Pluralità delle fonti e modelli teorici. Dalle premesse storiche agli

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Pluralità delle fonti e modelli teorici: dalle premesse storiche agli
sviluppi attuali
CARLA FARALLI - ALESSANDRA FACCHI1
1. Premesse storiche
Assumere l’ottica del pluralismo implica, in primo luogo, respingere il dogma proprio
del positivismo giuridico occidentale che il diritto sia esclusivamente quello prodotto
dallo stato sotto forma di legge e rivalutare quelle forme di diritto che non hanno origine
dallo stato2.
L’idea che il diritto possa nascere anche al di fuori dello stato, ovvero la tesi
della pluralità degli ordinamenti giuridici, si sviluppa, come è noto, soprattutto
nell’ambito delle teorie antiformalistiche europee di fine Ottocento e inizio Novecento,
in polemica con le concezioni giuspositivistiche che riducevano tutto il diritto a legge
dello stato e negavano validità giuridica a quelle norme (consuetudini, precedenti
giudiziari, opinioni di giureconsulti, statuti di città, diritto canonico ecc.), provenienti da
enti intermedi tra i cittadini e lo stato che, in vario modo, limitavano il potere di
quest’ultimo.
È stato sostenuto che la storia del pluralismo, almeno nella sua prima fase, può
essere ricostruita in funzione della storia del fenomeno della statalizzazione del diritto
nelle società occidentali, fenomeno che culmina, come è noto, con le codificazioni
attraverso le quali si realizza, appunto, il monopolio statale nella produzione e
nell’applicazione del diritto (Belley 1986; Corsale 1983; 1994)3.
La concettualizzazione stessa del modello pluralistico sarebbe impossibile senza
il concetto di ordinamento, elaborato dal positivismo giuridico, tanto è vero che molti
studiosi ritengono improprio parlare di pluralismo giuridico con riferimento alle società
premoderne4.
C. Faralli è l’autrice della prima parte, A. Facchi della seconda.
Come sostiene R. Cotterrel 1983, la prospettiva pluralista può, nella sua versione più forte, elaborare
concetti di norma giuridica completamente slegati da quelli prodotti dai teorici del diritto appartenenti alla
cultura occidentale, e, nella sua versione più debole, pur considerando inadeguate, perché incomplete, le
definizione di norma provenienti dalla teoria giuspositivista, può accettare per le società occidentali
contemporanee, un chiaro primato della legge statale.
3
Con riferimento alla consuetudine, è noto che il luogo di elezione della giuridicità consuetudinaria è
il diritto medioevale, ma esso deve essere considerato — scrive P. Grossi 1997 — come “un pianeta
giuridico separato e concluso”, segnato cioè da una sostanziale discontinuità col classico e col moderno.
Nella realtà premoderna, infatti, la norma non si identifica con un comando esterno alle relazioni, ma
esprime la dinamica interna delle relazioni: la dimensione giuridica è del tutto sciolta da ogni legame
autoritativo. Con la nascita del mondo moderno si assiste alla metamorfosi di un concetto nuovo che
insiste su una parola antica. Le tappe di questa trasformazione sono in primo luogo la confirmatio, cioè la
ratifica da parte del sovrano delle consuetudini e, in un secondo tempo, l’attrazione della consuetudine
all’interno del concetto moderno di diritto: le consuetudini divengono diritto consuetudinario grazie ad
una norma di riconoscimento.
4
M. Corsale 1998, 90-1 osserva che nelle società premoderne la categoria della pluralità degli
ordinamenti giuridici designa aggregati caratterizzati da forti legami sociali, mentre il nuovo pluralismo è
1
2
1
Prima di argomentare le osservazioni che precedono occorre fare almeno due
precisazioni.
In primo luogo, i termini “pluralità degli ordinamenti giuridici” e “pluralismo
giuridico” sono per lo più impiegati come equivalenti, mentre ritengo corretta la
distinzione di Corsale che suggerisce di usare “pluralità degli ordinamenti giuridici” per
indicare “una situazione di fatto constatata ed eventualmente descritta” e “ pluralismo
giuridico” per identificare un modello teorico esplicativo, caratterizzato dal
riconoscimento della pluralità degli ordinamenti giuridici (Corsale 1983, 1003).
In secondo luogo, la tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici, che ho detto
essersi sviluppata soprattutto nell’ambito delle teorie antiformalistiche di fine Ottocento
e inizio Novecento, in verità si era già affacciata in autori di orientamento
giuspositivistico quali ad esempio Thon e Bierling.
Thon (1878, X-XI) sostiene che ogni norma riconosciuta dal membro di una
comunità come obbligante nei rapporti reciproci sia una norma giuridica e quindi che
qualunque gruppo sociale organico, e non solo lo stato, può produrre diritto.
Bierling (1894, 19) sviluppa una teoria, detta del riconoscimento
(Anerkennungstheorie), che lo porta ad affermare che il diritto è “ciò che gli uomini che
vivono insieme in una qualsiasi comunità riconoscono reciprocamente come norma e
regola di questa vita comune”. Le norme giuridiche si distinguono quindi da ogni altra
specie o categoria di norme perché vengono riconosciute come norme o regole della vita
esteriore collettiva in un determinato gruppo e non perché derivano dalla forza materiale
di cui può disporre il potere che le emana. Sia quella di Thon sia quella di Bierling sono
chiaramente concezioni normativistiche, ma non monistiche bensì pluralistiche; il che
conferma il fatto, già osservato da Bobbio (1975), che non c’è un legame biunivoco tra
normativismo e monismo, come peraltro tra istituzionalismo e pluralismo.
