Giovanni 19, 28 – 37
Nel racconto del suo evangelo, Giovanni attraverso episodi simbolici ed immagine evocative (quelli
che sono chiamati i segni), ha progressivamente rivelato il mistero di Gesù come spazio in cui è
contenuta e donata la vira vera. Giovani aveva preannunciato questo itinerario nel prologo: in lui
era la vita e la vita era la luce degli uomini (1, 4): e gradualmente lo ha sviluppato in tutto il suo
racconto. Gesù è l‟acqua che estingue ogni sete, è il pane vivo disceso dal cielo, è il pastore bello
che dona la sua vita, è la luce che illumina il mondo, è la vite che comunica la linfa, è la
resurrezione che vince ogni morte: tutti simboli che sembrano quasi sovrapporsi nel rivelare, con
sfumature differenti, il mistero di Cristo per l‟uomo, quella vita autentica che apre alla comunione
con Dio. E alla vigilia della sua passione, infine, Gesù afferma questa sua identità in modo solenne,
davanti ai suoi discepoli: Io sono la via, la verità e la vita… (14, 6). Ma per Giovanni c‟è un evento
che nella sua paradossalità, rivela senza ambiguità, in modo luminoso e trasparente, questa realtà
nascosta nel mistero di Cristo. E questo evento è la croce. Il racconto della morte di Gesù in croce, e
in particolare 19, 28-37, è come il punto di arrivo di questa progressiva rivelazione. Ai piedi della
croce, di fronte al drammatico evento della morte di Cristo, noi siamo condotti alle sorgenti della
vita, al luogo dove la vita vera scaturisce e viene donata. E ai piedi della croce Giovanni diventa per
noi un testimone. E la sua testimonianza è questa: Dio ci ha dato la vita eterna e questa vita è nel
suo Figlio. Chi ha il Figlio ha la vita, chi non ha il Figlio di Dio non ha la vita (1 Gv 5, 11-12).
Siamo ora chiamati a fermarci e a sostare ai piedi della croce, a guardare con gli occhi del cuore ciò
che sta avvenendo („guardare‟ è uno dei verbi più usati da Giovanni) per credere e per interpretare i
segni della vita all‟interno del dramma della morte. Morte e vita si sovrappongono al nostro
sguardo, senza annullarsi, ma divenendo l‟una porta aperta dell‟altra. È questo lo stile di Giovanni,.
Ecco perché elabora in modo originale il racconto della passione, offrendoci nel suo racconto, non
solo una storia, dei fatti, ma anche una interpretazione. E nella struttura del IV vangelo, questa
narrazione assume un significato che potrebbe essere caratterizzato dalle parole del Prologo, 1, 14:
noi vedemmo la sua gloria. Nella passione, Gesù è di fronte a tutti anela sua impotenza e nella sua
umiliazione: è come uno davanti al quali ci si copre la faccia. Ma nella fede, Gesù appare nella sua
gloria, nel peso della sua indicibile alterità, perché solo Dio può trasformare l‟umiliazione e il
disprezzo in gloria. È questa la parola della croce di cui parla Paolo, quella parola che deve essere
gridata per è la parola di un Dio che sceglie il silenzio dell‟uomo (la morte) per rivelarsi come
Parola di vita. Croce e gloria si contraddicono e si annullano umanamente; la gloria è il contrario
del fallimento e della sconfitta. Solo colui “che si è impadronito della croce per portarla da sé” può
manifestare in essa “l‟effetto salutare della propria morte” (DUFOUR, IV, 243). Per Giovanni non è
una questione di progressione: la croce come via per la gloria. In Giovanni la croce è la gloria;
l‟evangelista le vede in una sorta di sovrimpressione in cui il volto stesso del crocifisso rivela così,
nella sua umiliazione, la luminosità del suo essere Figlio di Dio. E la luce che ne emana offrendo
così la possibilità di cogliere simultaneamente le due realtà, è la lice della agape, del dono di sé
incondizionato per la salvezza del mondo: nessuno ha un amore più grande che dare la propria vita
per i suoi amici….avendo amato i suoi, li amò sino alla fine…Dio ha tanto amato il mondo da dare
il suo Figlio unigenito… Ecco perché Gesù ha potuto dire: quando sarò innalzato, attirerò tutti a
me.
Cerchiamo allora di cogliere tutto questo nel testo di Giovanni 19, 28-37.
Lectio
Il racconto della crocefissone e morte di Gesù, in Giovanni si snoda attraverso cinque scene:
19, 17-22: l‟iscrizione di Gesù re, posta sulla croce
23-24: la divisione delle vesti
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25-27: le parole di Gesù rivolte alla madre e al discepolo amato
28-30: la scena della morte
31-37: il fianco trafitto
In tutte queste scene emerge una idea dominante: Giovanni considera la morte in croce di Cristo
come il compimento del disegno di Dio, come il punto di arrivo della storia della salvezza e quindi
come il momento culminante della rivelazione.
Ci soffermiamo solo sugli ultimi versetti, cogliendo in essi due particolari che caratterizzano il
modo con cui Giovanni interpreta teologicamente l‟evento della crocifissione. I sinottici
evidenziano il trionfo del crocefisso, evocandolo nel cuore stesso del fallimento, mediante tratti di
una certa grandiosità, che coinvolgono nello stesso tempo eventi cosmici e capovolgimenti interiori
dell‟uomo. Giovanni invece utilizza un particolare di per sé modesto: dal fianco di Gesù trafitto
escono sangue ed acqua. E inoltre i sinottici terminano il racconto della morte di Gesù con la
testimonianza del credente che sa riconoscere e comprendere il mistero di cui è stato spettatore.
