IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA STRESS NELLA PARTICOLARE ACCEZIONE DEI TRAUMI DA CONFLITTO ARMATO INDICE Introduzione: perché questa tesi? Capitolo 1 DEFINIZIONE: cos’è il disturbo post traumatico da stress? CENNI STORICI LE IPOTESI NEUROBIOLOGICHE E PSICOLOGICHE I PENSIERI INTRUSIVI LE TERAPIE POSSIBILI debriefing, teorie cognitive, EMDR, supporto sociale Capitolo 2 IL DISTURBO POST TRAUMATICO DA CONFLITTO ARMATO: l’esperienza di Mollica nei campi profughi cambogiani Capitolo 3 L’ESPERIENZA PALESTINESE: cos’è possibile fare per arginare i danni quando il conflitto è ancora in corso? quali sono le iniziative ed i possibili primi risultati in terra di Palestina. Conclusioni e ringraziamenti Bibliografia INTRODUZIONE Perché una tesi sulla sindrome post traumatica da conflitto? Perché come in tutti coloro che hanno scelto di partecipare a questo master, anche per me c’è “qualcosa che grida dentro”. Consapevole dei limiti della mia cultura in campo politico ed economico, vorrei però esprimere alcune opinioni. Nonostante le contraddizioni e gli egoismi della propria vita personale, anch’io, come molte persone, provo il desiderio di costruire qualcosa di buono, di denunciare ciò che è ingiusto, di non arrendersi al male, di contribuire al bene. Questo desiderio di solidarietà con tutta l’umanità e di giustizia corre il rischio di essere soffocato dall’eccessivo benessere e dal materialismo che appannano le nostre coscienze e su cui si fonda il nostro sistema economico. L’”Occidente” è dunque costituito da una piccola parte della popolazione mondiale che, come in una moderna schiavitù, vive riccamente schiacciando i paesi più poveri. Ma tale ricchezza è un veleno: nel terzo mondo le persone muoiono di fame , noi moriamo “dentro”. Sono molte le situazioni ed i problemi che rivelano questo iniquo gioco di potere fra paesi più ricchi e paesi più poveri: l’immigrazione, l’estrema povertà che affama milioni di persone, l’emergenza sanitaria dell’Aids,con i relativi interessi economici delle case farmaceutiche, ed anche le guerre. Ogni guerra spacciata dai potenti/prepotenti del mondo come giusta, doverosa, “pulita” (perché combattuta con missili e bombe intelligenti che sanno risparmiare la popolazione civile!) o come “uno degli strumenti a disposizione della politica”(*) è una offesa a tutta l’umanità. Tutta l’umanità, anche quella di chi vi ha solo assistito seduto nella poltrona del salotto, ne esce impoverita ed offesa nella propria crescita verso la maturità, la giustizia, la coscienza di sé. *lo sosteneva lo stratega e teorico militare prussiano Carl von Clausewitz nel XIX secolo Un tempo gli esiti di un conflitto armato si valutavano misurando delle cose o dei numeri: case distrutte, numero di morti o feriti, derrate alimentari e finanziamenti necessari per poter ricostruire. Porre l’attenzione sui danni psicologici che queste violenze creano, significa misurare qualcosa di più impalpabile che è la felicità, il dolore, l’anima. Ogni singola persona, sia vittima che carnefice, che rimane coinvolta in un conflitto armato ne riporta ferite interiori indelebili. Prendere finalmente in considerazione i disastrosi effetti delle guerre sulla salute mentale dei civili (bambini segnati per sempre, affetti devastati, menti sconvolte dall’orrore) può contribuire a rendere sempre più arduo giustificare tutta questa sofferenza innocente per un fine falsamente ritenuto superiore. In tal senso la cultura lo studio e questa piccola tesi possono porsi al servizio di un valore che è la ricerca della pace, e ciò sia mettendo in evidenza quanto male si accompagna alla guerra, sia affinando i metodi di intervento sulle vittime, per poter estinguere la fiamma dell’odio e ricostruire veramente la pace su basi più solide. CAPITOLO 1 DEFINIZIONE cos’e’ il disturbo post traumatico da stress? L’insieme di segni e di sintomi tipici che seguono l’esposizione ad un fattore traumatico estremo prende il nome di Disturbo Post Traumatica da Stress (DSM-IVTR)(1). E’ una delle patologie psichiatriche in cui l’agente eziologico deve essere per definizione esterno, ma ovviamente anche la vasta gamma delle reazioni individuali gioca un ruolo fondamentale. Per evento traumatico si intende una situazione di particolare gravità che può coinvolgere una collettività o il singolo individuo: conflitti armati, disastri naturali o tecnologici, incidenti con qualsiasi mezzo di trasporto, oppure violenze personali o a persone care quali torture, stupri, rapine, tentati omicidi, o ancora situazioni di emergenza sanitaria come ictus o infarti nelle quali il soggetto è improvvisamente in grave pericolo di vita e deve essere trattato in terapia intensiva (2). Esistono diverse definizioni di questo disturbo, ho scelto quella del DSM-IV-TR con i relativi criteri esplicativi: Criterio A: La persona è stata esposta ad un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti: 1 la persona ha vissuto, assistito o si è confrontata con eventi implicanti morte o minaccia di morte o lesioni gravi proprie o di propri cari 2 la risposta della persona comprendeva paura intensa sentimenti di impotenza o di orrore. Nei bambini la risposta si può esplicare in comportamento agitato o disorganizzato. Criterio B: l’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno o più dei seguenti modi: 1 ricordi spiacevoli insistenti ed intrusivi sia sotto forma di immagini che di pensieri o di percezioni. Nei bambini ciò si può esplicare con giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma. 2 sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nei bambini possono essere incubi senza un contenuto riconoscibile. 3 agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando (ciò include sensazioni di rivivere l’esperienza, illusioni, allucinazioni, episodi dissociativi di flash-back, compresi quelli che si manifestano al risveglio o in stato di intossicazione). Nei bambini piccoli ciò si può manifestare come rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma. 4 disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni od esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico. 5 reattività fisiologica all’esposizione a fattori scatenanti interni od esterni che simboleggiano od assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico. Criterio C: evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale, non presente prima del trauma, come indicato da tre o più dei seguenti elementi: 1 sforzi per evitare pensieri, sensazioni o conversazioni associate con il trauma 2 sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma 3 incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma 4 riduzione marcata dell’interesse o della partecipazione ad attività significative 5 sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri 6 affettività ridotta come incapacità di provare sentimenti di amore 7 sentimenti di diminuzione delle prospettive future (aspettarsi di non poter