1 CARTESIO COME UN UOMO CHE CAMMINA DA SOLO E NELLE

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CARTESIO
COME UN UOMO CHE CAMMINA DA SOLO E NELLE TENEBRE …
Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che colà ancora si combattono, fui
costretto dall'inverno incipiente ad acquartierarmi in una località dove, non essendo distratto
da alcuna conversazione e non essendo turbato, per fortuna, né da preoccupazioni né da passioni,
trascorrevo tutto il giorno da solo chiuso in una stanza ben riscaldata da una stufa, dove
avevo tutto l'agio di intrattenermi con i miei pensieri. ... (Discorso sul metodo, II)
Da un pezzo avevo notato che, per quanto concerne i costumi talvolta bisogna seguire opinioni
che si sanno molto incerte come se fossero al disopra di qualunque dubbio; ma poiché allora
desideravo unicamente di attendere alla ricerca della conoscenza, pensai che dovevo fare tutto il
contrario, rifiutando come assolutamente falso tutto ciò in cui potessi immaginare il minimo
motivo di dubbio, per vedere se, dopo un tale rifiuto, qualcosa sarebbe rimasto a godere la mia
fiducia come del tutto indubitabile. (Meditazioni cartesiane, IV)
Come un uomo che cammina da solo e nelle tenebre, decisi di procedere così lentamente e di
usare tanta circospezione in ogni circostanza, che se anche avessi fatto dei minimi
progressi, avrei tuttavia evitato almeno di cadere. Anzi non volli neppure iniziare rifiutando
radicalmente tutte le opinioni che tempo addietro si erano potute introdurre nel mio animo
senza l'esame della ragione, prima di aver meditato a lungo il progetto che mi accingevo a
compiere e prima di aver ricercato il metodo per pervenire alla conoscenza di tutte le cose di
cui il mio ingegno sarebbe stato capace. (Discorso sul metodo, II)
PENSO DUNQUE SONO
Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l'ho appreso dai
sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori,
ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati.
Ma, benché i sensi c'ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto
lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare,
benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco,
vestito d'una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come
potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? a meno che, forse, non mi paragoni a
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quegl'insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che
asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d'oro e di
porpora, mentre son nudi affatto; o s'immaginano di essere delle brocche, o d'avere un corpo di
vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio.
Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo, e che per conseguenza, ho l'abitudine di
dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora,
che quegl'insensati quando vegliano. Quante volte m'è accaduto di sognare, la notte, che io ero
in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio
letto ? . . . pensandoci accuratamente, mi ricordo d'essere stato spesso ingannato, mentre
dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente
che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere
nettamente la veglia dal sonno . . . (Meditazioni cartesiane, I)
Ma subito dopo mi resi conto che nell'atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava
necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso
dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l'urto di tutte le più stravaganti
supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della
filosofia che cercavo.
Poi, esaminando attentamente che cosa ero, vedevo che potevo fingere di non avere un corpo, e
che non esistesse il mondo, né luogo alcuno in cui mi trovassi; ma non per questo potevo fingere
che io non fossi; al contrario, dal fatto stesso di pensare a dubitare della verità delle altre cose
seguiva con grande evidenza e certezza che io esistevo; mentre, se solo avessi smesso di
pensare, anche se tutte le altre cose da me immaginate fossero state vere, non avrei avuto nessuna
ragione di credere che esistevo; conobbi così di essere una sostanza la cui essenza o natura era
esclusivamente di pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna
causa materiale. Dimodoché questo io, cioè l'anima in forza della quale sono ciò che sono, è
interamente distinta dal corpo e addirittura è più facile a conoscersi del corpo, e, anche se esso non
fosse, l'anima, nondimeno, sarebbe tutto ciò che è. (Discorso sul metodo, II)
FOUCAULT
LA CULTURA MODERNA: L’OCCULTAMENTO DELL’ESPERIENZA TRAGICA DELLA
FOLLIA
Alla fine del Medioevo la lebbra sparisce dal mondo occidentale. Ai margini della comunità,
alle porte delle città, si aprono come dei grandi territori (i lebbrosari) che non sono più
perseguitati dal male, ma che sono lasciati sterili e per lungo tempo abbandonati. Per secoli e
secoli queste distese apparterranno all'inumano.
Spesso negli stessi luoghi, due o tre secoli più tardi, si ritroveranno stranamente simili gli stessi
meccanismi di esclusione. Poveri, vagabondi, corrigendi e "teste pazze" riassumeranno la parte
abbandonata dal lebbroso e vedremo quale salvezza ci si aspetta da questa esclusione, per essi e
per quelli stessi che li escludono. Con un senso tutto nuovo e in una cultura molto differente, le
forme resisteranno: soprattutto quella importante di una separazione rigorosa che è esclusione
sociale ma reintegrazione spirituale.
... Ma occorrerà. un lungo periodo di latenza, i quasi due secoli della Renaissance, perché la
follia, questa nuova ossessione che succede alla lebbra come paura secolare, susciti al pari di
essa reazioni tendenti alla separazione, all'esclusione, alla purificazione, che pure le sono
apparentate in modo evidente
… Da un lato Bosch, Brueghel, Dürer e tutto il silenzio delle immagini. È nello spazio della
pura visione che la follia dispiega i suoi poteri: rivelazione che l'onirico è reale, che la sottile
superficie dell'illusione si apre su una profondità innegabile . .
Dall'altro lato, con Brandt, con Erasmo, con tutta la tradizione umanistica, la follia è accolta
nell'universo del discorso. Essa viene raffinata, sottilizzata, ma anche disarmata. Essa viene considerata in un modo diverso; nasce nel cuore degli uomini, dà e toglie regola alla loro condotta;
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anche se governa le città, viene ignorata dalla calma verità delle cose e dalla grande natura. Può
darsi che ogni uomo le sia sottomesso, ma il suo regno sarà sempre meschino e relativo . . .
In breve, la coscienza critica della follia si è andata sempre più illuminando, mentre i suoi
aspetti tragici si oscuravano progressivamente. Questi ultimi saranno presto del tutto evitati. Per
molto tempo, si faticherebbe a trovarne la traccia; solo alcune pagine di Sade e l'opera di Goya
testimoniano che questa sparizione non significa annientamento, che questa esperienza tragica
sussiste ancora oscuramente nella notte del pensiero e dei sogni, e che nel XVI secolo non si è
trattato di una distruzione radicale, ma soltanto di un occultamento. . . . Sotto la coscienza
critica della follia e le sue norme filosofiche o scientifiche, morali o mediche, una sorda
coscienza tragica non ha cessato di vegliare.
È lei che le ultime parole di Nietzsche, le ultime visioni di Van Gogh, hanno ridestato. È lei
che indubbiamente Freud ha cominciato a presentire all'estremità del suo cammino: sono le sue
grandi lacerazioni che egli ha voluto simbolizzare con la lotta mitologica della libido e
dell'istinto di morte. …
L'età classica ridurrà al silenzio, con uno strano colpo di forza, nel cammino del dubbio,
Descartes incontra la follia accanto al sogno e a tutte le forme d'errore. Questa possibilità di
essere folle non rischia di privarlo del suo corpo, così come il mondo esterno può dissimularsi
nell'errore, o la coscienza addormentarsi nel sogno? "Come potrei negare che queste mani e
questo corpo mi appartengono, se non forse paragonandomi a certi insensati il cui cervello è
talmente confuso e offuscato dai neri vapori della bile che essi affermano costantemente di
essere dei re mentre sono poverissimi, di esser vestiti di porpora e d'oro mentre sono tutti nudi, o
si immaginano d'essere delle brocche o di avere un corpo di vetro?" Ma Descartes non evita lo
scoglio della follia nello stesso modo in cui aggira l'eventualità del sogno o dell'errore. . . . Né il
sogno popolato di immagini né la chiara coscienza che i sensi ci ingannano possono portare il
dubbio fino al punto estremo della sua universalità; ammettiamo pure che gli occhi ci deludano,
«supponiamo ora di essere addormentati», la verità non scivolerà per intero nella notte.
Per la follia, è tutt'altra cosa; se i suoi pericoli non compromettono né il cammino né
l'essenziale della verità, ciò non deriva dal fatto che una certa cosa, perfino nel pensiero di un
folle, non può essere falsa; ma dal fatto che io che penso non posso essere folle. . . . Non è il
permanere di una verità che garantisce il pensiero contro la follia, come gli permetteva di liberarsi da un errore o di emergere da un sogno; è un'impossibilità di essere folle, essenziale non
all'oggetto del pensiero, ma al soggetto pensante. . . . Non si può supporre, neppure col
pensiero, di esser folle, perché la follia è proprio l'impossibilità del pensiero.