Essa è posta sulle labbra del centurione. Giovanni invece utilizza una citazione di Zaccaria 12, 10,
che si trasforma in uno sguardo senza confini, in cui il cedente di ogni tempo si sente come
abbracciato e coinvolto.
Porremo la nostra attenzione soprattutto su questi due particolari.
L‟occhio richiesto per comprendere il senso profondo di questo evento è quello del discepolo
amato, di colui che vede e crede. Di fronte allo sguardo abbiamo uno spettacolo umanamente
scandaloso, lo spettacolo della croce. Esso, e la lunga sofferenza e umiliazione che lo precede, è la
reazione del mondo alla parola di Gesù: una reazione violenta,, di odio, un netto rifiuto. Ma ciò che
avviene è, allo stesso tempo, la smentita alle illusioni del mondo: colui che il mondo rifiuta è il
vincitore. Anche questo Giovanni lo aveva annunciato nel prologo: il mondo non lo riconobbe….i
suoi non l‟anno accolto. A quanti però l‟hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio…
(1, 10-12). Ma ciò che sta avvenendo sulla croce è, infine, la risposta di Dio al rifiuto del mondo:
una risposta di amore che proprio di fronte al rifiuto esprime tutta la sua profondità e la sua
ostinazione. È quel tanto amato il mondo con cui Gesù stesso ha espresso la misura della
compassione di Dio.
Tre espressioni chiave ci aiutano a comprendere tutto questo e attraverso di esse cercheremo di
approfondire l‟interpretazione che Giovanni ci offre di questo evento.
vv. 28-30: Tutto è compiuto
In tutta la scena della crocifissione, e soprattutto in questi ultimi versetti scanditi dalle ultime parole
di Gesù morente, si rimane colpiti dalla piena coscienza con cui Gesù vive, nella categoria del
compimento, l‟estremo momento della sua esistenza terrena. Questo tratto, sottolineato più volte nel
racconto della passione, non solo rivela la straordinaria padronanza interiore di Gesù, il suo essere
presente a ciò che sta compiendo, la sua piena libertà nel atto del donarsi, ma soprattutto rivela la
perfetta comunione che egli ha con il Padre: sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo
mondo al Padre …sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani e che era venuto da Dio
e a Dio ritornava…(13, 1.3). Gesù sa che tutti ciò che sta avvenendo è realizzato in perfetta unione
con il Padre; Gesù sa che ogni attimo della sua esistenza è obbedienza al Padre; Gesù sa che ogni
gesto e ogni parola ha pieno significato in relazione al Padre. Gesù sapendo tutto questo, compie
ogni cosa nella piena consapevolezza, sotto lo sguardo del Padre. E alla fine del suo cammino
terreno, nel cuore stesso di un apparente fallimento, Gesù ci consegna questa sua obbedienza
consapevole attraverso due parole, con le quali sigilla la sua vita e attraverso le quali ci fa
comprendere il senso della sua morte. Come sottolinea un esegeta: “Un conto è, per i testimoni,
leggere tutto dall‟interno del loro atto di fede alla luce della Scrittura, e un conto è raccogliere
questo insegnamento dalla labbra di Gesù morente. Un conto è seguire, con lo sguardo dell‟amore,
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gli ultimi dettagli di una vita che si conclude con la morte dell‟Amato, e un conto è cercare di
cogliere le sue ultime parole. Queste illuminano tutto, così come la fine illumina e rivela l‟origine.
Hanno valore di estremo testamento” (SIMOENS, 775).
La rilevanza di queste due ultime parole di Gesù, queste parole finali „che illuminano e rivelano
l‟origine‟ di tutto ciò che Gesù ha detto e compiuto, si può cogliere anzitutto in un verbo che in
pochi versetti Giovanni usa ben tre volte. Si tratta del verbo „compiere‟, reso in questo contesto con
il verbo greco teleioo (teleo): …sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta (tetelestai), disse
per adempiere(teleiothe) la Scrittura….Tutto è compiuto (tetelestai). È l‟unico passo in cui
Giovanni usa questo verbo; in altri contesti utilizza il termine pleroun, espressione che “suggerisce
l‟idea di un vuoto riempito, di una predizione avverata” (MAGGIONI). In questo caso, il verbo
teleioo, che contiene piuttosto “l‟idea di un dinamismo che raggiunge il suo vertice, di una
maturazione”(MAGGIONI), messo in relazione con la Scrittura, offre una angolatura ben precisa
per interpretare l‟evento della croce: “la croce non è un compimento come gli altri, ma il termine a
cui tutta la Scrittura, e dunque ilo disegno di dio, tendeva”(MAGGIONI). Tanto che possiamo dire
che passione e morte di Cristo e compimento della Scrittura sono una cosa sola.
Il contenuto di questo compimento, la sua qualità profonda, è rivelata nelle due parole di Gesù.
La prima potrebbe essere definita il compimento del desiderio: sapendo che ogni cosa era stata
ormai compiuta (tetelestai), disse per adempiere(teleiothe) la Scrittura: “Ho sete”.