avere un matrimonio, una famiglia, una carriera, una normale durata di vita) Criterio D: sintomi persistenti di aumentato arousal (non presenti prima del trauma), come indicato da almeno due dei seguenti elementi: 1 difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno 2 irritabilità o scoppi di collera 3 difficoltà a concentrarsi 4 ipervigilanza 5 esagerate risposte di allarme Criterio E: la durata dei disturbi deve essere superiore ad 1 mese Criterio F: il disturbo causa disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Inoltre, nell’inquadramento diagnostico della malattia, è necessario porre dei criteri cronologici osservando se il disturbo sia: acuto, nel caso che la durata dei sintomi sia inferiore a 3 mesi, cronico, se uguale o superiore a 3 mesi, ad esordio ritardato, se compare almeno 6 mesi dopo l’evento stressante. Famigliarità: ci sono dati a favore di una componente ereditabile; è documentata un’aumentata vulnerabilità se c’è una storia di depressione in parenti di I° grado. CENNI STORICI Già Shakespeare in alcune sue opere narra di reazioni a shock gravi che rappresentano una valida descrizione di DPTS. L’avvento dei mezzi di trasporto su rotaia ed i primi disastrosi incidenti che ne seguirono nel XIX secolo, fecero registrare casi di gravi ed apparentemente inspiegabili reazioni psicologiche che furono grossolanamente attribuite a danni organici (“colonna vertebrale da ferrovia” o “railway spine” o “malattia di Erichsen” che ne parlò per primo nel 1866 descrivendola come isteria traumatica, neurastenia, ipocondria o melanconia). Successivamente nel 1878, il medico Eulemberg, sempre in riferimento a questi studi, introdusse il concetto di “trauma psichico”. Il dibattito scientifico cu questi temi si arricchì delle osservazioni del chirurgo inglese Page, che distingueva i traumi fisici da quelli psichici parlando di “shock nervoso”. Con la nascita della psichiatria Oppenheim coniò il termine di “nevrosi post traumatica” nel 1892, Kraepelin, nel Trattato di psichiatria del 1896, introdusse l’entità clinica della “nevrosi da spavento”. L’avvento delle guerre mondiali, invece, fece balzare prepotentemente all’attenzione della clinica le “nevrosi da guerra” (Kardiner 1969, questo medico fu uno dei pionieri degli studi sui veterani dei conflitti già dopo la I° guerra mondiale) per la vastità numerica dei casi e il cambiamento delle tecniche di combattimento. Infatti, rispetto ai tradizionali scontri di fanteria o cavalleria, il I° conflitto mondiale introdusse le tecniche della guerra di trincea, con le estenuanti attese sotto il pericolo dei bombardamenti per mesi, e questo creava disagi psichici più gravi e nuovi, tanto che i soldati che per primi manifestavano tali sintomi venivano trattati da disertori. Inizialmente si parlò di “shock da granata”, ma poi si notò che anche i soldati non esposti a queste esplosioni manifestavano sintomi analoghi. Il concetto di nevrosi da guerra si affacciò con tale evidenza agli occhi del mondo medico che meritò di essere trattato in uno dei primi congressi di psichiatria dopo la Grande Guerra del ’15-’18. Durante la Seconda Guerra Mondiale, gli operatori della salute mentale furono coinvolti maggiormente nella cura dei soldati e si svilupparono concetti come la “sindrome post traumatica” (Kardiner 1941) e, di nuovo, “la nevrosi da guerra” (Grinker e Spiegel 1943). Kardiner riconobbe che la sindrome comprendeva irritabilità, accessi di aggressività, soprassalti eccessivi a stimoli esterni e polarizzazione sull’evento traumatico. Successivamente ed in maniera sempre più rapida, altri esperti iniziarono a riconoscere costellazioni di sintomi nei civili sottoposti a stress acuti, sintomatologie simili a quelle dei soldati in guerra. Il sanguinoso conflitto vietnamita focalizzò l’attenzione della psichiatria statunitensi sui devastanti effetti della guerra sulla salute mentale dei reduci americani. Si iniziò a parlare di Disturbo Post Traumatico da Stress (Figley, 1978). Yule osserva (3) che la concettualizzazione di un disturbo psichiatrico nasce anche dal contesto sociale di chi lo osserva: se il conflitto vietnamita non fosse stato così controverso e se la società americana avesse accolto da eroi i suoi soldati, sicuramente ne avremmo osservato una minore prevalenza e sarebbe stata data una minore attenzione a questo disturbo. Gli studi cognitivistici di Horowitz contribuirono enormemente all’evoluzione scientifica riguardo al DPTS che dal 1980 fu inserito nel DSM, prima il III, poi il IIIR, IV (1994) ed infine il IV-TR (2002) e nell’ICD 10 dell’OMS (1992). LE IPOTESI NEUROBIOLOGICHE E PSICOLOGICHE PER SPIEGARE QUESTA MALATTIA. IPOTESI NEUROBIOLOGICHE Da Yule (3) impariamo che esistono due approcci fondamentali per studiare e spiegare come e con quali meccanismi neuronali vengano elaborate le informazioni nei pazienti affetti da DPTS; tali approcci tentano di spiegare i segni clinici tipici di questa sindrome come l’esperienza di rivivere l’evento traumatico, l’ipervigilanza, le esagerate risposte di allarme, i disturbi del sonno e le difficoltà a carico della memoria e della concentrazione. Essi sono: 1) il metodo neuropsicologico 2) il metodo neurochimico/neuroanatomico 1) Le tecniche neuropsicologiche tentano di trovare una correlazione tra il comportamento umano e il funzionamento del cervello. Studiando il DPTS sono state usati sia test neuropsicologici, standardizzati su individui portatori di danno cerebrale, sia sperimentazioni teoriche, ideate sulla base di ipotesi da dimostrare. I test: i neuropsicologi hanno mostrato particolare interesse per i disturbi della memoria e dell’attenzione. Brenner e coll (4), somministrando il test di Wechsler Memory Scale, dimostrarono la minore ritenzione verbale e visiva dei soggetti veterani del Vietnam rispetto ai controlli costituiti da individui sani, a parità di Q.I. Lo stesso autore verificò una minor ritenzione verbale, valutata con la Wechsler Memory Scale Logical Memory, nei soggetti adulti vittime di abusi sessuali infantili (5). Le sperimentazioni su base teorica hanno invece esplorato la specifica memoria del trauma. Sono stati usati a questo fine test di memoria esplicita ed implicita. La prima è costituita dalla conscia ricostruzione della pregressa esperienza, la seconda riguarda invece l’effetto delle esperienze passate sulle prestazioni successive ed è generalmente studiata con metodiche diverse come il completamento di parole, la scelta lessicale, etc. Per citare alcuni esempi degli studi fatti, si riportano questi risultati: -gli esperimenti su soggetti affetti da DPTS che richiedevano ai medesimi di apprendere gruppi di parole a diversa risonanza emotiva (parole positive, neutre e correlate al DPTS) e a riportarle in esercizi di completamento lessicale (memoria implicita), verificarono la tendenza dei pazienti a riportare soprattutto i vocaboli correlati al trauma subito (6)(7). -relativamente alla memoria esplicita McNally e coll.