A parte alcune voci isolate, come quelle sopra ricordate, la tesi della pluralità
degli ordinamenti giuridici è motivo ricorrente, come si è detto, degli autori
antiformalisti e rispecchia i mutamenti della società tra Otto e Novecento e la
conseguente crisi dello stato moderno, all’interno del quale si sviluppa la tendenza al
costituirsi di formazioni sociali (sindacati, partiti, cooperative, associazioni, ordini
professionali) che prima erano stati progressivamente attirati nell’orbita dello stato e ora
vengono emancipandosi e affermando la propria autonomia, costituendo ciascuno una
cerchia giuridica indipendente.
“A torto – osservava Ehrlich in un articolo che riassume tutto il suo pensiero,
scritto poco prima della morte – si crede oggi da molti che tutto il diritto venga prodotto
dallo Stato con le sue leggi. La più gran parte del diritto trae immediatamente origine
dalla società in quanto esso è interno ordinamento dei rapporti sociali” (1922, 102).
Senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo a dimostrazione della ricorrenza
della tesi della pluralità degli ordinamenti giuridici nell’ambito delle teorie
antiformalistiche, si possono citare affermazioni analoghe di Hermann Kantorowicz, che
contrappone al diritto statale “il diritto libero prodotto dall’opinione giuridica dei
membri della società, dalle sentenze dei giudici e dalla scienza giuridica” (1962, 18); di
costituito da formazioni (società commerciali, associazioni tra imprenditori, sindacati o ordini
professionali ecc.) fondate non su legami sociali, ma su rapporti funzionali, ossia su rapporti istituiti
volontariamente per raggiungere scopi definiti.
2
François Gény, che afferma che le fonte reale del diritto è costituita dai concreti rapporti
di vita in cui si rivela la “natura sociale” e in cui il diritto è “allo stato grezzo” (1927, I,
96-98); di Leon Duguit, che intende il diritto come regola espressa dalla società che
impone a ciascun individuo, in quanto membro del corpo sociale, di realizzare la
solidarietà con gli altri (1901, 615; 1927, I, 94); di Otto von Gierke, che sostiene che il
diritto è “una manifestazione della vita comune degli uomini”, un prodotto di quelle
formazioni sociali, indipendenti e precedenti lo stato che egli designa come
“consociazioni” (1868-81); di George Gurvitch, che fa perno sul concetto di “fatto
normativo” (1932, 119; 1940, 144 ss.); e degli istituzionalisti come Maurice Hauriou
(1965 [1933]), George Renard (1930) e Santi Romano (1917). Questi ultimi, da alcuni
considerati come gli unici veri teorici del pluralismo, pur con diverse accentuazioni,
fanno delle istituzioni dalle più semplici, come la famiglia o la tribù, fino alla più
complessa, cioè lo stato — il centro e la fonte della giuridicità.
Tutti concordano nel ritenere lo stato uno dei molteplici ordinamenti giuridici:
alcuni, poi, gli riconoscono la capacità di sussumere ed integrare tutti gli altri, altri,
invece, lo pongono sullo stesso piano, individuando in ciascun ordinamento piena
autonomia e capacità di produrre modelli di orientamento dotati di una propria
legittimità.
Sul piano della teoria del diritto le tesi degli antiformalisti, come è noto, si sono
rivelate minoritarie e nel Novecento hanno continuato a prevalere le concezioni
formalistiche5, che giungono ad affermare la completa identità tra diritto e stato (il
riferimento è palesemente ad Hans Kelsen).
Le concezioni pluralistiche degli antiformalisti nel momento del loro declino sul
piano teorico-giuridico hanno trovato un riscontro negli studi degli antropologi dell’età
coloniale. L’esperienza coloniale costituì infatti l’occasione per scoprire società e
organizzazioni giuridiche diverse da quelle occidentali, caratterizzate da una tendenza
diffusa alla pluralità, tipica delle società tradizionali in cui i diversi aggregati clanicoparentali esprimono propri sistemi di diritto in forme prevalentemente religiosoconsuetudinarie6.
Non a caso i progressi dell’antropologia furono maggiori nei paesi più impegnati
nel processo di colonizzazione, come, ad esempio, l’Olanda. Qui, fin dall’inizio del
secolo, si era sviluppata una importante scuola la Adat Law School, il cui fondatore
Cornelis Van Vollenhoven (1874-1933) aveva utilizzato il concetto di “comunità
autonoma” (villaggi, famiglie, clan) per designare quei gruppi inclusi in una società che
“secernono il proprio diritto”, diritto che egli difese in Indonesia, opponendosi
all’unificazione giuridica che avrebbe distrutto tutte le forme di diritto tradizionale. Le
idee di Vollenhoven furono riprese e verificate, circa quarant’anni dopo, sempre in
5
Le istanze dell’antiformalismo sono rimaste vive in Europa nell’ambito delle teorie realistiche
scandinave. I realisti scandinavi, a partire da Hägerström, considerano la teoria giuspositivistica delle
fonti del diritto, che afferma la supremazia della legge statale, un’ideologia mascherata sotto pretese vesti
scientifiche e sostengono che fonti del diritto sono tutte le norme, collocate sul medesimo piano, in quanto
siano sentite come vincolanti e applicate.