Ora, Descartes ha acquistato questa certezza e la conserva solidamente: la follia non può più
riguardarlo. Sarebbe una stravaganza il supporre d'essere stravagante;
... La Non-Ragione del XVI secolo formava una sorta di rischio aperto, le cui minacce potevano
sempre, almeno di diritto, compromettere i rapporti della soggettività e della verità. Il procedere
del dubbio cartesiano sembra testimoniare che nel XVII secolo il pericolo si trova scongiurato e
che la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti
alla verità, quel dominio che per il pensiero classico era la ragione stessa. Ormai la follia è
esiliata. Se l'uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte
di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato.
LE ISTITUZIONI: LA RECLUSIONE DEI FOLLI
Più di un sintomo lo tradisce, e non tutti derivano da un'esperienza filosofica o dallo sviluppo
del sapere. Quello di cui vorremmo parlare appartiene a una superficie culturale assai vasta.
Esso viene segnalato con molta precisione da una serie di date e, insieme con queste, da un
complesso di istituzioni. . . .
Una data può servire come punto di riferimento: 1656, decreto di fondazione dell'Hópital
général, a Parigi. A prima vista si tratta solo di una riforma: appena d'una riorganizzazione
amministrativa. Diverse istituzioni già esistenti sono raggruppate sotto un'unica
amministrazione: … In qualche anno tutto un reticolato è stato gettato sull'Europa. Alla fine
del XVIII secolo Howard comincerà a percorrerlo; attraverso l'Inghilterra, l'Olanda, la
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Germania, la Francia, l'Italia, la Spagna, egli farà il pellegrinaggio di tutte le importanti sedi
d'internamento - "ospedali, prigioni, case di correzione" e la sua filantropia si indignerà che
si siano potuti relegare tra le stesse mura dei condannati di diritto comune, dei ragazzetti che
turbavano il riposo della loro famiglia o ne dilapidavano le sostanze, della gente malfamata e
degli insensati…. Qual era dunque la realtà presa di mira attraverso tutta questa popolazione, che
si è trovata reclusa da un giorno all'altro o quasi, e bandita più severamente dei lebbrosi?
Non bisogna dimenticare che pochi anni dopo la sua fondazione 1'Hopital général di Parigi
raggruppava seimila persone, cioè circa l'uno per cento della popolazione.
L'usanza dell'internamento indica una nuova reazione alla miseria, e, più in generale, un rapporto diverso dell'uomo verso ciò che può esserci di disumano nella sua esistenza. Il povero, il
miserabile l'uomo che non è padrone della propria esistenza, ha assunto lungo il XVI secolo un
aspetto che il Medioevo non avrebbe riconosciuto.
… i miserabili non sono più riguardati come il pretesto inviato da Dio per suscitare la carità del
credente e fornirgli l'occasione di procurarsi la salvezza; ogni cattolico comincia a vedere in essi
"la feccia e il rifiuto della repubblica non tanto per le loro miserie corporali, di cui bisogna aver
compassione, quanto per quelle spirituali, che fanno orrore".
La Chiesa ha preso la sua decisione; e, ciò facendo, ha diviso il mondo cristiano della miseria,
che il Medioevo aveva santificato nella sua totalità. Ci sarà da un lato la regione del bene, che
è quella della povertà sottomessa e conforme all'ordine che le viene presentato; dall'altro lato
la regione del male, cioè la povertà ribelle, che cerca di sfuggire a quest'ordine. - La prima
accetta l'internamento e vi trova la sua pace; la seconda lo rifiuta, e per conseguenza lo
merita. … L'internamento viene così giustificato doppiamente, in un indissociabile
equivoco, a titolo di beneficio e a titolo di punizione. È insieme ricompensa e castigo,
secondo il valore morale di coloro cui lo si impone. …
Non si tratta più di rinchiudere i senzalavoro, ma di dar lavoro a coloro che sonostati rinchiusi
e di farli così servire alla prosperità comune. L'alternanza è chiara: mano d'opera a buon
mercato nei periodi di pieno impiego e di alti salari; e in periodo di disoccupazione
riassorbimento degli oziosi e protezione sociale contro l'agitazione e le sommosse. Non
dimentichiamo che le prime case d'internamento appaiono in Inghilterra nei centri più
industrializzati del paese: Worcester, Norwich, Bristol; che il primo Hópital general è stato
aperto a Lione, quarant'anni prima che a Parigi …
Non è indifferente che i folli siano stati coinvolti nella grande proscrizione dell'ozio. Fin
dall'inizio essi avranno il loro posto accanto ai poveri, buoni o cattivi, e agli oziosi, volontari o
no. Come gli altri, saranno sottomessi alle leggi del lavoro obbligatorio; e più di una volta è
avvenuto che essi abbiano preso il loro aspetto caratteristico proprio in questa coercizione
uniforme. Nei laboratori dove erano confusi, si sono distinti da soli per la loro incapacità al
lavoro e a seguire i ritmi della vita collettiva. . . . A partire dall'età classica, e per la prima
volta, la follia è sentita attraverso una condanna etica dell'ozio e in un'immanenza sociale
garantita dalla comunità di lavoro. Questa comunità acquista un potere etico di separazione, che
le permette di respingere, come in un altro mondo, tutte le forme dell'inutilità sociale. La follia
riceverà lo statuto che le conosciamo in quest'altro mondo, delimitato dalle potenze consacrate
del lavoro. Se nella follia classica c'è qualcosa che parla di altrove e di qualcosa d'altro, ciò non
deriva più dal fatto che il folle viene da un altro mondo, quello dell'insensato, e che ne porta i
segni; ma dal fatto che egli oltrepassa da se stesso le frontiere dell'ordine borghese e si aliena al
di fuori dei limiti consacrati della sua etica.
È un fenomeno importante questa invenzione di un luogo di coercizione dove la morale
infierisce per via d'assegnazione amministrativa. Per la prima volta si istituiscono delle fondazioni morali, dove si compie una stupefacente sintesi tra obbligo morale e legge civile.
L'ordine degli stati non tollera più il disordine dei cuori. Beninteso, non è la prima volta nella
cultura europea che la colpa morale, perfino nella sua forma più privata, prende l'aspetto di un
attentato contro le leggi scritte o non scritte della città. Ma in questo grande internamento
dell'età classica l'essenziale - e il fatto nuovo - è che la legge non condanna più: si viene
rinchiusi nelle cittadelle della pura moralità, dove la legge che dovrebbe regnare sui cuori sarà
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applicata senza compromessi né mitigazioni, sotto le forme rigorose della coercizione fisica. Si
suppone una specie di reversibilità dall'ordine morale dei problemi a quello fisico, una
possibilità di passare dal primo al secondo senza residui, né violenza, né abuso di potere.
L'applicazione integrale della legge morale non appartiene più agli adempimenti; essa può
realizzarsi a partire dal piano delle sintesi sociali. La morale si lascia amministrare come il
commercio o l'industria.
(M. Foucault, Storia della follia)
DERRIDA
IL FOLLE PROGETTO DI FOUCAULT
Con lo scrivere una storia della follia, Foucault ha voluto — e qui sta tutto il pregio ma anche
l’impossibilità stessa del suo libro — scrivere una storia della follia in se stessa. In se stessa.
Della follia stessa. Vale a dire restituendole la parola. Foucault ha voluto che la follia fosse il
soggetto del suo libro; il soggetto in tutti i sensi di questa espressione: il tema del suo libro e il
soggetto parlante, l'autore del suo libro, la follia che parla di sé. . . . «Storia non della psichiatria
— dice Foucault — ma della follia stessa, nella sua vitalità, prima di ogni cattura da parte del
sapere».
Si tratta dunque di sfuggire alla trappola o alla ingenuità oggettiviste che consisterebbero nello
scrivere, nel linguaggio della ragione classica, utilizzando i concetti che sono stati gli strumenti
storici di una cattura della follia, nel linguaggio coltivato e poliziesco della ragione, una storia
della follia selvaggia, quale esiste e respira prima di essere presa e paralizzata nelle reti di quella
stessa ragione classica. La volontà di evitare questa trappola è costante in Foucault. È ciò che vi
è di più audace, di più seducente in questo tentativo. Ciò che determina anche la sua mirabile
tensione. Ma è anche, non lo dico per giuoco, quel che vi è di più folle nel suo progetto. . .
