Jean Rouch Il cinema del contatto a cura di Raul Grisolia Roma, Bulzoni 1988 pp. 49-67 La macchina da presa e gli uomini Tradotto da J. ROUCH, La caméra et les Hommes, in Pour une anthropologie visuelle, a cura di Cl. de France, Paris, Mouton, 1979, pp. 5371. , 1979, École des Hautes Études. Quando, nel 1948, André Leroi-Gourhan organizzava, al Musée de l’Homme, il primo congresso del film etnografico, si pose la domanda: «Il cinema etnologico esiste veramente?»1 Non poté che rispondere: «Esiste, dal momento che lo proiettiamo». Nel 1962, Luc de Heusch scriveva molto giustamente: . Brandire il concetto di <film sociologico», isolano nella immensa produzione mondiale, non è forse un’impresa chimerica, accademica? La nozione stessa di sociologia e variabile secondo i paesi e le tradizioni scientifiche locali. Essa non si applica alle stesse ricerche in Unione Sovietica, negli Stati Uniti, in Europa occidentale... D’altra parte non è forse una mania esasperante della nostra epoca quella di catalogare, di dividere in categorie arbitrarie, il magma confuso di idee, di valori morali, di ricerche estetiche di cui si nutrono, con una straordinaria avidità, questi artisti che sono i creatori di film 2? Nel 1973, queste due testimonianze hanno assunto un valore particolare sia di fronte alla vergogna che provano gli etnologi (e più recentemente i sociologi) per la loro stessa disciplina sia di fronte alla rinuncia dei cineasti alla propria responsabilità di creatori. Mai l’etnografia era stata così contestata, mai il film d’autore era stato messo in discussione fino a questo punto... E ciò nonostante, ogni anno, cresceva il numero e la qualità dei film etnografici. Non si tratta qui di continuare una polemica ma semplicemente di constatare questo paradosso: più questi film sono attaccati dall’esterno o dall’interno (dagli attori e dagli spettatori o dai registi e dai ricercatori), più si sviluppano e si affermano, come se la loro totale marginalità fosse una maniera di sfuggire al controllo che viene esercitato oggi su tutti i nuovi tentativi di ricerca. Per esempio, da quando nel 1969 a Montreal (Congresso degli Africanisti) o ad Algeri (Festival panafricano) gli etnografi sono stati assimilati (con molta abilità, d’altra parte) a «mercanti di cultura negra» e i sociologi a «sfruttatori indiretti della classe operaia», non ci sono mai state tante iscrizioni di nuovi studenti nei dipartimenti di antropologia e sociologia delle università; Per esempio, da quando i giovani cineasti antropologi hanno definito ormai superati i film sui rituali o sulla vita tradizionale, non ci sono mai stati tanti film sui sistemi arcaici e così pochi invece sui problemi dello sviluppo; Per esempio, dalla creazione dei gruppi di realizzazione, non c’è mai stata, nell’ambito del cinema e delle scienze umane, una tale quantità di film d’autore (e parallelamente, una tale mancanza di autori in questi gruppi); In conclusione, se il film etnografico è attaccato, è perché gode di buona salute, perché la macchina da presa ha ormai trovato il suo posto fra gli uomini... 1 A. LEROI-GOURHAN, Cinéma et sciences humaines. Le film ethnologique existe-t-il?, in «Revue de Géographie Humaine et d’Ethnologie», Paris, n. 3, 1948. [N.d.A.] 2 L. DE HEUSCH, Cinéma et sciences sociales, Paris, UNESCO. n. 16, 1962. [N.d.A.] 1. CENTO ANNI DI FILM DELL’UOMO I pionieri Eppure, la strada era stata particolarmente ardua da quando nel 1872, a proposito di una disputa sui trotto dei cavalli, Edward Muybridge realizzava a San Francisco i primi cronofotografi, che scomponendo il movimento, avrebbero permesso di riprodurlo, cioè di cinematografarlo. Fin dall’inizio, dopo gli animali, dopo il cavallo, l’uomo, il cavaliere o l’amazzone (nudi per favorire l’osservazione dei muscoli), poi il marciatore, le marciatrici a quattro zampe, l’atleta, o lo stesso Muybridge, completamente nudo, che compiva le sue evoluzioni davanti a trenta apparecchi fotografici automatici. In queste immagini traspariva la società americana della Costa Ovest di cento anni fa, come nessun western riuscirà più a mostrarla, un’amazzone certo, ma bianca, muscolosa, violenta, armoniosamente impudica, pronta ad offrire al mondo il virus della buona volontà e, innanzitutto, l’American way of Life. Dodici anni più tardi, nel 1888, quando Marey racchiude i trenta apparecchi fotografici di Muybridge nel suo fucile cronofotografico, utilizzando la pellicola morbida inventata da Edison, sarà ancora l’uomo a fare da bersaglio. E, dal 1895, il dottor Felix Regnault, giovane antropologo, decide di servirsi della cronofotografia per fare uno studio comparato del comportamento umano (40 anni prima che Marcel Mauss scriva l’indimenticabile saggio Les techniques du corps), sulle «maniere di camminare, di accovacciarsi, di arrampicarsi» di un Peul, di un Wolof, di un Diula, di un Malgascio... Nel 1900, Regnault (e il suo collega Azoulay che, per primo, utilizza i rulli dei fonogrammi Edison per registrare il suono) concepisce il primo museo audiovisivo dell’uomo: «I musei etnografici dovrebbero aggiungere alle loro collezioni delle cronofotografie. Non basta possedere un telaio, un tornio, dei giavellotti... bisogna inoltre conoscere il modo di utilizzarli; ora, questo è possibile saperlo solo attraverso la cronofotografia>. Sfortunatamente, questo museo etnografico del documento visivo e sonoro, settant’anni dopo, appartiene ancora al mondo dei sogni. Dal momento in cui l’immagine animata appare realmente con il cinematografo di Lumière, è sempre l’uomo ad esserne il soggetto principale: «Gli archivi filmati di questo secolo cominciano con queste prime realizzazioni naïves. Il cinema sarebbe diventato lo strumento oggettivo capace di cogliere dal vivo il comportamento dell’uomo? La meravigliosa ingenuità di La sortie des usine, Le dejeuné du bébè, di La péche à la crevette lo lasciava credere» 3. Ma, fin dall’inizio, la macchina da presa si rivela come un «ladro di riflessi». Se gli operai che escono dalle fabbriche Lumière non prestano alcuna attenzione a questa piccola scatola a manovella, quando, qualche giorno più tardi assistono alla proiezione delle brevi immagini filmate, prendono improvvisamente coscienza di un rituale magico sconosciuto, ritrovano la paura antica dell’incontro fatale con il «doppio». Allora appaiono «... gli illusionisti, che tolgono agli scienziati questo nuovo tipo di microscopio e lo trasformano in giocattolo». E gli spettatori di cinema preferiscono la ricostruzione truccata da Méliès dell’eruzione del vulcano della Montagne Pelée nelle Antille ai documenti terribili delle troupe Lumière sulle guerre della Cina. I precursori geniali È necessaria la tempesta del 1914-1918, la messa in discussione di tutti i valori, la rivoluzione sovietica e la rivoluzione intellettuale europea, perché la macchina da presa ritrovi gli uomini. Due precursori geniali inventano allora la nostra disciplina. Uno è geografo-esploratore, l’altro poeta futurista, ma tutti e due sono cineasti avidi di realtà: l’uno fa della sociologia senza saperlo, il sovietico Dziga Vertov, l’altro fa dell’etnografia, sempre senza saperlo, l’americano Robert Flaherty. Non si incontrano mai, non hanno contatto con gli etnologi o i sociologi che inventavano 3 L. DE HEUSCH Cinéma et sciences sociales, Paris, UNFSCO, n. 16, 1962. [N.d.A.] allora la loro scienza, probabilmente non si rendono conto dell’esistenza al loro fianco di questi osservatori infaticabili. E tuttavia, è a loro che dobbiamo tutto ciò che cerchiamo di fare oggi. Per Robert Flaherty, nel 1920, filmare la vita degli Eschimesi del Grande Nord, significa filmare un Eschimese particolare, non una cosa, ma un individuo, e un principio elementare di onestà consiste nel mostrargli ciò che si fa. Quando Flaherty mette in piedi un laboratorio di sviluppo in una capanna della baia di Hudson, quando proietta le sue immagini al suo primo spettatore, l’eschimese Nanook, non immagina certo di aver appena inventato, con dei mezzi irrisori, «l’osservazione partecipante» che i sociologi e gli antropologi utilizzeranno una trentina d’anni dopo e il feed-back che noi sperimentiamo ancora così maldestramente. Se Flaherty e Nanook riescono a raccontare la difficile storia della lotta di un uomo contro la natura prodiga di doni e sofferenze, questo è possibile perché c’è fra loro un terzo personaggio, una piccola macchina capricciosa ma fedele, con una memoria visiva infallibile, che mostra a Nanook le sue stesse immagini man mano che vengono impressionate, la macchina da presa che Luc de Heusch ha magnificamente chiamato «la camera partecipante». Senza dubbio, quando lo stesso Flaherty sviluppa i suoi spezzoni di pellicola nell’igloo, non si rende conto che ha condannato a morte più del 90% del documenti filmati che saranno realizzati successivamente e bisognerà attendere quaranta anni prima che qualcuno segua il nuovo esempio del vecchio maestro del 1921. Per Dziga Vertov, nella stessa epoca, si tratta di filmare la rivoluzione. Qui, non conta più la messa in scena, anche selvaggia, ma la registrazione di blocchi di realtà. Allora il poeta, diventato militante, rendendosi conto della primitiva struttura cinematografica dei cinegiornali, inventa il kinok, il «cine-occhio»: Sono il cine-occhio. Sono l’occhio meccanico. Sono la macchina che vi mostra il mondo così com’è, come solo io posso vederlo. Da oggi mi libero per sempre dell’immobilità umana. Sono in un ininterrotto movimento. Mi avvicino agli oggetti e me ne allontano, scivolo sotto di essi, entro in loro, mi muovo accanto al muso di un cavallo che fugge, fendo in piena corsa la folla, corro dinanzi ai soldati che corrono, mi rovescio sulla schiena, volo con gli aeroplani, cado e mi alzo con i corpi che cadono e che si alzano (Manifesto dei Kinok, 1923). Così questo pioniere visionario predice l’era del «cinema verità»: Il cinema verità è una nuova forma d’arte, l’arte della vita stessa. Il cine-occhio comprende: tutte le tecniche di ripresa; tutte le immagini in movimento; tutti i metodi senza eccezione che permettono di cogliere la verità: una verità in movimento... La «macchina da presa allo stato puro», non nel suo egoismo ma nella sua volontà di mostrare il popolo senza alcun artificio, di riprenderlo in ogni momento... ma non è sufficiente rappresentare sullo schermo dei frammenti parziali della verità come briciole sparse. Questi frammenti devono essere elaborati in un insieme organico che è a sua volta, la verità tematica (Manifesto dei Kinok). In queste dichiarazioni febbrili c’è tutto il cinema di oggi, tutti i problemi del film etnografico, del film di inchiesta televisivo e della creazione, molti anni dopo, delle «camere viventi» di cui ci serviamo adesso. E tuttavia, nessun cineasta al mondo è stato accolto così male, nessun ricercatore geniale è stato così solo e sconosciuto; bisogna aspettare gli anni ‘60 perché realizzatori e teorici ritrovino le tracce dei kinok, di coloro che facevano «dei film che producevano film». Quando, nel 1920, Flaherty e Vertov avevano dovuto risolvere i problemi che si pongono sempre al cineasta di fronte agli uomini che filma, la tecnica di ripresa era elementare, essendo la realizzazione di un film più legata all’artigianato quindi all’arte che all’industria. La macchina da presa di Nanook, antenato degli Eyemo, non aveva motore, ma possedeva già un mirino «reflex» con obiettivi accoppiati. La macchina da presa del «cine-occhio», come quella che vediamo in L‘uomo alla macchina da presa, era anch’essa a manovella, e «l’occhio in movimento» di Vertov non poteva circolare che in un’automobile scoperta. Flaherty era solo (operatore, regista, addetto al laboratorio, montatore, proiezionista); Vertov lavorava sempre con un operatore ed era responsabile —- — di una piccola troupe tecnica (stranamente familiare: il fratello Michail alla macchina da presa, la moglie al tavolo di montaggio anche Flaherty più tardi avrà la sua troupe familiare: il fratello David alla seconda macchina, la moglie Frances come assistente). È forse grazie a questa semplicità e a questa ingenuità (anche nella «cine-sofisticazione»), che questi pionieri scoprirono i problemi essenziali che ci poniamo sempre: bisogna mettere in scena la realtà, «la messa in scena della vita reale», come Flaherty o filmarla a sua insaputa come Vertov «la vita colta alla sprovvista». — L’eclisse del cinema-industria Ma, nel 1930, i progressi tecnici (il passaggio dal «muto» al «parlato») trasformano l’arte cinematografica in industria e nessuno avrà il tempo di riflettere su ciò che fa, nessuno si porrà la minima domanda sull’altro: il cinema bianco è diventato cannibale; è il momento del cinema esotico e Tarzan, eroe bianco fra i neri selvaggi, non tarderà ad apparire. Fare un film significa allora essere il capo di una decina di tecnici, utilizzare molte tonnellate di materiale visivo e sonoro, essere il responsabile di centinaia di milioni (di franchi). Quindi, piuttosto che mandare la macchina da presa fra gli uomini, sembra più semplice far venire gli uomini verso la macchina da presa, in fabbrica. E Johnny Weissmuller, il più famoso re della giungla, non lascerà il bosco sacro di Hollywood; sono i selvaggi d’Africa e i Tubi piumati che verranno negli studi cinematografici. Bisognava essere folli, come qualche etnografo, per tentare di utilizzare uno strumento così vietato come una macchina da presa. Quando si vedono oggi i primi maldestri tentativi di Marcel Griaule Au pays des Dogons, Sous les masques noirs o di Patrick O’ Reilly Bougainville, diventato Popoko île sauvage, si comprende il loro scoraggiamento davanti al risultato di tanti sforzi, dopo il passaggio di documenti ammirevoli nella macchina da presa, costretti a fare dei film con un montaggio insensato, musica orientale, con un commento sportivo «newsreel»... Questo tradimento poterono evitarlo nello stesso periodo (1936-1938) Margareth Mead e Gregory Bateson nella realizzazione della serie Character formation in different cultures: 1. Bathing babies, 2. Childhood rivalry in Bali and New Guinea, 3. First days in the life of a New Guinea baby, ma grazie all’aiuto finanziario delle università americane che avevano compreso prima delle altre università che era assurdo voler mischiare ricerca e commercio. La rivoluzione tecnica del dopoguerra È il nuovo sviluppo tecnico dovuto alla guerra che permetterà al film etnografico di rinascere: l’arrivo del formato ridotto di 16 mm. Le macchine da presa leggere, che le armate americane utilizzavano nelle campagne militari, non erano più i mostri da 35 mm ma strumenti precisi e robusti, usciti direttamente dal cinema amatoriale. Verso la fine degli anni ‘40 alcuni giovani antropologi, seguendo alla lettera il manuale di Marcel Mauss «Filmerete tutte le tecniche...» riportano la macchina da presa fra gli uomini e se alcune spedizioni continuano a sognare super-realizzazioni in 35 mm (fra le quali il bellissimo Pays des Pygmées che, fin dal 1947, porta con sé dalla foresta equatoriale i primi autentici suoni registrati su disco), il 16 mm non tarda ad imporsi. Da allora la situazione cambia rapidamente. Nel 1951 appaiono i primi registratori autonomi che, nonostante i loro trenta chili e i motori a manovella, sostituiscono un camion di parecchie tonnellate. Nessuno crede in queste innovazioni tranne qualche antropologo che cominica ad apprendere l’uso di questi strumenti bizzarri, che un professionista dell’industria cinematografica non vuole neanche vedere: allora gli etnologici diventano registi, operatori, fonici, montatori e anche produttori. E stranamente, Luc de Heusch, Ivan Polunin, Henri