
differenza che gli è più cara, ossia il proprio
io
. Un io che non si lascia documentare da un programma predefinito, ma che vive la domanda
angosciante della propria identità, che è quanto dire della propria “differenza specifica”.
1.2. Il simbolo tra l’uomo e se stesso: il sogno
La coscienza del proprio io è fondamentalmente la consapevolezza dei limiti della coscienza
stessa. La coscienza non mi dice tutto di me stesso; mi lascia nascoste molte cose. Posso
cercare di immaginare ciò che sta oltre la coscienza ma finché sono sveglio un guardiano vigile
e attento mi impedisce di sconfinare oltre i limiti stabiliti dalla ragione e dalla cultura. Poi viene il
sonno, il guardiano si ritira, e io sogno. Inizia, così, il viaggio verso le regioni nascoste del mio
essere. Quando sono sveglio posso sognare ciò che non ho, ma, nel sonno, sogno ciò che
sono. Tutto si svolge come in teatro. Come il teatro anche il sogno viene recitato,
[7]
ma, soprattutto, come nella poesia e nel mito, il “teatro del sogno” ricorre al linguaggio
metaforico, a rappresentazioni simboliche che si rivolgono all’“ignoto”. E l’ignoto, ciò che è
nascosto alla mia coscienza sveglia, a suo modo, si rivela.
Il sogno è un linguaggio di rivelazione. I simboli onirici rivelano all’io ciò che la coscienza
sveglia non può conoscere; ma a chi la rivelano se non alla stessa coscienza dell’io? Nel
linguaggio simbolico del sogno l’
io solidarizza con se stesso, senza cadere
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nell’imperativo categorico del
cogito
e neppure nella pura dimenticanza del
subconscio
. Ciò che è in gioco è la stessa integrità dell’io e, quindi, la sua stessa salute, il suo essere
“salvato” dalla schizofrenia, dall’angoscia e dalla somatizzazione di tali malattie. Quando si è
affermato che il sogno è un linguaggio di rivelazione, si è voluto sottolineare questa integrità e
salute, si è, cioè, voluto dire che il linguaggio simbolico-onirico è un linguaggio di guarigione e di
salvezza.
[8]
Il sogno, però, può rimanere muto. L’io, da solo, non riesce a coglierne il linguaggio simbolico,
proprio per la prepotenza della coscienza sveglia. Qualcuno, dall’esterno, deve intervenire per
interpretare il sogno, per aiutare l’io a incontrarsi nel sogno. Del resto, l’intervento dall’esterno è
esigito per tutti i simboli, non solo quelli onirici.
1.3. Il simbolo tra l’uomo e l’altro: l’amore
Il linguaggio simbolico rivela la solidarietà tra gli esseri umani. Se l’acqua, il pane, il fuoco, una
musica sono simboli di una realtà profonda a cui sentiamo di appartenere, non dobbiamo
dimenticare che è quasi sempre qualcuno a darci l’acqua, il pane, a eseguire una musica
capace di rallegrarci e di ampliare gli orizzonti dei nostri mondi possibili. Se faccio un sogno che
mi lascia perplesso o ansioso, mi rivolgo a qualcuno di cui mi fido perché mi illumini sul senso
del sogno. I simboli dell’acqua, del quadro o del sogno non mi appartengono mai del tutto. Se
l’acqua, il quadro, il sogno non mi sono indifferenti è perché è l’altro, prima di tutto, a non
essermi indifferente. L’altro non è la banale ripetizione del mio io, non è
in-differente
rispetto al mio io. L’altro è il “volto” che nella sua
differenza
mi rivela cosa significa possedere un volto. La ripetizione del mio volto nello specchio non mi
dice di cosa sia capace un volto; il volto dell’altro, nella sua libera espressione, mi rivela quali
emozioni esso possa suscitare. Il simbolo è proprio l’emozione di questa differenza, è
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l’emozione che traspare negli sguardi incrociati di un uomo e una donna che hanno scoperto
l’amore. La più grande differenza umana, uomo e donna, è anche il sigillo dell’amore più forte.
Da questo punto di vista il linguaggio simbolico è, propriamente, una comunicazione simbolica.