(8) eseguirono studi su veterani del Vietnam con o senza DPTS accertato e su soggetti normali, constatando che i pazienti affetti da DPTS presentavano minore capacità di richiamare alla mente specifici ricordi autobiografici rispetto ai controlli. Ma abbiamo detto che oltre ai disturbi della memoria sono stati oggetto di studio anche quelli dell’attenzione. Sempre nell’ambito degli studi neuropsicologici, il test di Stroop (9) consiste nel far leggere al paziente parole di diverso impatto emozionale scritte su cartoncini di differenti colori dovendo poi menzionare ad alta voce il colore del cartoncino. L’esitazione nel leggere il colore traduce l’impatto emotivo nella lettura della parola, le cui evocazioni soggettive costituiscono appunto interferenza. Tali esperimenti hanno dimostrato che le parole strettamente associate ad eventi traumatici producono interferenze maggiori nei soggetti traumatizzati a differenza delle parole emotivamente non significative. Ciò costituisce una possibile spiegazione nonché una prova dell’esistenza dei pensieri intrusivi. Tutto questo rinforza l’idea di Horowitz (10) secondo cui il materiale non completamente elaborato, i ricordi correlati al trauma, rimangano in forma attiva nella memoria. Sembra che le informazioni riguardanti gli eventi traumatici siano prontamente accessibili nella mente e interferiscano con le normali attività dei pazienti, anche quando questi cerchino intenzionalmente di evitarlo. Sono stati eseguiti altri studi attraverso la metodica dei potenziali cerebrali evocati per valutare l’alterazione selettiva dei meccanismi dell’attenzione. I potenziali cerebrali evocati, più precisamente definiti potenziali evento relati (ERPS) sono modificazioni che ricorrono all’interno dell’EEG spontaneo in relazione a: stimoli fisici, processi psicologici, preparazione all’attività motoria. Sono stati scoperti da Daves nel 1939 che riscontrò delle risposte negative molto ampie, di c.a. 100-200 msec, legate ad una stimolazione acustica. Gli ERPS rappresentano l’attività sincrona di popolazioni di neuroni e possono essere classificati non solo rispetto ai seguenti parametri: polarità (positiva o negativa), latenza (intervallo fra la presentazione dello stimolo e la deflessione) e distribuzione (a seconda delle zone dello scalpo in cui si presentano); ma anche in base alle componenti dei potenziali stessi: precoci (entro 100 msec), intermedie (fra 100 e 200 msec), tardive (legate a processi cognitivi, 200 e 1000 msec) e i PL o Potenziali corticali Lenti. Tornando all’uso di questi ERPS nel DPTS, possiamo dire per esempio che nei test eseguiti da Attias e coll. (11) i veterani Israeliani mostravano un aumento di latenza in P3 dopo somministrazione di immagini relative alla guerra, questi aumentati periodi di latenza correlavano positivamente con la scala “Intrusività” e negativamente con la scala “Evitamento”, rispetto alla Impact of Event Scale. L’interpretazione che è stata data a questi risultati è che i pazienti affetti da DPTS necessitano di maggior tempo per elaborare e classificare le informazioni delle immagini loro somministrate, sia neutre che evocative dei traumi subiti, rispetto ai controlli. I dati suggeriscono inoltre che nei pazienti coesistono un’alterazione dell’attenzione selettiva con un generale stato di ipersensibilità e questo si correla positivamente, da un punto di vista clinico, con la difficoltà dei pazienti ad evitare i ricordi spiacevoli relativi al trauma stesso. La metodica dei potenziali cerebrali evocati essendo così oggettiva, può essere utilizzata per valutare l’evoluzione del quadro clinico dopo il trattamento. 2) Approccio neurochimico e neuroanatomico. Tutte le ricerche descritte nel paragrafo precedente dimostrano che i pazienti affetti da DPTS presentano alterazioni nell’elaborazione cognitiva. Noi sappiamo che essi dimostrano di aver anche alterazioni anatomiche a livello delle ghiandole tiroide e surrenali, del sistema neurovegetativo e immunologico. Concentriamo la nostra attenzione sulle alterazioni del SNC. Per spiegare come esse si sviluppino da un punto di vista organico, sono stati studiati i sistemi di neurorecettori e neurotrasmettitori nonché determinate aree cerebrali probabilmente coinvolti nello stress ed in particolare nel DPTS. I meccanismi presi in esame sono stati quelli della estinzione e sensibilizzazione cioè meccanismi di condizionamento dello stimolo stressante mediati appunto da sistemi neurochimici. La sensibilizzazione è un aumento nella probabilità di ottenere una risposta normalmente provocata da uno stimolo biologicamente significativo in seguito alle ripetute esposizioni a questo. L’estinzione o abitazione o assuefazione è il contrario, cioè quando la ripetuta presentazione di uno stimolo determina una progressiva riduzione ed un venir meno della risposta. E’ specifica per un determinato stimolo, non può essere attribuita ad adattamento sensoriale o fatica muscolare. Entrambi sono tipi di apprendimento non associativo, cioè dovute ad esposizioni ad un solo stimolo; hanno un significato adattativo poiché in questo modo si ha la possibilità di trarre vantaggio dalle regolarità statistiche dell’ambiente senza dover apprendere quali ambienti specifici siano correlati ad eventi biologicamente significativi. Il condizionamento invece è un apprendimento associativo perché vengono appunto associati due eventi in relazione fra di loro. E’ un esempio di condizionamento classico l’esperimento di Pavlov con i cani: associazione nel cane fra luce ( prima con esposizione al cibo, poi senza) e salivazione, mentre Skinner sperimentò il condizionamento operante per prove ed errori. In particolare è stata presa in considerazione l’estrema reattività psicofisiologica dei pazienti ai ricordi del trauma. Essa è stata spiegata con il meccanismo della sensibilizzazione comportamentale agli stimoli stressanti, sviluppata dai pazienti in seguito al trauma. Una gamma di stimoli stressanti può determinare un aumento della funzione noradrenergica cerebrale a livello del Locus Coeruleus, dell’Ipotalamo, dell’Ippocampo, dell’Amigdala fino alla Corteccia Cerebrale. Alla luce di questo si è ritenuto che molti sintomi del DPTS siano appunto dovuti ad un ipertono noradrenergico (12). Su questa stessa linea possiamo citare gli studi eseguiti sul consolidamento della memoria, secondo cui l’aumento dei livelli di arousal corrisponde anche all’aumento dei livelli di noradrenalina. Questo neurotrasmettitore ha dimostrato di avere una relazione ad U invertita con il consolidamento della memoria, cioè livelli sia molto alti che molto bassi interferiscono con il meccanismo di immagazzinamento delle informazioni creando una situazione di iperamnesia o di ipersensibilità relativamente alle informazioni connesse con il trauma. Infatti lo stato emozionale ha una forte influenza nell’imprimere i ricordi, ed un’associazione stimolo e risposta appresa in