Non è possibile svincolarsi totalmente dalla totalità del linguaggio storico che avrebbe prodotto
l'esilio della follia, liberarsene per scrivere l'archeologia del silenzio; . . . La disgrazia dei folli,
la disgrazia interminabile del loro silenzio, sta nel fatto che i loro portavoce migliori sono coloro
che li tradiscono meglio; sta nel fatto che, quando si vuole esprimere il loro silenzio stesso, si è
già passati al nemico e dalla parte dell'ordine anche se, dentro l'ordine ci si continua a battere
contro l'ordine e a metterlo in questione nella sua origine. Non c'è cavallo di Troia di cui la
Ragione (in generale) non abbia ragione. La grandezza insuperabile, insostituibile, imperiale
dell'ordine della ragione, ciò che fa si che essa non è un ordine o una struttura di fatto, una
struttura storica determinata, una struttura tra altre possibili, è che contro di essa non si può fare
appello che ad essa, contro di essa non si può protestare che in essa, . .. II che si risolve nel far
comparire una determinazione storica della ragione davanti al tribunale della Ragione in
generale.
L’IO PENSO COME IPERBOLE
Rileggiamo il passo in cui fa la sua apparizione la stravaganza e che Foucault cita.
Collochiamolo al suo posto di nuovo. Descartes ha notato che, poiché i sensi talvolta ci
ingannano, «è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta
ingannati». . . . Ora l'intero paragrafo che segue non esprime il pensiero definitivo e compiuto
di Descartes ma l'obiezione e lo stupore del non-filosofo, del novizio di filosofia che si spaventa
per quel dubbio e che protesta dicendo: ammetto che voi dubitiate di alcune percezioni sensibili
che si riferiscono a cose «molto minute e molto lontane», ma le altre! che voi siate seduto qui
vicino al fuoco e stiate parlando, con questo foglio di carta in mano e altre cose di questa natura!
Allora Descartes assume lo stupore di questo lettore o di questo interlocutore ingenuo, finge di
farlo proprio, quando scrive: «E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono
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miei? A meno che forse non mi paragoni a quegli insensati il cervello dei quali... ecc. E io non
sarei meno stravagante mi regolassi sul loro esempio...»
È solo con il ricorso all'ipotesi del Demone Maligno che Descartes finirà per rendere presente,
convocare la possibilità di una follia totale, di un impazzimento totale . . .
Questa volta la follia, la stravaganza non risparmia più nulla, né la percezione del mio corpo, né
le percezioni puramente intellettuali. Descartes ammette ciò che fingeva di non ammettere nella
conversazione coni il non filosofo.
L'audacia iperbolica del Cogito cartesiano, la sua audacia folle, che forse noi non
comprendiamo più molto bene come audacia perché, diversamente dal contemporaneo di
Descartes, siamo troppo sicuri, troppo avvezzi al suo schema più che alla sua esperienza acuta.
La sua audacia folle, consiste dunque nel tornare verso un punto originario che non appartiene
più alla coppia di una ragione e di una insensatezza determinate, alla loro opposizione o alla
loro alternativa. Che io sia folle o no, Cogito, sum.
Nella misura in cui spunta, nel dubbio e nel Cogito cartesiano, quel progetto di un eccesso
inaudito e singolare, di un eccesso verso il non- determinato, verso il Nulla o l'Infinito, di un
eccesso che sopravanza la totalità del pensabile, la totalità dell'entità e del senso determinati, la
totalità della storia di fatto, in questa misura, ogni impresa per quanto comprensiva che si sforzi
di ridurla, di imprigionarla in una struttura storica determinata, rischia di lasciarsi sfuggire
l'essenziale, di smussarne la punta stessa.
Io credo, dunque, che sia possibile ridurre tutto ad una totalità storica determinata (in
Descartes), tutto tranne il progetto iperbolico.
L’IO PENSO COME RAGIONE RAGIONEVOLE
Mi rendo conto che nel movimento che viene chiamato il Cogito cartesiano, non c'è soltanto
questa punta iperbolica che dovrebbe essere, come ogni follia pura in generale, silenziosa. Dal
momento che ha raggiunto questa punta, Descartes cerca di rassicurarsi, di garantire il Cogito
stesso in Dio, di identificare l'atto del Cogito con l'atto di una ragione ragionevole.
Sotto questo si nasconde il riconoscimento di una verità d'essenza e di diritto: cioè che il
discorso e la comunicazione filosofici (vale a dire il linguaggio stesso), se debbono avere un
senso intelligibile, vale a dire conformarsi alla loro essenza e vocazione di discorso, debbono
sfuggire di fatto e simultaneamente di diritto alla follia. Debbono portare in se stessi la
normalità. E questa non è una debolezza cartesiana. E non è una tara o una mistificazione
connessa a una struttura storica determinata; è una necessità d'essenza universale a cui nessun
discorso può sfuggire perché essa appartiene al senso del senso. È una necessita a cui nessun
discorso può sfuggire, neppure quello che denuncia una mistificazione o un colpo di forza.
. . . Nel testo di Descartes almeno, è a questo punto che ha luogo l'imprigionamento.
A questo punto l'erranza iperbolica e folle ritorna ad essere itinerario e metodo, percorso
«sicuro» e «risoluto» sul nostro mondo esistente che Dio ci ha restituito come terra ferma.
Perché è solo Dio che, alla fine, permettendomi di uscire da un Cogito che nel suo momento
proprio può sempre rimanere una follia silenziosa, è solo Dio che garantisce le mie
rappresentazioni e le mie determinazioni cognitive, vale a dire il mio discorso contro la follia. . .
.
Ma Dio è l'altro nome dell'assoluto della ragione stessa, della ragione e del senso in generale.
Non si può accusare tutti coloro, individui o società, che sono ricorsi a Dio contro la follia, di
cercare di mettersi al riparo, di garantirsi delle difese, delle frontiere ausiliari, se non facendo di
questo rifugio un rifugio finito, nel mondo, facendo di Dio una potenza finita, vale a dire,
ingannandosi; ingannandosi non tanto sul contenuto e sulla finalità effettiva di quel gesto nella
storia, ma sulla specificità del pensiero e del nome di Dio. Se la filosofia ha avuto luogo—che è
un fatto sempre contestabile — ha avuto luogo solo nella misura in cui ha concepito il piano di
pensare al di là del rifugio finito.
(J. Derrida, La scrittura e la differenza, 53)
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IL SOGGETTO NELLA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
Filosofia moderna:
la scoperta del soggetto
Cartesio: l’io come prima
certezza
Hobbes, Locke: lo stato
come prodotto dell’uomo
Hume: la scienza
della natura umana
Kant: le forme a priori
(strutture mentali) del
soggetto
Ottocento:
l’individuazione del soggetto
Dimensione collettiva
Hegel: storico-culturale
(Spirito oggettivo)
Feuerbach: relazionale
Marx: storico-sociale
(materialismo storico)
Positivismo: naturalebiologica
Novecento :
la dissoluzione del soggetto
La critica al modello storico
di uomo occidentale:
La scuola di Francoforte:
l’uomo eterodiretto
Heidegger: la vita inautentica
Dimensione individuale
Romanticismo: sentimenti,
emozioni
La critica al concetto di
soggetto
Heidegger: Io non originario,
io, mondo e altri si
costituiscono insieme
Strutturalismo, poststrutturalismo: soggetto =
Rousseau: la società come
strutture linguistiche, culturali,
Nietzsche: psico-culturale
causa della degenerazione
sociali, economiche
Freud: inconscia
dell’uomo
Soggetto = Nietzsche  volontà
I maestri del sospetto:
di potenza (volontà di dar senso
Il dubbio investe l’oggetto,
Marx, Nietzsche, Freud
a se stesso e alle cose)
la realtà delle cose
Soggeo ≠ cos ci enz a
Soggetto = Freud  pulsioni,
Il dubbio investe il soggetto
desideri inconsci
Soggetto = ragione
Kierkegaard: esistenziale
Novecento : la dissoluzione del soggetto
Soggetto = volontà di potenza (volontà di dar senso a se stesso e alle cose)
L’interpretazione (ermeneutica)
Heidegger: il linguaggio come luogo di incontro dell’uomo e del mondo
Gadamer: comunità linguistica e dialogo
Derrida: la decostruzione dei testi, l’importanza del non detto
La volontà
Sartre: progetto, responsabilità, impegno (esistenzialismo)
Scuola di Francoforte: critica al sistema e resistenza all’irrazionalità del sistema (Marxismo)
Foucault: la rivolta contro i poteri, la cura di sé (strutturalismo, post-strutturalismo)
Soggetto = Freud  pulsioni, desiderio
Freud: maggior controllo razionale e minor repressione sociale
Marcuse: eliminazione repressione sociale e liberazione eros (Scuola di Francoforte)
Deleuze: liberazione desiderio (post-strutturalismo)
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CARTESIO: L’EVIDENZA DEL SOGGETTO
. . . poiché i nostri sensi talvolta c'ingannano, volli supporre non esserci nessuna cosa che fosse
quale essi ce la fanno immaginare. . . . pensai ch'io ero soggetto ad errare come ogni altro, e
però respinsi come falsi tutti i ragionamenti che avevo preso sin allora per dimostrazioni. In
fine, considerando che gli stessi pensieri, che noi abbiamo quando siam desti, possono tutti
venirci anche quando dormiamo benché allora non ve ne sia alcuno vero, mi decisi a fingere che
tutto quanto era entrato nel mio spirito sino a quel momento non fosse più vero delle illusioni
dei miei sogni. Ma, subito dopo, m'accorsi che, mentre volevo in tal modo pensare falsa ogni
cosa, bisognava necessariamente che io, che la pensavo, fossi pur qualcosa. Per cui, dato che
questa verità: Io penso, dunque sono, è così ferma e certa . . . giudicai di poterla accogliere
senza esitazione come il principio primo della mia filosofia. (Cartesio, Discorso sul metodo)
SEMBRA che oltre le discipline filosofiche non sia necessario ammettere un'altra scienza. ...