Se io dico: “La mia casa è grande e si trova in via...”, posso limitarmi a dare una fredda
informazione, ma posso anche intendere di più, e, soprattutto, posso fare intendere di più al mio
interlocutore o alla mia interlocutrice; l’amicizia, la simpatia, l’affetto che mi legano a coloro a cui
mi rivolgo crea un’“intesa” sulla base della quale quella frase si trasforma immediatamente in un
invito o in un segno di cordialità. L’invito non è “detto” esplicitamente, eppure esso è “fatto”. Il
simbolo realizza qualcosa nei rapporti interpersonali; non solo rivela la solidarietà con gli altri;
esso realizza, in un certo senso, quella solidarietà, e, spesso, la realizza proprio in ciò che non
è detto.
[9]
Il far capire, il realizzare senza dire è una caratteristica del linguaggio simbolico. Questa
caratteristica, però, implica il coinvolgimento di tutte le dimensioni espressive dell’uomo e
soprattutto il suo andare incontro agli altri uomini nell’azione. Un contesto in cui si compiono
determinate azioni, un contesto come quello rituale, ora diventa di fondamentale importanza.
Proprio la dimensione intersoggettiva o interpersonale, considerata ora come condizione delle
azioni di scambio, ora come interna a un contesto di azioni specifiche consente di mantenere lo
stretto legame tra la dimensione simbolica del linguaggio e il contesto rituale.
2. IL CONTESTO RITUALE DEL LINGUAGGIO SIMBOLICO
Nel contesto rituale i simboli, che non possono mancare, [10] diventano azioni simboliche,
ossia linguaggi che “dicono” e che “agiscono”.
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[11]
L’
immaginario
, il
sogno
e l’
amore
ora diventano “simboli in azione”. E, come ogni azione, implicano tre dimensioni fondamentali:
a) la dimensione interpersonale; b) la dimensione spaziale; c) la dimensione temporale. Il
contesto rituale combina queste dimensioni secondo modalità proprie, ottenendo, così, una
ritrascrizione dell’agire umano e del linguaggio simbolico.
2.1. La dimensione interpersonale: il corpo e l’in-utilità
Occorre, innanzitutto, rammentare un presupposto importante. C’è una concezione dell’uomo
che ne fa fondamentalmente un essere isolato a cui spetterebbe il privilegio del
pensiero
e dell’
interiorità
. E più lo si concepisce in questo modo, più lo si incoraggia a ritirarsi nell’isolamento della
propria intimità pensante. L’uomo si ritira sempre più nella propria interiorità e si ritrova come
puro pensiero. Di tutto il resto si può solo dubitare. La spiritualità cristiana che si è andata
costruendo nei secoli passati risente molto di questa visione antropologica. In tempi più recenti
si sono cercate altre visioni; soprattutto, si è cercato di restituire all’uomo l’emozione di ciò che
sta oltre la propria interiorità pensante. Si è voluto, almeno, riconoscere la dignità dell’uomo che
esce dal proprio
cogito
per incontrare l’
altro
. Se io non sono il centro del mondo; se molti altri esistono, molti altri pensano, giudicano,
valutano, allora io devo resistere alle lusinghe di una interiorità prepotente e lasciarmi sedurre
dall’
esteriorità
che mi consente di comunicare con gli altri. Devo lasciarmi sedurre dal
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corpo
che è precisamente il luogo dell’esteriorità.
La dimensione interpersonale è, fondamentalmente, la dimensione dell’esteriorità e della
corporeità. Da tutto ciò nasce una nuova “spiritualità”, al cui centro non stanno i pensieri che
vado maturando nell’intimità della mia anima, ma le azioni che vado compiendo col corpo [12]
e con gli altri. Il rito, in quanto interazione di corpi, è un luogo autentico di spiritualità e di
religiosità.
[13]
Nel rito, naturalmente, il corpo e le sue azione vengono modificati in ragione della specificità del
contesto rappresentato dal rito stesso.
Molte azioni umane hanno come scopo un determinato “prodotto”, tendono cioè a produrre
qualcosa di utile per la vita di tutti i giorni. Le persone che si riuniscono in un contesto rituale,
invece, compiono azioni senza alcun “prodotto”, azioni che non producono nulla di ciò che in
altri contesti viene ritenuto utile. Il rito non serve. [14] Esso ha, indubbiamente, un’efficacia che,
però, non si traduce in uno scopo esterno.