una condizione di iperemotività non si dimentica (13)(14). Per elevata reattività psicofisiologica di questi pazienti si intende che, per esempio, se essi ascoltano stimoli audiovisivi registrati correlati al trauma possono essere osservate alterazioni nei parametri fisiologici come la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca e la risposta di conduttanza cutanea, e che inoltre tale iperreattività risulta diminuita al termine di un intervento psicoterapeutico efficace. In tal modo la clinica trova suffragio dai dati di laboratorio: i ricordi di un trauma sono sempre correlati ad una forte emozione. A sua volta la risposta emozionale, ovvero l’emozione, è innescata a livello neuronale principalmente dal Sistema Nervoso Simpatico e dalla sua produzione noradrenergica le cui modificazioni durante lo stress condizionano le risposte dell’individuo alla successiva esposizione a fattori che ricordano lo stress subito. Questi fattori, di per sé precedentemente neutri per la persona, diventano stimolo condizionato ovvero doloroso a cui si associa un elevato arousal fisiologico. Inoltre le caratteristiche sgradevoli dei ricordi traumatici possono agire impedendo il riemergere di tali ricordi e mantenendo i pazienti lontani da qualsiasi attività che permetterebbe loro di abituarsi o desensibilizzarsi ai medesimi. Questo fenomeno può essere definito fallimento dell’elaborazione emozionale (15) che comporta appunto disturbi emozionali. Invece quando si realizza un’efficace rielaborazione i ricordi vengono assimilati e diminuiscono fino al punto che altre esperienze e comportamenti possono susseguirsi senza interruzioni. Per spiegare questo dal punto di vista neuroanatomico è stato suggerito (16)(17) che un’iperattivazione noradrenergica (come quella che si verifica durante gli eventi stressanti) sottopone alcune strutture del tronco encefalo, fra cui il Locus Coeruleus, ad un minor controllo corticale inibitorio per cui queste strutture possono poi presentare modificazioni sinaptiche. Proprio quest’ultime sarebbero causa di una ridotta capacità di abituarsi, sia per l’apprendimento di nuovi concetti sia per la capacità di discriminare. Esistono altre sostanze neurotrasmettitrici messe in relazione con il DPTS; oltre alla noradrenalina è citato infatti l’aumento di dopamina, in condizioni di stress acuto, a livello della corteccia prefrontale mediana. Tale aumento si verifica sia nell’esposizione a stress ripetuti sia nell’assunzione ripetuta di anfetamine. Il sistema dopaminergico prefrontale è coinvolto in funzioni cognitive superiori come l’attività mnemonica e l’attenzione, e quindi potrebbe essere coinvolto nei segni di ipervigilanza presentati dai pazienti con DPTS, attraverso le sue connessioni con Amigdala, Corteccia Entorinale e Locus Coeruleus.(12)(17) L’Amigdala e l’Ippocampo costituiscono il Sistema Limbico che già era stato individuato da Papez nel 1937 (18) come sede del comportamento motivato e delle emozioni. Soprattutto l’Amigdala, che presenta anche ricche connessioni con diversi sistemi sensitivi ed è altamente correlata con il Sistema Nervoso Simpatico, gioca un ruolo molto importante per quel che riguarda la valutazione emozionale degli stimoli in entrata ed anche con le risposte ai fattori sensoriali che ricordino il trauma subito(12). Lesioni al livello di tale organulo modificano infatti le risposte ai ricordi dal forte significato emozionale, come per esempio l’evitamento inibitorio o l’eccessiva reazione d’allarme(19)(20)(21)(22). Analogo risultato si ottiene con gli antagonisti del neurotrasmettitore N-metil-D-aspartato (NMDA) i cui recettori si trovano appunto a livello dell’Amigdala(12). Secondo LeDoux (22) le connessioni tra Talamo ed Amigdala sono responsabili di rapide reazioni a stimoli stressanti, mentre si sostiene che le connessioni tra Talamo Corteccia ed Amigdala siano alla base di reazioni più lente favorenti paure più complesse. A sua volta l’Ippocampo è correlato a varie funzioni cerebrali, fra queste l’elaborazione spazio temporale. Si ritiene che il sistema Settoippocampale (costituito da Ippocampo e Setto, Talamo Ventrale e Corteccia Cingolata) sia coinvolto nella valutazione di eventi correlati dal punto di vista spazio-temporale appunto, confrontandoli con le nozioni immagazzinate precedentemente e mettendoli in relazione attraverso fattori quali ricompensa-non ricompensa-punizione o novità (23). La lenta maturazione dell’Ippocampo, che non è mielinizzato sino al terzo quarto anno di età, è ritenuta la causa dell’amnesia infantile(24)(25). Inoltre, considerando che la risposta dell’organismo agli stress acuti comporta l’iperproduzione di glicocorticoidi, è stata studiata la relazione tra Ippocampo e cortisolo. L’Ippocampo presenta infatti due tipi di recettori, sia per i mineralcorticoidi che per i glucocorticoidi, che normalmente sono occupati per il 70% i primi e per il 10% i secondi dal cortisolo. Quest’ultimo aumenta nelle situazioni di stress arrivando ad occupare per l’70% i recettori mineralcorticoidi e per il 80% quelli glicocorticoidi. Questa sovraoccupazione dei recettori per i glucocorticoidi da parte del cortisolo sopprime l’eccitabilità neuronale ippocampale e così interferisce con il Potenziamento a Lungo Termine, uno dei meccanismi alla base della formazione della memoria. Il PLT infatti sopprime a sua volta un’area cerebrale responsabile della codificazione spazio temporale e ciò spiega come mai i ricordi associati ad esperienze traumatiche sono percepiti come senza tempo e senza confini. Infatti quando vengono scatenati in risposta a stimoli interni ed esterni si presentano come molto vivi e attuali per coloro che soffrono di DPTS. Sappiamo che la risposta agli stress coinvolge il Sistema Nervoso Simpatico che produce, attivandosi a livello surrenale, adrenalina noradrenalina e cortisolo e che è altamente correlato all’attività dell’Amigdala. Sappiamo anche che le connessioni tra Amigdala, Locus Coeruleus, Ippocampo e Neocorteccia Temporale sono state indicati come base anatomofisiologica del meccanismo della memoria(26). Alla luce di questo si può dire che l’aumentata innervazione noradrenergica causata da grave stress che determina un potenziamento a lungo termine delle suddette vie può essere considerata il correlato biologico dei flash back e degli incubi. Charney e collaboratori(12) propongono questo modello per lo sviluppo del DPTS: il trauma originale porta all’attivazione della noradrenalina, a livello del Locus Coeruleus, dell’Ippocampo, dell’Amigdala, dell’Ipotalamo e della Corteccia Cerebrale generando ansia, paura, irritabilità, iperarousal e predisposizione alla reazione di “fight or flight”. Si riscontra anche un aumento di dopamina a livello della Corteccia Frontale con l’attivazione dei neuroni dopaminergici a livello Mesocorticale e le possibili conseguenze di questa attivazione le abbiamo citate poc’anzi nei termini di alterazioni della memoria ed