In questo grido di Gesù morente, l‟aridità fisica che un crocefisso provava si trasforma in una
adempimento della Scrittura. Gesù percorre sino in fondo la strada tracciata dalla Parola, la strada di
ogni credente che è fedele alla volontà di Dio, rivelata nella Parola, ma soprattutto la strada del
Figlio obbediente alla Parola del Padre. Nel grido di Gesù “Ho sete” possiamo cogliere in filigrana
due testi della Scrittura. Il salmo 22, 16: è arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è
incollata alla gola; e il salmo 69, 22: quando avevo sete mi hanno dato da bere aceto.
Nell‟adempiere alla parola della Scrittura, Gesù percorre sino in fondo il cammino dell‟umiliazione
accettando in sé tutta l‟aridità dell‟uomo, quell‟umanità che diventa deserto inospitale e senza vita
di fronte al dramma della morte: come terra riarsa è l‟anima mia. In Gesù, è l‟uomo che grida il
suo deserto interiore, il bisogno di un‟acqua che disseti e doni fecondità alla sua vita.
E in un certo senso, Gesù, accogliendo il grido dell‟uomo assettato, si rivela paradossalmente come
colui che può donare, colui che desidera donare l‟acqua della vita. Gesù domanda, “ho sete”, e
tuttavia sarà lui a diventare una sorgente zampillante: dal suo costato uscì sangue ed acqua.
Ritroviamo in questa parola lo stessa dinamica del dialogo di Gesù con la donna samaritana. Così
scrive L. X. Dufour: “Ma come non sentire qualcosa di più nella parola del Crocifisso, introdotta
dalla formula scritturistica? Presa isolatamente, essa può esprimere l‟ardente desiderio, da parte di
Gesù, di raggiungere il Padre, secondo l‟invocazione de salmisti: “l‟anima mia ha sete di te
Signore!”(Salmo 63, 2). Essa potrebbe, d‟altra parte, essere accostata alla domanda di Gesù alla
Samaritana: “Dammi da bere!”(4,7), che indicava, più che la sete fisica, il suo desiderio che quella
donna e il suo popolo accogliessero l‟acqua viva che avrebbe dato loro; la sua Parola e, dopo la
glorificazione, lo Spirito. Ora che è sul punto di essere „innalzato, Gesù ha sete che lo Spirito sia
sparso sui credenti. Dopo la sua morte, l‟acqua sgorgherà dal suo fianco trafitto” (198).
Notiamo anche che Gesù accoglie il gesto dei soldati che gli porgono una spugno imbevuta
nell‟aceto e posta su una canna di issopo. Non è un gesto di derisione, ma l‟accoglienza del
desiderio di un morente, tormentato dalla sete. È significativo tutto questo, perché differisce molto
dai sinottici. Come interpretare questo particolare? Si potrebbe vedere nel gesto dei soldati, che
rispondono ad una richiesta, un modo con cui i presenti (e simbolicamente l‟uomo) tenta di
partecipare e di unirsi al desiderio di Gesù, alla offerta che il Cristo morente fa di se stesso, quasi
una liturgia che si compie in questa morte „profana‟ e maledetta (è l‟interpretazione di Simoens, che
dettagliatamente analizza il significato simbolico del vaso, dell‟aceto e dell‟issopo). Gesù accoglie
questa singolare e povera offerta, sapendo cogliere nel gesto di questi uomini qualcosa di buono,
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qualcosa che entra nel disegno i Dio. Ma Gesù accogliendo l‟aceto che gli viene offerto, accetta che
il suo desiderio passi attraverso la sofferenza della morte, quel calice che deve esser bevuto fino in
fondo (è l‟interpretazione che lascia intravedere Dufour)
Il desiderio appassionato di Gesù, quel fuoco che brucia nel suo cuore e che lo rende in profonda
comunione con il Padre e con l‟uomo, ora si sta compiendo. Dio desidera donare. Sulla croce Gesù
rivela la fedeltà di Dio all‟uomo: una fedeltà che passa attraverso l‟accoglienza radicale della
fragilità umana, attraverso una obbedienza tortale alla parola, come ogni uomo credente (Assolta
Israele…), una fedeltà che suscita nell‟uomo il desiderio di aprirsi al dono di Dio, al dono dello
Spirito.
Potremmo definire la seconda e ultima parola di Gesù, da cogliere in stretta relazione con ciò he
avviene al momento stesso della morte di Gesù, come il compimento di una vita in dono: e dopo
aver ricevuto l‟aceto, Gesù disse “Tutto è compiuto”. E chinato il capo, spirò. E dopo aver ricevuto
l‟aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto”. E, chinato il capo, spirò.
Umanamente questa parola di Gesù potrebbe essere resa con questa desolante espressione: “Tutto è
finito”. Nella morte, tutto sembra dileguarsi nella impotenza, nel nulla e nella disperazione. Ma per
chi ha vissuto, come Gesù, tutta la sua esistenza da figlio, nel dono di sé al Padre e agli uomini, la
prospettiva cambia. Poiché una fine nella fedeltà e nell‟amore è un compimento. Avendo amato i
suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine…”Tutto è compiuto”. Ecco il motivo per cui, in
Giovanni, “Gesù non muore su un „Perché?‟ (Mt-Mc), non si abbandona semplicemente nelle mani
del Padre (Lc), ma grida “è compiuto” (DUFOUR, 201).