Brandt, John Marshall e io stesso, siamo coscienti di inventare nello stesso tempo un nuovo linguaggio. Nell’estate 1955, al Festival di Venezia, nella rivista di cinema «Positif», così presentavo il film etnografico: Quali sono questi film? Quale barbaro nome li distingue dagli altri? Esistono davvero? Non saprei dirlo, ma so che esistono dei rarissimi istanti in cui Io spettatore comprende all’improvviso una lingua sconosciuta senza l’aiuto di alcun sottotitolo, partecipa a cerimonie misteriose, percorre città o paesaggi che non ha mai visto ma che riconosce perfettamente... Questo miracolo solo il cinema può produrlo, ma senza che alcuna tecnica speciale possa provocano: né il sapiente contrappunto di un montaggio, né l’impiego di un qualunque cinerama stereofonico possono creare tali prodigi. Molto spesso, durante il più banale dei film, nella selvaggia giostra dell’attualità, nei meandri del cinema amatoriale, un contatto misterioso si stabilisce. Il primo piano di un sorriso africano, uno sguardo messicano alla macchina da presa, un gesto europeo così banale che nessuno aveva ancora pensato a filmare, svelano il volto sconvolgente della realtà. E come se ci fossero più apparecchi di ripresa, più registratori, più cellule fotoelettriche, più accessori e tecnici di quanti formino il grande rituale del cinema classico. Ma i cineasti di oggi preferiscono non avventurarsi su queste strade pericolose e solo i maestri, i folli e i bambini osano premere i bottoni vietati. Ma presto lo sviluppo folgorante della televisione dà ai nostri mezzi irrisori i titoli della nobiltà professionale. E per soddisfare le nostre esigenze (leggerezza, solidità, qualità) che intorno al 1.960 i costruttori di registratori e di macchine da presa mettono a punto meraviglie come i registratori autonomi e le macchine da presa silenziose e portatili. I primi ad usarli sono, negli Stati Uniti, l’operatore Richard Leacock (Primay e Indianapolis) e in Francia, la troupe composta da Edgard Morin, da Michel Brault e da me. 2. IL CINEMA ETNOGRAFICO OGGI Così, oggi, disponiamo di apparecchi straordinari e, dal 1960, il numero e la qualità dei film etnografici cresce ogni anno (nel 1971 per il primo festival Venezia Genti, più di 70 film recenti furono inviati al comitato di selezione). Comunque il film etnografico, pur restando marginale e del tutto particolare, non ha ancora trovato la sua strada, come se, dopo aver risolto i problemi tecnici, dovessimo reinventare, come Flaherty o Vertov nel 1920, le regole di un nuovo linguaggio che permetta di aprire le frontiere fra tutte le civiltà. Non è nelle mie intenzioni fare qui il bilancio di tutte le tendenze e di tutte le esperienze, ma di esporre quelle che mi sembrano più pertinenti. Film etnografico e cinema commerciale Benché non vi si opponga nulla dal punto di vista tecnico, i film etnografici che hanno ottenuto una larga diffusione sono estremamente rari. Eppure, la maggioranza dei film etnografici realizzati da qualche anno si presenta sempre come un prodotto di diffusione normale: titoli, colonna sonora, montaggio sofisticato , commento stile grande pubblico, durata, ecc. Si ottiene così il più delle volte un prodotto ibrido che non soddisfa né il rigore scientifico né l’arte cinematografica. Certo, qualche capolavoro o qualche opera originale sfugge a questa trappola che era inevitabile (gli etnografi considerano il film come un libro e un libro di etnografia non si differenzia da un libro ordinario). Il risultato è un evidente accrescimento del prezzo di costo di questi film che rende ancora più amara la quasi totale mancanza di diffusione, soprattutto quando il mercato del cinema resta apertissimo a certi documenti sensazionali del tipo Mondo Cane. Evidentemente ci saranno sempre delle eccezioni: The Hadza realizzato dal giovane cineasta Sean Hudson, in perfetta simbiosi con l’antropologo James Woodburn, o Emu Ritual at Rugurie e tutta la serie austrialiana del cineasta autore Roger Sandall, in collaborazione con un antropologo, o ancora The Feast in cui Timothy Asch si è perfettamente integrato con l’inchiesta di Napoléon Chagnon presso gli Yanomani. La soluzione del problema è lo studio di una rete di diffusione di questi film. A partire dal momento in cui università, istituti culturali, circuiti televisivi non avranno bisogno, per diffondere i nostri documenti, di renderli conformi agli altri prodotti, ma al contrario ne accetteranno le differenze, un nuovo tipo di cinema etnografico, con dei criteri specifici, potrà svilupparsi. Etnografo-cineasta o una troupe di cineasti ed etnografi E per ragioni analoghe, per darsi «tutte le possibilità tecniche», che da qualche anno gli etnografi preferiscono non filmare da sé e fare appello a una troupe di tecnici (in effetti, è piuttosto una troupe di tecnici mandati da una società televisiva, che si rivolge poi all’etnografo). Personalmente, sono – tranne per causa di forza maggiore – decisamente contro la troupe. Le ragioni sono molte. Il tecnico del suono deve assolutamente comprendere la lingua della gente che sta registrando: è dunque indispensabile che appartenga all’etnia filmata e che, inoltre, sia minuziosamente preparato a questo lavoro. D’altra parte, con le tecniche attuali del cinema diretto (il suono in sincrono) il regista non può che essere l’operatore. E soltanto l’etnografo, secondo me, può sapere quando, dove, come filmare, cioè realizzare il film. Infine, e questo è senza dubbio l’argomento decisivo, l’etnografo passerà un tempo molto lungo sul campo prima di iniziare una qualunque ripresa. Questo periodo di riflessione, di apprendimento, di conoscenza reciproca può essere lunghissimo (Robert Flaherty ha passato un anno alle isole Salomone prima di girare il più piccolo spezzone di pellicola), ma questo è incompatibile con i programmi e i salari di una troupe di tecnici. I film di Asen Balikci sugli eschimesi Netsilik o la recente serie dei film di Jan Dunlop sui Baruya della Nuova Guinea sono l’esempio ben riuscito di quello che non bisogna ricominciare a fare: l’intrusione di una troupe troppo numerosa di tecnici su un terreno difficile, anche con la mediazione di un antropologo. La realizzazione di un film è una rottura di divieto, ma, quando il cineasta-etnologo è solo e non può appoggiarsi al suo gruppo di stranieri (due bianchi in un villaggio africano sono già una comunità, un corpo estraneo, dunque, che rischia più facilmente il rigetto...) l’impurità provocata può essere assorbita da lui solo. Mi sono sempre chiesto quale era stata la reazione del piccolo gruppo di Eschimesi davanti ai pazzi bianchi che gli facevano ripulire il campo dalle scatole di conserva... Questa ambiguità, che non appariva nella serie Desert People senza dubbio in seguito al «pezzo di pista» condiviso dai cineasti e dalla famiglia aborigena incontrata si manifesta naturalmente nel film della Nuova Guinea, nel momento straordinario della fine della cerimonia, in cui il gruppo responsabile dell’iniziazione non respinge realmente i cineasti, ma chiede al loro amico antropologo di limitare la diffusione del film: esso poteva essere mostrato solo fuori della Nuova Guinea rigetto a posteriori). In ogni caso, la pesantezza del processo tecnico era un ostacolo alla «camera partecipante». Per questo motivo mi sembra indispensabile iniziare gli studenti di antropologia alle tecniche di registrazione dell’immagine e del suono e se i loro film sono tecnicamente molto inferiori a quelli dei professionisti, avranno la qualità insostituibile di un contatto reale tra colui che filma e coloro che saranno filmati. — — — Macchina da presa su supporto fisso o a spalla zoom o focale fissa - Quando, dopo la guerra del 1939-1945, le emittenti televisive americane cercavano dei film (in particolare le serie Adventure di Sol Lesser o della CBS), il fatto di aver girato senza cavalletto era sempre controproducente, a causa della mancanza di stabilità. Ciò nonostante, la maggior parte dei reportages di guerra in 16 mm (fra cui lo straordinario Memphis Bell, sulle vere avventure di una fortezza volante, girato in 16 mm e primo film ingrandito a 35 mm) erano stati filmati con la macchina da presa a spalla. Ma in effetti, se qualcuno di noi prendeva esempio da questi pionieri e filmava senza cavalletto, era soprattutto per economia di mezzi e per permettere spostamenti rapidi fra due riprese, perché la macchina da presa era ferma per la maggior parte del tempo, ogni tanto «panoramica- va» e, eccezionalmente, si spostava (effetto «gru» provocato dall’inginocchiarsi dell’operatore o carrellata in automobile). Ci volle l’audacia della giovane troupe del National Film Board di Montreal perché la macchina da presa uscisse da questa immobilità. Nel 1954 Corral di Koenig e Kroitor indicò la strada che nel 1959 avrebbe portato al piano, oggi classico, della carrellata con la macchina in spalla, seguendo la pistola del guardiano di banca in Bientôt Noël. Quando Michel Brault venne a girare a Parigi Chronique d’un été, questa fu una rivelazione per tutti noi e per gli operatori della televisione (il piano di Primary in cui Leacock segue l’entrata in scena di J.F. Kennedy è stato senza dubbio il capolavoro di questo nuovo stile di ripresa). I costruttori di macchine da presa hanno poi fatto sforzi considerevoli per migliorare la maneggevolezza e l’equilibrio degli apparecchi di ripresa. E oggi tutti gli operatori di «cinema diretto» sanno camminare con la loro macchina da presa, che è diventata «la camera vivente», il «cine-occhio» di Vertov. Nell’ambito del cinema etnografico, questa tecnica mi sembra particolarmente efficace, perché permette di adattarsi all’azione in funzione dello spazio, di penetrare la realtà piuttosto che lasciarla svolgere davanti all’osservatore. Alcuni cineasti, comunque, continuano a utilizzare molto spesso il cavalletto spesso per rigore tecnico È questo, secondo me, il maggior difetto dei film di Roger Sandall e soprattutto dell’ultimo film di Jan Dunlop in Nuova Guinea (e non è un caso che si tratti di cineasti australiani, perché i migliori cavalletti e le migliori «teste panoramiche» sono fabbricate a Sydney!). L’immobilità dell’apparecchio di ripresa sembra compensato dalla frequente utilizzazione di obiettivi a focale variabile (zoom) che permettono un effetto ottico di carrellata. Tuttavia questo espediente non riesce a far dimenticare la rigidità della macchina da presa che vediamo allontanarsi o avvicinarsi artificiosamente da un solo punto di vista. Malgrado la seduzione evidente di questi languidi balletti, bisogna riconoscere che questi movimenti ottici in avanti o all’indietro non avvicinano la macchina da presa alle persone filmate, ma essa rimane a distanza e l’occhio zoom è piuttosto simile a quello del voyeur che guarda, che esamina i dettagli dall’alto della sua lontana postazione. L’arroganza involontaria della ripresa non soltanto è percepita a posteriori dallo spettatore attento, ma più ancora dalle persone filmate come un posto di osservazione. Per me, dunque, la sola maniera di filmare è di camminare con la macchina da presa e di condurla là dove è più efficace e di improvvisare con lei un altro tipo di balletto, nel quale la macchina diventa viva come le persone che filma. — —. È questa la prima sintesi tra le teorie vertoviane del «cine-occhio» e la «camera partecipante» di Flaherty. Questa improvvisazione dinamica che io paragono spesso all’improvvisazione del torero davanti al toro qui, come in quel caso, niente è stabilito dall’inizio e la soavità di una faëna non è altro che l’armonia di una carrellata a spalla perfettamente adeguata ai movimenti delle persone filmate. Qui, ancora una volta, è un problema di allenamento, di una padronanza del corpo, che una ginnastica adatta permette di acquisire. Allora, invece di usare lo zoom, l’operatore cineasta penetra realmente nel suo soggetto, precede o segue il danzatore, il prete o l’artigiano, non è più se stesso ma un «occhio meccanico» accompagnato da «un orecchio elettronico». È la bizzarra trasformazione della persona del cineasta che ho chiamato, per analogia con i fenomeni di possessione la «cine-trance». — — 3. MONTAGGIO Il cineasta operatore del cinema diretto è il suo primo spettatore nel mirino della macchina da presa. Qualsiasi improvvisazione gestuale (movimenti, inquadrature, durata dei piani) confluisce in un montaggio al momento della ripresa: ritroviamo qui la concezione di Vertov: «... ‘il cineocchio’ è: monto quando scelgo il mio soggetto (tra i mille soggetti possibili). Monto quando osservo (filmo) il soggetto (realizzare la scelta utile fra mille osservazioni possibili...» (A.B.C. dei Kinoki). Infatti lo stesso lavoro sul campo determina la specificità del procedimento del cineastaetnografo, perché invece di elaborare la redazione dei suoi appunti dopo la ricerca sul campo, deve, a rischio di fallire, tentarne la sintesi nel momento stesso dell’osservazione, condurre, cioè, il suo racconto cinematografico, ingrandirlo o arrestarlo, di fronte all’avvenimento. Qui non si tratta più di un piano di montaggio scritto in precedenza, né di macchine da presa che fissano un ordine di sequenze, ma di un gioco ben più arrischiato dove ogni piano è determinato dal piano precedente e determina il piano seguente. È evidente che riprese in sincrono di questo tipo richiedono un affiatamento perfetto fra l’operatore e il tecnico del suono (che, lo ripeto, deve capire bene la lingua parlata dalle persone filmate e svolge un ruolo essenziale in questa avventura). Se la troupe «cineocchio» e «cine-orecchio» è bene allenata, i problemi tecnici devono essere risolti da semplici riflessi (messa a fuoco, diaframma) e il cineasta e il suo doppio sonoro sono disponibili a questa creazione spontanea. «Cine-occhio = cine-vedo (vedo con la macchina da presa) + cine scrivo (registro con la macchina da presa sulla pellicola) + cine-organizzo (monto)» (A.B.C. dei Kinoki). E fin dalla ripresa, con un semplice sguardo nel mirino, con il semplice ascolto delle cuffie, la troupe di realizzazione riconosce immediatamente la qualità di quello che ha registrato, si ferma se ha fallito (per prendere un’altra strada), continua se procedere bene, a concatenare le frasi di un racconto che si crea nel momento stesso dell’azione, è questa, per me, la vera «camera partecipante». Il secondo spettatore è il montatore. Non deve mai partecipare alle riprese, ma essere il secondo «cine-occhio»; non sapendo niente del contesto, vede e sente solo quello che è stato registrato (quali che siano state le intenzioni del cineasta). Questo significa che il montaggio tra l’autore soggettivo e il montatore oggettivo è un dialogo aspro e difficile, ma da cui dipende il film. Anche qui non esiste una ricetta sempre valida: «Associazione (addizione, sottrazione, moltiplicazione, divisione e messa in parentesi) di spezzoni filmati della stessa natura. Scambio incessante di questi spezzoni immagine finché non siano collocati in un ordine ritmico dove le interconnessioni di senso coincidano con le interconnessioni visive». (A.B.C. dei Kinoki). Ma una tappa supplementare, non prevista da Vertov, mi sembra indispensabile: è la presentazione della prima versione del film (un «assemblaggio» ordinato) alle persone filmate e la cui partecipazione è essenziale per me (tornerò più avanti su questo punto). Commento, sottotitoli, musica… Non è possibile far passare due messaggi sonori simultaneamente, uno sarà sempre sentito a svantaggio dell’altro. L’ideale sarebbe realizzare un film il cui suono fosse il suono originale. Purtroppo il film etnografico presenta in generale delle culture