RISPONDO: Era necessario, per la salvezza dell'uomo che, oltre le discipline filosofiche
d'indagine razionale, ci fosse un'altra dottrina procedente dalla divina rivelazione. Prima di tutto
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perché l'uomo è ordinato a Dio come ad un fine che supera la capacità della ragione (Tommaso
d’Aquino, Somma teologica, Parte prima, Questione 1)
Poi, esaminando con attenzione ciò che ero, e vedendo che potevo fingere, sì, di non avere
nessun corpo, e che non esistesse il mondo o altro luogo dove io fossi, ma non perciò potevo
fingere di non esserci io . . . ne conclusi esser io una sostanza, di cui tutta l'essenza o natura
consiste solo nel pensare . . . Questo che dico «io», dunque, cioè, l'anima, per cui sono quel che
sono, è qualcosa d'interamente distinto dal corpo, ed è anzi tanto più facilmente conosciuto, sì
che, anche se il corpo non esistesse, non perciò cesserebbe di esser tutto ciò che è. (Cartesio,
Discorso sul metodo)
Se davvero platonismo e cristianesimo sono le due grandi correnti di pensiero che hanno dato
vita e volto all'Occidente, la mortificazione del corpo da loro inaugurata ha trovato il suo
proseguimento e la sua radicalizzazione nel sistema delle scienze moderne che Cartesio ha
inaugurato e in cui ancora oggi, senza residui, l'Occidente si identifica. Per fondare questo
mondo oggettivo e astratto Cartesio ha dovuto mettere tra parentesi la vita pre ed extrascientifica e quindi tutte quelle formazioni di senso che si fondano sull'esperienza corporea
attraverso cui il mondo ci è direttamente alla mano. L'io dell'uomo sensibilmente intuitivo della
vita quotidiana venne spezzato in anima e corpo. Il corpo, da soggetto che esplora con i suoi
sensi il mondo, venne risolto in oggetto, relegato nella “cosa estesa”, e inteso, al pari di tutti gli
altri corpi, in base alle leggi fisiche che presiedono l'estensione e il movimento. . . .
Tra l'io umano che abita il mondo e l'ego cogito c'è una sola differenza: l'io umano abita un
corpo, l'ego cogito è pura mente. (U.Galimberti , Psichiatria e fenomenologia)
Così le cose naturali si dicono vere in quanto attuano la somiglianza delle specie che sono nella
mente di Dio: p. es., si dice vera pietra, quella che ha la natura propria della pietra, secondo la
concezione preesistente nella mente di Dio. - Quindi, la verità è principalmente nell'intelletto,
secondariamente nelle cose, per la relazione che esse hanno all’intelletto, come a loro principio.
L'assioma, «la verità è adeguazione tra la cosa e l'intelletto», può riferirsi ai due aspetti della
verità. (Tommaso d’Aquino, Somma teologica, Parte prima, Questione 16)
Ora io chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò anche dal
mio pensiero tutte le immagini delle cose corporee, . . . e così intrattenendo solamente me
stesso e considerando il mio interno, cercherò di rendermi a poco a poco più noto e più familiare
a me stesso. Io sono una cosa che pensa . . .
In questa prima conoscenza non si trova nient'altro che una chiara e distinta percezione del fatto
che io conosco; percezione, la quale, a dir vero, non sarebbe sufficiente per assicurarmi che essa
è vera se potesse mai accadere che si trovasse esser falsa una cosa, che io concepissi così
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chiaramente e distintamente. E pertanto mi sembra che già possa stabilire per regola generale,
che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere.
(Meditazioni metafisiche , Terza meditazione)
Supporrò dunque che non Dio, sommo bene, fonte di verità, ma un genio maligno, sommamente
potente ed astuto, abbia posto ogni suo sforzo ad ingannarmi; riterrò che il cielo, l'aria, la terra, i
colori, le figure, i suoni e tutto il mondo esterno non siano altro che inganni di sogni, con i quali
ha cercato di ingannare la mia credulità. . . .
Ma forse Dio non ha voluto che fossi così ingannato, ed infatti viene definito come
sommamente buono. . . .
Ma dopo che ho riconosciuto che vi è un Dio, per il fatto che, in pari tempo, ho riconosciuto
anche che tutte le cose dipendono da lui, e ch'egli non è ingannatore, ed in seguito a ciò ho
giudicato che tutto quel ch'io concepisco chiaramente e distintamente non può non essere vero,
ancorché non pensi più alle ragioni per le quali l'ho giudicato vero, purché mi ricordi di averlo
chiaramente compreso, non mi si può portare niuna ragione contraria, che me lo faccia mai
revocare in dubbio. (Cartesio, Meditazioni metafisiche, Terza meditazione)
Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virai, e la tua sapienza incalcolabile.
E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale,
che si porta attorno la prova del suo peccato . . .
Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di
me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire
dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra"? (Agostino d’Ippona, Confessioni)
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CARTESIO: L’EVIDENZA DEL SOGGETTO
I sensi possono ingannarci
bisognava necessariamente che io,
che la pensavo, fossi pur qualcosa
I ragionamenti possono essere sbagliati
Non possiamo distinguere tra sogno e realtà
Un demone maligno potrebbe ingannarmi
(dubbio iperbolico)
Io penso, dunque sono
il principio primo della mia filosofia
Centralità soggetto
Il soggetto è alla base delle rappresentazioni delle cose
Centralità ed evidenza per il soggetto
Il pensiero rispecchia la realtà com’è?
Io penso, dunque sono
Posso fingere di non aver un corpo, che il mondo
non esista, pensare di essere ingannato ma non
perciò . . . di non esserci io (= non pensare)
Sono una sostanza pensante distinta dal corpo
Separazione anima e corpo
Dubbio mondo esterno
tutte le cose che noi concepiamo
molto chiaramente e molto
distintamente sono vere
Perché Dio essendo buono non può
permettere che ci inganniamo
René Descartes (1596-1650)
11
L'usanza dell'internamento indica una nuova reazione alla miseria, un nuovo patetico e, più in
generale, un rapporto diverso dell'uomo verso ciò che può esserci disumano nella sua esistenza.