Sulla croce, dove tutto sembra contraddire gioia e pienezza, dove la violenza dell‟uomo rinfaccia un
assurdo fallimento, Gesù afferma ancora una volta la sua fedeltà a Dio e all‟uomo: fino in fondo ha
condotto l‟opera che gli è stata affidata; fino in fondo è rimasto sottomesso alla parola del Padre, lui
la Parola che era fin da principio e per mezzo della quale tutto è stato fatto; fino in fondo è vissuto
da Figlio obbediente. Veramente tutto è compiuto. Per essere riempito fino all‟orlo, un vaso deve
essere completamente svuotato: svuotò se stesso…assumendo la condizione di servo…facendosi
obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ma proprio per questo Dio lo ha esaltato e gli ha
dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome. Veramente nella croce tutto ciò che Gesù ha
fatto o detto, il racconto della sua vita, l‟amore di Dio per ogni uomo, è svelato e compiuto.
E tutto è racchiuso nello Spirito che Gesù dona nel momento in cui muore: e, chinato il capo, rese
lo Spirito. Per l‟evangelista Giovanni , l‟effusione dello Spirito avviene alla morte di Gesù. Questo
è sottolineato da due espressioni che caratterizzano questo testo: chinato il capo e rese lo spirito. Il
chinare la testa per morire (espressione che non ha paralleli altrove)esprime l‟atto libero, la scelta
deliberata di Gesù di donare la sua vira affidandola al Padre. Si potrebbe commentare questo gesto
di Gesù con le parola di Gv 10, 18: nessuno mi toglie la vita, ma io la depongo da me stesso. Ho il
potere di deporla e il potere di riprenderla: questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.
Come nota Dufour, richiamando il commento di Agostino su questo versetto (in cui è interpretato
come un gesto di abbandono al Padre), “in prospettiva analoga, Giovanni indicherebbe con
l‟espressione ten kephalen klinein il fatto che Gesù ha finalmente trovato „dove riposare il capo‟
(Mt 8, 20)” (202).
Gesù morendo, emise lo spirito (paredoken to neuma). Anche questa è una espressione inusitata per
esprimere la morte. Non è indicato a chi lo spirito viene affidato (come in Luca). Potrebbe essere il
Padre e dunque Giovanni si collocherebbe nella linea di Luca, indicando in questo gesto l‟atto
supremo di affidamento totale di sé. Ma si può anche rileggere questo gesto nella luce del
compimento della missione di Gesù e cioè, nella luce del dono dello Spirito, il frutto del ritorno di
Gesù al Padre (promesso ai discepoli). Come nota Dufour: “l‟atto di espirazione totale del soffio si
presta ad indicare in Gesù in croce la comunicazione dello Spirito a tutti coloro che il suo passaggio
al Padre rende partecipi della vita di Dio” (205)
Il momento massimo della umiliazione del Figlio obbediente fino alla morte e alla morte di croce è
in realtà la rivelazione della gloria stessa di Gesù, quella comunione che vive con il Padre e che
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dona ad ogni uomo mediante lo Spirito. Gesù è stato consegnato nelle mani dei peccatori, è stato
consegnato dal discepolo, ma è Gesù che si consegna al Padre e consegna il suo Spirito.
”All‟antidono del tradimento – commenta Simoens – corrispondeva il dono del boccone. A tutte le
manovre di cui è atto vittima e che sfociano nel suo morire in croce, prendendo su di sé ogni
malevolenza e ogni possibile segno di benevolenza umana, Gesù ora risponde con il dono per
eccellenza del suo Spirito: la sua vita, il suo amore che lo lega al Padre così come agli esseri umani
suoi fratelli e sorelle…Al momento della sua morte, viene effuso lo Spirito del Signore, per mezzo
del quale tutto fu creato. Egli rinnova la faccia della terra” (776).
31-37. Guarderanno a colui che hanno trafitto
“Gesù ha tutto compiuto – scrive B.Maggioni – ha condotto a termine l‟opera che gli fu affidata, ha
percorso al sua via e ha portato al veloce la rivelazione (le Scritture). Tuttavia appena morto dona il
sangue e l‟acqua, un dono che deriva dalla sua morte e allo stesso tempo ne indica il significato
salvifico (per noi) e la permanenza (“guarderanno”). E la morte di Gesù è vita. Il punto più alto è la
croce, ma questo compimento ne richiede un altro: la rivelazione dl suo significato per noi, la sua
permanenza. Sta qui l‟importanza della scena sella trasfissione, che perciò merita molta attenzione”.
Vediamo così che il compimento del dono si prolunga e si approfondisce attraverso due eventi: una
azione non compiuta (lo spezzare le gambe a Gesù, vv.31-33) e un gesto singolare nei confronti di
Cristo (i, fianco trafitto da cui esce sangue ed acqua, v.34). Due testi della Scrittura, riportati ai
vv.36-37, attestano e danni significato a ciò che è avvenuto. Al centro, al v.35, è collocata una.
solenne affermazione di testimonianza in relazione con la fede del credente. E la centralità di questa
testimonianza rivolta non alla realtà dell‟accaduto, ma alla rivelazione che essa racchiude, fa da
ponte all‟avvenimento e alla sua lettura alla luce della Scrittura. E sta qui l‟insistenza di Giovanni
su questo particolare della morte di Gesù.
Il sangue e l’acqua
Soffermiamoci sul gesto del soldato che trafigge il fianco di Gesù e su ciò che avviene in seguito a
questa azione. Notiamo anzitutto che questo gesto sembra motivato dal fatto che a Gesù non viene
applicata la pena supplementare del crurigìfragium, cioè l‟uso di spezzare le gambe del crocifisso
con sbarre di ferro per accelerarne la morte per soffocamento. Nel nostro contesto il motivo,
suggerito per questa azione è quella di evitare che i corpi rimanessero in croce durante il sabato.
