La clinica psicanalitica - Manifesto per la difesa della psicanalisi

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INTERVISTA A ERIK PORGE
LA CLINICA PSICANALITICA
Alessandra Guerra: Grazie infinite per la sua disponibilità e per
la sua attenzione al Manifesto italiano, così come per le sue
risposte alla nostra intervista. Il primo dei nostri incontri
verteva sulla formazione dello psicanalista. Oggi ci occupiamo
di clinica psicanalitica.
Perché una tale tematica? Oggi, regna purtroppo ancora in
Italia una confusione assoluta in cui clinica psicanalitica e
medica si confondono: medicina, psicanalisi e psicoterapia
sembrano una sola e unica cosa.
I suoi due ultimi libri trattano proprio di tale questione:
Trasmettere la clinica psicanalitica, I fondamenti della clinica
psicanalitica. A partire da domande molto concrete vorrei
indirizzarla verso una prima problematica: quale è secondo lei
la differenza tra clinica psicanalitica e clinica medica, come
rendersene conto? Le mie domande possono sembrarle banali
ma mi sembra essenziale parlare delle basi stesse del discorso
e della pratica psicanalitica.
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Erik Porge: Buongiorno Alessandra, sono lusingato di parlare
con lei una seconda volta su queste questioni. Proverò a
risponderle proprio su ciò che richiede schiarimenti e sullo
specifico della situazione in Italia. Situazione che si può
riassumere così: quella di una confusione tra psicoterapia e
psicanalisi: È oggi la posta in gioco del dibattito e del
confronto. La psicanalisi è un nuovo discorso che è emerso
nella storia con Freud tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Un nuovo discorso: ovvero che non esisteva prima, esiste da
quel preciso momento, con tale origine storica. Dire questo
subito vale a sostenere che ci sono delle differenze con tutto
ciò che si chiamava psicoterapia ed esisteva già prima della
psicanalisi. Qualcosa di nuovo è apparso in quel momento e
già si è distinto dalle forme esistenti di psicoterapia. Qualcosa
di nuovo per via della sua origine, grazie a Freud, rispetto al
senso della sua dottrina e della sua pratica. Rispetto al senso
della sua origine: all’inizio Freud ha creato la psicanalisi a
partire dalla sua esperienza medica, poi da quella dell'ipnosi,
poi ha disgiunto la psicanalisi dall'ipnosi. Per tutta la sua vita
Freud ha dovuto combattere per mantenere la specificità della
psicanalisi sia nei confronti di ciò che non era la psicanalisi (la
medicina, le forme di psicoterapia, ecc.) sia nei confronti delle
deviazioni della psicanalisi.
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La questione della specificità della psicanalisi si è posta con la
sua stessa nascita e non ha smesso di porsi con differenze che
variano a seconda delle epoche. La questione è interna alla
psicanalisi e consiste nel dover sempre ricordare e definire la
sua specificità rispetto al settore delle psicoterapie. Rispetto
alla medicina, per esempio, si può dire che la psicanalisi è
legata al trattamento dell'isteria che ne ha fatto Freud;
l’approccio di Freud si è distinto da quello psichiatrico, tanto
più che per la psichiatria l'isteria è stata assimilata spesso a
una forma di simulazione. Ma l'isteria può confondersi con altri
tipi di malattie trattabili dalla medicina. Tuttavia da subito
Freud s’accorge che la paralisi isterica non segue il tragitto dei
nervi. I sintomi sono un modo di parlare per mezzo di una
parte del corpo che si esprime ma senza che ci sia una
corrispondenza
con
le
localizzazioni
nervose.
Qualcosa
riguarda al tempo stesso il corpo, che non è organico nel
senso medico del termine: non c'è nessuna lesione corporale
localizzabile nel corpo. È dunque nel contempo vicino alla
medicina, poiché la medicina si interessa al corpo, alla sua
fisiologia, alla sua patologia, ma è un corpo sul quale la
medicina non poteva dire niente; è per questo che si arenava
nel volere trovare delle cause all'isteria senza mai arrivarci. C’è
voluto Freud affinché infine si capisse qualcosa di questa
malattia (se si vuole chiamarla così) conosciuta da secoli. È
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una manifestazione del corpo legata al linguaggio, legata a
enunciati, che si esprimono nel corpo in una forma simbolica,
legata ai ricordi d’infanzia...Come se una parte del corpo fosse
una parte della memoria di qualcuno rimossa e fissata nel
corpo.