straniere complesse, uomini che parlano una lingua sconosciuta. Il commento, derivato direttamente dal film muto o dal film-conferenza, sembra la soluzione più semplice; è il discorso diretto dell’autore, intermediario fra l’altro e il sé. Questo discorso che dovrebbe essere soggettivo è molto più spesso oggettivo, in forma di manuale o di esposizione scientifica, che accumula il massimo di informazioni complementari. Allora, curiosamente, invece di chiarire le immagini, il commento le oscura, le maschera fino a sostituirsi ad esse: questo non è più un film, è una conferenza, una dimostrazione su sfondo visivo animato, mentre invece la dimostrazione dovrebbe essere fatta dalle immagini stesse. Sono rari i film etnografici dove il commento è il contrappunto delle immagini. Ne citerò due: Terre sans pain di Luis Buñue1, in cui il testo di Pierre Unik, violentemente soggettivo apporta la crudeltà orale necessaria a una visione spesso insostenibile; The hunters di John Marshall dove il cineasta ci guida in un racconto molto semplice sulla pista delle giraffe e dei loro cacciatori: il film, d’altra parte, diventa sia l’avventura dei cacciatori e della loro preda che quella del cineasta. Quando la nuova attrezzatura ha permesso di girare in sincrono, i film etnografici, come tutti i film del cinema diretto, sono diventati loquaci e il commento ha tentato l’operazione impossibile di un doppiaggio in un’altra lingua. Sempre più spesso, per la preoccupazione di avvicinarsi alle regole di qualità del cinema di spettacolo, si fa appello ad attori professionisti per dire questo «commento». Il risultato, tranne rare eccezioni, è penoso; invece di tradurre, di trasmettere, di avvicinare, questo genere di discorso tradisce, svia, allontana. Personalmente, ho preferito, dopo alcune brutte esperienze (la versione americana di La chasse au lion à l’arc), dire io stesso, in cattivo inglese, con un attivo accento, i testi dei miei film (Les maîtres-fous). Sarebbe comunque molto interessante studiare lo stile dei commenti dei film etnografici dagli anni ‘30; come siano passati dal barocco coloniale all’esotismo avventuroso, quindi alla secchezza di un bilancio scientifico, e, di recente, sia alla distanza sdegnosa di antropologi che non vogliono ammettere il loro interesse per la gente che studiano, sia al discorso ideologico in cui il cineasta esporta verso l’altro la rivolta che non è stato capace di fare nel proprio paese: si otterrebbe così un profilo caratteristico nello spazio e nel tempo dei ricercatori della nostra disciplina, che nessun libro, che nessuna conferenza potrebbe delineare. I titoli e i sottotitoli appaiono, quindi, come i mezzi più efficaci per sfuggire alla trappola del commento. È stato John Marshall, secondo me, ad utilizzare per primo questo procedimento nella serie Kalahari del Peadbody Museum e The pond, un film molto semplice girato in sincrono sulle chiacchiere e la conversazione raffinata di bushmen su una sorgente d’acqua, resta un modello del genere. Ciò nonostante non bisogna nascondersi le difficoltà del procedimento: oltre alla mutilazione dell’immagine, l’ostacolo più difficile è quello del tempo di lettura: come nel cinema di spettacolo, il sottotitolo non può essere che una sintesi di ciò che è stato detto. Ho cercato di utilizzarlo per un film in sincrono sui cacciatori di leoni (Un lion nommé l’Americain), ma non è stato possibile trascrivere in maniera soddisfacente la difficile traduzione del testo essenziale (le lodi del veleno di freccia), recitato al momento della morte del leone (non ci sarebbe stato il necessario tempo di lettura); ho dovuto dire io il testo (il tempo di ascolto e molto più corto) che arriva in sovrimpressione sonora sul testo originale. In effetti, il risultato è deludente, perché anche se questo testo esoterico assume in quel momento un valore poetico, non aggiunge nessuna informazione complementare. Oggi sono tornato a una versione senza commento né sottotitoli. Inoltre sarebbe miracoloso poter accedere in venti minuti a conoscenze e tecniche complesse che richiedono agli stessi cacciatori decine di anni di apprendimento. Il film, in questo caso, non sarebbe che una porta aperta su questa scienza; permette a coloro che vogliono saperne di più di consultare l’opuscolo (l’esemplare Ethnografic companion to film) che deve ormai accompagnare ogni film etnografico. Segnalerò, per farla finita con titoli e sottotitoli, l’eccellente tentativo di Timothy Asch in The feast, in cui, in un preambolo con immagini ferme delle sequenze principali, le spiegazioni sono date a priori. Il film è poi titolato e sufficientemente sottotitolato per indicare chi agisce e cosa fa. Certo, questo procedimento demistifica il film dall’inizio, ma è, secondo me, il tentativo più originale fatto fino ad oggi. Dirò poco sulla musica di accompagnamento. I brani di musica originale sono stati (e sono ancora) la base della colonna sonora della maggior parte dei film documentari (e di tutti i film etnografici degli anni ‘50). Si trattava, una volta di più, di «fare del cinema». Mi sono accorto molto presto (1953) della falsità di questo sistema proiettando ai cacciatori di ippopotami del Niger il film Bataille sur le grand fleuve girato dieci anni prima insieme a loro. Nel momento dell’inseguimento dell’ippopotamo, avevo montato, sulla banda sonora, un commovente «canto dei cacciatori», una musica di viola su un tema di caccia, che mi sembrava si adattasse particolarmente a questa sequenza. Il risultato è stato deplorevole: il capo dei cacciatori mi ha chiesto di eliminare la musica perché l’inseguimento doveva essere assolutamente silenzioso... Dopo questa avventura ho fatto molta attenzione nell’uso della musica nei film e sono convinto che anche nel cinema di spettacolo si tratti di una convenzione completamente teatrale e superata: la musica avvolge, addormentata, copre i cattivi raccordi, dà un ritmo artificioso a immagini che non ne hanno e che non ne avranno mai, insomma è l’oppio del cinema (purtroppo la televisione sfrutta la mediocrità del procedimento). Credo che alcuni ammirevoli film giapponesi, come Papua new life e soprattutto Kula, Argonauts of the Pacific, siano rovinati dalla salsa musicate con la quale sono serviti. Invece, viva la musica che accompagna realmente un’azione, musica profana o rituale, ritmo di lavoro o di danza. E, anche se si tratta di un argomento diverso, bisogna qui segnalare la notevole importanza che ha e avrà la tecnica del film in sincrono nell’ambito dell’etnomusicologia. Il montaggio sonoro (ambiente, parole, musica) è certamente complesso quanto il montaggio visivo, ma penso che dobbiamo sbarazzarci di quei pregiudizi che vengono dalla radio e consistono nel trattare il suono con più rispetto dell’immagine. Molti film recenti di cinema diretto sono rovinati dall’incredibile rispetto per le chiacchiere delle persone filmate, come se una testimonianza orale fosse più importante di una testimonianza visiva: là dove un cineasta non esita a tagliare un gesto in movimento, non oserà tagliare un tema musicale prima dell’ultima nota d’organo. Credo che questo tic arcaico (di cui la televisione fa largo uso) non tarderà a scomparire e l’immagine ritroverà la sua priorità. Il pubblico del cinema etnografico: film di ricerca e di diffusione Quest’ultimo punto (quest’ultimo anello che potrebbe essere il primo se ci si facesse un processo alle intenzioni) è oggi essenziale per il cinema etnografico. Dovunque, in Africa, nelle università, nei centri culturali, in televisione, al Centre National de la Recherche Scientifique, alla Cinémathèque française, la prima domanda che viene posta dopo la proiezione di un film etnografico è: «Per chi, perché, avete realizzato questo film?». Per chi, perché la macchina da presa fra gli uomini? La mia risposta sarà sempre la stessa: «Per me». Non si tratta di una droga particolare la cui «mancanza» si farebbe sentire regolarmente, ma perché, in certi momenti, in certi luoghi, presso gente di un certo tipo, la macchina da presa (soprattutto la macchina da presa per la ripresa in sincrono) mi sembra essere necessaria. Sarebbe sicuramente possibile giustificare l’impiego per ragioni scientifiche (realizzazione di archivi audiovisivi di culture in via di trasformazione o di sparizione) o politiche (appoggio alla rivolta di fronte a una situazione intollerabile) o estetiche (la scoperta del fragile capolavoro di un paesaggio, di un viso, di un gesto che è impossibile lasciare svanire), ma in effetti, si sente improvvisamente la necessità di filmare o, in circostanze molto analoghe, la certezza che non bisogna filmare. La frequentazione delle sale cinematografiche, l’uso intempestivo dei mezzi audiovisivi faranno di noi dei kinok alla Vertov, dei «cine-occhi», così come una volta c’erano le «mani-penne» (Rimbaud) che non potevano trattenersi dallo scrivere: «Ero là, mi accadde questo» (La Fontaine). E se il cine-voyeur della propria società saprà sempre giustificarsi per questa sua particolare attività, quale motivo possiamo dare noi antropologi agli sguardi che gettiamo, al di là del muro, sull’altro? Certo questo processo riguarda tutti gli antropologi, ma mai un libro o un articolo è stato messo in discussione come un film antropologico. E questa sarà forse la mia seconda risposta: il film è il solo mezzo di cui dispongo per mostrare all’altro come lo vedo. In altri termini, per me, il pubblico è innanzitutto (dal piacere della «cine-trance» alla ripresa e al montaggio) l’altro, la persona che ho filmato. Allora la posizione è molto più chiara: l’antropologo ha ormai a disposizione un solo strumento «la camera partecipante» che gli offre questa straordinaria possibilità di comunicazione con il gruppo studiato, il film che ha realizzato su di esso. Non possediamo ancora tutti gli accorgimenti tecnici (la messa a punto del proiettore super 8 sonoro, autonomo, con batterie di 12 volts costituirà un serio progresso), ma gli esperimenti che ho potuto fare con un proiettore 16 mm sistemato alla meglio e un piccolo generatore portatile da 300 watts, sono già decisivi: la proiezione del film Sigui 69 nel villaggio di Bongo dove era stato realizzato, ha suscitato fra i Dogon della falesia di Bandiagara reazioni considerevoli e la richiesta della realizzazione di nuovi film, a cui si sta attualmente lavorando. La proiezione di un film, Horendi, sull’iniziazione dei danzatori di possessione del Niger, mi ha permesso, studiando il film in moviola, di raccogliere presso i preti responsabili del rito più informazioni in quindici giorni di lavoro che in tre mesi di osservazione diretta e di interviste agli stessi informatori. E qui ancora, una nuova richiesta di fare un film. L’informazione a posteriori sul film non è che all’inizio, ma introduce fra l’antropologo e il gruppo studiato relazioni completamente nuove, prima tappa di quella che alcuni di noi chiamano già «l’antropologia condivisa». Finalmente l’osservatore esce dalla sua torre d’avorio; la sua macchina da presa, il suo registratore, il suo proiettore lo hanno condotto su uno strano cammino iniziatico al cuore stesso della conoscenza e, per la prima volta, è giudicato sul posto, non da una commissione di tesi, ma dagli stessi uomini che è venuto ad osservare. Questa straordinaria tecnica di feed-back (che io tradurrei con «contro-scambio audiovisivo») non ha ancora rivelato tutte le sue possibilità, ma ormai, grazie ad essa, l’antropologo non è più l’entomologo che osserva l’altro come un insetto (quindi il niente), ma uno stimolatore di conoscenza reciproca (quindi di dignità). La ricerca di una partecipazione totale, per quanto idealistica possa essere, mi sembra oggi, moralmente e scientificamente, la sola attività possibile per un antropologo. E allo sviluppo degli aspetti tecnici (super 8, video), che i costruttori devono dedicare i loro sforzi. Ma sarebbe evidentemente assurdo condannare il film etnografico al circuito chiuso delle informazioni audiovisive. Perciò la mia terza risposta alla domanda «Per chi?» è: «Per il più gran numero di gente possibile, per tutti i pubblici». Credo che se la diffusione dei nostri film etnografici è limitata (tranne rarissime eccezioni) negli spazi discreti delle università, delle società scientifiche e degli organismi culturali, la causa non risiede nella carenza di distribuzione dei film di spettacolo, ma proprio nei film che realizziamo. È tempo che i film etnografici divengano dei film. Se le conferenze di esploratori, se le serie televisive di stile «avventuroso» hanno tanto successo, questo si deve al fatto che, io ripeto, dietro le immagini maldestre si sente la presenza di chi le ha girate. Fino a quando l’antropologo-cineasta, per scientismo, per orgoglio ideologico, si nasconderà dietro un confortevole incognito, castrerà irrimediabilmente i suoi film che finiranno nelle nostre cineteche fra i documenti di archivio riservati a qualche specialista. Il successo della pubblicazione in collezione economica (livre de poche) di opere etnografiche fino a quel momento relegate a una piccola rete di scambi fra biblioteche scientifiche dovrebbe essere l’esempio da seguire per il film etnografico. E in attesa di realizzare dei veri film etnografici, riprendendo in questo senso la definizione chiara che gli davamo vent’anni fa: «...film che uniscono al rigore scientifico il linguaggio cinematografico...», il Comitato del Film Etnografico e Sociologico ha deciso, all’ultimo Festival di Venezia (Venezia Genti, 1972), di creare con l’aiuto dell’U.N.E.S.C.O. un fondo di conservazione, di documentazione dei «film dell’uomo». Perché qualcun’altro insieme a noi crede che il mondo di domani, il mondo che stiamo costruendo, sarà vivibile soltanto se terrà conto delle differenze esistenti fra le culture, se avrà deciso di non negare l’altro uniformandolo alla propria immagine. Per questo è necessario conoscerlo e non esiste per questa conoscenza miglior mezzo del cinema etnografico. Questo non è un pio desiderio, l’esempio ci viene dall’Estremo Oriente, dove una compagnia televisiva giapponese, con lo scopo di far uscire i Giapponesi dalla loro insularità, ha deciso di trasmettere una volta alla settimana, per tre anni, un’ora di film etnografici... 4. CONCLUSIONE. CINE-ANTROPOLOGIA CONDIVISA Eccoci, quindi, al termine del nostro itinerario sulle tracce della macchina da presa fra gli uomini, ieri e oggi. La sola conclusione che è possibile trarre per il momento, è che il film etnografico non ha superato lo stadio sperimentale e se gli antropologi dispongono di uno strumento fantastico, non sanno ancora servirsene bene. Non esistono ancora, anche se ci sono tendenze di questo tipo, «scuole di cinema etnografico». Personalmente, mi auguro che questa situazione marginale continui, al fine di evitare che una disciplina giovane sia paralizzata da norme capestro o da una burocrazia sterilizzante. È positivo che i film etnografici americani, canadesi, giapponesi, brasiliani, australiani, olandesi, inglesi o francesi siano così diversi. All’universalità dei concetti dell’approccio scientifico, noi opponiamo concezioni diverse: se i «cine-occhi» di tutti i paesi sono pronti ad unirsi, non è per avere uno sguardo universale. Come ho già detto, accade che il cinema delle scienze umane sia, in un certo senso, all’avanguardia della ricerca cinematografica. E se, fin da oggi, nella diversità dei film recenti, si vendono apparire tendenze simili, come per esempio la moltiplicazione dei «piani sequenza» (ho chiesto a un costruttore di macchine da presa leggere di realizzare un caricatore di 300 metri in 16 mm che consenta un’autonomia di ripresa di mezz’ora), significa che qui o altrove le nostre esperienze hanno condotto alle stesse conclusioni e che così nasce un nuovo linguaggio cinematografico. E domani? Domani sarà il momento del video autonomo a colori, del montaggio su nastro magnetico, della restituzione istantanea dell’immagine registrata, quindi, del sogno congiunto di Vertov e Flaherty, di un «cineocchio-orecchio meccanico» e di una macchina da presa talmente «partecipante», che passerà direttamente nelle mani di coloro che fino ad ora le stavano davanti. Allora l’antropologo non avrà più il monopolio dell’osservazione, sarà lui stesso ad essere osservato, registrato, lui e la sua cultura. Così il film etnografico ci aiuterà a «condividere» l’antropologia 4. 