ipervigilanza successive al trauma. Inoltre si verifica un aumentato rilascio di oppioidi nella Corteccia e nell’Amigdala che sarebbe responsabile sia dell’analgesia percepita dal paziente al momento dell’evento traumatico (analgesia che permette la sopravvivenza all’evento stesso) sia del successivo offuscamento emozionale che si verifica nel DPTS (a questo proposito McIvor(16) osserva che l’automedicazione con oppioidi è la più comune forma di abuso nei pazienti affetti da DPTS). Infine, per quel che riguarda i disturbi del sonno di questi pazienti, sempre McIvor li ha correlato con il coinvolgimento, nell’evento traumatico, anche del Locus Coeruleus che è sede della regolazione fisiologica del sonno. Emisferi cerebrali e lateralizzazione: Esiste una quantità di evidenze in letteratura a favore di una specializzazione degli emisferi specialmente per le emozioni. Per cui è documentata una maggiore sensibilità dell’emisfero destro nell’elaborazione delle informazioni a maggior significato affettivo. Si ritiene come già precedentemente scritto, che l’Amigdala medi il condizionamento allo stimolo stressante e la risposta “fight and flight”. A riprova del ruolo chiave di questa struttura sta il fatto che è collegata al Tronco Encefalo in particolare ad uno dei suoi nuclei responsabile della reazione di sorpresa . Bremner e collaboratori dimostrarono nel 1996 (29) la lateralizzazione asimmetrica a livello dell’Ippocampo in 26 veterani del Vietnam rispetto a 22 controlli opportunamente scelti; in particolare l’Ippocampo destro risultava più piccolo in volume nella misura dell’8% rispetto ai controlli, e questa differenza non era presente nelle altre aree cerebrali prese in considerazione come riferimento. Con la prudenza che la scienza richiede, nonostante l’apparente ovvietà, bisogna asserire che tale studio porta a due conclusioni possibili: -che le minori dimensioni dell’Ippocampo fossero presenti anche alla nascita costituendo una predisposizione allo sviluppo del DPTS, oppure -che i gravi traumi subiti, attraverso l’aumentato rilascio di glucocorticoidi e di altri neurotrasmettitori, possano aver danneggiato l’Ippocampo diminuendone il volume, benché non sia chiaro il meccanismo. Oltre a ciò in un altro studio il medesimo autore nel 1995 (5) verificò una riduzione volumetrica ippocampale sinistra del 12% in 17 pazienti vittime di abusi sessuali infantili rispetto ai campioni attentamente scelti. Altre interessanti osservazioni riguardano lo studio con la tomografia ad emissione di positroni (PET) eseguito su pazienti sofferenti di DPTS e sottoposti durante l’esecuzione dell’esame all’ascolto di un racconto che ricordava il trauma subito. La PET riportò un significativo aumento del flusso sanguigno cerebrale regionale nelle strutture limbiche e paralimbiche di destra; inoltre l’Amigdala e la Corteccia visiva secondaria (Area 18 di Brodmann) risultarono altamente attivate. Si riscontrò invece una diminuzione significativa del flusso sanguigno a livello della Corteccia Temporale inferiore e nell’area di Broca, una regione dell’emisfero di sinistra ritenuta responsabile della costruzione di esperienze semantiche. Ciò si accorda con il fatto che i pazienti affetti da DPTS hanno difficoltà a ricostruire cognitivamente le loro esperienze traumatiche ed inoltre ciò dimostrerebbe che i ricordi traumatici vengono codificati in modo differente rispetto ai ricordi di eventi ordinari, probabilmente a causa dell’alto grado di arousal emozionale che accompagna tali eventi. Invece il verificato aumento del flusso sanguigno a livello della Corteccia visiva secondaria, durante la presentazione delle immagini traumatiche, suggerisce che l’attivazione delle strutture cerebrali sensitive potrebbe essere la causa dei fenomeni di “riesperienza” nel DPTS. A proposito delle immagini del trauma subito, si può dire che già nel 1889 Janet (31) aveva suggerito che le intense reazioni emozionali conseguenti al trauma avessero come risultato l’insorgenza di ricordi correlati all’evento, dissociati dalla coscienza e immagazzinati come sensazioni viscerali o immagini visive pronte ad emergere in un secondo momento come flashback e incubi accompagnati da sentimenti di ansia e panico. Brown e Kulik nel 1977 coniarono il termine di ricordi “flash-bulb” per esprimere il concetto che i ricordi, appunto, di eventi molto sconvolgenti rimangono a lungo freschi e vividi nella memoria e hanno principalmente le caratteristiche di ricordi non verbali. Sostennero inoltre che in casi di estrema gravità e sorpresa l’intero sistema mnemonico può essere destrutturato portando all’amnesia dell’evento. Brewin nel 1996 (32) propose l’esistenza di due livelli nella memoria in cui può collocarsi l’informazione del trauma: -a livello dei ricordi accessibili verbalmente, per cui alla nostra coscienza si presenta una ricostruzione dell’esperienza traumatica che può essere manipolata soprattutto con il coinvolgimento dell’emisfero sinistro -a livello dei ricordi scatenati da situazioni, che non sarebbero accessibili alla coscienza e non possono essere ricostruiti o manipolati. I ricordi flash-back ne sono una dimostrazione. Le persone traumatizzate possono sperimentare il terrore di rimanere senza parole (30), cioè l’incapacità di elaborare il grave stress subito cognitivamente, catturandolo con parole e simboli e alleviando la propria sofferenza con il comunicare ad altri quanto accaduto. Compito della terapia è anche favorire il processo di verbalizzazione del ricordo per poterlo “metabolizzare” positivamente. TEORIE PSICOLOGICHE Tim Dalgleish nel 1999 (3) ha cercato di individuare quali sono le diverse linee di pensiero su cui si fondano le spiegazioni razionali e gli approcci terapeutici al DPTS. Secondo tale autore è necessario che tali teorie assolvano determinati requisiti.: 1. trovare una spiegazione ai 3 problemi fondamentali nel quadro clinico del DPTS: l’esperienza di rivivere l’evento traumatico, l’iperarousal, i sintomi di evitamento. 