Si nota già alla partenza come la psicanalisi abbia potuto
differenziarsi dalla medicina. Ma oggi, proprio perché spetta
alla psicanalisi di riaffermare la sua specificità, essa deve
confrontarsi con altre influenze che hanno deviato l'approccio
dell'espressione dei disturbi, dei sintomi come li si coglieva al
tempo di Freud. In questi fattori bisogna contarne parecchi
altri. Dapprima, l'arrivo della farmacologia nella patologia
psichiatrica nel 1952. C'è stato anche il peso della richiesta
dello Stato di controllare le patologie in un senso di sempre
maggior sicurezza, in qualche modo di prevenzione, con il
pretesto della predizione. Si sono notati recentemente degli
abusi: predire la delinquenza osservando i bambini tra zero e
tre anni. Ciò ha suscitato in Francia e a buon diritto molte
critiche. C'è infine l'importanza del discorso capitalista, il
discorso liberale, di redditività, di gestione che cerca di
controllare sempre più l’organizzazione della società, ivi
compresa l'organizzazione intima, l'organizzazione psichica
delle persone, la questione dell'intimità delle persone rispetto
alle preoccupazioni economiche di redditività e di resa nel
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lavoro,
facendo
intervenire
il
peso
economico
delle
assicurazioni che rimborsano i trattamenti delle malattie. La
regolazione trascina inevitabilmente alcune contestazioni verso
i tribunali e tutto ciò ha per conseguenza una tendenza alla
riduzione al settore giuridico del campo della salute.
C'è in questo modo un sistema di controllo della salute nel
quale
è
inclusa
la
salute
detta
mentale,
in
cui
le
preoccupazioni cliniche sia passano in secondo piano sia sono
completamente trasformate dal discorso liberale che offre un
approccio della patologia clinica che non è più rigorosamente
individuale ma che diviene collettiva, che diventa pure
statistica con i suoi malcelati pensieri di fondo e con
giustamente un
fondo economico, di redditività, meno
appariscente ma che fornisce un migliore controllo della
segregazione, per scostare quelli che sono meno produttivi,
relegare in qualche modo tutto ciò che è dell'ordine della
malattia sul bordo della strada, per lasciare la via libera che a
quelli che sono più produttivi.
Questa politica della salute sostenuta dalle assicurazioni
private, dai laboratori farmaceutici, dunque una politica
instaurata dallo Stato, ha delle conseguenze sulla formazione
medica. Ma tocca anche la formazione degli psicanalisti con il
decreto sulle psicoterapie che crea un nuovo corpo di
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professioni sulla salute mentale a un costo inferiore e
destinato alle funzioni di emergenza per risolvere alcuni
problemi sociali. Si assiste sempre più ad un giurisdizionalismo
della salute: le persone si mettono a intentare dei processi
perché non sono contente delle cure; una specie di mentalità
giudiziaria s’installa quale corollario del nuovo accesso della
clinica stessa.... Fino al punto di un vero ribaltamento: se si
prende per esempio la questione dei medicinali ci si accorge
che non sono più là per curare le malattie ma che li si inventa
per trovare poi una malattia da curare. La clinica analitica è
inclusa in questa novità. Dove sbocca questa situazione? Per
attenermi a cose molto precise, prenderò in considerazione la
questione della iperattività nei bambini (ma se ne parla adesso
anche rispetto agli adulti) ai quali bisogna prescrivere del
Ritalin. Di fatto si è trovato dapprima il Ritalin e poi si è
cercata
una
malattia
che
poteva
corrispondere
alla
prescrizione di questo medicinale. Si è giunti a fabbricare
questa entità che non ha nessuna consistenza – l’iperattività -,
cosa che non vuol dire niente perché un bambino può essere
iperattivo per un’infinità di ragioni. Non si tratta di un'entità
patologica in sé ma lo diventa per potere giustificare la
prescrizione del Ritalin e fare degli esami di laboratorio costosi
alla ricerca di anomalie del DNA, ecc. Si tratta qui di fare
entrare nella medicina questa patologia.