Ma i soldati, di fronte al corpo morto di Gesù, non compiono questa crudele azione. E Giovanni,
come vedremo, darà un senso profondo a ciò che non viene fatto. Ci concentriamo invece sul gesto
che un soldato compie verso il corpo di Gesù, gesto che serve ad assicurarsi della morte di Gesù:
uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue ed acqua.
Che significato ha questo gesto compiuto sul corpo di Gesù? Quale realtà profonda nascondono i
simboli del sangue e dell‟acqua?
Il fianco di Gesù è colpito, trafitto (il verbo utilizzato è enuxen, tradotto impropriamente in latino
con aperuit) e da esso sgorga (exelthen) sangue ed acqua. È come se si liberasse una fonte nascosta
in Gesù. C‟è un immediato richiamo al testo di Ezechiele 47, 1, in cui l‟acqua esce dal Tempio ed
irriga tutta la terra.
Se ci riferiamo alla interpretazione che i Padri hanno dato al segno della trasfissione del costato di
Gesù vediamo una ricchezza sorprendente di significati, in cui si sovrappongono vari immagini e
episodi biblici letti tipologicamente. Si va da una lettura apologetica anti-doceta, ad una
interpretazione ecclesiale, pentecostale e sacramentale; alcuni Padri vedono in questo simbolo la
figura del vero tempio dell‟era messianica descritto da Ezechiele; il richiamo alla roccia colpita da
Mosè offre una lettura più chiaramente pasquale, in rapporto all‟esodo; il simbolo del costato aperto
di Adamo diventa „tipo‟ della Chiesa che nasce dal fianco trafitto di Cristo. Ma certamente una
delle interpretazioni più attestate è quella che vede nei due elementi, sangue e acqua, che escono da
Cristo, i due sacramenti attraverso in quali è plasmata la Chiesa e la vita di ogni credente. Questa
lettura ha, tra l‟altro, influenzato l‟iconografia medievale della crocifissione, in cui spesso vediamo
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un angelo (o addirittura la figura simbolica della Chiesa, a cui è contrapposta la Sinagoga bendata),
che raccoglie, come tesoro prezioso, in un calice, il sangue e l‟acqua che escono dal costato di
Cristo Citiamo, tra i tanti, un testo di Ambrogio, uno di Beda e uno di Agostino che riassumono
questa lettura tipologica:
“Aperto dalla lancia del soldato, il costato emise sangue ed acqua…L‟acqua per il
lavacro, il sangue come prezzo. L‟acqua ci ha lavati, il sangue ci ha riscattati” (De
benedictionibus Patriarcharum 4, 24).
“Mi domando perché non sia stato percosso prima di morire, ma dopo morto. Perché i
sacramenti dell‟altare non vengono prima del battesimo; ma prima il battesimo (=morte)
e a questa condizione il calice (=trasfissione). Da quel corpo sgorgava la vita di tutti.
Acqua, infatti, e sangue uscì; l‟acqua perché lavi e il sangue perché riscatti. Beviamo
dunque il nostro prezzo, perché bevendone veniamo riscattati” (In Lucam, X, 135).
“Il nostro Salvatore e Signore ha voluto aprirci una porta di salvezza nel fianco destro
del suo corpo, affinché lavati e santificati mediante i sacramenti del suo costato,
possiamo entrare nella corte più alta del regno celeste: per la porta del fianco mediano
saliamo, infatti, al cenacolo superiore, quando, consacrati mediante l‟acqua del
battesimo e la bevanda del calice del Signore, da questa terrestre conversazione
preveniamo alla vita celeste della anime” (In Esdram…, 1, II, 7)
“Dorme Adamo perché sia fatta Eva; muore il Cristo, perché sua fatta la Chiesa. Ad
Adamo che dorme viene fatta Eva dal fianco; al Cristo morto viene percosso il fianco
con una lancia perché scaturiscano i sacramenti con cui venga formata la Chiesa” (In
Joannis ev., IX, 10)
Partendo da questa interpretazione patristica, è possibile cogliere in questi due elementi, l‟acqua e il
sangue, un significato che Giovanni stesso ci ha già aperto nel racconto del suo vangelo. Ed è un
significato che non annulla quello dato dai Padri, ma lo completa, anzi lo fonda. Citiamo solo due
testi di Giovanni: Nel primo, Gv 7, 37.39, l‟acqua diventa il simbolo dello Spirito: Nell‟ultimo
giorno, quello solenne della festa, Gesù stava in piedi e gridava dicendo: „Se qualcuno ha sete
venga a me e beva!…” Egli disse questo riferendosi allo Spirito che dovevano ricevere coloro che
credevano in lui; infatti non c‟era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato”
(cfr. Anche le parole alla samaritana in Gv 4, 14). “Allo sguardo del testimone veritiero, l‟acqua che
sgorga dal fianco trafitto simboleggia che il fiume d‟acqua viva ha cominciato a scorrere: il dono
che i profeti situavano alla fine dei tempi, l‟acqua pura, cioè lo Spirito effuso, è una realtà presente
da quando il Figlio ha compiuto il suo passaggio al Padre” (DUFOUR, 217).
Il secondo testo riguarda il significato del sangue. Si tratta di Gv 6, 54-55, un passo chiaramente
„eucaristico‟: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna. Il sangue, come luogo
della vita, anzi come simbolo della stessa vita, esce dal fianco trafitto di Gesù e si effonde sul
mondo. Lo sgorgare del sangue diventa così segno del dono che Gesù ha fatto della sua vita,
rivelando agli uomini con quale amore sono stati amati e invitando i cedenti a comunicare a questa
fonte di vita vera.