[15]
L’
in-utilità
del rito è proprio ciò che lo rende prezioso e che rende prezioso chi lo celebra.
Il lavoro in cui si è impegnati quotidianamente rende gli uomini utili, produttivi, ma anche “servi”
del prodotto: nelle società antiche, e non solo in quelle, il valore di uno schiavo si misurava dalla
sua capacità produttiva, dal suo essere “servo utile”. Nel rito non vi sono prodotti, non vi sono
utili, e, quindi, non vi sono servi, o, almeno, non vi sono “servi” e “padroni”. L’inutilità del rito è
l’inutilità dell’uomo. Il rito non vale perché serve a qualcosa; esso vale semplicemente perché è,
perché
esiste
. Le azioni simboliche che compiamo nel rito dicono questa
intransitività
, ossia dicono sempre il rito stesso.
[16]
L’esistenza umana, qui, si rivela nella sua genuina originarietà: l’uomo vale per il solo fatto di
esistere.
Per questo motivo, ciò che interessa incontrare nel rito è l’altro, senza dover aggiungere nulla.
Io sto di fronte agli altri per il semplice fatto che esistono e sono presenti. Tutto consiste in
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questo “stare di fronte”, in questo atteggiamento del corpo che si traduce in mille modalità
diverse. Compiere un gesto, camminare insieme, porgere un oggetto, dialogare, scambiarsi la
pace... hanno il loro senso più profondo non in questo o quel significato specifico, ma nel fatto
stesso di essere azioni che dicono il mio stare di fronte agli altri. Il linguaggio dei gesti, così
importante per la simbologia rituale, non è un sostituto goffo della parola ma una parola più
originaria del suono, una parola che dice nel silenzio perché non ha lo scopo di produrre
informazioni. “Il gesto - scrive Sini - è una rivelazione del silenzio in cammino verso il senso”.
[17]
Quel gesto silenzioso, però, cadrebbe nel mutismo se qualcuno, con un altro gesto, non
sapesse corrispondervi. Il senso verso cui si muove il gesto è sempre anche il segno (simbolo)
di un riconoscimento reciproco, è sempre anche il segno di una comunione. Il gesto rituale mi
rivela che lo “stare di fronte” è, fondamentalmente, uno “stare con” chi è di fronte, uno stare e
un camminare insieme.
2.2. La dimensione spaziale: il consumo e la libertà
Un contesto è sempre delimitato nel tempo e nello spazio. In modo particolare il contesto rituale
ha i suoi luoghi e i suoi tempi. Il mondo è avvolto dalla forza gravitazionale dell’utile e del
produttivo. Il rito deve uscire da questa forza gravitazionale per giungere al luogo dell’inutile e
dell’improduttivo, al luogo del gratuito. I riti sono “riti di passaggio” anche perché devono
compiere questo passo. Se il mondo dell’utilità ha un luogo, vi devono essere luoghi alternativi
per il gratuito, dove lo stare insieme non sia motivato dal guadagno ma dal consumo. Un dono
è un qualcosa che è stato prodotto altrove, ma che, nel momento stesso in cui diventa “dono”,
viene semplicemente consumato. Lo spazio del rito, come quello del dono, è uno “spazio
consumato” non prodotto; le cose del rito sono “cose consumate”. In molti riti religiosi, per
esempio, incontriamo il pranzo, non la coltivazione o la caccia.
L’atto del consumare è un atto di libertà e un’esperienza di felicità. Se l’uomo perdesse la
capacità di produrre diventerebbe povero, ma se perdesse la capacità di consumare
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diventerebbe infelice. La produzione è sotto il peso del lavoro, è sotto la costrizione del lavoro.
Di fronte a tale situazione, il consumo emerge come un atto di libertà. è sufficiente leggere
alcuni libri di antropologia religiosa per accorgersi come la ritualità sia soprattutto questo atto di
libertà di consumare. Anche l’uomo moderno vive gli spazi e i tempi del consumo come spazi e
tempi di libertà. [18] Tutt’altra cosa dal consumare, però, è il “consumismo” in cui avviene la
degenerazione del dono in costrizione del dono: “devo” regalare o “devo” farmi dei regali. Si
parla spesso di consumismo in riferimento delle società moderne; ma anche la ritualità antica, o
classica, può trasformarsi in consumismo; e vi si trasforma precisamente quando diviene una
costrizione che ci impongono gli altri o ci imponiamo noi stessi. Il consumo, invece, il consumo
rituale, libero dalla costrizione, dischiude gli spazi della libertà.