6
Per una visione d’insieme dell’antropologia giuridica nell’età coloniale, con particolare riferimento
al tema del pluralismo, si vedano Hooker 1975; Rouland 1992; Motta 1994; alcuni saggi della raccolta
curata da Gilissen 1972.
3
Indonesia, come testimoniano gli studi di J.S. Furnivall che nel 1939 usa il termine
“pluralismo” in un’opera sull’economia indonesiana7.
I governi e le amministrazioni coloniali si fecero promotori di ricerche
empiriche, anche in campo giuridico, al fine di conoscere le particolarità locali per poter
poi meglio controllare le popolazioni: ne nacquero raccolte di consuetudini che
verbalizzavano le tradizioni giuridiche locali, spesso selezionandole e
reinterpretandole8. L’introduzione del diritto europeo produsse, poi, una situazione di
coesistenza tra sistemi giuridici e giudiziari moderni e tradizionali.
Sul piano teorico, le interazioni tra le diverse forme di diritto, consuetudinarie,
locali e importate, sono oggetto tra gli anni Quaranta e Sessanta di importanti indagini
come quelle di Redfield sullo Yucatan, di Llewellyn e Hoebel sugli indiani Cheyenne, di
Radcliffe-Brown sull’Africa del Sud, di Van Leier sulle Indie occidentali, di Little sulla
Sierra Leone, solo per fare alcuni esempi.
La cultura giuridica europea, dominata dal positivismo, è stata però poco
ricettiva rispetto a questi studi che documentavano la pluralità degli ordinamenti
giuridici. L’etnocentrismo è stato — e forse resta ancora oggi — molto presente in
ambito giuridico: esso consiste — come lo ha ben definito Norbert Rouland (1992, 31
ss.) — nel considerare un’altra società in funzione delle proprie categorie ideali, ciò che
conduce spesso a svalutarla. Una di queste categorie fortemente radicata nella cultura
giuridica europea è quella della statalità del diritto: da qui sono nate le difficoltà ad
ammettere la pluralità degli ordinamenti giuridici, concepita tutt’al più come qualcosa di
esotico e spesso anche come sinonimo di disordine e ingiustizia. Come è noto, lo stesso
Rouland ha sostenuto che propria la forza dell’idea di stato, caratteristica della
tradizione francese, abbia ritardato gli sviluppi dell’antropologia giuridica in Francia,
paese coloniale e quindi, come si è detto sopra, in condizione privilegiata per il
progresso della disciplina.
A partire dagli anni Settanta-Ottanta si assiste ad una nuova fase degli studi sul
pluralismo cui partecipano antropologi e sociologi.
7
Per maggiori informazioni sulla Adat Law School si vedano in particolare Griffiths 1985 e K. von
Benda Beckmann e F. Strijbosch 1986.
8
La reinterpretazione — sostiene Rouland 1992, 338ss. — è il modo più sottile di accomodamento di
logiche diverse, ossia quelle del diritto tradizionale e del diritto moderno. Quando più logiche si
incontrano in uno stesso spazio giuridico o si confrontano — e allora è il conflitto — o coesistono. La
coesistenza può passare attraverso la reinterpretazione, ma prima o poi si risolve nella scomparsa degli
antichi valori. Interessante esempio di questo fenomeno è in Algeria il cosiddetto Code Morand, che
costituisce uno dei maggiori documenti dell’occidentalizzazione del diritto islamico in epoca coloniale.
Nel 1905 il Governatore Generale d’Algeria aveva incaricato della codificazione del “droit musulman
algérien” una commissione di sedici esperti che portò a termine il proprio lavoro nel 1916, ma il code
Morand, così detto dal nome del giurista francese Marcel Morand che ne curò la redazione, non fu mai
adottato ufficialmente, in quanto la sua emanazione incontrò molte opposizioni e resistenze sia da parte
dei musulmani, che lo considerarono un attentato all’evoluzione del diritto islamico e alla sua capacità di
adattamento, rilevando, tra l’altro, che molti istituti erano stati profondamente alterati perché si era attinto
a riti diversi e si era poi mescolato tutto secondo le concezioni francesi, sia da parte di alcuni giuristi
francesi che lo ritenevano uno strumento “maldestro e prematuro”, capace solo di creare “resistenze
pericolose” e “raffreddamenti inutili”. Sulla vicenda si veda Facchi 1987. Anche in Italia durante il
periodo dell’espansione coloniale furono compiute importanti ricerche sul diritto consuetudinario in
Somalia e in Etiopia. A titolo esemplificativo si veda Colucci 1924.
4
È venuta infatti progressivamente sfumando la distinzione in base alla quale la
sociologia studiava le moderne società industriali e l’antropologia le società primitive o
tradizionali e si assiste oggi ad un avvicinamento delle due discipline che ha fatto dire a
J. Griffiths (1986), non senza suscitare numerose polemiche, che esse finiranno col
confondersi. Da un lato, infatti, le società di interesse etnologico sono sempre meno
numerose, dall’altro le società moderne conoscono al loro interno fenomeni, che ne
stanno rapidamente cambiando la fisionomia, che vanno dalla crisi del diritto statale alle
complesse situazioni di convivenza di gruppi diversi, portatori ciascuno di un proprio
diritto.