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Stessa cosa con la questione della depressione: è diventata un
ripostiglio; ci si mette dentro un sacco di cianfrusaglie e risulta
giustificata dalla prescrizione di antidepressivi. Persone che
hanno avuto dei periodi d’angoscia dicono che sono stati
depressi e si è prescritto loro degli antidepressivi. La
depressione diventa dunque un ripostiglio, un alibi per potere
prescrivere dei medicinali.
Per restare in questo approccio della clinica, lo psicanalista
non può oggi non oggi interrogarsi sull'utilizzazione che fa dei
termini medici, sul fatto di convalidare o meno delle
nominazioni, un nosografia fabbricata per scopi commerciali.
Non voglio dire che non ci siano dei depressi! Ma ciascun caso
è particolare, e solo così si ritrova la specificità della condotta
psicanalitica: essa consiste nel ricevere qualcuno su sua
richiesta, una domanda personale e particolare, e non perché
gli si è prescritto un trattamento ma perché egli stesso lo
chiede. Lo scopo non è la prevenzione della malattia, il
miglioramento del suo livello di vita o un surplus di felicità.
Perché qualcuno va da un psicanalista? Perché c'è qualcosa
che blocca, che non va, qualche cosa che emerge e di cui ci si
rende conto: può essere l'angoscia, le relazioni sociali, i legami
d’amore, la ripetizione di insuccessi in questi campi, ecc. È
qualche cosa che è enunciato attraverso una domanda, una
domanda di miglioramento, ma una domanda in cui il soggetto
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non sa subito esattamente qual è il suo sintomo. L'analista
accetta
di
ascoltare
questa
persona.
Talvolta
occorre
parecchio tempo per accorgersi di quale sintomo si tratta. Non
è lo stesso modo d’intervento della medicina, quello che è
riassunto dalla triade segno – diagnosi - trattamento. Nella
psicanalisi i segni
stessi dei sintomi, l'apparizione di questi
segni è inclusa nel trattamento con la parola. I veri sintomi
possono impiegare molto tempo per essere riconosciuti come
tali. Quando il soggetto è in grado di enunciare ciò che fa
sintomo per lui, questo marca spesso un certo progresso, il
superamento di qualcosa.
Questa designazione dei sintomi richiede del tempo. È inclusa
nello stesso parlare a qualcuno. Questo modo di parlare a un
analista proviene dal fatto che c'è non solo qualcosa che non
va ma qualche cosa che non va rispetto a cui il soggetto pensa
che ci sia una ragione, una causa che proviene da lui ma che
egli non sa, una parte di inconscio che amerebbe conoscere. È
questo che lo porta a consultare uno psicanalista piuttosto che
un indovino. Avverte che qualche cosa lo riguarda in modo più
o meno oscuro in quello che non va con gli altri. Sente
d’essere il detentore di un sapere insaputo, un sapere che non
conosce, e che parlando, con le parole, i significanti
acquisiscono un posto più o meno centrale, vanno a
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ricollegarsi gli uni agli altri e permettergli di avvicinare questo
sapere.
Va ad avvicinarsi a questo sapere insaputo attraverso ciò che
dice, ma anche ciò che non dice, attraverso le formazioni
dell'inconscio: i lapsus, le dimenticanze, i sogni, ecc. Il
soggetto si rende conto che ne dice più di quel che dice, più di
quanto non sappia, dice altro: c'è un scarto tra ciò che dice e
ciò che dice in più. Il sapere inconscio comincia così ad
articolarsi e a permettergli di avere un ascolto di sé, che gli dà
maggior sicurezza e gli permette... cosa? È qui che si vede
come rispetto ai sintomi la via è differente da quella delle
psicoterapie: beninteso il soggetto vuole essere sbarazzato via
da ciò che non va, ma contrariamente alle psicoterapie non si
va subitaneamente verso una soppressione del sintomo.
Perché? In primo luogo perché bisogna reperire il sintomo.
Secondariamente,
certi
sintomi
possono
non
cedere
completamente perché hanno una certa funzione per il
soggetto e l’hanno anche nelle sue relazioni con gli altri,
dentro o fuori la sua famiglia. Talvolta certi dispiaceri non
possono essere soppressi senza creare altrove dei disordini.
Occorre tempo per apprezzare tutti i parametri in gioco. Non si
può dire di primo acchito: “Bisogna sopprimere tale sintomo”.