2.3. La dimensione temporale: la festa e il piacere
Il contesto rituale implica anche un suo tempo. Il tempo dell’uomo è spesso il “quotidiano”, ossia
il tempo dell’“impegno”, il tempo del “mercante”. La ferialità del tempo, però, prima o poi si
interrompe, il negotium, prima o poi, perde l’elemento negativo e diventa otium. Ed ecco il
giorno di
festa
che
è
fondamentalmente ciò che
non è
o
non può essere
il giorno feriale.
[19]
La festa è la trasgressione della feria, e, più precisamente, è il
piacere
di trasgredire la realtà a cui siamo inesorabilmente chiamati tutti i giorni. Nella festa il tempo non
si misura sul “principio della
realtà
” ma sul “principio del
piacere
”. Nei giorni feriali si lavora perché si “deve” lavorare; nel giorno festivo si fa festa perché “piace”
far festa.
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Il rito è fondamentalmente il tempo della festa, dove il piacere della trasgressione viene
declinato come celebrazione della differenza e della trascendenza. [20] Può avvenire che si
voglia accedere a questa trascendenza con una celebrazione che ha dimenticato il piacere
festivo della trasgressione. Allora il rito diventa noioso e insopportabile. La trascendenza divina
e il tempo della sua celebrazione non sono una regione del nostro impegno etico. Quella
trascendenza e quel tempo sono “altro” da tutto ciò che appartiene all’impegno etico; sono,
appunto, la trasgressione di ciò che appartiene all’ordine dell’impegno. Il giorno della festa, del
rito, non è né l’ultimo giorno della settimana lavorativa né il primo; proprio come la “domenica
cristiana” quel giorno è l’
ottavo giorno
, il giorno che rompe la continuità con la settimana degli impegni.
Su questo punto si gioca l’ambiguità del rito, che può venire inteso come cerimonia o come cel
ebrazione
. Quando un rito ci appare noioso, pesante, probabilmente ci troviamo di fronte a una cerimonia,
in cui si ripete l’
identico
, dove so già tutto e mi appresto a ridire quello che so già nella forma rituale del culto. La
celebrazione, invece, ripete la
differenza
come movimento del soggetto verso la sorpresa. Non so ancora tutto; non saprò mai tutto. Non
posseggo neppure i linguaggi per sapere le cose più importanti, più profonde. Ed ecco che il rito
mi parla una lingua nuova, un linguaggio diverso, con cui scoprire cose nuove e dimensioni
diverse dell’esistenza. Un rito noioso che parla di un Dio identico a ciò che di Lui abbiamo già
imparato (forse nei catechismi o nei trattati teologici) ci rende
cerimoniosi
verso le nostre proiezioni religiose. Qui, Dio è identico al nostro rappresentarcelo prima di
averlo incontrato. Contro questo Dio identico alle mie proiezioni, il rito festivo ci dona il tempo in
cui celebrare Colui che sconvolge le nostre proiezioni e previsioni.
E’ interessante notare come venga a operarsi un capovolgimento psicologico. Nella vita
quotidiana è il “principio della realtà” che ci garantisce dalle facili proiezioni del nostro
subconscio. Nel contesto rituale quella vita si interrompe, e il tempo, in un certo senso, subisce
un’inversione di marcia. Non posso più andare verso le cose, per la buona ragione che Dio non
è una cosa. Non posso affidarmi a un tempo lineare che procede di passo in passo, poiché non
incontro nulla che possa chiamare Dio. Dio non appartiene alla realtà e nessun principio della
realtà può farmelo scoprire; Dio non appartiene al tempo e nessun progresso temporale può
farmelo incontrare. Non rimane che il “principio del piacere”, il principio che dicevamo del rito e
della festa, il principio cioè che ci libera gli occhi dal fissare le cose che si vedono e si toccano,
che ci libera la bocca dal dire con troppa disinvoltura la realtà. Qui il principio del piacere ci fa
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fare silenzio [21] per poterci parlare di una realtà alternativa a quella consueta, tangibile e
chiacchierata. Qui, il tempo rituale-festivo, è sospensione del tempo quotidiano e del principio
etico dell’impegno per la realtà.