Dunque, pur nella ricchezza che ognuno di questi termini ha, ricchezza che deve esser mantenuta
attraverso una apertura di significati, ognuno di essi esprime un'unica realtà: la vit. Ciò che è
necessario perché l‟uomo viva realmente, la sorgente della vita, la risposta ad ogni situazione di
morte. E per Giovanni questa vita donata è qualcosa che coinvolge tutto l‟uomo nel suo rapporto
profondo e radicale con Dio. È la scoperta del mistero di Dio rivelato in Cristo (amore); è la
capacità di comunicare a questo mistero (sangue), ricevere da esso quella linfa vitale che permette
di renderlo presente costantemente nella propria vita con lo stesso amore gratuito, fedele, oblativo; è
il superamento della radicale impotenza dell‟uomo che gli impedisce di vivere secondo la logica di
Dio (Spirito e acqua); è la comprensione profonda della persona di Gesù. È quella vita che deriva
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dalla donazione di Gesù fino alla morte (sangue) e che viene comunicata mediante lo Spirito
(acqua). E dopo la sua morte, mentre il suo copro si trova ancora inchiodato ala croce, impotente ed
annullato, Gesù ci fa comprendere in che modo continuerà a restare presente in mezzo sulla terra:
nella comunità dei credenti, in coloro che rinascono mediante l‟acqua e lo Spirito, in coloro che
sono in comunione di vita con lui nella sua carne e nel suo sangue, in coloro che amano così come
lui ci ha amati.
La testimonianza
Ciò che è avvenuto sulla croce è nello stesso tempo un fatto reale ed un evento di fede. E tutto
questo è attestato: ci sono dei testimoni precisi la cui funzione è quella non solo di affermare la
verità dell‟evento, ma di rivelarne il significato. Qui sta l‟importanza del versetto 35 e delle due
citazioni scritturistiche con cui Giovanni conclude il suo racconto della crocefissone.
Anzitutto c‟è qualcuno che ha visto e rende testimonianza; una testimonianza vera, un
testimonianza offerta ad altri perché possano arrivare alla fede. E questa testimonianza, al termine
del racconto, diventa come un invito a vedere e a credere. I due verbi si sovrappongono, tanto che
vedere (verbo che ritorna nella citazione scritturistica) diventa sinonimo di credere. È il vedere che
non si arresta all‟apparenza dei fatti, ma il vedere del testimone oculare, che apre l‟occhio interiore
del cuore, comprende il significato salvifico di ciò che è avvenuto, e aderisce ad esso. Questo
vedere del testimone si prolungo nel credente: anche il credente, nella misura in cui accoglie la
testimonianza di chi era presente e ha visto, vede nella fede. È il vedere che si prolunga nel tempo
della Chiesa (vedranno).
Chi è questo testimone oculare? È colui che ha uno sguardo dioratico, è colui che sa vedere con gli
occhi dell‟amore, è colui che rimane ai piedi della croce. È certamente ilo discepolo amato che
testimonia queste cose e che le ha scritte e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera (21, 24).
Ma è di fatto ogni discepolo, perché è lo stesso evangelista a prolungare in ogni credente questa
testimonianza. Nella fede, ogni discepolo attesta che queste cose sono vere, ogni discepolo diventa
testimone.
E qual è il contenuto della testimonianza? Che cosa è testimoniato? Ciò che il discepolo vedendo ha
compreso, si rivela in due parole della Scrittura le quali già contengono questa testimonianza. E
possiamo dire che il contenuto, il senso profondo,il significato di ciò che è stato visto è nient‟altro
che il volto di Gesù sul quale si riflette la misericordia di dio per il mondo
Non gli sarà spezzato alcun osso
Questo teso, che potrebbe corrispondere sia a Es 12, 46 che al salmo 34, 21, commenta il fatto che i
soldati non hanno spezzato le gambe a Gesù, C‟è una chiara allusione all‟agnello pasquale. Tutta la
scena è collocata in questa cornice (era il giorno della Preparazione; Gesù è messo a morte nell‟ora
sesta, quando i sacerdoti al tempio preparavano gli agnelli per la immolazione). All‟agnello non
dovevano essere spezzate le ossa e d‟altra parte veniva ucciso in modo che ne uscisse il sangue.
Gesù appare dunque come la piena realizzazione dell‟agnello del riscatto, l‟agnello dell‟esodo, colui
che prende su di sé il peccato del mondo.
Ma l‟allusione al salmo, ci rimanda alla figura del giusto perseguitato protetto, alla figura del servo
sofferente che era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi
tosatori, e non aprì la sua bocca ( Is 53, 7).
Così Giovanni con un solo testo ci rivela due tratti del volto di Gesù: l‟agnello che ci dona la
salvezza e il giusto, l‟innocente che si lascia umiliare, che offre se stesso in espiazione, che si èp
caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori.
Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto
Questi due tratti del volto di Gesù si prolungano e si approfondiscono nel testo di Zaccaria 12, 10:
Effonderò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di
implorazione; essi si volgeranno a me che essi hanno trafitto e piangeranno su di lui come si
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piange su di un figlio unico…” Giovanni utilizza questo testo per aprire alla comprensione del
fianco trafitto di Gesù; altrove, in Mt 24, 30 ma anche in Ap 1, 7, lo stesso testo viene applicato alla
venuta del Figlio dell‟uomo. Tenendo unite le varie angolature, ciò che emerge è anzitutto lo
sguardo che è chiamato a rivolgersi verso quel segno, il fianco trafitto, e a comprenderne il
significato. Proprio a partire da questa insistenza sul „volgere lo sguardo‟, sul vedere, viene
spontaneo un richiamo ad un testo di Giovanni, il cap 12 vv.20-24. Ad alcuni Greci che chiedevano
Vogliamo veder Gesù, questi risponde: è giunta l‟ora che sia glorificato il Figlio dell‟uomo. In
verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto. Non c‟è altro volto di Gesù da vedere, se non quello del crocifisso.
Solo quando Gesù è innalzato, allora può essere esaudita la domanda di greci, o meglio, la domanda
dell‟uomo. Anche se paradossalmente l‟innalzato verso cui volgere lo sguardo è il trafitto, è colui
che dona la sua vita morendo; si vede proprio quel chicco nascosto sotto terra che muore per portare
frutto.
La citazione di Zaccaria apre il segno del costato trafitto i due direzioni: una sottolinea la salvezza e
una il giudizio.
In Gv 3, 14.14, Gesù stesso aveva accostato la sua crocifissione (bisogna che il Figlio dell‟uomo sia
innalzato) all‟episodio di Nm 21, 4-9, il serpente di bronzo che doveva essere guardato perché
fossero guarite le ferite provocate dai morsi dei serpenti. L‟alzare lo sguardo verso un segno
misterioso provoca una guarigione; questo è il senso del gesto di Mosè. Ma qui la guarigione
avviene paradossalmente attraverso una ferita: una ferita risana un altra ferita, la ferita di Cristo
permette di far uscire dal suo copro la medicina che guarisce ogni altra ferita. Si può ricordare il
passo di Is 53, 5: egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo
che ci da salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Essere guariti
significa accogliere (guardare) l‟amore di Dio che si rivela nel dono della vita di Gesù: la
guarigione si attua anzitutto nella fede.
Ma il testo di Zaccaria è citato anche con una apertura verso il futuro: nel „guarderanno‟ possiamo
intravedere la durata stessa della storia. Guardare a colui che hanno trafitto significa accogliere
riconoscere la rivelazione e la donazione della vita proprio nella forma paradossale della mote
vergognosa e atroce del crocifisso, colui che hanno trafitto. Quel volto che non ha apparenza né
bellezza per attirare i nostri sguardi…come uno di fronte la quale ci si copre la faccia (Is 53, 2-3),
diventa il giudizio definitivo su quelle tenebre che l‟hanno rifiutato: ciascuno si sente giudicato da
quel volto, ogni tentativo di allontanare lo sguardo è inutile: ognuno lo vedrà, anche quelli che lo
trafissero e tutti si batteranno per lui il petto (Ap 1, 7). Ma per tutti coloro che credono nella vita
che sgorga dal quel fianco trafitto, quel volto è misericordia e pace: bisogna che sia innalzato il
Figlio dell‟uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (3, 14)…Quando sarò
innalzato da terra, attirerò tutti a me (12, 13).
Giovanni invita ogni uomo a trovare la forza di soleva re il suo sguardo verso quel volto: lì trova la
vita vera.
MEDITATIO
Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto
Questo testo di Giovanni anzitutto ci invita a guardare. Potremmo dire che è un testo essenzialmente
„contemplativo‟. “Per Giovanni, il Trafitto che dona il sangue e l‟acqua, esprime il mistero di Gesù
nella sua massima trasparenza: è qui infatti che si scorge tutta la concretezza bela umanità del Figlio
di Dio, la sua totale obbedienza al Padre, il suo amore giunto al limite estremo. Lo sguardo
penetrante della fede vede tutto questo” (Maggioni). Ed è questa la qualità del guardare a cui ci
richiama Giovanni. Ed è una scelta carica di conseguenze.
Anzitutto ci orienta a comprender che l‟unico volto verso cui il nostro sguardo deve essere orientato
è quello del Trafitto. G.Dossetti, in un suo discorso, sottolineava come in Lc 23, 48 il termine
tradotto con „spettacolo‟ corrisponde a quello greco di theoria, espressione classica del linguaggio
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filosofico-contemplativo e precisava che è l‟unico caso nel NT in cui questa espressione viene
utilizzata. Allora possiamo dire che è proprio lo spettacolo del Cristo crocifisso la dimensione
profonda della contemplazione cristiana. Il volto dell‟uomo dei dolori, del trafitto, segna
profondamente e quasi concentra tutta la tensione della storia e del cosmo (Ap 1, 7). Pur restando
un mistero paradossale e difficile, questa visione deve orientare profondamente la dimensione
contemplativa della nostra preghiera del nostro agire, di tutta la nostra vita. Anzi si può dire che
proprio a partire da questa visione ha inizio ogni conversione, conversione che è anzitutto credere
nella vita che sgorga dal fianco trafitto e che vince ogni forma di morte. E proprio Luca ci ricorda
che lo sguardo attratto da quello sconcertante spettacolo, compreso nella memoria del cuore,
diventa inizio della conversione: e se ne ritornavano percuotendosi il petto.
Ognuno di noi, ogni comunità, la Chiesa, si comprende davanti alla croce, volgendo lo sguardo al
trafitto, dove coglie, in un unico istante, la grandezza dell‟amore di Dio e la realtà de proprio
peccato. Solo in quel vedere per credere ci si coglie come dei salvati, amati, perennemente da
salvare, perennemente bisognosi dello spirito di santità.