4 L’autore alla fine del saggio riporta 1e seguenti referenze bibliografiche: F. REGNAULT, Les attitudes du repos dans les races humaines, in «Revue encyclopédique 1896», 1896, pp. 9 12. F. REGNAULT, Le grimper, in «Revue encyclopédique 1897», 1897, pp. 904-905. F. REGNAULT, La chronofotographie dans l’ethnographie, in «Bulletins et Mémoires de la Societé d’Anthropologie de Paris I», 1900, pp. 421-422: L. AZOULAY, L’ère nouvelle des sons et des bruits, in «Bulletins et Mémoires de la Société d’Anthropologie de Paris 1», 1900, pp. 172-178. L. AZOULAY, Sur la constitution d’une musée phonographique, in «Bulletins et Mémoires de la Société d’Anthropologie de Paris 1», 1900, pp. 222-226. D. VERTOV, Kinoki Perevorot, in «Lef», 1923, ripubblicato in parte in «Cahiers du Cinema», n. 144, 1963 pp. 32-34 [trad. it. I Kinoki. Un rivolgimento, in D. VERTOV, L’occhio della rivoluzione, a cura di P. Montani, Milano, Mazzotta, 1975, pp. 33-34]. D. VERTOV, History of the Newreel (in russo), in «Kino», 1940, tratto da J, ROUCH, Le film ethnographique, in «Ethnologie générale», Paris, Gallimard, 1968, pp. 443-444 [i brani riportati sono tradotti in italiano con il titolo: Dal Kinoglaz al Ragioglaz (Dall’Alfabeto dei Kinoki), in D. VERTOV, L’occhio della rivoluzione, a cura di P.. Montani, Milano, Mazzotta, 1975, pp. 136-143]. A. LEROI-GOURHAN, Cinéma et sciences humaines: le film ethnographique existe-t-il?, in «Revue de Géographie Humaines et d’Ethnologie», n. 3, 1948, pp. 42-51. J. ROUCH, A propos des films ethnographiques, in «Positif», n. 14 15. 1955. L. DE HEUSCH, The Cinema and Social Science, in «Reports and Papers in the Social Sciences», Paris, UNESCO, n. 16, 1962. [N.d.T.] pp. 79-109 Il «cinéma plaisir» * Ho registrato l’intervista a Jean Rouch il 22 dicembre 1986, a Parigi, nella sede del Comité du Film Ethnographique, presso il Musée de l’Homme. [Nd.T.] Vorrei aprire quest’incontro, fissando le tappe essenziali della sua attività di etnologocineasta. Come e quando ha iniziato a interessarsi al cinema e all’etnologia? Quando frequentavo la Cinémathèque Française, alla fine degli anni Trenta insieme a Langlois vedevo molti film. Io e i miei amici pensavamo che il cinema fosse qualcosa di straordinario. Quando vedevamo film come !Que viva Mexico! di Ejzenstejn, l’entusiasmo era così forte che ci veniva voglia di fare cinema, ma sapevamo che non era possibile. Il cinema era riservato a un gruppo di persone molto particolare nel quale era difficile entrare, molto più difficile di oggi. Le incontravamo alla Cineteca, ma non riuscivamo a entrare in contatto con loro.., era un mondo vietato. Ma, vedendo questi film, avevamo voglia di farne. Allora durante lunghe passeggiate in montagna ci fermavamo vicino alle rocce. Ci nascondevamo come gli indios che apparivano nel film di Ejzenstejn, facevamo delle foto e rimettevamo in scena il film. Giocavamo a fare il cinema, facendo fotografie. Lo stesso accadeva per Quai des brumes con Michel Morgan e Gabin: conoscevamo la sceneggiatura a memoria e ci recitavamo i dialoghi fra noi. La lingua di Quai des brumes non era vera, ma era stata inventata da Prévert, che aveva creato quella specie di dialetto che i personaggi parlavano nel film e noi cercavamo di imitarlo. Tuttavia non si trattava soltanto di amore per il cinema, ma anche di una riflessione su di esso. Avevamo dunque una grande curiosità. Eravamo nell’ambiente del cinema, ma non sapevamo cosa bisognava fare... Nel 1937, quando venne aperto il Musée de l’Homme, studiavo a l’Ecole de Ponts et Chaussées per diventare ingegnere, nello stesso tempo seguivo dei corsi di etnologia al museo, perché questo mi aveva sempre interessato. Poi sono partito per l’Africa con due miei compagni dell’Ecole des Ponts, perché eravamo stati arrestati dai tedeschi in Bretagna durante le vacanze di Pasqua. Era la Pasqua del 1941 ed era necessario per noi lasciare ufficialmente la Francia occupata, altrimenti le nostre famiglie avrebbero rischiato delle ritorsioni. Siamo partiti come ingegneri dei lavori pubblici delle colonie e quindi la causa del mio primo contatto con l’Africa era dovuto alla necessità di fuggire dalla Francia. Non era un problema di scelta, ma l’unica maniera per raggiungere poi l’Inghilterra e quindi De Gaulle e di riprendere la lotta... La sconfitta della Francia nel ‘39 era stata un avvenimento molto drammatico per giovani come me e i miei compagni, non potevamo sopportare quest’avventura, non potevamo sopportare di aver abbandonato la guerra quasi senza combattere. Facevamo saltare i ponti, ma non era sufficiente, non avevamo alle spalle l’appoggio necessario. A Parigi ci dedicavamo a piccole azioni di sabotaggio, erano atti poetici: invertivamo i cartelli indicatori dei comandi tedeschi, scrivevamo con il gesso il segno della vittoria sulle automobili. Queste stupide azioni di sabotaggio potevano diventare gravi nel caso ci avessero arrestato. Per questo, partito per l’Africa e dopo un viaggio molto lungo, ho scoperto il Niger. A Niamey ho cominciato ad essere interessato dalle popolazioni africane e dalle ricerche etnologiche. La ragione è molto semplice. Non avevamo mezzi, non c’era benzina, avevamo solo camion a gas e costruivamo le volte dei ponti come gli egiziani e i romani, trasportando il materiale sulla testa. Ero molto giovane ed ero responsabile dei cantieri di costruzione delle strade, dove lavoravano 20.000 persone. I problemi umani erano di gran lunga i più importanti e il punto di partenza del mio interesse per l’etnografia è l’agosto 1942, quando in uno dei miei cantieri vicino a Niamey un fulmine ha ucciso dieci persone. Allora il responsabile di quel cantiere mi ha mandato un messaggio piegato in un pezzo di legno, una «lettera-telegramma», per avvertirmi. Gli africani che si trovavano lì, mi hanno detto: «No, questa faccenda non ci riguarda...», «Non ci riguarda, l’uomo folgorato è un uomo impuro». Io avevo seguito qualche corso di etnologia tenuto da Marcel Griaule al Musée de l’Homme, ma prima della guerra l’etnologia era essenzialmente l’arte negra, l’avanguardia, Michel Leiris, il surrealismo, l’invenzione di forme nuove. Non ne sapevo niente di più. A questo punto un giovane che lavorava nei servizi, un pescatore che si chiamava Damouré Zika mi ha detto: «Questo fatto riguarda mia nonna». Siamo partiti insieme per il suo villaggio. Là ho assistito a fantastiche danze di possessione in cui il genio del tuono è venuto ad aiutare questa vecchia donna a sputare del latte sui corpi folgorati per purificarli, spiegando le ragioni della sua ira. Io non capivo niente, vedevo della gente posseduta. Non sapevo altro. Siamo tornati a Niamey dove ho cominciato a fare domande a Damouré. Poi sono tornato più volte a trovare la nonna. Qualche giorno dopo un pescatore era stato ucciso nel fiume e non si sapeva se era stato fulminato durante un temporale oppure se era annegato. Furono riorganizzate allora altre danze di possessione in riva al fiume di cui Cayà, la nonna, era la responsabile. Il genio del tuono è venuto e ha detto: «Non sono stato io, ma il genio dell’acqua». Quindi il pescatore era annegato. Ho subito scritto un resoconto che ho spedito a Griaule, al Musée de l’Homme. E stato il mio primo lavoro etnografico, corredato dalle fotografie che avevo sviluppato nel gabinetto radiologico dell’ospedale di Niamey. Nell’ultima lettera ricevuta da Parigi, attraverso la zona non occupata, Griaule mi rispose, facendomi delle critiche e chiedendomi di porre questa domanda (era Germaine Dieterlen che l’aveva suggerita): «L’annegato aveva forse l’ombelico o le narici tagliate?». Ho fatto la domanda a Cayà che mi ha risposto: «Se sai questo, perché mi fai delle domande?». Dunque mi stavo occupando di qualcosa di misterioso che era per me un segno di ciò che poteva essere la ricerca etnografica. E il cinema? E mi dicevo: «Ho fatto delle foto, ma bisognerebbe filmare queste cose». Avevo in testa l’idea che si potesse fare un film. Quando è iniziata la seconda parte della guerra, con lo sbarco alleato, ho percorso il cammino inverso risalendo la valle del Rodano attraverso tutta la Germania fino a Berlino. Era la fine della guerra e Berlino era una città straordinaria e vedendo questa Berlino straordinaria ho deciso di fare un film su di essa, un film che sarebbe stato semplicemente la giornata di una delle innumerevoli Marlène Dietrich, che si prostituivano per vivere, che scambiavano una notte per una bottiglia di liquore. in questa situazione sarebbe stato interessante fare del cinema. Ero stato il primo ad aprire l’insediamento del settore francese e girando per Berlino entravo in contatto con una grande quantità di cose. Una volta mi trovai in un magazzino del servizio cinematografico dell’esercito tedesco dove c’era pellicola e alcune macchine da presa Arriflex 35 mm, che era possibile comprare a buon prezzo scambiandole con alcune bottiglie di liquore. Sono tornato a Parigi pensando che sarebbe stato possibile realizzare un film. Ho parlato con gli amici che avevo conosciuto alla Cineteca, fra i quali Yannik Bellon, che è diventato regista e che ha preso un premio a Venezia proprio nel primo dopoguerra con Goëmons. Yannik Bellon mi disse che fare un film era una cosa complicata, ci voleva una troupe e una lunga preparazione, sono tornato a Berlino molto deluso e non ho comprato la cinepresa. Potevo avere la cinepresa, la pellicola, potevo fare un film muto.., ma ancora una volta era un atto vietato. Non si poteva fare un film senza un operatore. Ho quindi abbandonato quest’idea e mi sono ritrovato con alcuni amici che erano partiti per l’Africa con me a studiare per ottenere una laurea in filosofia. C’eravamo conosciuti in Africa quando io ero stato espulso dal Niger nel 1942 da un governatore legato a Petain. Avevo risalito una parte del fiume Niger, esplorando così quella zona dell’Africa, mentre un altro mio amico, che aveva avuto dei problemi politici, lo aveva percorso nell’altro senso. A Bamaco ci siamo incontrati e abbiamo deciso di discenderlo dopo la guerra in piroga. Oltre alla laurea in antropologia con Griaule, abbiamo ottenuto anche quella in filosofia morale e psicologia e abbiamo cominciato a lavorare al nostro progetto. Alla metà del 1946, abbiamo potuto organizzare una spedizione per discendere il Niger in piroga. Ho deciso di fare un film e per questo mi sono messo in contatto con le persone che conoscevo nel cinema. All’Institut des Hautes Etudes Cinématographiques, Sechan, uno dei primi operatori usciti dalla scuola mi consigliò di andare a parlare con i produttori, di raccontare la mia idea. Uno dei produttori mi ha detto: «Vi do i soldi per fare il film, ma solo se portate con voi Fernandel a Timbuctù». Non gli interessava fare un film documentario. Raccontai questo fatto al mio amico Sechan, che partiva anche lui con una spedizione organizzata dal Musée de l’Homme, verso la regione abitata dai Pigmei. Sechan mi disse allora di andare al mercato delle Pulci e cercare una cinepresa, perché se ne trovavano di ottime, provenienti dall’esercito americano e che non costavano care. Effettivamente trovai una BellHowell film 70 con tre eccellenti obiettivi Cook. Insieme agli amici, vendendo una moto, comprammo della pellicola in bianco e nero, a alta velocità, che dava quindi un’immagine molto sgranata. In Africa abbiamo deciso di girare un lungometraggio, una storia onirica, ricca di mistero. Dopo aver fatto il film siamo partiti verso le sorgenti del Niger, impiegando nove mesi per ripercorrerlo tutto in piroga. Arrivati al confine del Niger (della nazione del Niger) ci siamo fermati in un villaggio che conoscevo bene, perché avevo percorso la strada che passava lì vicino. Proprio in quel villaggio avevo girato il mio primo film di finzione sei mesi prima. Ho detto alla gente che volevo farne un altro e loro mi hanno chiesto di fare un film sulla caccia all’ippopotamo. Sono tornato dopo sei mesi, quando la caccia era pronta, quando la grande piroga era stata preparata. Allora ho girato un film su un rituale di possessione, il mio primo rituale di possessione, e una caccia all’ippopotamo. In quel momento non avevo ancora molta dimestichezza con la macchina da presa: mi è capitato di fare delle sequenze da destra e da sinistra che non potevano essere raccordate. Tuttavia avevo un film. Sono rientrato in Francia e quando ho sviluppato il materiale mi sono reso conto che le immagini non erano cattive. Ho cominciato a lavorare al montaggio, a tentare di raccontare una storia, ma in quell’epoca non c’era niente, non c’era niente con cui incollare la pellicola (si incollava con il pollice), non esisteva il visore per il montaggio, quindi si proiettava il film (muto, naturalmente) e si cercava di raccontare una storia. Ho presentato questo film alla prima manifestazione organizzata al Musée de l’Homme da André Leroi-Gourhan, che in quel momento era il direttore del museo, e questa manifestazione si chiamava: «Le film ethnographique existe-t-il?». Il titolo del mio film era Chasse à l’hippopotame au harpon. In quel momento aveva già riflettuto sul suo modo di filmare? No, improvvisavo nel mirino e cercavo di raccontare una storia, ma esistevano già film molto interessanti. Leroi-Gourhan lo aveva capito molto bene, apprezzava molto film come il mio e altri dello stesso genere. Chasse à l’hippopotame è stato uno dei primi film che ho presentato qui. La cosa importante era che Leroi-Gourhan, insieme a Griaule, uno dei leader del Musée de l’Homme, pensava che il mio fosse un lavoro di ricerca. La macchina da presa, quindi, poteva essere uno strumento di ricerca. Qualcuno che assisteva alla proiezione del film mi propose di proiettarlo in un Caffè dove alcuni giovani musicisti suonavano jazz. Il film era muto e io improvvisavo un commento. La proiezione ebbe luogo con grande successo. Allora il pianista del gruppo jazz, che era il figlio del direttore delle Actualités Françaises, mi disse che valeva la pena di parlare con il padre. Il direttore vide il film, decise di comprarlo e di farmi un contratto fantastico (il 60% sugli incassi, che era moltissimo). Mi disse che bisognava ingrandirlo a 35 mm, mentre ero libero di decidere sul montaggio, sulla musica e sul commento. A questo punto il film è uscito nelle sale con il titolo di Au pays des mages noirs, che era Chasse à l’bippopotame ridotto da 30 a 10 minuti. Il film era uscito contemporaneamente a Stromboli di Rossellini. Non era un brutto film, ma la musica era insopportabile e il commento era letto dal cronista del Tour de France. Il produttore è stato estremamente onesto, alla fine mi ha dato la copia 35 mm flamme 5, da cui ho potuto fare una copia di 16 mm. Perciò il film esiste ancora. A questo punto vorrei passare a un film capitale, un film che ha interessato e interessa fra gli altri molti uomini di teatro. Il film è Les maîtres fous, naturalmente. Lei sa che il film continua