Un esempio chiarificatore può venirci dal rapporto sponsale. La fedeltà tra l’uomo e la donna è
affidata all’impegno etico che si fa obbediente alla “realtà” matrimoniale. La vita, che viene dalla
procreazione, si fonda su una relazione intima, la cui attuazione presuppone il “piacere”. Tutti gli
impegni etici di questo mondo non possono dare la vita, ma solo regolarla. La vita, prima di
essere una realtà che chiama all’impegno morale, è un nulla che viene all’esistenza per un atto
di amore in cui troviamo semplicemente il piacere di compierlo. Il rito appartiene a questa
nascita della vita, a questo primato del principio del piacere sul principio della realtà. In tal
modo, la ritualità trasgredisce il principio che immette in una realtà tangibile e rivela l’ambito di
una possibile
trascendenza.
2.4. Il rito religioso: il nome dell’Altro
Il simbolo ci si è presentato come il linguaggio dell’immaginario, del sogno e dell’amore. Il rito
ha immesso quel linguaggio nel contesto dell’inutile, del consumo e della trasgressione. Nelle
ultime righe si è potuto rilevare l’accostamento di quel linguaggio e di questo contesto
all’esperienza religiosa. In modo particolare, il tema della trasgressione-trascendenza ci ha
suggerito di non dare tutto per scontato e raggiungibile. Del resto, l’intero linguaggio
simbolico-rituale ci apre a qualcosa di inviolabile, di sacro. Qualcosa che non può essere
ridotto a una classe di oggetti o a una categoria mentale.
E’ a questo punto che il linguaggio gioca l’ultima sua carta, quella dei nomi propri. Quando
parlo di una persona utilizzando i “nomi comuni”, riduco quella persona a questa o quella classe
di appartenenza: è un operaio, uno studente, un professore, un uomo sposato, una
donna-manager, ecc. Quando pronuncio il suo nome proprio mi pongo di fronte alla sua
individualità unica e irripetibile. Il nome proprio è la parola con cui rispetto l’unicità e
l’irriducibilità dell’altro. Carla, Luigi, Stefania... non dicono altro che quell’unica e precisa
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individualità, e la dicono come realtà inviolabile: io posso essere uno studente come Luigi o un
artista come Angela, ma non posso essere Luigi o Angela, non posso entrare nella loro
individualità, non posso violare ciò che queste persone sono in quanto nome proprio. Nella
mente del violentatore c’è la “donna”; nella mente dell’innamorato c’è “Carla” o “Stefania”.
Nella mente del credente che compie un rito religioso non c’è mai un dio generico o una
qualche dimensione divina. C’è il nome proprio di Dio. [22] E se questo nome non è
pronunciabile, allora ci si riferisce ai nomi propri degli uomini di cui Dio è signore o padre: il Dio
di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Padre di Gesù Cristo. Il linguaggio simbolico in contesto
rituale raggiunge l’apice dell’esperienza religiosa concentrandosi sui nomi propri, di chi celebra
e di Chi viene celebrato.
[1] Una tale concezione ha condizionato in modo rilevante la riflessione teologica, cf F. KERR,
La teologia dopo Wittgenstein
, Brescia, Queriniana, 1992.
[2] La ricomprensione della realtà alla luce del simbolo presuppone un nuovo modo di
considerare l'uso metaforico del linguaggio. La metafora non è un semplice ornamento del dire,
ma un nuovo accesso alla verità. Per una breve presentazione di tale prospettiva cf P. A.
ROVATTI,
Il declino della luce. Saggi su filosofia e metafora, Genova, Marietti, 1988.
[3] Come è stato giustamente sottolineato, “la funzione per la quale il simbolico è certamente
insostituibile è precisamente la forma del rito”, P. SEQUERI,
Estetica e teologia,
“Ambrosius”, 69 (1993) 46.