Il povero, il miserabile, il folle, l'uomo che non è padrone della propria esistenza, ha assunto
lungo il XVI secolo un aspetto che il Medioevo non avrebbe riconosciuto. (Foucault, Storia
della follia, pag. 67-69)
È un luogo comune affermare che la Riforma ha portato a una laicizzazione delle opere nei
paesi protestanti. Ma incaricandosi per conto proprio di tutta questa popolazione di poveri e
d'incapaci, lo stato o l'amministrazione pubblica preparano una nuova forma di sensibilità alla
miseria; sta per nascere un'esperienza del patetico che non parla più di una glorificazione del
dolore, né di una salvezza comune alla Povertà e alla Carità, ma che intrattiene l'uomo
unicamente nei suoi doveri verso la società e indica nel miserabile, a un tempo, un effetto del
disordine e un ostacolo all'ordine. Non si tratta dunque più di esaltare la miseria nel gesto che le
porta sollievo, ma, semplicemente, di sopprimerla. Se si rivolge alla Povertà come tale, anche la
Carità è disordine. (Foucault, Storia della follia, pag. 84)
Ma occorrerà. un lungo periodo di latenza, i quasi due secoli della Renaissance, perché la follia,
questa nuova ossessione che succede alla lebbra come paura secolare, susciti al pari di essa
reazioni tendenti alla separazione, all'esclusione, alla purificazione, che pure le sono apparentate
in modo evidente
… Da un lato Bosch, Brueghel, Dürer e tutto il silenzio delle immagini . . . Dall'altro lato, con
Brandt, con Erasmo, con tutta la tradizione umanistica, la follia è accolta nell'universo del
discorso.
In breve, la coscienza critica della follia si è andata sempre più illuminando, mentre i suoi
aspetti tragici si oscuravano progressivamente (Foucault, Storia della follia, pag. 67-69)
Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l'esperienza, così
familiare alla Renaissance, di una Ragione sragionevole e di una ragionevole Sragione. Fra
Montaigne e Descartes si è prodotto un avvenimento: qualcosa che riguarda l'avvento di una
ratio. Ma la storia di una ratio come quella del mondo occidentale è ben lontana dall'esaurirsi
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nel progresso di un "razionalismo"; essa è costituita, in parte altrettanto grande, anche se più
segreta, dal movimento con cui la Sragione è sprofondata nel nostro suolo, per sparirvi senza
dubbio, ma per prendervi radice (Foucault, Storia della follia, pag. 70
FOUCAULT: LO SGUARDO DI CARTESIO
Nel cammino del dubbio, Cartesio incontra la follia accanto al sogno e a tutte le forme d'errore.
Nell'economia del dubbio c'è uno squilibrio fondamentale tra follia da una parte, sogno ed errore
dall'altra. La loro situazione è diversa in rapporto alla verità e a colui che la cerca; sogni e
illusioni sono superati nella struttura stessa della verità; ma la follia è esclusa dal soggetto che
dubita. Come ben presto sarà escluso che egli non pensi e che non esista. Una certa decisione è
stata presa, dal tempo degli Essais. Quando Montaigne incontrava il Tasso, niente lo assicurava
del fatto che ogni pensiero non fosse intriso di sragione. . . . Ora, Descartes ha acquistato questa
certezza e la conserva solidamente: la follia non può più riguardarlo. Sarebbe una stravaganza il
supporre d'essere stravagante; . . . Così il rischio della follia è scomparso dall'esercizio stesso
della Ragione. Quest'ultima è ridotta a un pieno possesso di se stessa, in cui non può incontrare
altre insidie che l'errore, altri pericoli che l'illusione. (Foucault, Storia della follia, pag. 67-69)
FOUCAULT: l’AUTOCONSAPEVOLEZZA DEL SOGGETTO
Ho cercato di dimostrare come il soggetto costituisse se stesso, in questa o quella determinata
forma, in quanto soggetto folle o soggetto sano, in quanto soggetto delinquente o in quanto
soggetto non delinquente, attraverso alcune pratiche che erano giochi di verità, pratiche di
potere, ecc. Dovevo rifiutare una certa teoria a priori del soggetto per poter fare l'analisi dei
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rapporti che intercorrono tra la costituzione del soggetto o le differenti forme di soggetto e i
giochi di verità, le pratiche di potere, ecc. . . . quando dico "gioco" dico un insieme di regole di
produzione della verità. Non è un gioco nel senso di imitare o di recitare..., si tratta di un
insieme di procedure che conducono a un certo risultato, che può essere considerato, in funzione
dei suoi princìpi e delle sue regole di procedura, come valido o no, come vincente o perdente.
(Archivio Foucault “Interventi, colloqui, interviste, Vol III 1978-85)
L'internamento, questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta l'Europa del
XVII secolo . . . Prima di avere il senso medico che noi gli diamo, o che desideriamo supporre
in esso, l'isolamento si è reso necessario per tutt'altra causa che la preoccupazione di guarire.
Ciò che l'ha reso necessario è un imperativo di lavoro. La nostra filantropia vorrebbe volentieri
riconoscere i segni di una benevolenza verso la malattia, là dove spicca solo la condanna
dell'ozio.
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Esso costituisce una delle risposte che vengono date dal XVII secolo a una crisi economica che
interessa tutto il mondo occidentale nel suo insieme . . .
L'alternanza è chiara: mano d'opera a buon mercato nei periodi di pieno impiego e di alti salari;
e in periodo di disoccupazione riassorbimento degli oziosi e protezione sociale contro
l'agitazione e le sommosse. Non dimentichiamo che le prime case d'internamento appaiono in
Inghilterra nei centri più industrializzati del paese; in Francia a Lione, quarant'anni prima che a
Parigi … In questo primo slancio del mondo industriale il lavoro non appare legato ai problemi
che esso stesso susciterà; lo si concepisce invece come soluzione generale, panacea infallibile,
rimedio a tutte le forme di miseria. (M. Foucault, Storia della follia)
È un fenomeno importante questa invenzione di un luogo di coercizione dove la morale
infierisce per via d'assegnazione amministrativa.
L'ordine degli stati non tollera più il disordine dei cuori.
Si suppone una specie di reversibilità dall'ordine morale dei problemi a quello fisico, una
possibilità di passare dal primo al secondo senza residui, né violenza, né abuso di potere.
L'applicazione integrale della legge morale non appartiene più agli adempimenti; essa può
realizzarsi a partire dal piano delle sintesi sociali. La morale si lascia amministrare come il
commercio o l'industria. (M. Foucault, Storia della follia)
Il disegno complessivo composto dall’insieme delle misure repressive e di controllo è quello di
una cittadella ortodossa, cinta da mura spirituali e materiali, protetta da milizie celesti ma anche
terrene
... l'affermazione delle nuove dimensioni della presenza della Chiesa passava attraverso la
costruzione di un rapporto individuale col singolo cristiano in quanto fedele. E la persona si
riassumeva e si concentrava nella coscienza come luogo segreto, accessibile solo al confessore o
comunque al potere ecclesiastico: d'altra parte, l'effetto del potere su quel luogo si fece sempre
piú evidente nella serie di immagini e termini giudiziari (tribunale, prove, indizi, probabilità,
esame ecc.) con cui la coscienza si rese pensabile nella letteratura dei «casi» dedicata al suo
governo … (A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari)
Processo di disciplinamento della società ... a Savigliano
Il nome del Signor nostro Giesu Christo sii l'Anno di nostra salute millecinquecento novanta
sette ... in savigliano ... sono comparsi m. Antonio et mad. Anna di Savigliano...quali sono
carrighi di quattro figliuoli piccoli et non haver per la Grande carestia del presente anno et mala
riaccolta fatta il modo di allimentarsi luoro con detti luoro figlioli per non haver esso Antonio
alcun essercitio salvo non venghino all'allienatione della suddetta possessione. ...
Archivio storico Ospedale SS. Annunziata di Savigliano
..La Congregazione ha stimato bene far un scrutinio, ossia esame delle famiglie vergognose, e
per ciò fare ha eletto gli Signori A. Filiberto Longis, teologo e Canonico Carignani e Maurizio
Derossi dandoli per ciò fare l'autorità necessaria ...
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...Ha ordinato doversi licenziare Giovanni Battista Negro una delle due Guardie della presenteCongregazione dalla servitù di Guardia suddetta mandando alli signori Habdomadarv di farsi
rimettere da detto Negro il vestito. Camisotta. Calze, spada, cappello, Calzetti, et ogni altra
cosa...mandando anche a dire ... d'invigilare per provveder diverse persone che passino servir
nella qualità predetta ...
Archivio storico Ospedale SS. Annunziata di Savigliano
«Hebbe a pena il buon Vescovo (Ancina) nella sua Chiesa il piede fisso, che tutto si rivolse alla
riforma di quella, la quale per mancamento di Pastore, et a causa delle passate guerre,
cominciava a patire delle incommodità, et disastri, che le povere greggie sentono, quando da i
loro veri guardiani sono abbandonate. . .