a suscitare reazioni diverse e spesso molto violente... Sì certo. Chabrol mi ha chiesto come facevo a far recitare così bene quegli attori. Brook, invece, ha proiettato il film ai suoi attori prima di farli recitare in Marat-Sade e, vedendo questo film, Jean Genet ha scritto Les Nègres. Quali sono stati i problemi tecnici e psicologici durante le riprese del film? Les maîtres fous è stato girato nel ‘54 ed era il settimo o l’ottavo film che avevo fatto. La differenza che c’era fra questo e gli altri film era che intanto il suono era arrivato. Quindi nel 195354 esistevano registratori autonomi, molto pesanti, che funzionavano su banda magnetica a motore meccanico. Essi permettevano di registrare il suono reale e potevo disporre, perciò, di strumenti di registrazione diretta. Da molto tempo ero passato al colore per una ragione essenziale e cioè che è molto più facile girare a colori che in bianco e nero, perché non è necessario regolare l’illuminazione. Inoltre quando mostravo le foto in bianco e nero alla gente filmata, essa non poteva riconoscersi perché non c’era il colore, con le foto a colori la relazione era evidente. Lo stesso è accaduto per i film. Quando hanno visto i primi che avevo girato in bianco e nero, come Au pays des mages noirs, le persone stentavano a riconoscersi, con il colore ogni problema è scomparso. in Les maîtres fous ho utilizzato una pellicola Kodachrome e una cinepresa che bisognava ricaricare ogni 25 secondi, ma ero abituato a raccontare una storia in questo modo. In quel momento avevo realizzato un altro film sulla caccia all’ippopotamo, che aveva giocato un ruolo molto importante nella mia ricerca, perché era il primo film che avevo proiettato alla gente filmata. Un’esperienza questa che mi aveva insegnato molte cose e che aveva suscitato un grande interesse in Damouré Zika. Insieme eravamo partiti verso il Ghana, sempre alla ricerca di danze di possessione, avevamo anche deciso di girare un lungometraggio, Jaguar. Mi ero abituato in questi film a girare e a montare mentre ricaricavo la inepresa, rendendomi conto cioè, molto rapidamente, nel mirino della Beil{owell dopo aver girato un piano, che non c’era più motore e che la cinepresa si sarebbe fermata. Quindi dovevo ricaricare e ricaricando, riflettevo, e, riflettendo, cambiavo l’angolo di ripresa avendo nell’occhio l’ultima immagine che avevo visto nel mirino. Sperimentavo la possibilità di fare un montaggio durante le riprese. Nel 1948 avevo girato un film sulla circoncisione, che dura circa 10 minuti, con 12 minuti di pellicola, quindi, senza nessuno scarto. C’era solo qualche inquadratura sbagliata a causa del diaframma. Conoscevo molto bene la Kodachrome, sapevo raccontare una storia spezzettandola, con molte interruzioni, fermandomi qualche volta molto prima dei 25 secondi con l’idea che quando ci si annoia bisogna smettere. Ero abituato ad essere il mio primo spettatore nel mirino. Lo spezzettarsi del film era automatico per me, era la scomposizione del montaggio. 5 Flamme: La pellicola cinematografica, utilizzata negli anni ‘30, era altamente infiammabile. La copia dei film, girati con questo tipo di pellicola, è chiamata in Francia: copie flamme. [N .d.T.] È forse per questo che si ha l’impressione di «falso» davanti a Les maîtres fous. La continua e rapida combinazione dei piani dà l’impressione di un pesante intervento del montaggio nella struttura del film. Certo, ma con il montatore abbiamo spesso messo dei fotogrammi bianchi fra un piano e l’altro, Comunque, tornando ai problemi tecnici, voglio dire che non sono stati particolarmente difficili da superare. Sul piano del rapporto con le persone filmate tutto è stato molto facile: sono loro che mi hanno chiesto di fare un film. Io ho avuto la grande fortuna di portare con me i film che avevo fatto in Niger e ho proiettato il film sulla caccia all’ippopotamo (in cui avevo filmato anche una possessione) a Accra nel 1954 ai componenti della setta degli Hauka. Lo hanno visto e mi hanno detto che bisognava fare un film sulle danze dei geni della forza, gli Hauka, i geni del mondo nuovo, del mondo coloniale. La festa si sarebbe tenuta a Natale. Ho accettato e sono partito per il Togo, dove mi hanno mandato un telegramma per invitarmi alla festa. Non c’è stato nessun problema. Dal punto di vista dell’organizzazione posso dire che sono partito con una cinepresa e un grosso registratore. Avevo comprato delle bobine di normale pellicola da trenta metri, che si trovavano in tutti i drugstores di Accra. Damouré Zika registrava il suono praticamente senza interruzione. Avevamo una quantità sufficiente di bobine sonore, perciò gli ho detto di continuare, eliminando solo il rumore della cinepresa. Naturalmente il suono non era in sincrono. Questa era la nostra maniera di lavorare. Quali sono state le prime reazioni alla visione del film? Le prime reazioni le ho avute da Damouré e da Lam che erano con me. Dopo aver finito il film, ho accompagnato a casa i protagonisti, fra cui Gherba, quello che era posseduto dalla locomotiva. Era tardi ed eravamo abbastanza lontani dalla città. Insieme a Gherba c’era anche Damouré che mi ha detto: «Abbiamo fatto un film orribile oggi». Per questo ho deciso di girare la fine, per mostrare come erano quelle stesse persone dopo la possessione. Sono rientrato a Parigi con questo film, Jaguar e un altro film, Mammy Water. Les maîtres fous è stato proiettato per la prima volta nel 1955 alla seconda riunione internazionale del film etnografico, che si teneva al Musée de l’Homme. Avevo ricevuto una copia per il montaggio, o forse anche l’originale, perché era Kodachrome ed era possibile proiettano. Ho presentato un’ora con un commento improvvisato di volta in volta. Erano presenti molti antropologi, c’era il mio professore Marcel Griaule, c’erano alcuni amici africani. Quando uscii dalla sala di proiezione incontrai Marcel Griaule, rosso di collera, che mi disse che il film andava distrutto immediatamente. I miei amici africani, loro erano tutti grigi di collera, confermavano che sì, il film andava distrutto. Fu uno scandalo. Con quali ragioni hanno motivato questo atteggiamento? Nessuno me le ha spiegate... Griaule diceva che il film mostrava il sacrificio di un cane, un sacrificio cruento con immagini insopportabili. Era questo... E gli africani dicevano la stessa cosa. Era strano vedere un nero e un bianco dire la stessa cosa su un film di questo tipo. Io ero appoggiato da Luc de Heusch, che era venuto con due film che aveva realizzato in Congo. Ero molto impressionato da questa reazione. Abbiamo deciso quel giorno di non distruggerlo (io non lo avrei comunque distrutto), ma, voglio dire, di non metterlo da parte. Ho riflettuto dopo su questo fatto. La reazione era chiara. Il film mette in scena danze di possessione, in cui gli dei possessori sono bianchi, siamo noi. Gli africani vedevano il film soltanto a livello del «cavallo», cioè della persona posseduta. Il «cavallo», in questo stato selvaggio, uccideva un cane e lo mangiava praticamente crudo e coperto di sangue. Il significato del film era dunque: «Siamo dei selvaggi». I bianchi, invece, vedevano gli africani recitare un ruolo che gli apparteneva, erano loro gli eroi, Era un’immagine dei bianchi non molto divertente e, forse, insopportabile. Da questo nasce il rigetto completo delle due parti con un transfert sul vero soggetto del film, che si fosse bianchi o neri. In che modo ha proceduto nel montaggio? Ha proiettato prima il film alle persone filmate e poi ha fatto il montaggio vero e proprio? In genere faccio un pre-montaggio che proietto alle persone filmate. Ma Les maîtres fous è stato montato senza essere stato mostrato ai suoi protagonisti. Gli Hauka mi avevano chiesto il film per poterlo utilizzare nel rituale, volevano comprare un proiettore Bell-Howell e proiettarne una copia. Ma questo io non ho potuto farlo, fortunatamente, perché il film è stato censurato dagli Inglesi. Allora esisteva ancora la Gold Coast, la censura dipendeva dal governo. L’ho presentato al British Film Institute, dove non ha ottenuto il visto della censura. Era un insulto alla Regina, perché sulla statua del governatore viene rotto un uovo e per crudeltà verso gli animali, perché viene ucciso un cane. Quindi non avevo nessuna possibilità di proiettare il film sul posto. E dico fortunatamente, perché, se gli Hauka lo avessero utilizzato, la visione sullo schermo della possessione avrebbe scatenato immediatamente una possessione. E una specie di elettroshock, estremamente violento, che può essere estremamente pericoloso. Ho fatto esperienze del genere e non ho più ricominciato. Vorrei farle ora una domanda di carattere più generale. Quando si parla di «cinema diretto» molti pensano a un cinema «facile» in cui è sufficiente impugnare una cinepresa e filmare. È d’accordo con questa tesi? Qual è la sua definizione di «cinema diretto»? Credo che il «cinema diretto», anche se sono stati risolti i problemi tecnici, anche se si conosce perfettamente l’equipaggiamento di ripresa e di registrazione sonora, resta un’avventura niente affatto scontata. E questo perché, anche se sembra un cinema molto semplice, è basato sull’improvvisazione nel mirino della cinepresa. Una cosa questa che richiede al regista di essere, nello stesso tempo, il proprio operatore. Nel «cinema diretto» è impossibile dirigere qualcuno, perché è un cinema in cui le inquadrature cambiano continuamente, si filma qualcosa e poi si è costretti a cercare una posizione diversa: si è sempre in movimento. Molto spesso è un cinema che comincia a raccontare una storia senza conoscerne la fine, in cui un film può durare 10 minuti, come il film che ho presentato questa mattina Pam Kuso Kar, un piano sequenza, oppure 7 anni come La chasse au lion à l’arc, perché è un cinema nel quale la storia si racconta nello stesso momento in cui si gira. Qualche volta conduce verso un’altra sequenza, un altro luogo, un altro tempo. Allora si è costretti a tornare e a ricominciare. Ma con un enorme vantaggio sul libro, sulla scrittura, cioè che quando si scrive un libro di antropologia sugli usi e i costumi di una popolazione illetterata, le persone studiate non hanno nessuna possibilità di sapere cosa ha fatto l’antropologo. Con il film lo sanno. Questo effetto del feed-back è molto importante. Direi che fare un film è un po’ come fare un ponte alla fine degli anni Trenta quando non esistevano i computers e si facevano i ponti, in Francia voglio dire, con il metodo delle approssimazioni successive. Si realizzava il progetto di un ponte e si calcolava tutto quello che poteva succedere. Si calcolava la tensione, la pressione dei tralicci o la sua resistenza al peso. A volte capitava che il ponte fosse troppo pesante. Il segreto dell’arte di costruire i ponti consisteva proprio nell’utilizzare il minimo quantitativo di materiale, perché la struttura del ponte non dovesse sopportarlo. L’arte di costruire un film è la stessa. All’inizio si cerca di fare un film nella maniera più semplice possibile, poi si intuisce che ci sono altre cose, altri avvenimenti. Perciò molto spesso si è obbligati a fermarsi e a tornare. A questo punto si presenta il film alle persone filmate e insieme ad esse ci si rende conto che mancano elementi importanti. La proiezione del film poco a poco conduce a un’ulteriore realizzazione. Cos’è la «cine-trance»? «Cine-trance» è un termine che utilizzo a proposito di film come quello di stamattina, che è un piano sequenza, nel quale, per esempio, mi muovo fra persone che restano immobili, accovacciate. Io mi comporto nello stesso strano modo in cui si comportano le persone in trance, come se fossi posseduto da un genio hauka, che potrebbe chiamarsi Cinema, che mi costringe a fare strani movimenti, nei quali esiste una coreografia visiva e che dall’esterno è simile alla trance. Le possibilità di disporre di cineprese con un caricatore di 10 minuti e, quindi, la possibilità di fare lunghi piani sequenza in che misura ha modificato la sua maniera di girare? All’inizio usavo la macchina da presa come in precedenza, tendevo a girare un piano e (purtroppo ho perduto questa capacità) a tagliano, a montano durante le riprese. Molto presto, a partire dal momento in cui ho registrato il suono in sincrono, sono sorte delle difficoltà. Fin quando c’era un filo che collegava la cinepresa al microfono era ancora possibile, ma poi bisognava fare i ciak per avere dei punti di riferimento, per saper cosa si stava filmando. Perché se si ha un sistema di sincronizzazione, che dà un segnale sia sulla pellicola che sulla banda sonora, è necessario che il fonico sia molto attento. I ciak che facciamo oggi sono molto semplici e rapidi, in genere si usano appunti su cui si scrivono i numeri, oppure si mostra il numero nelle immagini. Esiste dunque un sistema di punti di riferimento e di numerazione che permette di procedere rapidamente, ma queste operazioni devono essere fatte dal fonico, che è costretto a ridurre il suo livello di vigilanza. I fonici africani, che hanno lavorato con me, sanno molto bene che obiettivo uso e qual è il campo disponibile per sistemare il microfono. Se ci si interrompe continuamente è molto difficile lavorare per gli altri. Il mio tentativo era quello di tentare di fare un film nel quale il climax arrivasse prima di dieci minuti. Ne ho fatti molti, ma non ci sono riuscito spesso, perché è molto difficile cogliere un avvenimento che dura solo pochi minuti. Quando succede è effettivamente molto strano. Secondo l’opinione dei miei amici africani che mi vedevano camminare con una cinepresa intorno al «cavallo» di un genio e cominciare 4 o 5 minuti prima della possessione, questo voleva dire che avevo uno strumento in grado di vedere i geni. Quindi anch’io ero partecipe di questa operazione. L ‘uso del piano sequenza è sempre in funzione di una migliore relazione con le persone filmate? Sì, anche. Ma soprattutto una specie di premonizione di quello che accadrà. Ho utilizzato il piano sequenza molto presto. Quando ho girato per esempio Gare du Nord, un film di finzione basato su un piano sequenza di 20 minuti, come The Rope, in cui il soggetto era: cosa succede 20 minuti prima di un dramma? I 20 minuti prima che accada qualcosa? I 20 minuti prima del naufragio del Titanic? I 20 minuti prima dell’arrivo dei soldati americani a Roma? Cosa è successo 20 minuti prima? In generale questo non lo si filma mai. Quindi si tratta di filmare ciò che ha preceduto l’avvenimento ed è su questo che si innesta la premonizione. Per esempio, assistendo a un rituale di possessione (fenomeno che conosco molto bene) nasce questa strana sensazione. La prima volta che ho adoperato il termine premonizione è stato a proposito di un mio film Les tambours d’avant, Tourou et Bitti, nel quale qualcuno era posseduto quando lo riprendevo, senza che nessun segno esteriore lo indicasse in precedenza. Succedeva che conoscendo bene l’inizio di una possessione, potevo accorgermi nel mirino che quella persona stava per essere posseduta e che io la tenevo, la seguivo in questo modo. Intorno agli anni ‘60 lei ha girato Jaguar, La pyramide humaine, Chronique d’un été. Sono film girati in luoghi molto diversi, l’Africa, la Francia. Io credo che in questa diversità ci sia molto della sua avventura di etnologo-cineasta, della sua maniera di viaggiare fra le culture. In che misura il suo cinema è stato influenzato da questi passaggi successivi? Conoscevo molto poco la Francia, perché ogni anno passavo 6 mesi in Africa e 6 mesi in Francia, dove passavo tutto il mio tempo a montare i miei film. In pratica non lasciavo mai l’Africa. Quando Edgar Morin mi ha proposto di