Sally Engle Merry (1988, 872) ha parlato di “nuovo pluralismo” con riferimento
agli studi sull’interazione di diversi ordinamenti nelle società industriali, in
contrapposizione al “pluralismo classico”, che comprende le ricerche sulle società
coloniali e post-coloniali e l’analisi dell’interazione tra diritto europeo e diritti
tradizionali9.
Come esempi di questa nuova fase di studi sul pluralismo valgano la teoria dei
livelli giuridici di L. Pospíšil e quella dei campi sociali semi-autonomi di S. Falk
Moore.
Per Pospíšil (1967, 1971), che si avvale di ricerche sul campo condotte in Nuova
Guinea e in Alaska, ogni società è costituita da un insieme di sottogruppi ordinati
gerarchicamente, ciascuno dei quali possiede un proprio sistema giuridico. Tali sistemi
formano, appunto, una gerarchia nella quale è possibile distinguere strati o livelli
giuridici. Ogni individuo appartiene a più sottogruppi ed è quindi sottoposto a diversi
sistemi giuridici tra i quali deve scegliere.
Tale schema, ricavato, come si è detto, da ricerche su società tradizionali appare
però applicabile anche alle società moderne, al pari di quello dei campi sociali semiautonomi di S. Falk Moore.
In luogo di una costruzione gerarchizzata e verticale come quella di Pospíšil, la
Moore fornisce una visione orizzontale del pluralismo. “L’individuo — scrive
l’antropologa che si basa su ricerche sul campo in Tanzania, ma anche sulla realtà
industriale newyorchese — non obbedisce soltanto al diritto statale, ma egualmente a
regole — giuridiche o non — emanate da entità multiple e coordinate in campi sociali
semi-autonomi”. Il campo sociale semi-autonomo è definito non attraverso il suo tipo di
organizzazione (può essere o non essere un’associazione), ma attraverso un carattere di
tipo processuale “e cioè mediante il fatto che esso può dar vita a norme e assicurare
mediante la forza o l’incitamento la loro applicazione”. L’autonomia di tali campi è
variabile nei diversi contesti, ma non è mai totale, perché in ogni società i diversi campi
sociali sono tra loro variamente interrelati e quindi si limitano a vicenda (Moore 1973).
9
La Merry cita solo di passaggio i contributi di Ehrlich, Gurvitch e degli altri autori citati nella prima
parte di questo articolo e sembra ritenere il pluralismo giuridico categoria esclusivamente antropologica.
Sul punto è particolarmente critico Corsale 1994, 16-7 che giudica, nel complesso, fuorviante la
periodizzazione della Merry. Egli, inoltre, ritiene che con riferimento al periodo contemporaneo non si
possa parlare di revival del pluralismo giuridico, ma che semplicemente si faccia ricorso a un termine
storicamente consolidato per indicare fenomeni nuovi quali quelli della società plurale.Sui problemi della
periodizzazione del pluralismo giuridico si veda il saggio di A.R. Favretto 1992. Sulle tendenze più
recenti del pluralismo giuridico, oltre ai già citati Rouland 1992 e Motta 1994, si veda la rassegna di F.
Snyder 1993, 36ss.
5
Recentemente Giovanni Sartori (1997, 47) ha sostenuto che il concetto di
pluralismo si è sviluppato lungo la traiettoria che va dall’intolleranza alla tolleranza,
dalla tolleranza al rispetto del dissenso e poi, tramite questo rispetto, al credere nel
valore della diversità.
Sartori, come è chiaro, si riferisce al pluralismo politico, ma, pur con
accentuazioni diverse, una evoluzione simile si può riscontrare anche in ambito
giuridico. Fino a che la cultura giuridica occidentale è stata dominata dalla concezione
statalistica del diritto le teorie del pluralismo hanno trovato molti ostacoli: la
“dogmatica” giuridica giuspositivistica mal tollerava interpretazioni contrastanti dalle
proprie10.
In tempi recenti, tuttavia, le profonde trasformazioni interne ed esterne ai singoli
stati hanno minato alla base il dogma della statalità del diritto e quello dell’unità
dell’ordinamento giuridico11 e hanno creato le condizioni per l’affermarsi di un
modello pluralistico che, partendo dal riconoscimento della pluralità degli ordinamenti
giuridici, si mostra più adatto di quello monistico-statale a spiegare i meccanismi delle
moderne società multi-culturali. Basti pensare che mentre in passato le minoranze
etniche gradualmente si integravano negli stati di residenza, oggi i gruppi etnici che
emigrano difendono la loro identità culturale, mantenendo la propria lingua, la propria
religione e i propri costumi12, favoriti in questo dallo stesso diritto internazionale
privato che, a sua volta, tende sempre più ad ampliare i propri ambiti di intervento,
sovrapponendosi ai diversi diritti nazionali.