Nella visita principalmente s'informava da Curati delli andamenti de' loro popoli ...
ordinò, che in tutto, e per tutto s'osservassero le costitutioni del sacro, et santo Concilio di
Trento . . . levò l'abuso di mangiare carne la prima Domenica di Quaresima, et di commetter
certe pazzie, che solevano fare in memoria del passato Carnovale i giovani della città in quel
giorno. ( F. A. Della Chiesa "Vita del servo di Dio Mons. Giovenale Ancina di Fossano", prima
edizione 1629)
FOUCAULT , UN FALSIFICATORE ANTIDEMOCRATICO
Non con l'apparizione dell'età classica e del cartesianesimo, ma forse con la nascita e lo
sviluppo di una società democratica, nel senso che Tocqueville dà alla parola, l'internamento
intrattiene uno stretto rapporto. . . . L'ipotesi è sostenuta da altrettante tesi, direttamente volte
contro la ricostruzione di Foucault: la prima è che, contrariamente a ciò che afferma Foucault, la
dinamica dell'età moderna non consiste, nella sua essenza, in una esclusione della alterità. La
logica delle società moderne è casomai quella descritta da Tocqueville, ossia una logica di
integrazione, sottesa dal postulato di una uguaglianza fondamentale tra gli uomini.
Torniamo al principio delle analisi di Foucault nella Storia della follia stesa e nella successiva
ripresa nello studio sul sistema carcerario. Questo principio, di ispirazione chiaramente
heideggeriano-nicciana, consiste nel situare ciò che è proprio della ragione moderna nella sua
incapacità di pensare la differenza (o l'alterità) e nella sua propensione a reprimerla. Applicando
questo principio alla storia della follia, il risultato è questo: se il folle fa paura, reca disturbo, il
motivo è che egli è l'interamente altro per eccellenza. (L. Ferry, A. Renaut, Il 68 pensiero, 120121)
Ne segue che il fenomeno dell'internamento deve essere interpretato in una maniera totalmente
diversa da quella avanzata da Foucault. Nella logica dello Stato moderno, due sono gli elementi
che spiegano la vera natura dell'internamento: il primo è che, per il suo stesso principio, lo Stato
moderno è chiaramente trascinato da una dinamica dell'eguaglianza; il secondo è che, per la sua
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stessa funzione, lo Stato di volta in volta interviene come «gendarme», per assicurare compiti di
protezione, e come «protettore» al cui orizzonte è il ruolo di «Stato-benessere». Riportato entro
questa logica, il significato dell'internamento diventa al tempo stesso chiaro e sottile:
— Percepito infatti rispetto a uno sfondo di eguaglianza, il folle è minaccioso per noi . . .:
stando alla logica della funzione repressiva dello Stato, il folle dovrebbe perciò essere rinchiuso.
— Tuttavia, in quanto minaccia, il folle è a sua volta minacciato da quelli che si prendono beffe
di lui e di fronte ai quali egli si trova indifeso. Il principio di eguaglianza impone di vedere in lui
. . . un uomo come gli altri che, in quanto tale, ha diritto alla protezione dello Stato. Stando alla
logica della seconda funzione dello Stato, non dovrà dunque essere più semplicemente
rinchiuso, bensì curato. (L. Ferry, A. Renaut, Il 68 pensiero, 123)
Da questo punto di vista la storia della follia, in cui si inscrive la nascita dell'utopia democratica
del manicomio, non sembra nonostante tutto poter essere letta se non come la storia di un
progresso. E, in questo senso, le tesi principali di Foucault dovrebbero apparire sbagliate, e forse
persino ingannevoli, sia storicamente che filosoficamente: sul filo di quella indagine sulla storia
della follia, i cui principi sono stati applicati in seguito alla storia dell'istituzione penale, si è
dispiegato un vasto disegno di falsificazione della storia moderna, unilateralmente presentata
come un multiforme processo di repressione. (L. Ferry, A. Renaut, Il 68 pensiero, 127)
Il grande internamento di cui parla Foucault si è effettivamente verificato, ma non all'inizio
dell'età classica (la Storia della follia fissa la data del 1656). In realtà i documenti consentono di
valutare in circa duemila persone gli internati nel 1660, un numero che raggiungerà i cinquemila
dopo la Rivoluzione e i centomila nel 1914. (L. Ferry, A. Renaut, Il 68 pensiero, 120)
L. Ferry (1951)
FOUCAULT: IL RIEMERGERE DELLA FOLLIA
In breve, la coscienza critica della follia si è andata sempre più illuminando, mentre i suoi
aspetti tragici si oscuravano progressivamente. Questi ultimi saranno presto del tutto evitati. Per
molto tempo, si faticherebbe a trovarne la traccia; solo alcune pagine di Sade e l'opera di Goya
testimoniano che questa sparizione non significa annientamento, che questa esperienza tragica
sussiste ancora oscuramente nella notte del pensiero e dei sogni, e che nel XVI secolo non si è
trattato di una distruzione radicale, ma soltanto di un occultamento. L'esperienza tragica e
cosmica della follia è stata mascherata dai privilegi esclusivi di una coscienza critica. È per
questo che l'esperienza classica, e attraverso di essa l'esperienza moderna della follia, . . . è un
insieme squilibrato a causa di tutto ciò che gli manca, cioè a causa di tutto ciò che lo nasconde.
Sotto la coscienza critica della follia e le sue norme filosofiche o scientifiche, morali o mediche,
una sorda coscienza tragica non ha cessato di vegliare.
E lei che le ultime parole di Nietzsche, le ultime visioni di Van Gogh, hanno ridestato. È lei che
indubbiamente Freud ha cominciato a presentire all'estremità del suo cammino: sono le sue
grandi lacerazioni che egli ha voluto simbolizzare con la lotta mitologica della libido e
dell'istinto di morte. (M. Foucault, Storia della follia)
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LO SGUARDO DI DERRIDA
Derrida dissente. Non è vero che tutto, tranne la volontà di potenza, è storico, e non è vero che
ci si può disfare del passato così come si cambia abito: le idealità e le strutture che si
conquistano attraverso la storia non si cancellano a colpi di decisioni, giacché nessuna
deliberazione di quel genere potrà cambiare i principi della geometria, e probabilmente
nemmeno certi aspetti della nostra razionalità o del nostro vivere sociale. Noi non possiamo
giungere né a ciò che è esterno alla nostra razionalità, né vedere la nostra razionalità
dall'esterno, non più di quanto possiamo davvero metterci al posto di un altro. L'idea di una
uscita radicale dai vincoli conquistati e tramandati è dunque una chimera, così come in fondo
chimerica è l'aspirazione — che i filosofi francesi ora alimentano attraverso la lettura di
Heidegger e di Nietzsche — di oltrepassare la metafisica, cioè — fuor di metafora — di
giungere infine a un mondo selvaggio e liberato. (M. Ferraris, Introduzione a Derrida, 53)
. . . se la decisione attraverso la quale la ragione si costituisce escludendo ed oggettivando la
soggettività libera della follia, se questa decisione è proprio l'origine della storia, se è la
condizione del senso e del linguaggio, la condizione della tradizione del senso . . . allora il
momento «classico» di questa esclusione, quello che descrive Foucault, non ha né privilegio
assoluto né esemplarità archetipa. . .
La crisi classica si svilupperebbe a partire dalla e nella tradizione elementare di un logos che
non conosce contrario, ma che porta in sé e dice ogni contraddizione determinata. Questa
dottrina della tradizione del senso e della ragione sarebbe stata tanto pii necessaria in quanto
essa sola può forse fornire un senso e una razionalità in generale al discorso di Foucault e ad
ogni discorso sulla guerra tra ragione e insensatezza. (J. Derrida, La scrittura e la differenza,
53)
Se la filosofia non può coltivare il progetto di una uscita radicale dalla sfera degli schemi che
costituiscono la nostra esperienza, l'esercizio critico che resta praticabile è quello . . . che
Derrida ha chiamato «decostruzione», e consiste nel tentativo, condotto attraverso la lettura di
testi della tradizione, di esplicitare le contrapposizioni del discorso filosofico, mettendo il luce
le rimozioni su cui si istituiscono, i giudizi di valore che incorporano spesso inavvertitamente o
almeno implicitamente, e dunque di rivelare la struttura totale della nostra razionalità, che si
manifesta piuttosto in negativo che non in positivo, attraverso delle resistenze invece che in
tavole delle categorie . . . si parte dal dato, e si rivelano le strutture e le condizioni che lo
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determinano. La regola generale è che dove c'è esperienza c'è resistenza, e dove c'è resistenza
c'è anche, da qualche parte, un apriori nascosto. (M. Ferraris, Introduzione a Derrida, 55)
Con lo scrivere una storia della follia, Foucault ha voluto — e qui sta tutto il pregio ma anche
l’impossibilità stessa del suo libro — scrivere una storia della follia in se stessa. In se stessa.