Ecco perché questa piaga aperta guarisce. Lo sguardo verso di essa ci fa conoscere il nostro peccato,
ma nello stesso tempo è la porta aperta da cui esce la misericordia di dio e in cui si può entrare per
accedere al cuore di Dio. Gesù invita Tommaso incredulo ad entrare nelle sue ferite: metti il dito…e
non esser incredulo ma credente. Tommaso è chiamato, per diventare credente, ad entrare nelle
ferite di Dio. E mi pare stupenda questo cammino: la vulnerabilità di dio è la pota aperta per guarire
le nostre ferite; Dio si lascia ferire e in questa ferita (che è nello stesso tempo il segno del peccato
dell‟uomo e dell‟amore sconfinato di Dio, poiché come dice Origene charitas est passio) si trova la
guarigione
Pietro nella sua prima lettera, 1Pt 2, 24 ricordando il testo di Isaia dice: Egli portò i nostri peccati
sul suo corpo, sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la
giustizia; dalle sue piaghe siete stati guarite. Un giorno Gesù aveva detto ai farisei scandalizzati nel
vederlo seduto a mensa con i peccatori: non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
E ad uno scriba che tentava di giustificarsi di fronte all‟impegni di amare il prossimo, Gesù aveva
raccontato una parabola e lui stesso si era paragonato a quel samaritano che, nel vedere un uomo
ferito e sanguinante, mosso da compassione l‟aveva preso con se e sulle ferite aveva versato olio e
vino. Ma il paradosso si rivela nel fatto che questo medico guarisce con le sue ferite, risana
prendendo il volto dell‟uomo piagato. „E il paradosso del Dio crocefisso che non rimane a guardare
dall‟alto la sofferenza umana, ma si fa compagno del dolore degli omini, condividendolo nella
carne. Ed è questa condivisione, questa compassione, di cui le piaghe sono il segno più eloquente e
drammatico, a guarire le nostre innumerevoli, quotidiane e nascoste ferite. Ecco perché siamo
chiamati a volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto, dal cui costato sgorga sangue ed acqua, i
sacramenti della misericordia di Dio. Ecco perché la nostra vita deve testimoniare questa
guarigione: le cicatrici di una ferita guarita devono diventare il segno del perdono ricevuto.
Tutto è compiuto
E dopo aver ricevuto l‟aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto”. E, chinato il capo, spirò. La morte
spezza una vita. Tutto è finito; potrebbe essere questa l‟amare conclusione con cui uno può sigillare
la sua esistenza. Tutto ciò che ha segnato un cammino, la speranza e l‟amore che lo hanno
sostenuto, alla fine si rivelano un triste fallimento. Forse può essere così per chi vuole realizzare un
progetto tutto suo, per chi si aggrappa disperatamente alla sua vita senza darla a nessuno, per chi
rimane alla superficie della vita. Ma per chi ha cercato di vivere da figlio obbediente sino all‟ultimo
respiro, per chi ha scoperto il segreto della vera vita nel mistero del chicco di grano che, morendo,
porta molto frutto, per chi ha fatto del dono di sé la forza di ogni gesto, di ogni passo, di ogni
parola, la morte non è una fine, ma un compimento. Solo se si vive nella fedeltà di un‟amore senza
condizioni, allora la morte diventa un compimento. Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li
amò sino alla fine…”Tutto è compiuto”. Ecco perché questa parola contiene qualcosa di pieno, anzi
di gioioso: cos‟è la gioia se non aderire totalmente a ciò che uno è, nella profondità del suo essere?
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Cos‟è gioia se non la consapevolezza che la propria vita è fonte di vita per gli altri? Che cos‟è la
gioia se non il dono?
Dopo aver ascoltato le parole della sofferenza, dell‟abbandono, della solitudine, quelle parole che
paradossalmente ci rivelano un volto „inaudito‟ di Dio, ora possiamo accogliere questa parola di
pace con cui Gesù sigilla la sua vita. Una parola che ci dona la pace perché è realmente abitata dallo
Spirito di Gesù. E solo lo Spirito che viene soffiato sull‟umanità e sul mondo nel momento in cui
Gesù muore, può rendere questa parola memoria viva in noi. Se avremo custodito come tesoro
prezioso questa parola, alla sera di ogni giorno, alla sera della vita, lo Spirito ci darà la grazia di
udirla risuonare nel nostro cuore: tutto è compiuto. Ogni giorno, quando giunge al termine, può
essere percepito come un giorno finito, chiuso, senza sbocco, sterile oppure come un giorno
compiuto, fecondo, ricco di grazia e aperto ad una pienezza. E così avverrà anche al termine della
vita. “Potrò dire anch‟io, alla sera della mia vita: Tutto è compiuto; ho condotto a termine la
missione che mi hai affidato? Potrò ripetere anch‟io, quando le ombre della morte scenderanno su di
me, la tua preghiera sacerdotale: Padre, l‟ora è venuta…Io ti ho glorificato sulla terra compiendo
l‟opera che mi avevi assegnato da compiere. Padre glorificami presso di te? O Gesù, qualunque sia
la mia missione: grande o piccola, dolce o amara, vita o morte, concedimi di compierla nel modo
che tu – tu che hai compiuto tutto, anche la mia vita – l‟hai già compiuta affinché io fossi capace di
portarla a compimento” (K.Rahner).
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