Boaventura de Sousa Santos (1987) ha scritto che il pluralismo giuridico è il
concetto chiave della concezione post-moderna del diritto, non il pluralismo che
concepisce diversi ordinamenti giuridici come entità separate, seppure coesistenti in uno
stesso spazio, ma una concezione dinamica che considera l’intreccio e l’interrelazione
tra diversi tipi di norme (interlegalità), di tutte le norme che orientano i comportamenti
— norme che hanno fonte molteplice ed eterogenea, in gran parte dei casi di origine
religiosa, tradizionale, consuetudinaria più che statale — cui si sommano quelle di
origine soprastatale e transnazionale13.
10
Ho in mente le parole di F. Cordero 1981, laddove sostiene che il diritto presenta notevoli affinità
col fenomeno religioso ecclesiasticamente elaborato. In entrambi i casi, infatti, “vigono testi individuati da
un canone, e dei sapienti li frugano pescando mille contenuti talvolta imprevedibili, ma esiste un
monopolio delle cabale; contano solo le parole uscite di bocca a gente segnata”. Perciò chi vi mette le
mani deve stare molto attento, perché tocca punti sensibili.
Sul paragone tra diritto e concezioni ecclesiali recentemente anche E. Pattaro 1998, 102ss.
11
Sono temi oggetto di una letteratura vastissima all’interno della quale mi limito a segnalare
Galgano, Cassese, Tremonti e Treu 1993 e Basciu 1996.
12
Con riguardo all’interazione normativa nelle società multiculturali un interessante campo di
indagine è rappresentato dal diritto di famiglia, come sottolineano tra gli altri E. Jayme 1993; A.R.
Favretto 1994; A. Facchi 1994.
13
A temi esclusivamente giuridici è dedicata la seconda parte del volume dello stesso B. de Sousa
Santos, Toward a New Common Sense. Law, Science and Politics in the Paradigmatic Transition, New
York, London, 1995: l’autore vi sostiene che le società moderne sono formazioni o costellazioni
giuridiche, costituite non da un unico ordine giuridico, ma da una pluralità di ordini giuridici,
differentemente interrelati, statali e infrastatali, soprastatali e transnazionali. Sulla potenzialità del modello
pluralistico per lo studio delle società contemporanee ha recentemente richiamato l’attenzione anche J.
Dalberg-Larsen 1998.
6
2. Gli sviluppi attuali
La prima parte di questa relazione ha mostrato come la prospettiva del pluralismo
giuridico abbia le proprie origini nella scienza giuridica antiformalistica, si sia radicata
nella sociologia del diritto per diventare un paradigma costitutivo dell’antropologia
giuridica.
Gran parte della letteratura sul pluralismo giuridico è prodotta da antropologi del
diritto e consiste sia in studi e ricerche su casi specifici, sia in interventi teorici che
hanno ripetutamente analizzato, periodizzato, discusso e riformulato il concetto stesso di
pluralismo giuridico. I due ambiti sono arrivati a sovrapporsi: attualmente la gran parte
degli antropologi del diritto, circa 400, sono riuniti nella Commission of Folk Law and
Legal Pluralism.
Le ricerche sul pluralismo giuridico si riferiscono tradizionalmente a norme di
origine consuetudinaria e religiosa, alla “normatività sociale”. Il loro terreno per
eccellenza è quello delle società africane e asiatiche caratterizzate stabilmente da
situazioni di compresenza di differenti diritti in rapporti di parallelismo, integrazione e
conflitto, ma il pluralismo giuridico si è proposto anche come modello per studiare la
formazione e l’applicazione di norme interne a gruppi sociali nei paesi occidentali,
rivolgendosi non solo a minoranze e alle sacche di sopravvivenza di diritti folkorici, ma
anche ad organizzazioni religiose, associazioni di vario genere, grandi industrie, ordini
professionali, ecc.
Nell’ultimo decennio, poi, in Europa gli studi sul pluralismo giuridico hanno
ricevuto un nuovo impulso da molti di quei fenomeni che sono stati ricondotti alla crisi
dello Stato nazione: da un lato all’emergere di vecchie e nuove identità collettive e
richieste di riconoscimento, dall’altro all’imporsi di modelli economici, che a loro volta
generano modelli culturali, che non conoscono le frontiere tradizionali.
In questo quadro si manifestano una pluralità di fenomeni normativi, infra, supra
e transnazionali, che non sono riconducibili all’ordinamento giuridico statale. Dunque
anche i paradigmi classici del pluralismo giuridico, si sono dovuti e continuano a
modificarsi così da poter rispecchiare e servire come strumento di analisi di questi nuovi
fenomeni. Proprio le mutate caratteristiche delle società occidentali e l’imporsi di nuovi
centri di produzione normativa hanno attratto sul pluralismo giuridico l’attenzione di
prospettive differenti da quella della ricerca antropologica, dando luogo ad alcuni
tentativi di ricollocarlo all’interno di teorie più ampie sulla società e sul diritto.
Non solo il pluralismo giuridico è stato posto come un riferimento essenziale in
una visione post-moderna del diritto, ma è stato anche analizzato e inserito all’interno di
teorie neo-sistemiche del diritto (Santos 1987; Teubner 1993; Roberts 2000), originando
degli aggiustamenti nella concezione di chiusura sistemica dell’ordinamento giuridico
statale.
Nell’ultimo decennio il pluralismo giuridico è tornato ad attrarre anche
l’attenzione della scienza giuridica. Alcuni giuristi hanno ritrovato in questo concetto,
variamente riformulato, un paradigma utilizzabile per trattare di nuovi fenomeni
normativi e dei loro complessi rapporti. Il riferimento ad una pluralità di fonti del
diritto, non tutte riconosciute e assorbite dall’ordinamento giuridico statuale, non è più
un’esclusiva degli antropologi o dei sociologi del diritto.