Della follia stessa. Vale a dire restituendole la parola. . . . la follia che parla di sé . . . vale a dire
a partire dalla sua propria istanza e non nel linguaggio della ragione, nel linguaggio della
psichiatria sulla follia . . . su di una follia già annientata sotto di essa, dominata, abbattuta,
rinchiusa, cioè costituita in oggetto ed esiliata come l'altro di un linguaggio e di un senso storico
che è stato volutamente confuso con il logos stesso. . . .
Si tratta dunque di sfuggire alla trappola o alla ingenuità oggettiviste . . . che consisterebbero
nello scrivere, nel linguaggio della ragione classica, utilizzando i concetti che sono stati gli
strumenti storici di una cattura della follia, nel linguaggio coltivato e poliziesco della ragione,
una storia della follia selvaggia . . La volontà di evitare questa trappola è costante in Foucault.
È ciò che vi è di più audace, di più seducente in questo tentativo. Ciò che determina anche la sua
mirabile tensione. Ma è anche, non lo dico per giuoco, quel che vi è di più folle nel suo
progetto. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 43-44)
Si tratta dunque di sfuggire alla trappola o alla ingenuità oggettiviste . . . che consisterebbero
nello scrivere, nel linguaggio della ragione classica, utilizzando i concetti che sono stati gli
strumenti storici di una cattura della follia, nel linguaggio coltivato e poliziesco della ragione,
una storia della follia selvaggia . . La volontà di evitare questa trappola è costante in Foucault.
È ciò che vi è di più audace, di più seducente in questo tentativo. Ciò che determina anche la sua
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mirabile tensione. Ma è anche, non lo dico per giuoco, quel che vi è di più folle nel suo
progetto. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 43-44)
Non è possibile svincolarsi totalmente dalla totalità del linguaggio storico che avrebbe prodotto
l'esilio della follia, liberarsene per scrivere l'archeologia del silenzio . . . La disgrazia dei folli, la
disgrazia interminabile del loro silenzio, sta nel fatto che i loro portavoce migliori sono coloro
che li tradiscono meglio; sta nel fatto che, quando si vuole esprimere il loro silenzio stesso, si è
già passati al nemico e dalla parte dell'ordine anche se, dentro l'ordine ci si continua a battere
contro l'ordine e a metterlo in questione nella sua origine. (J. Derrida, La scrittura e la
differenza, 43-44)
indubbiamente non si può scrivere una storia, né una archeologia contro la ragione perché,
malgrado le apparenze, il concetto di storia è sempre stato un concetto razionale. (J. Derrida, La
scrittura e la differenza, 46)
Foucault è il primo, che io sappia, ad aver isolato cosi, nelle Meditazioni, il delirio e la follia
dalla sensibilità e dai sogni. Ad averli isolati nel loro senso filosofico e nella loro funzione
metodologica. È questa l'originalità della sua lettura. .. .
Rileggiamo il passo in cui fa la sua apparizione la stravaganza e che Foucault cita.
Collochiamolo al suo posto di nuovo. Descartes ha notato che, poiché i sensi talvolta ci
ingannano, «è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta
ingannati» . . . Ora l'intero paragrafo che segue non esprime il pensiero definitivo e compiuto di
Descartes ma l'obiezione e lo stupore del non-filosofo, del novizio di filosofia che si spaventa
per quel dubbio e che protesta dicendo: ammetto che voi dubitiate di alcune percezioni sensibili
che si riferiscono cose «molto minute e molto lontane», ma le altre! che voi siate seduto qui
vicino al fuoco e stiate parlando! . . . Allora Descartes assume lo stupore di questo lettore o di
questo interlocutore ingenuo, finge di farlo proprio, quando scrive: «E come potrei io negare che
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queste mani e questo corpo sono miei? A meno che forse non mi paragoni a quegli insensati il
cervello dei quali... ecc. E io non sarei meno stravagante mi regolassi sul loro esempio...». (J.
Derrida, La scrittura e la differenza, 59-75)
il ricorso all'ipotesi del Demone Maligno finirà per rende presente, convocare la possibilità di
una follia totale . . . introdurrà il sovvertimento nel pensiero puro, nei suoi oggetti puramente
intelligibili, nel campo delle idee chiare e distinte, nel regno delle verità matematiche che
sfuggivano al dubbio naturale. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 59-75)
L'interpretazione di Foucault mi sembra illuminante a partire dal momento in cui il Cogito deve
riflettersi e proferirsi in un discorso filosofico organizzato. . . .
A partire dal momento in cui lo enuncia, Descartes inscrive il Cogito in un sistema di deduzioni
e di protezioni che tradiscono la sua sorgente viva e frenano l'erranza propria del Cogito per
aggirare l'errore.
Il folle, se anche potesse ricusare il Demone Maligno, non potrebbe in ogni caso dirselo. Non
può dunque dirlo. . . .
Quella identificazione del Cogito con la ragione ragionevole avviene quando . . . Descartes
deve inscriverlo nel linguaggio o nel sistema deduttivo dal momento in cui lo propone
all'intelligibilità e alla comunicazione, vale a dire dal momento che lo riflette per l'altro, il che
significa per sé. È in questo rapporto all'altro come altro io che il senso si rassicura contro la
follia e il non-senso...
Il discorso e la comunicazione filosofici (vale a dire il linguaggio stesso), se debbono avere un
senso intelligibile, vale a dire conformarsi alla loro essenza e vocazione di discorso, debbono
sfuggire di fatto e simultaneamente di diritto alla follia. Debbono portare in se stessi la
normalità. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 59-75)
DERRIDA: LO SGUARDO CHE CREA UN NUOVO ORDINE
. . . la struttura di esclusione che Foucault intende descrivere nel suo libro non sarebbe nata con
la ragione classica. Sarebbe stata consumata e rassicurata e insediata da secoli nella filosofia.
Sarebbe essenziale alla totalità della storia della filosofia e della ragione. In questa prospettiva
l'età classica non avrebbe né specificità né privilegio. (J. Derrida, La scrittura e la differenza,
43-44)
Si tratta dunque di accedere al punto in cui il dialogo è stato interrotto, si è diviso in due
soliloqui: a ciò che Foucault chiama con una parola molto forte la Decisione. La Decisione
collega e separa nello stesso momento ragione e follia; essa deve essere intesa qui nello stesso
tempo come l'atto originario di un ordine, di un fiat, di un decreto, e come una lacerazione, una
cesura, una separazione, un dissenso per sottolineare che si tratta di una divisione da sé, di una
spartizione e di un tormento interiore del senso in generale, del logos in generale, di una
spartizione nell'atto stesso del sentire. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 48-49
Separando, nel Cogito, da una parte l'iperbole (che, secondo me, non può lasciarsi imprigionare
in una struttura storica di fatto e determinata perché è progetto di eccedere ogni totalità finita e
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determinata), e d'altra parte ciò che nella filosofia di Descartes (o parimenti in quella che fonda
il Cogito agostiniano o il Cogito husserliano) fa parte di una struttura storica di fatto, io non
propongo di separare in ogni filosofia il grano dal loglio in nome di qualche philosophia
perennis. Propongo precisamente il contrario. Si tratta di rendere conto della storicità stessa
della filosofia. Io credo che la storicità in generale non sarebbe possibile senza una storia della
filosofia e credo che quest'ultima non sarebbe a sua volta possibile se ci fosse solo l'iperbole, da
una parte o se, dall'altra, esistessero soltanto delle strutture storiche determinate, delle
Weltanschauungen finite. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 76)
Separando, nel Cogito, da una parte l'iperbole (che, secondo me, non può lasciarsi imprigionare
in una struttura storica di fatto e determinata perché è progetto di eccedere ogni totalità finita e
determinata), e d'altra parte ciò che nella filosofia di Descartes (o parimenti in quella che fonda
il Cogito agostiniano o il Cogito husserliano) fa parte di una struttura storica di fatto, io non
propongo di separare in ogni filosofia il grano dal loglio in nome di qualche philosophia
perennis. Propongo precisamente il contrario. Si tratta di rendere conto della storicità stessa
della filosofia. Io credo che la storicità in generale non sarebbe possibile senza una storia della
filosofia e credo che quest'ultima non sarebbe a sua volta possibile se ci fosse solo l'iperbole, da
una parte o se, dall'altra, esistessero soltanto delle strutture storiche determinate, delle
Weltanschauungen finite. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 76)
La storicità propria della filosofia trova il suo posto e si costituisce in questo passaggio, in
questo dialogo tra l'iperbole e la struttura finita, tra l'eccesso sulla totalità e la totalità chiusa;
cioè nel luogo, o meglio nel momento in cui il Cogito e tutto ciò che esso qui simbolizza (follia,
dismisura, iperbole, ecc...) si dicono, si rassicurano e decadono, dimenticano se stessi
necessariamente fino alla loro riattivazione, al loro risveglio in un altro dire dell'eccesso che
produrrà poi a sua volta, un'altra caduta e un'altra crisi. . . In questa situazione la crisi o l'oblio
non è forse l'accidente ma è il destino della filosofia parlante che non può vivere se non
imprigionando la follia ma che si estinguerebbe come pensiero e per una violenza ancora
peggiore se una nuova parola non liberasse ad ogni istante l'antica follia, pur imprigionando in
essa, nel suo presente, il folle del giorno. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 76-77)
La grandezza insuperabile, insostituibile, imperiale dell'ordine della ragione, ciò che fa si che
essa non è un ordine o una struttura di fatto, una struttura storica determinata, una struttura tra
altre possibili, è che contro di essa non si può fare appello che ad essa, contro di essa non si può
protestare che in essa. II che si risolve nel far comparire una determinazione storica della
ragione davanti al tribunale della Ragione in generale. (J. Derrida, La scrittura e la differenza,
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DERRIDA: ESSERE GIUSTI CON FREUD
L'audacia iperbolica del Cogito cartesiano, la sua audacia folle, che forse noi non
comprendiamo più molto bene come audacia perché, diversamente dal contemporaneo di
Cartesio, siamo troppo sicuri, troppo avvezzi al suo schema più che alla sua esperienza acuta, la
sua audacia folle, consiste dunque nel tornare verso un punto originario che non appartiene più
alla coppia di una ragione e di una insensatezza determinate, alla loro opposizione o alla loro
alternativa. Che io sia folle o no, Cogito, sum. In tutti i sensi dell'espressione, la follia non è
dunque, che un caso del pensiero (nel pensiero). Si tratta allora di retrocedere verso un punto in
cui ogni contraddizione determinata sotto la forma di una certa struttura storica di fatto può
apparire, e apparire come relativa a quel punto-zero in cui il senso e il non-senso determinati si
ricongiungono nella loro origine comune. (J. Derrida, La scrittura e la differenza, 70
La questione è la seguente: si tratta di mostrare come l'opera di Foucault pretenda di descrivere
l'epoca della psicanalisi.