2. spiegare tutta la gamma di reazioni individuali al trauma: l’apparente assenza di conseguenze emozionali, il DPTS acuto, il DPTS cronico e quello ad insorgenza tardiva, ecc. 3. spiegare gli effetti della variabilità degli eventi, della storia premorbosa di problemi psicologici, del supporto sociale, della tendenza ad attribuire significati particolari agli eventi ed ad esprimere le proprie emozioni 4. considerare l’efficacia dei trattamenti basati sull’esposizione (42) 5. fornire un coerente modello psicologico entro il quale possano realizzarsi le quattro condizioni precedenti Sono diversi gli approcci teorici alla terapia del DPTS: psicodinamico (Freud, 1919), teoria dell’apprendimento (Keane Zimmeriring e Caddell, 1985), quella psicobiologica (Van der Kolk, 1988) e quella cognitiva (Horowitz, 1986). Quest’ultima costituisce per il succitato autore, il metodo maggiormente esauriente. Le teorie cognitive sono in realtà diverse, accomunate dall’idea che gli individui vivono le esperienze traumatiche portando con sé un insieme di concetti e di modelli precostituiti del mondo, degli altri e di sé. Tali rappresentazioni mentali sono il prodotto delle precedenti esperienze individuali. L’evento traumatico fornisce all’individuo un’informazione che da una parte è altamente significativa mentre dall’altra è incompatibile con le sue concezioni preesistenti. Così a differenza di una informazione non significativa, che il sistema cognitivo può facilmente ignorare, o rispetto ad una informazione compatibile, che il sistema può facilmente assimilare, quella correlata al trauma, altamente significativa ma incompatibile, non può essere ignorata altrimenti genererebbe il caos psicologico per cui deve essere integrata. Secondo le teorie cognitive è proprio questo tentativo di integrazione fra le precedenti rappresentazioni mentali e le nuove informazioni che conduce ai diversi fenomeni caratteristici del DPTS. Una risoluzione negativa si ha quando gli individui non sono in grado di trovare questo accordo tra vecchie e nuove informazioni, di spiegarsi il perché. Horowitz è considerato il più autorevole studioso della sindrome di risposta allo stress, in maniera molto schematica possiamo cercare di riportare la sua tesi. Egli sostiene che il principale slancio all’interno del sistema cognitivo per l’elaborazione delle informazioni deriva dalla tendenza al completamento, cioè dal bisogno psicologico di far corrispondere le nuove informazioni con i modelli interni basati su informazioni precedenti, e la revisione di entrambi sino al punto di trovare un accordo. Questa tendenza al completamento consente alla mente di accordarsi con la realtà presente, requisito essenziale per prendere decisioni efficaci e perché l’individuo sia in equilibrio con l’ambiente. Horowitz ha sostenuto inoltre che dopo aver subito un trauma, si verifica un iniziale crying out o reazione di stordimento, seguito da un periodo di sovraccarico informativo, nel quale i pensieri, i ricordi e le immagini del trauma non riescono a conciliarsi con gli schemi cognitivi preesistenti ostacolando la tendenza al completamento. Come risultato Horowitz sostiene che un certo numero di difese psicologiche entrano in gioco nel mantenere l’informazione traumatica a livello inconscio e l’individuo sperimenta allora un periodo caratterizzato da anestesia affettiva e negazione nei confronti dell’evento. Comunque la tendenza al completamento mantiene le informazioni correlate al trauma in quella che Horowitz definisce memoria attiva. E’ quest’ultima che permette che le informazioni si facciano strada attraverso le difese e irrompano nella coscienza attraverso flash back, incubi, pensieri intrusivi, non appena l’individuo cerca di fondere le nuove informazioni con le concezioni preesistenti. Secondo Horowitz, questo conflitto tra la tendenza al completamento da una parte e ed i meccanismi psicologici di difesa dall’altra, fa sì che gli individui oscillino tra fasi caratterizzate da intrusività e negazioni/anestesia affettiva. L’impossibilità ad elaborare completamente le informazioni traumatiche fa sì che esse stazionino nella memoria attiva sino a cronicizzate il DPTS. Questa teoria, fondata sui presupposti del completamento, dell’intrusività e della negazione, pur presentando dei limiti, possiede una notevole capacità esplicativa rispetto alla sintomatologia del DPTS e a come esso possa cronicizzarsi, può spiegare inoltre l’efficacia dei trattamenti basati sull’esposizione. Nella figura successivamente riportata è schematizzata la sequela degli eventi secondo Horowitz. Periodo di ► Risoluzione oscillazione Crying out EVENTO TRAUMATICO ► o reazione di ► Sovraccarico ► tra informativo stordimento positiva Risoluzione intrusività parziale ed cronicizzazione evitamento ► del DPTS I PENSIERI INTRUSIVI. Questo argomento così importante per la DPTS mi è sembrato meritare un ulteriore paragrafo di approfondimento. Già da anni nell’ambito degli studi sulle reazioni ai traumi come per le nevrosi da guerra (33) sono documentati i pensieri intrusivi che difatti costituiscono un sintomo cardine del DPTS. Essi sono in realtà costituiti sia da immagini che da espressioni verbali. Gli studi più approfonditi sull’argomento sono stati compiuti da Rachmann e coll. oltre 20 anni fa (34) (35) (36) (37) (38) e descrivono sostanzialmente un quadro di cognizioni intrusive che inaspettatamente si presentano all’attenzione, sia caratterizzate da informazioni marcatamente negative (pensieri blasfemi o violenti) sia piacevoli o quotidiane (sogni ad occhi aperti, fantasie sentimentali o le fantasie che gli artisti chiamano ispirazione). Una definizione maggiormente esauriente viene da Salkovskis: “Le cognizioni intrusive sono eventi della mente che vengono percepiti come un’interruzione del flusso di coscienza e che catturano l’attenzione; queste possono presentarsi sottoforma di pensieri verbali, immagini, impulsi o una combinazione dei tre”. Non si tratta di eventi volontari. Secondo Rachmann (15) i criteri di definizione sono: 1. deve essere presente la descrizione del soggetto di essere stato interrotto durante un’altra attività dai pensieri intrusivi, o 2. il pensiero, l’immagine o l’impulso vengono descritti dal soggetto come provenienti dall’interno e difficilmente controllabili. Quest’ultimo punto è importante per distinguere dalle allucinazione psicotiche dei disturbi schizofrenici (situazione in cui, per esempio, il paziente riferisce che i pensieri gli vengono inseriti esternamente da alieni). Si sottolinea che le cognizioni intrusive si verificano anche nei soggetti normali della popolazione sana: Rachman (37) riporta in un suo studio che quasi l’80% dei soggetti non psicotici osservati mostrava pensieri intrusivi negativi come le ossessioni dei pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo. Invece altri autori enfatizzano il concetto che i pensieri intrusivi possono anche essere piacevoli, come i bei ricordi, o semplicemente neutri dal punto di vista emozionale.. Le cognizioni intrusive risultanti da uno stress sono ampiamente documentate. Gli stress possono anche essere indotti, come la visione di film con scene di forte violenza, possono far parte di una normale esistenza per esempio (38) i pensieri e le immagini intrusive di madri in ansia per l’intervento di tonsillectomia dei figli (“lo vedevo sdraiato come un vegetale e non si rialzava dopo l’intervento”). E come già detto possono esser il risultato di eventi particolarmente gravi. Lo studio Solomon (39) documentava la presenza di scene e pensieri ricorrenti nei soldati israeliani nel primo anno dopo l’evento traumatico. E’ dimostrato che le immagini sono più ricorrenti delle cognizioni verbali. Distinguere fra questi due tipi di ossessioni, visiva o verbale, risulta importante ai fini della scelta terapeutica: si ritiene che terapie basate sull’esposizione dovrebbero essere più adeguate a trattare le immagini intrusive, mentre un approccio cognitivo lo sarebbe per le cognizioni verbali. E’ interessante puntualizzare che esiste una minoranza di situazioni in cui altri sensi, oltre alla vista, sono coinvolti nel fenomeno dei pensieri intrusivi, alcuni pazienti infatti, vittime di gravi incidenti stradali, riferiscono di udire lo schianto e il rumore delle lamiere che si accartocciano, oppure l’odore del gasolio ed il suo sapore in bocca.