girare Chronique d’un été per scoprire la mia tribù, la tribù dei parigini che io non conoscevo, ho iniziato questa esperienza con la sensazione di fare una scoperta. Ero co-autore del film ed è stato lui a mettere in scena gli elementi con cui Chronique d’un été è stato costruito. Avevo un più spiccato atteggiamento da etnologo nei miei film parigini che nei miei film africani. In cosa differisce essenzialmente il suo lavoro quando gira un film documentario a prevalente interesse etnologico e un film di finzione? La differenza consiste nel fatto che in un film documentario non ho da fare nessuna messa in scena. In genere scelgo un rituale o una tecnica, come nella Chasse à l’hippopotame o la Chasse au Lion, nel quale il mio lavoro è quello di registrare il più precisamente possibile quello che succede. E quindi un lavoro di osservazione filmata. La messa in scena è già data dal rituale. In che modo i suoi attori africani si adeguano alla sceneggiatura di un film? Jaguar e Mou un Noir erano film di finzione, in cui, per ragioni tecniche, mancava completamente il suono. I due film sono stati fatti allo stesso modo e cioè proiettandoli alle persone filmate, per poter registrare contemporaneamente un testo. Scoprendo in questo modo che Damouré, Lam e gli altri erano capaci di improvvisare un testo straordinario su Jaguar; scoprendo che il testo di Umam Rouganda, che recitava la parte di Robinson era un testo straordinario, creato con una facilità incredibile. Avevo registrato Jaguar, che in quel momento durava tre ore, in un giorno e mezzo al Film Unit di Accra. Ancora una volta non c’erano scarti e i registi presenti non credevano ai propri occhi, non credevano che fosse possibile improvvisare in questo modo. Allora ho capito che l’africano entrava direttamente in questo genere di gioco. La loro improvvisazione era simile alla mia quando giravo Jaguar, che è un film senza sceneggiatura. Io seguivo semplicemente tre personaggi che partivano e inventavano insieme gli episodi di volta in volta. In Dyonisos, però, la sceneggiatura esiste. In questo caso ha dovuto dirigere gli attori, rispettare l’ordine delle sequenze. Ha dovuto fare un lavoro molto diverso. Certo. Gli attori conoscevano la sceneggiatura, c’erano dialoghi scritti... È vero, è stato un lavoro molto diverso... Ma comunque era così complicato ed eravamo così numerosi, che il ricorso all’improvvisazione era costante. Non ho scritto tutti i dialoghi e quelli venuti per caso sono forse i migliori. Durante le riprese mi trovavo sul set e ho avuto l’impressione di assistere a un happening, a un «cine-avvenimento». Si lavorava in una grande confusione e devo dire sinceramente che avevo qualche dubbio sulla riuscita dell’impresa... Non ce n’era ragione. Il film era comunque scritto e girato, rispettando l’ordine delle sequenze. Ho usato il solito metodo. Se si confrontano i testi scritti e quelli recitati, la differenza è notevole: gli attori non li conoscevano perfettamente. Ha dato agli attori indicazioni precise sull’interpretazione dei personaggi? Quasi nessuna. Solo qualche indicazione a Jean Monod, che era Hugh Gray, e alle Menadi, durante alcune sequenze di danza, ma tutto veniva improvvisato molto rapidamente. C’era un’azione da girare e la si cominciava. Mi comportavo come in un film documentario. La differenza che esiste fra questo ed altri film, è che ancora una volta io ero il mio filmmaker, l’operatore e il regista. Quindi vedevo nel mirino della mia cinepresa tutto quello che sarebbe successo. Sapevo come l’azione si presentava nel mio quadro e vedevo il mio film. L’enorme vantaggio che offrono le cineprese moderne dalla Beaulieu in poi, ma soprattutto l’Eclair e la Aaton, è quello di avere mirini eccellenti, che permettono di stare dentro il film. Il film sembra essere costruito come un dramma teatrale con i suoi «Intermezzo», i suoi atti, cosa ne pensa? Ho messo le didascalie per dare un po’ di ordine a quel disordine, non solo apparente che esisteva sul set. Non c’erano indicazioni e la gente faceva quello che voleva. Nella maggior parte dei casi non c’erano che due persone che agivano sotto la mia direzione. Nel momento in cui diventavano più numerosi non si riusciva ad andare avanti. Mi era sufficiente vedere nel mirino come si comportavano queste due persone, controllare la posizione degli altri e si girava. I tecnici con i quali ho lavorato erano furiosi. Dicevano di non aver visto niente del genere, che quello non era cinema. Il fatto che per me fosse sempre buona la prima ripresa era insopportabile per loro. Naturalmente ho dovuto rifare qualche scena, perché la ripresa era stata talmente cattiva che si era costretti a rifarla. Filmavo la mia storia, un pezzo dopo l’altro e sapevo bene dove volevo andare. Voglio farle un esempio molto divertente e molto preciso. C’è una sequenza di Dyonisos che io amo molto e che è prevista in questo modo: Hugh Gray è assunto in fabbrica con Ariane. Poi parla con Bruno e va sulla Tour Eiffel. Una conclusione questa che non ha niente a che fare con il resto, ma era semplicemente l’occasione per permettere a Bruno di riprendere il discorso di Angelo in Chronique d’un été sulla condizione dei lavoratori, di introdurre quindi il discorso de L’atelier plaisir. Questo era tutto quello che sapevamo e avevamo come indicazione il gesto di Ariane che tendeva a Dyonisos uno specchio a due facce, su una il lavoro e sull’altra il piacere. Volevo girare la sequenza davanti alle fabbriche Renault, non è stato possibile farlo perché non ho avuto l’autorizzazione. Allora ho deciso di girarla nella Tour Eiffel, dove era prevista una sequenza basata solo su citazioni sulla storia dell’industria automobilistica, da Eiffel ai nostri giorni. Girare dentro la Tour Eiffel non è semplice, perché costa più di un milione di lire al giorno. Allora ho telefonato alla direzione della Tour Eiffel, dicendo che ero ingegnere civile, che volevo fare un omaggio al suo costruttore e ho avuto l’autorizzazione a girarla gratis. I tecnici erano contenti, perché non si era pagato, ma nello stesso tempo seccati, perché, in un certo senso, si era perso il valore delle riprese nella Tour. Abbiamo cominciato a lavorare la mattina presto. Io potevo disporre di due macchine da presa. Sono salito sull’ascensore con Hugh Gray, Aria- ne, Bruno e un fonico, mentre l’altra mi faceva da sicurezza, filmando l’ascensore che saliva dall’esterno. La salita in ascensore si faceva in due tempi. Fino all’arrivo al primo piano di svolgeva il monologo di Bruno. Poi, mentre l’ascensore saliva dal primo al secondo piano, il brano dello specchio a due facce è coinciso proprio con il momento in cui si attraversava una specie di piano intermedio, in cui c’era una fessura luminosa. Il testo si legava perfettamente all’immagine: «E come lo specchio a due facce, su una faccia il lavoro, sull’altra la gioia e in mezzo lo spazio stretto in cui si rifugiano coloro che amano quello che fanno». Ebbene, lo «spazio stretto» è coinciso esattamente con la fessura luminosa che ho visto passare nel mirino della cinepresa. E stato straordinario. Poi, come previsto, Gray ha rivolto lo specchio verso di me e mi ha chiesto se amo quello che faccio e io ho risposto: «Sì, è il cinéma plaisir». Cosa intende per «cinéma plaisir»? Significa fare ciò che si desidera. E io ne avevo appena avuto una prova. Avevo girato una sequenza che avevo immaginato e all’improvviso era accaduto un miracolo. Una frase, che nella sceneggiatura era una dichiarazione, è diventata una costatazione. Siamo tornati giù dopo 10 minuti e la segretaria di produzione mi ha chiesto di fare un’altra ripresa, come sicurezza. Ho risposto di no. I tecnici non erano sicuri che tutto fosse andato bene, che tutto fosse a fuoco. Quando hanno visto il materiale ne hanno avuto la prova e hanno forse cominciato a capire che esisteva un’altra maniera di fare cinema. Nessuno avrebbe fatto una cosa del genere per la semplice ragione, che se ci fosse stato un operatore, l’operatore non mi avrebbe detto niente, perché non ascolta la gente, ma pensa soltanto alle sue immagini. Io sono allenato in un altro modo, guardo nel mirino, ma ascolto cosa dice la gente. C’era stata in quel momento una congiunzione perfetta e non valeva la pena di ricominciare. Non ho voluto rifare la sequenza perché questo avrebbe abituato le persone a non concentrarsi sulla prima ripresa. A questo punto vorrei affrontare un altro aspetto del suo lavoro, quello dell’insegnamento alla Sorbona, nel corso di cinema. Cosa pensa di poter trasmettere alle persone che lavorano e studiano insieme a lei? Quello che posso trasmettere è l’insegnamento di Langlois ed è per questo che tengo il corso del sabato mattina alla Cineteca. Langlois mi ha insegnato a fare film, vedendo altri film. Era lui che diceva: «Se si vedono tre film al giorno, in un anno si è visto tutto». Non posso tenere questo ritmo con gli studenti, gli offro due ore alla settimana. Durante il corso lei si comporta un po’ come i vecchi Dogon, di cui mostra le immagini nei suoi film. Non dice niente prima, ma aspetta che siano le domande a provocare le risposte. È vero. Il mio primo maestro è stato Langlois e poi i Dogon. I Dogon mi hanno insegnato a mettere in circolazione, quelli che chiamo, «oggetti inquietanti» per suscitare delle reazioni. Come questa mattina, quando quel ragazzo mi ha detto di avere sentito la stessa poesia in tutti i film presentati. Questo corrisponde alla tesi di Langlois, secondo la quale i film si mettono in scena gli uni con gli altri. Sono rimasto sorpreso. Non avevo voluto dare io stesso la chiave d’interpretazione, ma i tre film erano costruiti con la stessa sensibilità. Un fattore depistante per i suoi allievi è la sua doppia identità di etnologo e cineasta. Voglio dire che quando ci si attende una reazione da cineasta, lei risponde da etnologo e viceversa, in uno scambio continuo di ruoli. Posso rispondere che personalmente non credo che esista qualcuno che sia soltanto un cineasta. Penso che essere un cineasta significhi sempre essere un autore di film e qualcos’altro. Se si pensa a come parlava Langlois ci si rende conto che si trattava di un appassionato di cinema e di pittura, da qui i suoi continui rimandi all’impressionismo. Non faceva film, ma metteva in scena i registi. I miei corsi sono organizzati su questo modello con la differenza che io ho un complice, Xavier de France, un teorico. Xavier ha un’intelligenza enciclopedica, è lui che cura la parte teorica del corso. Io evito di affrontare questi argomenti, perché altrimenti mi annoierei molto. In questo modo invece è una continua sorpresa. Lei invita costantemente a osare, a superare i limiti imposti dalle regole empiriche, che regolano il linguaggio cinematografico. Questo atteggiamento nasconde una trappola però, si ha cioè l’impressione di poter fare tutto e questo non è possibile. Ha mai pensato a problemi di questo tipo durante il suo lavoro? No, la sola cosa a cui penso quando filmo sono i problemi strettamente tecnici. Nel caso dovessi girare qui dentro, il procedimento che uso, quello che ho imparato dagli operatori, è di leggere la luce incidente sul mio esposimetro in tutto lo spazio circostante. La differenza è di uno o due diaframmi. In genere uso un tipo di pellicola a bassa velocità, per evitare di avere filtri troppo grigi e per lavorare il più possibile con la massima apertura. Regolo il mio diaframma, controllandone lo stop e quindi guardo lo spazio e i colori che devo filmare. Allora cambio il diaframma finché non corrisponde alla tonalità che vedo, metto cioè il diaframma nell’occhio. Faccio lo stesso con gli altri colori lì dove ho 2 diaframmi di meno e passo dall’uno all’altro. Controllo la posizione delle dita. A quel punto, quando sono certo delle mie misure, so che posso cominciare a filmare. Naturalmente spesso mi sbaglio. In Pam Kouso Kar, quando esco dall’orchestra, che si trovava all’ombra, e vado verso la gente vestita con una stoffa bianca, c’era forse una differenza di quattro diaframmi. Mi sono accorto del cambiamento con una ventina di secondi di ritardo. Non pensa che sia necessario conoscere a fondo la tecnica cinematografica, prima di decidere di infrangere alcune sue regole? È proprio per questo che è importante vedere i film di finzione ed è per questo che li inserisco sempre fra i documentari che presento durante il mio corso. Sono stato molto felice di accogliere una settimana fa William Witney, regista di serial americani, che hanno avuto un successo considerevole in Africa intorno al 1930. Sono film che ci insegnano come raccontare una storia. Quindi fare un film significa sempre raccontare una storia? Per me è sempre così. Anche fare un’inchiesta etnografica significa raccontare una storia, la storia di una rete da pesca, di una caccia, di una possessione e del mito che c’è dietro. Perché sostiene che bisogna cominciare dalla fine nella costruzione di un film? Certo. Nelle riprese quando ho regolato il mio diaframma e comincio un piano, devo sapere dove finisce. Guardo quanta pellicola mi resta nel caricatore e quindi so cosa posso fare. Si sente quando un caricatore sta per finire, la cosa più seccante è cominciare qualcosa che non ha una fine. Quando usavo una cinepresa a motore meccanico con un’autonomia di 25 secondi sapevo che dovevo fermarmi per avere un’inquadratura finale. Con una cinepresa che non ha questi limiti è più difficile. Questa volta ho qualcuno vicino che mi avverte che la pellicola sta finendo, ma in genere so che ho un margine di 2 secondi al di là della segnalazione di fine pellicola. Spesso finisco il mio piano proprio su questi 2 secondi per avere una fine. La cosa importante nel cinema è avere una storia e una fine, per avere nel montaggio un materiale che va da qualche parte, che segue una direzione. In Dyonisos e in altri miei film, dove esiste una sceneggiatura, anche se vaga, bisogna saper filmare e nella maggior parte dei casi ci sono molti finali. È necessario allora sapere qual è la vera fine e come montare in funzione di questa fine. Questo non è semplice. Se si fa una panoramica a spalla, si mettono in piedi in funzione dell’ultima inquadratura, mai della prima. Lo stesso accade in una carrellata, qual è il suo scopo, dove finirà? Ci sarà un arresto a un certo punto oppure continuerà con un’altra carrellata. Bisogna sapere su cosa si finisce. Nel montaggio è lo stesso. Quello che sostengo è che fin quando non si potrà montare in video, partendo dalla fine, all’inverso, continuerò a lavorare in pellicola. Quali sono le altre ragioni per cui non utilizza il video? La ragione principale è quella di cui parlavo prima e poi perché il film, per me, è un contatto fisico. Mi piace molto vedere un’immagine. Si prova una sensazione particolare nel montare le immagini di Vertov, di Ejnzestejn, di Godard. Mi piace molto montare in 35 mm, perché è possibile fare gli attacchi, senza bisogno dello schermo, spostando i due spezzoni di pellicola, sapendo dove si potrà passare da un piano all’altro. Anche in 16 mm è piuttosto facile. Non è possibile vedere una serie di immagini in video, se ne può vedere una soltanto. Un altro inconveniente è che non si vede l’immagine sulla quale ci si arresta, che è assolutamente essenziale. È un’immagine molto vicina ed è quella che resta impressa nell’occhio, a causa della persistenza retinica dell’immagine. Infatti la prima scompare perché è legata alle altre, mentre l’ultima che è spezzata, resta. È quella che si sceglie per poter montare, ritornando lentamente all’inizio, per fare l’attacco con l’ultima immagine del piano precedente. È essenziale per me potere vedere il film