7
Vi sono stati anche alcuni tentativi di riformulare la nozione di pluralismo
giuridico in forme più rispondenti alle esigenze della pratica del diritto. Un esempio è il
concetto di “legal polycentricity” consolidatosi nella scienza giuridica scandinava, ma
poi allargatosi ad autori di altri paesi europei. Questo concetto “indicates an
understanding of ‘law’ as being engendered in many centres — non only within a
hierchical structure — and consequently also as having many forms. If one should
distinguish between a legal pluralist and a legal polycentric approach to law the
difference lies perphaps mainly in the perspective”. E cioè mentre il primo, caratteristico
di sociologi e antropologi, è tradizionalmente un approccio descrittivo che si propone di
osservare e capire “ the legal landscape from outside, legal polycentricity approaches
legal science from within and tries to reach another understanding — and practice — of
law to influence and interact with the landscape [...] L.P. attempts to reform the
understanding of law form inside, it may even influence the approaches taken by legal
doctrine” (Petersen e Zahle 1995, 8).
A fronte di questa apertura verso il pluralismo giuridico varie voci hanno
riproposto l’obiezione fondamentale al paradigma del pluralismo giuridico: e cioè la
difficoltà, o comunque l’inopportunità, di parlare di diritto al di fuori del diritto positivo
e di individuare dei criteri per selezionare tra l’insieme delle norme sociali, norme da
chiamarsi giuridiche 14 .
Il presupposto, più o meno manifesto, dell’approccio del pluralismo giuridico è
evidentemente una nozione di ‘diritto’ che va oltre la sfera dell’ordinamento statale,
identificandone determinati caratteri che sono osservabili anche in ordinamenti sociali
differenti. Nozioni di questo genere erano necessarie per affrontare il “diritto” nella
società senza scrittura e senza stato, in cui il diritto non era concettualizzato e
formalizzato come ambito autonomo. Alcuni antropologi del diritto come Hoebel e
Pospíšil hanno formulato definizioni autonome di diritto, altri hanno fatto riferimento
alla distinzione hartiana tra norme primarie e secondarie, con il principale obiettivo di
fornire dei criteri per separare, le norme giuridiche dal complesso delle norme sociali.
Questa operazione di isolamento e focalizzazione del diritto ha costituito d’altronde una
legittimazione dell’antropologia giuridica come disciplina autonoma all’interno della
scienza antropologica.
Una volta affermatosi lo stato, la scrittura e con essi ordinamenti positivi che
hanno preteso di autonominarsi ‘diritto’, in altri termini con la quasi totale sparizione
delle società tradizionali e il loro inglobamento in stati nazionali, le situazioni di
intreccio di norme con differenti fonti sono diventate la normalità. Gli antropologi del
diritto hanno allora adottato il paradigma del pluralismo giuridico per studiare, in
particolare nei territori coloniali e ex-coloniali, realtà di convivenza di norme, sanzioni e
organi di giustizia, solo in parte ufficialmente riconosciute dalle istituzioni governative.
È significativo tuttavia notare come il pluralismo giuridico sia un concetto che nasce e si
diffonde tra i giuristi. L’antropologia e la sociologia generali hanno da sempre studiato
14Recentemente sulla problematicità dell’idea di un pluralismo specificamente “giuridico”, e cioè del
tentativo di “fissare un concetto di diritto che vada oltre le forti autodefinizioni di diritto statuale” cfr.
Roberts 2000. Una versione precedente dello stesso saggio si trova in Journal of legal Pluralism, 42: 95106. Cfr. anche Tamanaha 1993.
8
gli stessi fenomeni, chiamandoli con altri nomi, e senza sentire particolarmente il
bisogno di metterli in relazione con il diritto statuale, affermandone i caratteri comuni.
Perplessità sull’uso del termine giuridico e sulla difficoltà di tracciare un confine
tra norme giuridiche e non giuridiche, individuando un diritto non statuale sono emerse
anche in alcuni importanti contributi di antropologi del diritto, in modo esplicito come
in Merry (1988) o implicito come in Moore (1973), che parla di campi normativi e non
di diritto, o in Roberts (2000), che parla di “Order and Disputes”.
Non mi addentrerò in questo argomento, anche perché gran parte degli
antropologi del diritto che riconducono le proprie ricerche sotto l’etichetta del
pluralismo giuridico sono arrivati a considerare irrilevante una definizione netta e
generale di ciò che è o non è diritto, assumendone il carattere stipulativo e limitandosi a
cercare nozioni con capacità operativa nei singoli ambiti di ricerca. In una prospettiva di
ricerca antropologica e sociologica, che si vuole descrittiva o comunque esterna alla
formulazione del diritto, la questione non appare di grande rilievo, lo è invece
maggiormente nella prospettiva della scienza giuridica, cioè di chi si occupa di stabilire
che cosa deve essere considerato diritto e che cosa deve essere applicato dai tribunali.