[4] Cf J. BRUN, L'homme et le langage, Paris, Presses Universitaires de France, 1985, 81.
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[5] Si vedano alcune interessanti riflessioni di C. SINI, Il simbolo e l'uomo, Milano, EGEA,
1991, 171-277.
[6] Cf M. DUFRENNE, Estetica e filosofia, Genova, Marietti, 1989, 69-99.
[7] Cf S. RESNIK, Il teatro del sogno, Torino, Boringhieri, 1991, 30.
[8] Cf E. DREWERMANN, Parola che salva, parola che guarisce. La forza liberatrice della fede
, Brescia, Queriniana, 1990.
[9] Un testo decisivo su questo argomento è quello di P. RICOEUR, Sé come un altro, Milano,
Jaca Book, 1993.
[10] Contesto, quello rituale, che non può non essere simbolico, cf C. GILARDI, Simbolo e
sintomo
,
“Rivista liturgica”, 74 (1987) 346.
[11] Cf, per esempio, R. W. DUKE, Word Spoken and Broken in Ritual, “Worship”, 61 (1987)
70. Una delle caratteristiche fondamentali della ritualità delle “nuove religioni” consiste, secondo
A. N. TERRIN, nel fatto che esse danno “un'importanza maggiore all'azione e al gesto rispetto
alla parola”,
New Age.
La religiosità del postmoderno
, Bologna, Dehoniane, 1993, 140.
[12] Alcuni limiti e guadagni della riflessione moderna sul corpo sono stati segnalati da G. M.
TORTOLONE,
Il corpo tentato. Per un discorso sull'uomo, Genova, Marietti, 1988.
[13] Il recupero della corporeità è un fenomeno facilmente registrabile nelle forme religiose più
recenti, cf per esempio, A. N. TERRIN,
Nuove religioni. Alla ricerca della terra promessa,
Brescia, Morcelliana, 1985, 171-172.
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[14] Si potrebbe parlare, con Todorov, dei significati dei riti come di “significati intransitivi”,
come suggerisce anche H. H. PENNER,
Language, Ritual and Meaning, “Numen”, 32
(1985) 5.
[15] “La première efficacité du rite semble bien être de faire croire au rite lui-méme”, F.A.,
ISAMBERT,
Réforme liturgique et analyses sociologiques, “La Maison-Dieu”, 32 (4/1976)
84.
[16] Cf L. A. HOFFMAN, The Art of Public Prayer. Non for Clergy only, Washington, The
Pastoral Press, 1988, 37.
[17] Il silenzio e la parola. Luoghi e confini del sapere per un uomo planetario, Genova,
Marietti, 1989, 15.
[18] Cf C. BERNARDI, La drammaturgia della Settimana santa, Milano, Vita e Pensiero, 1991,
3-4.
[19] Già J. PIEPER, in Otium e culto (Brescia, Morcelliana, 1956), aveva osservato che il
legame tra festa e culto “è un dato costante della storia delle religioni”, A. CAPRIOLI,
La festa
, “Rivista liturgica”, 67 (1980) 457.
[20] Torna il discorso, di cui sopra, sulla necessità di superare l'in-differenza, cifra
dell'“immanenza”, in direzione della differenza, cifra della “trascendenza”; cf E. LEVINAS,
rascendenza e intelligibilità
, Genova, Marietti, 1990, 27.
T
[21] Un piacere molto forte ci lascia senza parole anche perché non troviamo le parole con cui
diciamo la realtà usuale. Il silenzio a cui questa esperienza ci riconduce deve essere inteso non
come mancanza strutturale di parole per un “enunciato” impossibile, ma come riconoscimento di
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un cambiamento radicale nel dire per un atto di “enunciazione” straordinario. Il silenzio, da
questo punto di vista, appartiene più alla pragmatica che alla semantica del linguaggio, cf J.
GREICH,
L'énonciation philosophique et l'énonciation théologique de Dieu, “Recherches
de science religieuse”, 67 (1979) 553.
[22] Il “nominare” Dio, a ben vedere, è speculare all'atto creativo che è il “nominare” le cose, cf
P. GISEL,
La creazione. Saggio sulla libertà e la necessità, la storia e la legge, l'uomo, il
male e Dio
, Genova, Marietti, 1987, 227.
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