Quando il sintomo sparisce, completamente o no, si tratta del
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risultato di un certo numero di svolte in cui è stato esplorato il
rapporto del soggetto con se stesso, con la sua esistenza,
svolte che mettono il sintomo in prospettiva con gli elementi
letterali precisi del discorso del soggetto. È certamente
legittimo che il soggetto si aspetti una guarigione dall'analisi.
Ma come dicevano Freud e Lacan: “La guarigione viene in
sovrappiù". Non si tratta tuttavia di guarigione nel senso di
restitutio ad integrum perché la psicanalisi, quando è condotta
a termine, provoca una trasformazione del soggetto nel suo
rapporto col mondo e con gli altri. Non è più lo stesso che era
all'inizio della sua domanda di analisi. La sua soddisfazione
non è più la stessa. Ci sono stati dei percorsi, dei messaggi
che ha inteso e che gli fanno abbandonare, almeno in parte, le
soddisfazioni che traeva dai suoi sintomi.
Se non si fa questo, capita che si sopprima un sintomo e un
altro appaia immediatamente o che si rompa un intero
equilibrio (che fa star male il soggetto ancora più di prima), o
che la psicoterapia serva a guarire o più propriamente a
rimuovere qualche cosa che appartiene al sintomo (e capita
anche, non voglio dire che ogni psicoterapia sia condannabile).
In tal senso, sufficientemente rimosso, il sintomo non è più
troppo visibile, troppo ingombrante e il soggetto si accontenta.
È un possibile risultato della psicoterapia, e perché no? Si può
dirlo. Ma questo non è lo scopo della psicanalisi.
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Può accadere che un sintomo sia mascherato - e può
succedere anche nell’analisi - un soggetto interrompe la sua
cura piuttosto rapidamente proprio perché il suo sintomo è
sparito, dunque è contento e non vuole andare più lontano. Va
bene! Tanto meglio per lui. Non si può dirgli: “Bisogna
continuare l’analisi” se non ne non ha nessuna voglia! E non
avrà altro senso da indicare che in questo caso la psicanalisi è
stata
essenzialmente
una
psicoterapia,
funzionando
sul
modello di coprire un po’ le cause del sintomo e non di togliere
completamente la rimozione. Ma lo psicanalista non ha da
volere il bene del suo paziente al di là di ciò che chiede lo
stesso paziente. L'analisi resta una decisione libera, quella del
paziente, che può proseguire o meno. Certamente l'analista
può incitare a continuare se pensa che sia necessario e che il
soggetto non stia facendo altro che una gran cavolata, ma in
ogni caso l'ultima parola spetta al soggetto.
Un certo numero di psicanalisi sono in effetti delle psicoterapie
perché il soggetto non ha voluto andare più lontano ed è il suo
diritto! Non si tratta, in nome della psicanalisi, di condannare
la psicoterapia. Quello di cui si tratta è di marcare le differenze
in modo che non ci sia confusione.
Gli scopi, i metodi e le dottrine non sono le stesse. La dottrina
elaborata da Freud e da Lacan è estremamente ricca, la
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ricerca
analitica
è
sempre
in
corso,
si
è
modificata,
trasformata, ha portato moltissimi concetti nuovi: l'inconscio, il
transfert, la pulsione di morte, il soggetto diviso, lo stadio dello
specchio, il nome del padre, ecc. L'elenco è molto lungo, è il
sommario dei dizionari di psicanalisi, mostra la ricchezza
dell'apporto teorico e dottrinale della psicanalisi. La psicanalisi
resta una dottrina estremamente viva! Se la si paragona alla
psicoterapia, non c’è confronto. E sin dall’inizio non si può dire
"la" psicoterapia. La psicanalisi, anche se ci sono varie
differenze nei riferimenti psicanalitici è organizzata intorno a
una stessa origine: per richiamarsi alla psicanalisi occorre
riferirsi al dire originale e inaugurale di Freud. Se si dice che
l'origine della psicanalisi non è Freud, in quel momento si esce
della psicanalisi: è un punto unanime qualunque siano le
differenze (e sono numerose!) fatte in seguito nella lettura dei
testi di Freud e nelle pratiche che ne conseguono.
All'opposto non c'è "la" psicoterapia. La lista delle psicoterapie
recentemente invalsa indica trecento metodi di psicoterapie
differenti. Del resto si può inventarne un’altra tutti i giorni.