Personalmente preferisco parlare di pluralismo normativo, perché evita
ambiguità, non propone un significato di ‘diritto’ troppo lontano dall’uso comune e
dall’uso diffuso dei giuristi e permette di allargarsi ad un complesso di norme, che è
sinceramente difficile considerare ‘giuridiche' ma che possono entrare in relazione con
norme di diritto positivo o con norme istituzionali, si pensi al caso delle norme interne
di una tifoseria calcistica o alle prescrizioni per la preghiera islamica.
È evidente che in questo senso pluralismo come monismo sono modelli in
partenza prescrittivi nel senso che presuppongono definizioni di ciò che deve essere
considerato diritto, ma ciò non implica necessariamente una preferenza per una
situazione di pluralità di ordinamenti. È vero che di fatto Nella scienza giuridica il
pluralismo giuridico ha avuto una funzione strumentale è cioè quella di richiamare
l’attenzione sui legami sociali del diritto e sulla complessità delle reti di norme
Attualmente ha ancora la funzione di portare nel mondo dei giuristi.
Come è stato più volte sottolineato, l’attenzione per il pluralismo ha avuto anche
l’effetto di mettere in luce la problematicità di una visione gerarchica del diritto e di
attrarre l’attenzione verso i gruppi sociali con minor potere, le loro istituzioni e i loro
discorsi, nascosti dalle rappresentazioni ufficiali di un diritto unitario, espressione
artificiale di un’identità nazionale.
E infatti alcune esponenti della teoria giuridica femminista si sono richiamate
esplicitamente ai modelli del pluralismo giuridico15 come quadro concettuale che
permette di comprendere un’ampia produzione di norme informali che regolano la vita
15Cfr. Petersen 1993, già pubblicato in Social and Legal Studies, 4, 1992, che afferma la necessità di
superare il concetto moderno formale di diritto per arrivare alla comprensione della situazione giuridica
delle donne e, più particolarmente considera i luoghi di lavoro delle donne, da lei studiati nella società
danese, come “campi sociali semi-autonomi”, che dunque governano la produzione e l’attuazione di
norme. Nella sua ricerca Petersen ha rilevato come anche al fine di ridurre conflitti e tensioni le donne
“sviluppino strategie “legali” più o meno consce” anche raggirando “regole e principi giuridici formali
esistenti”, anche con la complicità dei datori di lavoro. Il modello del pluralismo giuridico è stato
utilizzato per affrontare le norme che regolano i rapporti famigliare in A.R. Favretto 1994.
9
delle donne. Queste norme sono prodotte dalle interazioni femminili nei luoghi delle
loro attività, ma non sono riconducibili al diritto formale dello stato, pur entrando in
rapporto con esso, e non sono dunque riconoscibili con gli strumenti della scienza
giuridica ufficiale (e maschile). Si tratta di norme informali che da un lato costituiscono
una componente essenziale della loro vita giuridica, dall’altro possono diventare la base
per la costruzione di un diritto formale delle donne.
Nella più recente letteratura sul pluralismo giuridico (o normativo) credo valga
la pena di sottolineare la tendenza ad un progressivo spostamento da una visione
incentrata sui sistemi giuridici ad una focalizzazione sul soggetto. Alcuni studiosi già
dalla fine dello scorso decennio hanno cominciato a formulare una nozione
soggettivistica di pluralismo giuridico (Vanderlinden 1989), che facesse riferimento non
ad una pluralità di sistemi giuridici ma all’individuo soggetto di norme con fonti
differenti. Questa tendenza si è accentuata in recenti saggi, (Chiba 1995,1998; Petersen
1995) che ribadiscono l’importanza di focalizzarsi sull’individuo e sulle scelte che esso
opera tra norme con fonti e contenuti differenti, talora conflittuali o, in altri termini, di
adottare una actor perspective, come strumento per fronteggiare la policentricità e la
frammentazione dei sistemi giuridici.
D’altronde è ormai da tempo sottolineato come l’individuo nelle società
contemporanee appartenga a più gruppi di riferimento, come la sua identità sia
frammentata e come dunque sia soggetto a modelli e norme non sempre compatibili
talvolta anche conflittuali. Le persone sono multiculturali, non solo le società (Gutman
1993). Ciò è particolarmente evidente se pensiamo alla pluralità di riferimenti normativi
che caratterizza gli immigrati in Europa.
Per trattare empiricamente di questa pluralità di riferimenti normativi è
necessaria una concezione che non parta dal presupposto dell’esistenza di più
ordinamenti che spesso sono nozioni astratte, ma che cerchi di ricostruire le norme che
orientano i comportamenti individuali.
Pluralismo giuridico non implica necessariamente la compresenza di sistemi, ma
anche soltanto di singole regole o meccanismi. In particolare le concezioni istituzionali
o sistemiche del pluralismo, a partire da quella di Santi Romano (1917) fino a quella di
Sally Falk Moore (1973) sono dunque inadatte ad analizzare queste situazioni e lasciano
spazio ad una nozione di pluralismo giuridico che fa riferimento agli individui e alle
norme, più che a collettività e ad ordinamenti predefiniti, si fonda sul punto di vista dei
soggetti, del significato che nella loro cultura e vita quotidiana assumono determinati
istituti, delle norme che effettivamente orientano i loro comportamenti, delle strategie
che adottano per trattare o risolvere i conflitti. Conflitti tra norme che possono essere
manifesti, cioè immediatamente identificabili nelle prescrizioni, o latenti, rivelantesi
cioè in determinate situazioni di applicazione delle norme o anche solo vissuti
soggettivamente. Come Chiba ricorda che “a social conflict observed in objectivity is
usually accompanied by another conflict taking place in the mind of the person involved
in it” (Chiba 1995, 73).