al contrario. Si procede come in una dissertazione in francese: si scrive l’introduzione, poi la prima parte senza sapere dove si vuole arrivare, a metà della seconda parte si sa quale sarà il suo sviluppo. In quel momento si scrive la conclusione, in quel momento si è trovato il proprio soggetto. Si scrive la fine per poi rifare, da ultimo, l’introduzione. Quindi un inizio, una fine e il resto è da riempire. Sì, e in genere si ha un inizio che non funziona, ma serve per cominciare. Molto spesso, durante le riprese di un film, ci si rende conto di questo. Non si sa come cominciare e allora si gira un piano, che è spesso una citazione etnografica. Nel cinema si lavora al contrario. In uno dei primi film dei Lumière due tram si incrociano e alla partenza del secondo tram il film, che durava solo un minuto, finisce. Secondo Langlois e Renoir si trattava proprio di questo, di montare i piani come sequenze, un procedimento che i cineasti di oggi non sanno sfruttare e che il video non permette di fare. In video si gira e si aspetta, forse perché il lavoro è più centrato sul suono che sull’immagine. Non crede che il video vada usato in maniera completamente diversa dalla pellicola chimica? È molto diverso.., ma l’unica utilizzazione possibile, secondo me, è il piano sequenza, in cui non ci sia nessun montaggio, cercando di raccontare una storia di due, cinque, dieci minuti. E una specie di filo d’acqua, un po’ noioso, ma davvero non credo che si possa fare un vero montaggio in video. L’immagine video, poi, rischia di scomparire molto rapidamente. I giapponesi sostengono che dopo quattro anni non si è più garantiti sulla qualità dell’immagine, per un effetto di eco. Si tratta di una eco visiva che introduce immagini false, che si ritrovano regolarmente. Basta guardare immagini video un po’ vecchie, per rendersi conto dello scadimento di qualità. Un altro aspetto, di cui sono venuto a conoscenza in Giappone, è che non si riesce a mettere a fuoco con le telecamere. Fino al ‘65 gli operatori professionisti mettevano a fuoco regolando i loro obiettivi. Si affittava una cinepresa con i suoi obiettivi, si faceva un test di due o tre metri di pellicola, che si faceva stampare e si controllava la messa a fuoco su un certo oggetto con un decametro per esserne certi. L’assistente operatore faceva dei segni sull’obiettivo per essere sicuro della messa a fuoco di un piano. I tecnici non avevano nessuna fiducia in quello che vedevano nel mirino. Le prime cineprese Arriflex, che avevano mirini straordinari, sono state una grande scoperta, perché permettevano di mettere a fuoco anche con un obiettivo (li 10 mm. Certo è faticoso. Certo, quando il diaframma è molto chiuso, è molto più difficile, ma almeno è possibile farlo, la messa a fuoco si sente. Che qualcuno la controlli per essere sicuri che non ci si sbaglia è vero, resta il fatto che si è in grado di mettere a fuoco. Questo non può succedere in un visore, proprio perché si tratta di un’immagine video e quindi non esiste una messa a fuoco ottica. Come si fa a sapere ciò che è a fuoco con uno schermo così piccolo? In Giappone ho visto che alcuni tecnici passano il loro tempo in un camion, dove si trova un monitor più grande, e uno di loro si occupa della messa a fuoco, avvertendo l’operatore di ogni errore. Questo è insopportabile. Una troupe televisiva leggera in Giappone è formata da otto persone. In più lavorare con una telecamera collegata con un cavo e fare dei movimenti diventa quasi impossibile. Per questo, i film, girati per la RAI con l’alta definizione, non hanno per me nessun interesse. Non vedo a che scopo rovinarsi per fare cose del genere. Nel video si innesca una trappola, la trappola della facilità. Vorrei che mi parlasse dei film e dei registi, che hanno più attratto la sua attenzione, iniziando proprio dal cinema italiano. Ho amato soprattutto Rossellini, perché era un uomo straordinario, un fantastico narratore di storie... Rossellini ha inventato una grande quantità di procedimenti, naturalmente non da solo, ma tutto il neorealismo è nato da Roma città aperta, dall’intuizione che se si voleva uscire dagli studi, bisognava filmare senza suono. Era necessario quindi post-sincronizzare e doppiare i film. Non era una scelta facile, in Francia questo non è mai successo. Noi abbiamo sempre avuto orrore della post-sincronizzazione, del doppiaggio e siamo subito passati al suono diretto, ma questo significava anche avere il problema della presenza del microfono, della sua ombra e tutta un’altra serie di problemi. La soluzione di Roberto era ammirevole. I suoi film erano girati nelle strade, i suoi personaggi parlavano continuamente, come lui del resto. Come Fellini, che parla anche lui continuamente, di cui ho amato molto i primi film, I Vitelloni soprattutto. Ma chi mi ha veramente impressionato è stato un regista sconosciuto Bellini, che, nel 1940, ha girato Il pianto delle Zitelle, filmando il primo reportage sonoro con più macchine da presa, primi piani e un suono sincronizzato di buona qualità. Uno dei miei maestri è stato Vittorio de Seta. Banditi ad Orgosolo è l’esempio ammirevole di un film di finzione improvvisato alla macchina da presa. Sfortunatamente ha smesso di fare film. Abbiamo da poco presentato al cinema Panthéon i suoi film sulla Sicilia, Da Seta ha influenzato enormemente i top cameramen di oggi e questo senza alcuna pretesa. E poi c’è Olmi, che è stato anche lui operatore del suoi film. L’atmosfera, che riesce a creare, è estremamente accattivante. Il rimprovero che faccio ai registi e agli operatori italiani è di ritenersi grandi pittori del Rinascimento, capaci di realizzare bellissime immagini... Ebbene no! Perché non sono autori. Risolvono problemi impossibili, realizzando immagini tecnicamente perfette, ma che mancano di una qualità essenziale, per me, nel cinema: «il cuore». Sono immagini nelle quali manca la sensibilità, che aveva per esempio Vittorio de Seta. In Banditi ad Orgosolo la scena della caccia è bellissima, se penso poi che è girata in 35 mm! Tutto quello che è stato fatto dopo con la steadycam è scandaloso. In questo modo l’operatore diventa una macchina, l’operatore deve funzionare. Una steady-cam, un dolly, non possono fare un film. Non pensa piuttosto che la qualità di un film dipenda comunque dalla sensibilità del regista? Ma il regista non può dirigere il lavoro delle macchine, perché non vede l’immagine. Quando si fa un movimento di macchina, come potrebbe sapere quello che non ha potuto vedere. È stato ripetuto, il regista ha guardato nel mirino, ma questo non basta... No, succede una cosa molto strana. Non so chi mi ha raccontato questa storia, ma a Hollywood, vent’anni fa la macchina era così perfetta, gli operatori così precisi, le sceneggiature così ben scritte, gli attori conoscevano così bene il loro lavoro, che il regista non aveva bisogno di essere presente. Tutto funzionava, i film si facevano in questo modo. Era proprio così che funzionava quel grandissimo cinema. Il cinema che, insieme ai miei amici, abbiamo cercato di inventare e che è ancora in via di definizione, siamo ancora in pochi a farlo. È effettivamente il cinema dell’istante. È un «cinema diretto» (è stato Mario Ruspoli a chiamarlo così), in presa diretta sulla realtà. Questa è la sua caratteristica essenziale. Nell’esempio dell’ascensore in Dyonisos, che ho citato prima, nessuno si renderà conto della coincidenza, ma sentirà che qualcosa è successo in quel momento. Questo non può essere scritto o disegnato o preparato... Sì, forse è possibile farlo, ma bisogna essere John Ford e di John Ford non ce ne sono molti. E cosa pensa del cinema francese? A parte Vigo, che è un altro dei miei maestri, quello che ho più apprezzato è stata la diversità dei miei amici della Nouvelle Vague: Truffaut, Godard, Rivette, Rohmer. Erano persone molto diverse fra loro, ma che avevano lo stesso amore per il cinema, lo stesso maestro (che era Langlois), che vedevano gli stessi film, che avevano gli stessi modelli. Tutti però hanno saputo conservare la propria personalità. Si trattava di un cinema d’autore. In Inghilterra ci sono stati Brook, Lindsay Anderson, Reisz. La scuola del Free Cinema è stata una cosa molto importante, quando, improvvisamente, sono stati dati finanziamenti ad alcuni giovani cineasti. Il fenomeno non è durato a lungo, non più di tre anni, ma ha influenzato profondamente la nostra Nouvelle Vague. In Germania c’è Sloëndorff, di cui mi è piaciuto molto Il Tamburo di Latta, ma poi è un po’ scaduto... Certamente, la grande follia di Fassbinder e dei suoi amici mi ha molto colpito. Fitzcarraldo è un film straordinario, anche se ha fatto arrabbiare gli antropologi per la morte di alcuni indios. Vedendo il documentario girato durante le riprese ci si rende conto che Herzog è un pazzo, che non aveva bisogno di filmare in quel modo. Poteva usare una nave finta senza alcun problema, invece ha avuto il coraggio folle di far passare una nave vera oltre una collina. Certo era molto rischioso, ma lì è accaduto qualcosa di straordinario, perciò merita tutto il mio rispetto. Qua? è la sua opinione sul cinema fantastico, delle grandi produzioni, quello di Lucas e Spielberg? Non mi piace. Anche Wenders mi lascia piuttosto indifferente. Ha avuto la stessa involuzione di Kubrick. 2001 Odissea nello spazio era un film interessante, manipolava dei miti. In Orizzonti di Gloria la regia cominciava ad appannarsi. Shining è un film impossibile e io so che Kubrick ha fallito a causa della steady-cam. Voleva fare carrellate a spalla in un’ambientazione particolare. C’erano bellissimi hotel barocchi, ma la steadv-cam non riusciva a passare attraverso le porte. Allora ha ricostruito tutto il décor... A quel punto, era diventata una performance. Non c’era più film. La macchina da presa scivolava come un’anguilla, ma non c’era più storia. La sequenza del labirinto è completamente fallita, perché è troppo largo, proprio per permettere alla steady-cam di passare e questo si vede anche senza essere architetti.Èun po’ triste vedere la gente uccisa dalle sue stesse macchine. Vorrei parlare dei film-makers adesso. Leacock non finisce mai di stupirmi. Nel 1960 ha girato Primary e ci siamo trovati insieme all’interno di un fenomeno, che abbiamo chiamato «cinema verità», che, in effetti, significava girare in sincrono (immagine e suono) un avvenimento, di filmarlo dovunque, in autobus, in macchina. Leacock ha un occhio fantastico e poi per me rappresenta il legame vivente con Flahertv, che resta un maestro per tutti noi. Flaherty è l’unico ad aver fatto tutto: faceva le riprese, lo sviluppo della pellicola, la stampa delle copie, il feed-back con Nanook e il montaggio, tutto. C’è Brault, ma non è un vero e proprio cineasta. È stato lui a insegnarci, qui in Francia, l’uso del grandangolo, che ci ha insegnato a camminare con una cinepresa, una cosa questa che noi non sapevamo fare. Lavorava con un obiettivo di 10 mm (in 16 mm). È lui che ci ha insegnato come utilizzare i microfoni cravatta. Insieme a Brault ho girato Chronique d’un été, che è un film sperimentale per questa tecnica. Lo aspetto tutte le volte come autore, ma è più simile a Bob Gardner, che è un grande operatore e film-maker. Vorrei sentire nei loro film un po’ di cuore. Si tratta di film spettacolari, ma dove non si sente il battito del cuore. Gardner è più regista di finzione che di cinema reale. Fabbrica una falsa realtà con una vera realtà. È un artista impressionista, ma non un pittore realista. In Brasile c’è un personaggio straordinario che si chiama Boldanski, che ha girato un film come Iracema, e ancora Glauber Rocha e il Nelson Pereira dos Santos di Vidas Secas. Ne rimangono ancora molti, per finire non posso dimenticare Vertov. Se Michail Kaufman ha lavorato con Vigo ed è diventato poi il top cameramen negli Stati Uniti con Kazan, questo lo deve a suo fratello. In altri termini, era un cinema che si reggeva sulle sue forze, ci pensavo rivedendo Zéro de conduite di Vigo. Il cinema di Vigo era fatto da amici, da gente che si conosceva. Si trattava di una «cine-mafia» come dicevamo in un’intervista con Stork e Ivens. È questo che rimpiango oggi. La gente di quel periodo si conosceva tutta: Man Ray, Ivens, Stork, Germaine Dulac facevano parte dello stesso gruppo ed erano amici di Le Corbusier, dei poeti, degli scrittori. Era un’avanguardia di cui il cinema era solo un elemento, ma leggevano i libri, le poesie, facevano parte dello stesso movimento. Ebbene, questo lo abbiamo perduto. L’utopia del mio corso di Cinema e Scienze Umane è quello di spingere la gente a leggere, per questo faccio spesso delle citazioni letterarie. Quanta gente ha letto oggi Stendhal? Mi fa piacere sapere che Leacock una mattina abbia chiesto ai suoi studenti del Massachusetts Institut of Tecnology chi avesse letto Stendhal. Non ce ne era che uno su venti... Non si può restare in una situazione del genere, è impossibile. È necessario tentare innanzitutto di demistificare il cinema di fronte ai giovani d’oggi. Quando io e Brault abbiamo cominciato a lavorare con l’Eclair-Coutant e parlavamo di cineprese miracolose, silenziose. Rossellini ci diceva: «È solo una macchina, vale solo per chi la manovra. Se sono io a guidare una Maserati, va bene. Se la guida un altro finisce nel fosso». Demistificava il cinema in questo modo. D’altra parte non è sufficiente saper guidare per essere campioni del mondo, ci vuole qualcos’altro. Si entra allora nell’ambito sorprendente della selezione. La extrema ratio delle scuole di Cinema nel mondo è: 100 allievi per avere un regista. Forse fra gli allievi di questa mattina ci sarà qualcuno che diventerà un Rimbaud o un Rossellini, qualcuno che farà dei film. Quello che rimprovero alle scuole di cinema e in particolare all’Università è di favorire la teoria a discapito della pratica. Ho imparato la mia «teoria» dalla pratica cinematografica, che è assolutamente indispensabile, ma dal momento in cui la si è appresa non si sa più quello che succederà. Ogni nuovo film è una nuova avventura. Ogni nuova avventura è un rischio. Se non ci sono rischi non succede nulla. Mi parli ora delle sue ultime esperienze dì lavoro. A Torino ha girato da poco un film... A Torino non ho fatto altro che prendere dei rischi. Era la prima volta che lavoravo su una sceneggiatura in gran parte scritta da altri, anche se poi ho dovuto modificarla, altrimenti non poteva essere filmata. Due anni fa quando ho presentato Dionysos ai torinesi, ho spiegato loro che ero stato a Torino parecchie volte per vedere i primi quadri di De Chirico, che amo molto. C’era un mistero legato a queste pitture, non ero riuscito a trovare a Torino, le architetture dipinte da De Chirico, come mi era capitato invece a Sabbioneta o a Ferrara. Tutte le volte che andavo a Venezia attraverso l’Italia del Nord, in queste piccole città, dietro l’angolo di una strada, mi trovavo a scoprire un paesaggio di De Chirico. I giovani di un atelier mi hanno detto subito di essere disposti a lavorare sui tema e mi hanno chiesto se ero disposto a collaborare. Ho detto subito a Rondolino e al responsabile della regione che dal lavoro dell’atelier si poteva ricavare una sceneggiatura e che ero disposto a tornare a firmarla, in modo che servisse anche come esercizio per i ragazzi. Allora il gruppo ha scoperto che De Chirico aveva passato a Torino una sola notte in un treno, colpito da un forte mal di stomaco. Era a Monaco che aveva scoperto Nietzche e Böklin e, a causa dei testi scritti da Nietzche su Torino, la sua immaginazione era stata colpita da questa città. Da qui è venuta l’idea di far incontrare un’altra volta Nietzche e De Chirico a