(3) Come reagiscono le persone ai pensieri intrusivi? Innanzitutto si osserva che i pazienti reagiscono diversamente: generalmente sono fenomeni molto angoscianti, ma lo stesso grado di sofferenza che si associa a queste ossessioni è diverso fra paziente e paziente ed inoltre esistono persone che riescono a sopportarne il peso dissociando la componente emotiva. Comunque la risposta più comune alle cognizioni intrusive è il tentativo di allontanarle distraendosi. Altre forme di difesa sono costituite dall’evitare qualsiasi situazione che ricordi l’episodio doloroso (evitare di percorrere il tragitto in auto dove si è verificato l’incidente, evitare i programmi di disastri o violenze, evitare di parlare del trauma!). E’ stata comunque descritta una generale diminuzione della frequenza delle cognizioni intrusive con il passare del tempo (39). Ma oltre ai ricordi strettamente correlati all’evento traumatico, esistono anche altre forme di intrusività che aggiungono sofferenza ai pazienti affetti da DPTS, si tratta propriamente di pensieri, riflessioni domande su quanto accaduto che si presentano in maniera ossessiva anche perché sono senza risposta. Padmal de Silva e Melanine Marks (3) li distinguono in 3 categorie: cognizioni intrusive legate alla minaccia del pericolo (“sono al sicuro? Posso uscire di casa? Se muoio cosa accadrà ai miei figli?”) idee negative riguardanti il soggetto (“sono una persona sporca. Sono iellato”) pensieri e interrogativi sul significato dell’evento (“doveva proprio succedere? È stata colpa mia? Perché proprio a me?”) Secondo i sopra menzionati autori, questa tipologia di cognizioni intrusive è tipicamente correlata al DPTS sebbene sia sottostimata da molti clinici e non rientri nei criteri diagnostici del DSM IV. Essi hanno seguito il caso di una giovane donna vittima di incidente stradale che non presentava assolutamente memoria dell’evento in sé, piuttosto era tormentata da interrogativi come quelli riportati (“doveva succedere proprio a me? Sarò in grado di tornare a vivere normalmente?”) e soddisfaceva per il resto gli altri indicatori diagnostici del DPTS. Nell’ambito della sintomatologia dei pensieri intrusivi è stato distinto il fenomeno delle cognizioni compulsive. Tale definizione si ricollega volutamente al quadro dei disturbi ossessivi compulsivi perché il paziente si vede costretto a “dover compiere” azioni rituali. La caratteristica fondamentale di tali sintomi è appunto l’impellente necessità di mettere in atto questi comportamenti con forma e contenuti precostituiti, non modificabili e che disturbano il pensiero del soggetto. Ma a differenza dei pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo, tali pensieri non sono mai inappropriati o privi di senso, si collegano a specifiche esperienze vissute, il ricordo di tali esperienze, più che le compulsioni stesse come per i pazienti ossessivi, provoca il tipico arousal, ed inoltre non portano ad un vero e proprio comportamento compulsivo. Ecco alcuni esempi: ripetere dettagliatamente cosa è accaduto nell’evento traumatico rievocando, sempre secondo una determinata sequela, le immagini relative; pensare costantemente a cosa sarebbe accaduto se l’evento traumatico avesse comportato la morte del soggetto e quali sarebbero state le ripercussioni sulla famiglia; ripetere in continuazione determinate frasi: “non è colpa mia” (una paziente coinvolta in un grave incidente) “aveva vissuto bene” (un soldato sopravvissuto riguardo al compagno morto in battaglia). In alcuni casi queste compulsioni cognitive sono vissute dolorosamente e con resistenza dal paziente che può considerarle come il problema da superare, non così per altri pazienti. Perché si verificano i pensieri intrusivi? La risposta è ovviamente difficile. Tra le teorie più autorevoli citiamo Rachman (15), secondo cui le esperienze stressanti devono essere assorbite ed elaborate dal soggetto perché non ne risulti compromesso il suo funzionamento e la sua integrità; il trauma è un evento così grave che il soggetto fatica ad elaborarlo dal punto di vista emozionale e cognitivo. Per tale motivo il ricordo dell’evento tende a riaffiorare in molti modi tutti sgradevoli, per cui il soggetto tende nuovamente ad allontanare e rimuovere l’elaborazione del trauma. Questa teorie spiegherebbe l’origine e la persistenza dei pensieri intrusivi e si concilierebbe con il fatto che le terapie basate sull’esposizione e sulla elaborazione cognitiva nel DPTS portano a buoni risultati. Ma esiste un altro punto di vista, quello di Creamer (41) che vede nel ripetersi dei pensieri intrusivi la modalità con cui i circuiti della memoria, fortemente sollecitati dall’evento traumatico, tentano di adattarsi allo stesso sino a che, con il passare del tempo, le cognizioni intrusive si acquietano proprio perché si è portato a compimento questo meccanismo adattativo. In tale ottica vengono definiti da Creamer come disfunzionali quei pensieri che si associano ad un eccessivo arousal spingendo il paziente ad allontanarli ed ostacolando così il fenomeno dell’adattamento. Ciò trova il conforto di alcuni altri risultati sperimentali secondo i quali i pensieri intrusivi si esacerbano proprio in quei pazienti che si applicano ad evitarli e sopprimerli. CONCLUSIONI Non c’è certamente ancora un’univoca spiegazione biologica né psicologica dei meccanismi alla base del quadro clinico del Disturbo Post Traumatico da Stress o più semplicemente, se non vogliamo usare questa etichetta, possiamo dire dell’enorme sofferenza di chi ha subito un grave trauma. Lo scopo della ricerca deve essere volto a dare una spiegazione razionale dei sintomi tipici del DPTS. Ma certamente proseguire gli studi deve avere come obiettivo anche l’affinamento degli interventi terapeutici per alleviare il dolore di questi pazienti e migliorarne la vita. LE TERAPIE POSSIBILI farmacoterapie, approccio cognitivo, ERMR, debriefing, supporto sociale Il DPTS costituisce un grave problema sanitario. Nonostante sia stato misconosciuto per molto tempo, esso è in realtà molto diffuso ed invalidante. I sintomi psichiatrici, psicosomatici e fisici, le difficoltà nei rapporti familiari e sociali, il rischio di tossicodipendenza e di alcolismo, le diverse inabilità sociali che ad esso si associano ne sono una dimostrazione. Riguardo ai possibili trattamenti, prendendo in esame le terapie farmacologiche, possiamo dire che i tradizionali approcci con farmaci sedativi ed ansiolitici rappresentano una risposta superata ed