Nessuna unicità della psicoterapia! Questa differenza è molto
importante. L'altro fatto è che alla ricchezza d’invenzione della
psicanalisi si oppone una povertà dottrinale delle psicoterapie;
avente ciascuna in generale due o tre idee principali intorno
alle quali funzionano e che cercano di inculcare ai loro
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pazienti. Qui ancora un’altra differenza: la suggestione,
l'utilizzazione del legame di suggestione tra il paziente e il
terapeuta e, secondo il modello, l'applicazione di un certo
sapere prestabilito a seconda del tipo di psicoterapia (il grido
primordiale, l'ipnosi, il metodo di Rogers, ecc.). Si cerca di
applicare un dato modello teorico consono a ogni paziente.
La pratica dello psicanalista è differente: la sua dottrina è in
continua evoluzione e rifacimento; non si tratta di applicare un
sapere prestabilito per la comprensione del paziente, di una
terapeutica particolare. Per lo psicanalista è fondamentale che
ciascuno sia affrontato come un nuovo caso, nella sua
singolarità e per niente sul modello di un altro caso. Si tratta di
sottoporsi alla singolarità dell'ascolto di ciascuno, essendo il
metodo psicanalitico un metodo di ascolto. È quindi consigliato
allo psicanalista di non capire troppo presto! È un punto molto
importante che in generale gli psicoterapisti non adottano....
Di non comprendere troppo in fretta e di diffidare, sempre,
beninteso non solo all’inizio poiché l'analista non sa niente,
ascolta ciò che gli si dice, ha tutto da imparare, ma nel corso
stesso dell’analisi. Ogni volta che l'analista interpreta deve
diffidare
di
comprendere
troppo
rapidamente
e
di
comprendere al posto del malato. Non tocca a lui di
comprendere
per
il
paziente!
È
compito
del
paziente
comprendere!
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L'elaborazione teorica della psicanalisi non serve per costituire
un tipo di sistema di sapere in cui rinchiudere il paziente, ma
al contrario per permettere una certa ascesi all'analista
affinché ogni volta si apra a una più grande disponibilità verso
la
sorpresa,
che
è
per
eccellenza
la
manifestazione
dell'inconscio.
Lo scopo della dottrina psicanalitica è di operare sulla
mentalità dello psicanalista per permettergli di essere il più
ricettivo possibile di fronte al paziente. La ricerca è una sua
costante, irriducibile all’applicazione di un sapere, ma al
contrario per sottrarre l'analista dal sapere, affinché possa
ritrarsene. L'analista è preso in una posizione abbastanza
contraddittoria poiché da un lato è consigliato allo psicanalista
di essere il più erudito possibile, il più sapiente possibile, e da
un altro lato deve essere il più pronto possibile a disfarsi di
questo sapere. È preso dunque in un doppio modo di
procedere contraddittorio, ma la posizione dell'analista è
proprio questa! È a questo prezzo che può permettere
all’analizzante di fare l'analisi; e la fa con l'aiuto dell'analista,
purché non sia al suo posto ma in una posizione più ritirata su
un piano simbolico. La posizione contraddittoria, instabile
dell'analista, lo porta a non comprendere dall'esterno e a
oggettivare i problemi del paziente. Non è là per capire perché
è compreso nel discorso del paziente. È una posizione difficile.
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È quella in cui è posto dal transfert e questo è un punto di
differenza
essenziale
rispetto
alle
psicoterapie:
il
riconoscimento dell'esistenza del transfert e l'accettazione
delle sue conseguenze, ovvero di lasciarsi cogliere come
oggetto del transfert dell'altro, che è necessariamente
differente con ogni persona. Bisogna accettare questa
posizione che Lacan ha definito come sbocco dell'azione del
significante chiamato il soggetto supposto sapere, e che agisce
come terzo nella coppia analizzante-analista.
Infatti l’analizzante che arriva in analisi coi suoi sintomi viene
per sapere qualcosa e
suppone che l'analista sappia, ma
l'analista non ha a prendersi per il supposto sapere. Egli non
sa ed è in tal senso che si tratta di una posizione difficile. Non
sa ma ciò che sa è d’essere incluso nel discorso del paziente,
come una parte del sintomo del paziente. Non c’è da un lato
l'analista e dell'altro il paziente con il suo sintomo. Analista e
analizzante formano una specie di coppia che insieme fa
sintomo, in cui lo stesso analista è preso. C'è tuttavia
asimmetria poiché l'analista è avvertito di questa cosa.