Torino. Il gruppo ha cominciato a scrivere una sceneggiatura. Ogni tanto mi venivano a trovare per spiegarmi lo sviluppo della storia. Il punto di partenza era semplice: un collezionista chiedeva a un falsario di venire a Torino per venire a dipingere i quadri che avrebbe dipinto De Chirico se fosse venuto a Torino. Bruscamente il gruppo ha introdotto nella storia la vicenda di alcuni bambini che avevano scoperto un sottomarino sulla riva del Po e questo spunto mi ha convinto che si trattava di una storia interessante. Erano emersi, quindi, altri personaggi. Alcuni ragazzi che si interessavano all’arte egiziana, che avevano scoperto un sottomarino e chiedevano al pittore di aiutarli a partire. Poi andavano da Agnelli e alcuni dei suoi ingegneri si interessavano al progetto, mandando un robot a riparare il sottomarino. Era un’idea irrealizzabile, ma significativa per chiarire la nostra storia: la tecnica, di cui il pittore era l’intermediario, interveniva per risolvere un sogno infantile. Ma mancava una donna. C’era un mecenate, un pittore, un vecchio (che era Nietzche), i bambini, il Museo Egiziano (l’Egitto in fondo) e mancava una donna. Il mecenate, sospettoso, aveva un autista e un’amante. Allora ho pensato di creare fra il mecenate, il pittore e l’amante, il triangolo fatale. Bisognava a questo punto trovare gli attori. Ho parlato a Philo Breckstein, che aveva già interpretato Nietzche in Dionysos. Philo mi ha indicato una persona che poteva interpretare Nietzche e che viveva a Parigi. Fortunatamente ho deciso di non affidargli la parte. Si trattava di un profugo ungherese, che aveva vissuto a lungo a Torino, ma che era completamente pazzo. Voleva lavorare nel massimo silenzio e questo non era proprio possibile. Allora ho chiesto a Philo di interpretare la parte di Nietzche, che poi era quello che più desiderava, perché aveva cominciato a leggere Nietzche dopo Dionysos ed era pronto a seguirne le tracce a Torino. Per la parte della ragazza, che doveva essere bella e misteriosa, ho scelto Sabina, che, pur lavorando a Roma, aveva il vantaggio di parlare un italiano puro (perché quello che ho scoperto in quest’avventura è stato il problema dei dialetti). Il suo nome poi, Sabina, suggeriva l’idea di un rapimento. A questo punto la storia era riassumibile nell’incontro fra il mecenate e il pittore, la presenza di un sottomarino e di una donna, il pittore portava via la donna. Dovevo trovare il mecenate. Avevo pensato ad Enrico Fulchignoni per questo ruolo, ma poi non ha potuto partecipare. Quando sono arrivato, l’atelier operava nella casa di campagna di Riccardo Gualino. L’archittetura della casa era straordinaria. La costruzione era composta da due ali che terminavano in forma di ettagono. Uno dei responsabili del Festival Giovani di Torino mi ha detto che proprio di Gualino si era parlato poco tempo prima a Locarno, dandomi un libro su di lui. Ho letto il libro, affascinato. Era lui il mio mecenate. Era lui che aveva creato la prima galleria d’arte contemporanea, che aveva fondato la LUX FILM, che aveva fatto venire Diaghilev per la prima volta, un personaggio assolutamente fantastico. Aveva costruito case popolari a Leningrado, che aveva finito due o tre giorni prima della rivoluzione, perdendo tutto. Era stato il solo dei grandi capitalisti del Nord a schierarsi contro Mussolini, scontando il confino, perché amico di antifascisti rifugiati in Francia. Ho scoperto il suo ritratto fatto da Casorati e ho scelto come attore qualcuno che gli somigliasse. Restava il problema del pittore. Avevo scelto Sandro Franchina, regista e figlio di uno scultore, ma lui non sapeva dipingere. Mi sono sentito perduto, perché non volevo scrivere la sceneggiatura, ma volevo che si costruisse a poco a poco. In quel momento ho incontrato i ragazzini e, miracolo, fra loro c’erano due gemelli perfettamente uguali. Ho subito riflettuto su come fosse possibile sfruttare questa coincidenza. Il Museo Egiziano era pieno di pitture con due personaggi simili. Ci voleva quindi un pittore che sapesse fare ritratti somiglianti. Improvvisamente mi sono ricordato di un pittore che era venuto nella regione dei Dogon in Niger e che faceva una pittura divinatoria. Anni prima dipingeva una volpe e poi andava dai Dogon a cercare questa volpe e i suoi significati. Non voleva fare il falsa- rio, ma quando gli ho detto che si trattava di falsificare De Chirico mi ha risposto che poteva farlo, perché anche De Chirico era un falsario. Quando gli ho chiesto se sapeva fare dei ritratti, mi ha risposto che non ne faceva da molto tempo, ma che proprio 15 giorni prima aveva ritratto due gemelli, che non erano però molto somiglianti! La pittura divinatoria era lui! Avevo trovato il pittore. Ho quindi introdotto alcuni elementi nuovi, ho rinforzato la figura del pittore. Era la sua pittura che provocava gli avvenimenti. Durante le riprese c’era stato un temporale e i tecnici, tutti cultori delle belle immagini, non volevano girare perché si trattava di una sequenza non prevista dal copione. Ho deciso di girare immediatamente. Poi ho detto al pittore di dipingere l’arcobaleno. Nel montaggio ho cambiato la successione degli avvenimenti: era il pittore, che dipingendo l’arcobaleno, provocava il temporale. La sua era una pittura premonitrice e lui era un personaggio pericoloso. L’ho presentato fin dall’inizio, cosa che non era chiara nella sceneggiatura, come un grande falsario, un virtuoso della doppia immagine, che poteva fare di tutto. Era lui che faceva funzionare il sottomarino, dipingeva il sottomarino e il sottomarino esisteva. Si entrava dunque in un gioco fra immaginari complementari. A che punto è il suo lavoro sul film? Rondolino mi aveva chiesto di presentarlo all’inaugurazione del Festival Giovani, ma il tempo a disposizione era troppo poco. Ne ho presentato una versione provvisoria e le reazioni sono state abbastanza positive. Sono molto contento perché il film si apre con il ritratto di Gualino dipinto da Casorati. Il vecchio proiezionista del cinema dove il film è stato proiettato per la prima volta, mi è venuto a cercare per dirmi che aveva lavorato per Gualino e che era esattamente così, un mecenate. È fantastico... Un altro avrebbe detto: «Ma cosa c’entra Gualino con questa storia?»... Avevo vinto dunque, era stato un lavoro duro, ma il film reggeva. Adesso lo sto montando qui a Parigi e sto facendo delle scelte difficili. Ha avuto qualche problema durante la ripresa? Il rischio enorme di questo film è stato di avere avuto un tempo di lavorazione molto breve, solo 15 giorni. Ho girato il film con due cineprese 16 mm come in Dionysos, lavoravo con un ottimo operatore, che era anche un po’ regista. Questo è stato un errore, perché non era un vero regista. Quando filmava da solo e io lo dirigevo, tutto funzionava perfettamente, ma quando lavoravamo insieme le macchine da presa non erano complementari. Lui non sapeva fare la sua messa in scena o forse non osava, perché pensava di intralciarmi. Quando abbiamo girato piani fissi, seduti su sedie a rotelle, tutto ha funzionato bene. In un’altra sequenza, invece, mentre io mi muovevo perfettamente a mio agio fra i ragazzini, lui continuava a girare piani fissi. Durante Chronique d’un été mi ero già reso conto che non si può montare un film con due messe in scena diverse, non ci possono essere due autori, voglio dire. Infatti, quando qualche giorno fa ho presentato il film ad alcuni amici della scuola di Cinema di Londra, anche loro hanno notato che il mio secondo operatore non era un film-maker, un cineasta, ma solo un operatore. La sua messa in scena non si adattava alla mia, il risultato era una specie di ping-pong, un po’ maldestro. Dal momento che non avevamo preparato le riprese, i due occhi non si raccordavano e perciò è stato necessario semplificare il materiale. Ed è quello che ho fatto, scegliendo, in alcune sequenze, una sola macchina da presa. Si è ricostituita l’unità di un piano sequenza, scegliendo un solo sguardo. Ho ridotto il film da 1h ‘40 a 1h ‘30 e penso che adesso ci siamo. So che ha appena finito di girare un film su uno spettacolo teatrale. Quali sono le ragioni di questa scelta? Uno dei miei studenti, Julius Amedée Laou, è originario delle Antille e un paio d’anni fa ha scritto una pièce teatrale che si chiama Folies ordinaires d’une fille de chambre ed è stata presentata al Festival d’Automne. È la storia di una vecchia che vive in un ospedale psichiatrico da sessant’anni, dopo la morte del marito nella guerra del 1914. Ha avuto un figlio che non ha potuto tenere con sé. Conosce una ragazza che scambia per sua figlia e insieme a lei condivide i suoi fantasmi. Il problema vero del testo è quello della razza delle Antille, che è una razza maledetta discendente da Cam, che per questo è destinata ad essere schiava dei bianchi. L’unica soluzione per uscire da questo stato di inferiorità è quella di sposare un bianco (meglio se un prete, perché benedetto) per migliorare la razza. Sono interessato a questo tema, perché l’avevo trattato in La Pyramide humaine, che era un film sul razzismo. È una pièce molto violenta di un’ora e un quarto e io ho pensato che sarebbe stato meraviglioso girare un piano sequenza della stessa durata. Ne ho parlato all’Institut National des Audio-visuels, che ha deciso di partecipare alla produzione. L’opera era stata messa in scena da un grande regista di teatro francese, Daniel Mesguish, che mi ha detto che il primo problema da risolvere era quello del pubblico (cosa sarebbe successo dalla parte del pubblico?). Allora ho avuto un’idea, buona all’inizio, ma che poi non si è rivelata molto utile: Charquot e la sua équipe di medici andava in un ospedale a visitare una malata straordinaria, per una dimostrazione scientifica sulla grande isteria. In questo modo i medici diventavano i miei spettatori. Ho cercato allora di avere un’autorizzazione per girare in un ospedale psichiatrico, ma non è stato possibile, era vietato. Cercando ancora, insieme a uno dei miei assistenti, abbiamo scoperto nei Jardins de l’Observatoire un piccolo padiglione costruito intorno al 1920 in mattoni, che poteva sembrare il padiglione di un ospedale psichiatrico. Ottenuta l’autorizzazione attraverso il Centre National de la Recherche Scientifique, ne abbiamo trasformato la struttura con l’aiuto delle scenografie teatrali. Il problema più grave che dovevo affrontare era quello dello spazio per le riprese. Ho deciso di far seguire l’infermiera da una macchina da presa mentre io ho lavorato con il grandangolo, muovendomi intorno al letto e avvicinandomi alla malata. I miei centri di attenzione erano la malata e l’infermiera con i medici alle spalle. Lo spazio d’azione dei due personaggi era delimitato dai piedi del letto. Essi si parlavano attraverso la spalliera del letto. Ho girato tutto in piano sequenza, ma senza l’intenzione di fare una performance. Avevo due cineprese: una con un caricatore di 6 minuti e la mia con un caricatore dì 10 minuti, bisognava lavorare con uno scarto di 6 minuti. Quando l’altro operatore arrivava alla fine del caricatore, il fonico, che mi stava vicino, mi avvertiva che ero solo. In quel momento prendevo delle precauzioni, evitavo di muovermi per non commettere errori irrimediabili. Lo stesso succedeva quando ero io a finire il caricatore. Dopo questi intervalli continuavamo a lavorare come in precedenza. Abbiamo girato così quasi per un’ora, senza nessun problema tecnico. Nel mio mirino assistevo a uno spettacolo teatrale, all’inizio un po’ ripetitivo, che diventava un film. Eravamo molto vicini agli attori, li seguivamo sulla scena. Questo tipo di ripresa era legato a questo caso specifico oppure si comporterebbe in modo analogo anche in uno altro spettacolo teatrale? Non lo so, so che in questo caso ha funzionato. Poi però ho avuto un problema, una lampada è scoppiata, perché la sala era illuminata, nonostante le finestre aperte, la luce non era sufficiente. In realtà, lavorava in studio.. Sì, in studio, in un certo senso... ma con la massima apertura. Uso poco le luci, lavoro sempre con la massima apertura. Comunque, è stata cambiata la lampada e stranamente non siamo stati in grado di ricominciare. Abbiamo continuato a girare per avere una fine, ma sapevo che non avrebbe funzionato. Siamo tornati il giorno dopo. Gli attori hanno cominciato a recitare alcune scene che precedevano il punto in cui ci eravamo fermati il giorno prima, allora si è ricreata la giusta atmosfera e abbiamo girato fino alla fine. Abbiamo finito il film in due giorni. Secondo lei per filmare uno spettacolo teatrale è sempre necessario stare sulla scena oppure è possibile utilizzare un’altra strategia di ripresa? Bisogna filmarlo come un reportage, a spalla, con una macchina da presa mobile, senza preoccuparsi di altro. Posso fare un paragone fra la mia maniera di girare e una partita di tennis, cioè, io con un grandangolo posso andare a rete se c’è qualcuno dietro che mi copre. Rispettando comunque il tempo reale? Il problema del tempo reale è molto interessante. Il montaggio è stato piuttosto facile, perché avevo due macchine da presa che lavoravano insieme. Dopo la sincronizzazione si è cominciato a montare, tenendo conto dei piani obbligatori, girati con una sola macchina da presa. Ho avuto qualche problema con il mio caricatore e quindi invece di avere un minuto di intervallo ne ho avuti tre. Mi sono accorto, però, molto presto che il cambiamento dell’angolo di ripresa, da un obiettivo da 16 mm a un 10 mm, provocava anche un cambiamento del tempo. Non ho conservato, quindi, il tempo reale, anche perché ho dovuto aggiungere il suono. Nel passaggio da un piano medio a un primo piano, l’occhio percepisce in tempi diversi il loro contenuto (più tempo per il piano medio, meno per il primo piano). Bisogna, allora, allungare i tempi, usando forse il rallentatore. Io ho proceduto al contrario, in maniera antirazionale, accorciando i tempi dei piani generali e allungando quelli dei piani ravvicinati. Per questo ogni attacco fra una macchina da presa e l’altra non era mai nel tempo esatto. C’era una differenza non enorme, mezzo secondo circa. Agendo sull’immagine e truccando il suono con dei silenzi, siamo riusciti a combinare gli attacchi fra le due macchine da presa. Il suono era registrato su due bande magnetiche e il fonico passava dall’una all’altra oppure le usava insieme per rendere la distanza con una piccolissima eco. I suoni non erano gli stessi, non erano presi dallo stesso punto, erano missati gli uni con gli altri. Qualche volta il fonico li spostava uno davanti all’altro per dare una eco, con una differenza di 3 o 4 millesimi di secondo. In questo modo avevo una specie di ricostruzione sonora del tempo cinematografico. Abbiamo poi dovuto girare anche dei piani di raccordo. Comunque io e il mio operatore, eravamo entrambi cineasti e conoscevamo bene il nostro lavoro, filmando in piena sincronia. Pensa che sia possibile fare un film su uno spettacolo teatrale come un documentario, senza intervenire in alcun modo sulla sua struttura? Adesso sto progettando un film su una commedia musicale, che girerò a Dakar. Lo filmerò rispettando l’ordine delle scene, ma in un’ambientazione reale. Collabora a questo lavoro Jean Claude Carrière, lo sceneggiatore di Buñuel, che vorrebbe fare insieme teatro e cinema. Uno spettacolo teatrale va trattato come una realtà, va messo nella sua ambientazione naturale. Bisogna muoversi sulla scena. E poi i cambiamenti d’angolo non consentono raccordi facili, anche se molti usano le dissolvenze incrociate come collanti per i passaggi temporali che non funzionano. Ma filmare in un teatro.., no, non saprei come fare.