Freud sarebbe colui che riallaccia i rapporti con una certa età
classica che non pensa la follia come malattia, ma come sragione; non certo per tagliare il
discorso con la sragione, quanto piuttosto per riprenderlo. Al tempo stesso secondo Derrida si
deve tener presente che l'opera di Foucault si trova iscritta nell'epoca della psicanalisi. Senza la
psicanalisi e il suo aver ridato la parola alla follia, il progetto di Foucault sarebbe impraticabile.
. . Per essere davvero giusto con Freud, conclude Derrida, Foucault avrebbe dovuto riconoscere
che la possibilità stessa di un libro come La storia della follia si iscrive nell' orizzonte teorico
pratico dischiuso dalla psicoanalisi. (M. Vergani, Jacques Derida, 169)
LA RISPOSTA DI FOUCAULT
Sono d'accordo almeno su un fatto: non è per nulla a causa della loro disattenzione che gli
interpreti classici hanno cancellato, prime di Derrida e come lui, questo passo di Cartesio. È per
sistema. Sistema di cui oggi Derrida è il rappresentante più decisivo, nel suo ultimo splendore:
riduzione delle pratiche discorsive alle tracce testuali; elisione degli avvenimenti che vi si
producono per trattenere solo dei segni per una lettura; invenzioni di voci dietro il testo per non
dover analizzare le modalità d'implicazione del soggetto nei discorsi; citazione dell'originario
come detto e non detto nel testo per non ricollocare le pratiche discorsive nel campo delle
trasformazioni dove esse si effettuano. . . .
dirò che si tratta di una piccola pedagogia storicamente ben determinata che si manifesta in
modo assai visibile. Pedagogia che insegna all'allievo che non c'è niente al di fuori del testo, ma
che in esso, nei suoi interstizi, nei suoi silenzi e nei suoi non detti, domina la riserva dell'origine;
che non è dunque affatto necessario andare a cercare altrove, ma che qui stesso, non tanto nelle
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parole certe, quanto nelle parole come raschiatura, nella loro griglia, si svela « il senso
dell'essere ».(M. Foucault, Storia della follia, 655)
Come risponderebbe Foucault? . . . e' probabile che egli replicherebbe a Derrida ammettendo le
ambiguità del proprio testo e rilanciandole: è vero che è stata la psicoanalisi a rendere possibile
il suo punto di vista sulla follia, ma è altrettanto vero che lui, Foucault, con la sua ricerca sullo
statuto del soggetto moderno, tentava di proiettarsi al di là della psicoanalisi, verso l'
emancipazione della "volontà di potenza" del corpo dalla rete di saperi e poteri sociali costruiti
anche dal linguaggio psicoanalitico. (C. Formenti , Le ingiustizie di Michel, Corriere della Sera,
10 marzo 1994)
il nostro modo di essere nel mondo, i nostri criteri di distinzione di vero e falso, non sono quelli
richiesti dalla vita come tale, cioè gli unici e migliori per la vita; sono solo quelli propri di una
certa forma di vita, la quale si è costituita e consolidata come una precisa, particolare
configurazione di rapporti di dominio, rapporti che potevano e possono essere diversi. . . . Da
questo punto di vista, la nozione classico-cristiana di persona ha la sua legittimità solo nel fatto
che l'uomo europeo, sotto la spinta di esigenze sociali, produttive e di dominio, è organizzato e
diretto dalla coscienza, dalla ragione, dalla « passione della verità »,' a cui le altre componenti
della personalità sono sottomesse..(G. Vattimo, Le avventure della differenza, 51)
Derrida tenta di salvare la ragione dall'eterogeneità delle circostanze che, per Foucault, le
sottostanno; il merito di Foucault è proprio quello di aver messo in luce l'esistenza di grandi
unità discorsive e storiche, contro l'idea di un logos unico e universale. (S. Natoli, La verità in
gioco. Scritti su Foucault)
difficile non vedere, insomma, come una rimemorazione della differenza . . . si riporti
all'illustrazione (e apologia) esistenzialistica della finitezza della condizione umana, aggiornata
magari con i più moderni apporti della linguistica strutturale. 2
( nota 2: La tesi del carattere in ultima analisi ancora « teologico » del pensiero derridiano è
sostenuta efficacemente in un bel saggio di M. Dufrenne, ...) (G. Vattimo, Le avventure della
differenza, 84)
FOUCAULT E DERRIDA NEL RETROBOTTEGA
Si deve tenere a mente il titolo stesso di « meditazioni ». . . una « meditazione » produce, come
altrettanti avvenimenti discorsivi, nuovi enunciati che comportano una serie di modificazioni del
soggetto enunciante: attraverso ciò che si dice nella meditazione, il soggetto passa dall'oscurità
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alla luce, dall'impurità alla purezza, dalla stretta delle passioni al distacco, dall'incertezza e dai
movimenti disordinati alla serenità della saggezza, ecc. Nella meditazione il soggetto è senza
posa alterato dal proprio movimento; il suo discorso suscita effetti al cui interno egli è preso; lo
espone a rischi, lo fa passare attraverso prove o tentazioni, produce in lui stati d'animo e gli
conferisce uno statuto o una qualificazione di cui non era affatto al momento iniziale il
detentore. In breve, la meditazione implica un soggetto mobile e modificabile dall'effetto stesso
degli avvenimenti discorsivi che si producono. . .
. . in una meditazione dimostrativa, alcuni enunciati, formalmente legati, modificano il soggetto
man mano che si sviluppano, lo liberano dalle sue convinzioni, o viceversa lo inducono a dubbi
sistematici, provocano illuminazioni o risoluzioni, lo affrancano dai suoi legami o dalle sue
certezze immediate, inducono stati nuovi; ma inversamente le decisioni, le fluttuazioni, gli
spostamenti, le qualificazioni primarie o acquisite del soggetto rendono possibili insiemi di
enunciati nuovi, che a loro volta si deducono regolarmente gli uni dagli altri. (M. Foucault,
Storia della follia, 652-53)
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