Ma l'analista può essere sorpreso anche dalle conseguenze di
questo modo che ha l’analizzante di includerlo nei suoi sintomi,
nel suo discorso: l'analista gioca col fuoco, per esempio col
fuoco dell'amore o col fuoco dell'odio, il fuoco di tutte le
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passioni poiché egli non se ne sottrae. La difficoltà è di giocare
col fuoco senza che tutto bruci e che tutto si fermi.
Intendere il sintomo come qualche cosa in cui l’analista stesso
è preso, un sintomo che occorrerà scoprire nella sua
formulazione, il suo dritto e il suo rovescio, scoprirlo con
l’analizzante e aiutarlo proprio a trovare la sua propria verità:
l'analista non ha un punto di vista di psicopatologo e ciò lo
distingue anche in questo caso dalla medicina e dalla
psicoterapia. Per riprendere la questione dell'isteria sfiorata
prima: non è perché si adoperano dei termini psichiatrici
(isteria, paranoia, perversione) che ciò va a corrispondere alle
diagnosi di psicopatologia. Questo ultimo termine è emerso
dalla psicologia, ma per l’analista non c’è psicopatologia… che
varrebbe a dire che ci sarebbe prima una norma e poi una
deviazione dalla norma (la patologia). Non si tratta di questo
per l'analista. Non è perché utilizza dei termini ereditati dalla
psicopatologia e dalla nosografia come isteria o nevrosi
ossessiva, ecc. che è nello stesso discorso. Lacan l'ha detto
molto nettamente: si è normali nella propria struttura. Questi
termini rinviano alla struttura.
Che cosa è una struttura? È una struttura del desiderio, del
desiderio inconscio; ci sono delle coordinate del desiderio
inconscio, c'è un desiderio al di là della domanda. In tal senso
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la domanda di cura non chiede sempre una risposta in termini
di cura com’è immaginato nella richiesta. Il soggetto può
chiedere fin da subito di essere inteso nella sua sofferenza.
Qualcuno può chiedere di essere curato, ma domanda
tutt’altro che essere curato. La domanda di cura rinvia a un
desiderio che occorre poter decifrare.
Si è normali nel proprio desiderio. I termini in cui si definisce
una struttura possono o meno corrispondere a dei termini
medici come “isterico”, per esempio quando si parla di
“struttura isterica ". Ma “struttura isterica”
indica un certo
rapporto col desiderio e con la domanda di cui Lacan ha
potuto dire che è “il desiderio insoddisfatto"; per l'ossessivo
parla del “desiderio impossibile"; per l'analista del “desiderio
avvertito"; per l'anoressia del “desiderio di niente”... È rispetto
a un desiderio inconscio, (ovvero articolato a una domanda e a
un godimento ma non articolabile come tale) che per ciascuno
si esprime in termini singolari che bisogna intendere, e in tal
modo si reperiscono i termini della struttura.
Per ciascun soggetto i termini sono messi in relazione gli uni
con
gli
altri:
domanda,
desiderio,soggetto,
inconscio,
simbolico, reale, immaginario, le tre grandi categorie inventate
da Lacan. A partire dalla loro organizzazione si può parlare di
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struttura. La struttura è un reale, nel senso che Lacan dà a
questo termine nella sua triade: immaginario, simbolico, reale.
Il reale non è la semplice realtà che è una congiunzione tra
simbolico e immaginario. Il reale è quel che c'è di strutturale.
C'è un reale dell'immaginario e se si è la preda di un delirio,
c'è un reale del delirio. Lacan ha definito il reale in molti modi:
è ciò che ritorna allo stesso posto come le stelle; per un
soggetto saranno i suoi punti di godimento che sono dei punti
traumatici, per esempio come nei sogni traumatici, dei punti
che ritornano.
Lacan ha anche potuto dire: “Il reale è l'impossibile”, per
esempio: l'impossibile da simbolizzare. La struttura è reale nel
senso che fornisce la disposizione di un certo numero di
elementi reperibili, simbolici. Ma questa disposizione di per sé,
se si notano gli effetti e le conseguenze, non si arriva a
oggettivarla come tale, non si riesce a simbolizzare la
consistenza di questa disposizione in quanto tale per mezzo
dei termini che la compongono; manca una garanzia, e questo
fa dire che ciò corrisponde al reale come impossibile da
dimostrare. Questo reale come impossibile, Lacan dice che è
legato al numero. Quando si parla c'è sempre qualcosa che
appartiene al numero in gioco. È il caso di dirlo poiché il reale
del numero è quello del soggetto dell'inconscio. Come si conta
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questo soggetto? Accade che lo faccia con un errore di calcolo
e che così si identifichi a ciò che si conta come più di uno.