L’attenzione al conflitto è un’altra caratteristica presente nella letteratura più
recente sul pluralismo giuridico16. Già da tempo gli antropologi del diritto hanno
Per una discussione della definizione che comprenda i casi di conflitto Chiba 1998.
16
10
accentuato la dimensione conflittualista sottolineando i rapporti di potere
nell’interazione tra diritti ufficiali e diritti informali (cfr. Starr e Collier 1989). D’altro
lato anche nel dibattito sul multiculturalismo, la prospettiva conflittualista è
caratterizzata dal coniugarsi dell’attenzione alle differenze culturali con quella alle
differenze socio-economiche e con il concetto di oppressione (cfr. Young 1996).
Dal punto di vista dei soggetti i conflitti tra differenti identità, non possono certo
essere risolti dal diritto, che può solo semplificarli, trasformarli, proporre delle strade,
cercando delle soluzioni di compatibilità e mediazione o diminuendo la sofferenza della
semplificazione imposta. Ma proprio perché alcune valenze identitarie sono di fondo
inconciliabili che la strada può essere quella di prestare il massimo ascolto ai tentativi di
conciliazione individuale. Istituzioni e norme giuridiche devono dunque essere
formulate in modo tale da contribuire a questa ricerca e tutela delle scelte
dell’individuo, siano esse in linea o meno con quelle della comunità cui appartiene17.
Se ogni individuo condensa in sé una scelta di norme derivanti dalle sue
molteplici appartenenze, la sua scelta mi pare dunque il momento essenziale ed è questa
che va considerata e direi, passando ad un altro piano, anche protetta giuridicamente.
La ricostruzione del punto di vista del soggetto e delle scelte che egli opera tra
differenti pressioni normative assume un ruolo fondamentale sia in una prospettiva di
comprensione sociologica, sia in una di politica del diritto. In particolare essa costituisce
una garanzia di tutela dei soggetti deboli, i cui interessi, valori, scelte possono essere
soffocate all’interno dei gruppi di appartenenza ascritta. In questo senso la centralità
dell’individuo viene fatta valere da coloro che, come Habermas (1994), mettono in
guardia contro i rischi che può comportare l’attribuzione di diritti collettivi al gruppo, o
a uno dei gruppi, cui appartiene. Le versioni liberali del multiculturalismo sono
d’altronde accomunate dal non-riconoscimento di diritti a quei gruppi che non
presentino requisiti di democraticità interna e all’esistenza di un “diritto d’uscita” (cfr.
Kymlicka 1999).
Quindi sia in una prospettiva di analisi del pluralismo esistente sia in una
prospettiva di politica del diritto mi sembra fondamentale porre in primo piano
l’individuo e la sua autonomia di scelta. Ciò non significa che dal punto di vista
metodologico la comprensione sociologica possa far riferimento ad un individuo astratto
dai suoi legami culturali e sociali o possa ignorare le norme scritte né che dal punto di
vista politico si possa prescindere dal riferimento ai gruppi per rappresentare e far valere
gli interessi degli individui appartenenti a categorie più deboli.
L’approccio del pluralismo normativo e delle forme con cui esso viene (o non
viene) affrontato dai diritti positivi fa emergere questioni che interessano più ambiti
dell’ordinamento giuridico: costituzionale, amministrativo, famiglia, lavoro, penale.
17
Uso il termine in senso ampio. Riferendolo cioè a quella prospettiva etico-politica, e dunque non ad
uno stato di fatto, che andando oltre la tolleranza, riconosce che tutte le culture sono legittime, anche se
contrastanti tra loro, e hanno diritto ad uguale trattamento. Le differenze tra le varie posizioni si articolano
sui limiti da porre a questo riconoscimento e sulle forme in cui attuarlo. Per Raz (1998, 197) il liberal
multiculturalism è un precetto normativo “which affirms that in the circumstances of contemporary
Western societies a political attitude of fostering and encouraging the prosperity, cultural and material, of
cultural groups, and respecting their identity, is justified”.
11
Nell’ambito delle questioni poste dal multiculturalismo la conoscenza antropologica si è
mostrata in vari casi un fondamentale supporto per scelte politiche e attività giuridiche.
Le implicazioni etiche e politiche dell’attenzione per il pluralismo giuridico sono
evidenti: prendere atto delle differenze e tentare di comprenderle è il primo passo per
riconoscerle e trattarle giuridicamente. Non è un caso che anche la scienza giuridica, e
non solo la sociologia giuridica, senta il bisogno di estendere il proprio interesse a
fenomeni normativi esterni al diritto statuale, che fino a poco tempo fa erano lasciati ai
sociologi del diritto, alla ricerca di soluzioni concrete per fronteggiare l’attuale
eterogeneità. D’altro lato la conoscenza empirica costituisce un terreno necessario di
verifica di modelli teorici elaborati nella discussione di filosofia politica e giuridica,
dunque di legami più stretti da un lato con l’osservazione sociologica, dall’altro con gli
interventi giuridici e i loro effetti.
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