La nozione del reale non è la realtà ma è legata a ciò che il
filosofo Alexandre Koyré ha potuto formulare del reale nella
scoperta della scienza a proposito del movimento d’inerzia: se
niente si oppone, il movimento sarà all'infinito. È qualcosa che
nessuno ha mai osservato, si è dovuta costruire l'equazione
del movimento d’inerzia per far avanzare la scienza moderna;
il reale è qualcosa che si pone in una formula ma che non si
osserva mai.
Alessandra Guerra: Vorrei farle una seconda e ultima
domanda: ha detto che l'analista è implicato, che non è
esterno nel processo della cura, come lo sarebbe il medico che
guarda. Che cosa comporta questo elemento in termini di etica
dello psicanalista?
Erik Porge: La sua domanda mi ha fatto pensare che Lacan ha
dedicato un anno di seminario con questo titolo, L’etica della
psicanalisi, nel 1959-1960, per dire che questa domanda è
fondamentale.
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Si tratta in effetti di vedere in cosa l'etica della psicanalisi
rinnova l’antica questione dell'etica. Lacan studia i punti di
vista di Aristotele e di Kant. Per Aristotele il Bene è ciò che è
buono per sé, ciò che fa piacere. Nella sua etica Aristotele
esclude i malati mentali mentre la psicanalisi si occupa della
malattia mentale.
Per Kant l'etica è l'imperativo categorico. La lingua tedesca
permette la distinzione tra il buono e il bene, Kant mostra che
il bene non è necessariamente ciò che è buono. Per Kant il
Bene è enunciato da una massima universale, quel che chiama
imperativo categorico e che è completamente indipendente da
ciò che appartiene all'ordine del piacere, dunque alla
patologia, alla sofferenza, all'affetto. Esiste una regola morale
indipendente da ogni esperienza di soddisfazione.
La psicanalisi permette di fare un passo supplementare che
tiene conto di questi due tempi e di mostrare che la questione
etica va al di là di ciò che fa piacere (che Freud traduce con
“principio del piacere”), c'è un al di là del principio del piacere
e Freud l'ha posto come tale: la pulsione di morte, ovvero
qualcosa per il soggetto che funziona al di là del principio di
piacere. È là che Freud e poi Lacan hanno localizzato la
questione della ripetizione: ciò che va a ripetersi di qualcosa
che manca, un oggetto di soddisfazione piena che rivela al
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cuore stesso della soddisfazione qualcosa di insoddisfacente,
come un vacuolo, qualcosa che non è presa nel principio di
piacere dell'organizzazione simbolica e che gira intorno a un
buco,
dove
c'è
rappresentanti
mancanza
della
di
rappresentazioni
rappresentazione,
quel
che
e
di
Freud
chiamava “la cosa”, das Ding, e che Lacan chiama un reale, un
punto nodale al di là del senso dei termini di Buono e di Bene,
perché è un luogo radicalmente fuori dal senso, ma non fuori
dal godimento.
Tenere conto di questo, la regolazione, l'aggiustamento del
desiderio del soggetto rispetto alla “cosa”, costituisce per
l'esattezza l'etica. Mentre le altre etiche di ordine filosofico
restano tributarie di un ideale: sottomettersi a un ideale dà la
regola etica. Per Lacan la regolazione dell'etica si fa sulla
dimensione del reale. Lacan sposta la questione dell'etica,
della
sua
individuazione
tramite
l'ideale,
per
dargliela
attraverso la questione del reale.
Alessandra Guerra: La ringrazio per questa sua ricchissima
riflessione sulla clinica psicanalitica e sulla specificità della
psicanalisi, riflessione che interesserà moltissimo il pubblico del
nostro sito. La ringrazio anche per il tempo dedicato al
Manifesto per la difesa della psicanalisi.
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Parigi, 20 luglio 2011
Trascrizione a cura di Christine Dal Bon
Traduzione a cura di Giancarlo Calciolari
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