anche errata alla luce degli studi sulle modificazioni del SNC conseguenti al trauma. Sui sintomi intrusivi e sull’evitamento sembrano essere utili i farmaci serotoninergici, come gli antidepressivi triciclici e gli inibitori della ricaptazione di serotonina. Invece sintomi attivi quali i flash-back, l’iperattivazione, gli incubi e l’ansia sembrano migliorare con i tradizionali farmaci antiepilettici quali valproato e carbamazepina. L’intervento farmacologico va inteso come supporto alle altre terapie, per permettere di raggiungere i casi più difficili in modo che possano partecipare alle psicoterapie individuali di gruppo o di comunità, e non ne rappresenta un’alternativa. Tuttavia alcune osservazione sembrano indicare nella somministrazione precoce di farmaci ai soggetti esposti al trauma un utile baluardo all’insorgenza del DPTS. Il punto di unione tra farmacoterapia e psicoterapia sembra essere l’azione comune su determinati recettori cerebrali. Riguardo alle psicoterapie, per molti anni le uniche armi a disposizione erano gli approcci psicodinamici. Attualmente hanno preso sempre maggior piede in psichiatria e psicologia clinica, le teorie cognitive e comportamentali, molto apprezzate per l’efficacia e la brevità dei trattamenti. In particolare sono state introdotte le tecniche incentrate sul condizionamento e sull’apprendimento. I metodi si basano sull’esposizione ed ad associate tecniche di rilassamento, di controllo dell’ansia per esempio agendo sul respiro etc. Il punto chiave rimane l’esposizione o confronto con le situazioni temute.. Purtroppo non esistono ancora trial randomizzati in doppio cieco con casi e controlli. A quanto si sa i limiti di tali interventi sono costituiti da un elevato tasso di drop out dei pazienti e dalla scarsa efficacia sui sintomi negativi del DPTS quali il ritiro sociale, la depressione, l’annullamento emozionale, l’evitamento. Hanno recentemente riscosso notevole successo le tecniche di desensibilizzazione e rielaborazione attraverso il movimento degli occhi (EMDR). E’ un tipo di intervento in origine diffuso specificatamente per il DPTS, ora applicato anche in altri ambiti, che è attualmente acclamato per la sua efficacia anche se bizzarro e privo di un razionale teorico. Si tratta di richiamare le immagini dell’evento traumatico muovendo sistematicamente e rapidamente gli occhi. Quanto tale movimento sia necessario è incerto, forse ha solo lo scopo di distrarre la persona che può quindi abituarsi ad esporsi alla situazione temuta. Si ipotizza tuttavia che questa tecnica possa avere un’influenza sui sistemi neurorecettoriali del SNC come l’elettroshock e la farmacoterapia perché come loro è in grado di produrre rapidamente una modificazione cosciente dello stato mentale. Debriefing. Il trattamento iniziale delle persone sotto shock, dato l’evento accaduto, deve consistere nel trovare un rifugio sicuro, riabbracciare i propri cari e soddisfare i bisogni primari. Successivamente si rende necessario il counselling. Riguardo a quest’ultimo sono importanti sia la tempestività: non troppo presto perché non sarebbe compreso dalle vittime, né troppo tardi!; sia la tipologia perché le risposte individuali sono molto differenti. In merito alla precocità dell’intervento si è osservato che quest’ultima sembra essere efficace nel prevenire la cronicizzazione del disturbo (osservazione simile è stata fatta anche per la farmacoterapia). In questo senso si inserisce la tecnica del debriefing originariamente adottata per il trattamento dei militari. Attualmente la procedura di debriefing maggiormente descritta in letteratura è quella della Critical Incident Stress Debriefing elaborata nel 1983 da Mitchell (3) per applicarla ai vigili del fuoco. E’ una sorta di breve terapia di gruppo per aiutare i pompieri reduci da interventi molto brutti, essa ha riscosso buon successo. Per la precisione consta di un intervento della durata di 2-3 ore distinto in 7 fasi: -fase introduttiva, in cui si spiegano le modalità e gli scopi -fase dei fatti, ognuno descrive brevemente il proprio ruolo nell’incidente e la propria esperienza, ciò aiuta a chiarire la natura e la sequenza degli eventi facendo svanire equivoci ed interpretazioni errate -fase dei pensieri, ognuno esprime il proprio pensiero predominante durante l’incidente -fase delle reazioni che è la più potente emotivamente perché viene domandato quale momento dell’incidente è risultato più doloroso e quale è risultato il più difficile da metabolizzare successivamente all’incidente -fase del sintomo, qualsiasi, sia fisico che psicologico, avvertito durante l’incidente deve essere riferito -fase dell’insegnamento, durante la quale chi conduce l’incontro spiega il perché delle reazioni avute e come superarle per non esserne schiacciati -fase finale per gli ultimi chiarimenti o dubbi personali. Questo è uno degli esempi di debriefing. Tali interventi devono essere fatti da personale esperto che sappia individuare bene le esigenze dei pazienti distinguendo per esempio fra vittime soccorritori e valutando le differenze individuali. Terapeuti inesperti possono aumentare i danni sui pazienti piuttosto che diminuirli. L’importanza delle competenze si sta dibattendo attualmente soprattutto per la nascente figura dell’esperto in traumi che si contrappone alle tradizionali figure di esperti di salute mentale e che genera perplessità. Supporto sociale: questa espressione si riferisce ai complessi e dinamici meccanismi di relazioni interpersonali che proteggono il soggetto dall’insorgenza di disturbi fisici e psichici. E’ stato ben individuato in letteratura il terribile bisogno di parlare che hanno le vittime di traumi, tanto che si è ipotizzata un’equivalenza tra infezione e febbre da un lato sofferenza psicologica e auto rivelazione dall’altro. Questo concetto è alla base dell’intervento di supporto della crisi: avere a disposizione persone che abbiano semplicemente la volontà di ascoltare in un atteggiamento di empatia senza peggiorare lo stato emozionale del paziente. Per misurare l’adeguatezza del conforto rivevuto/somministrato è stata ideata la Crisis Support Scale, uno scala di auto valutazione a 6 items che misura il grado di conforto ricevuto in relazione al tipo di evento traumatico ed in quali tempi. E’ stato studiato che un buon numero di interventi di supporto sono predittivi di una minore probabilità di sviluppare comportamenti evitanti e sono inversamente proporzionali allo sviluppo successivo di depressione ed ansia, dimostrando con evidenza il ruolo protettivo del supporto sociale. E’ quasi commovente constatare che gli esseri umani hanno così bisogno di affetto ed attenzioni; come i neonati se non sono amorevolmente curati presentano gravi e persino irreparabili deficit organici e non solo del SNC, sino alla morte come avveniva negli orfanotrofi, così le vittime di gravi traumi necessitano di un conforto umano che le preservi dallo sviluppare in seguito comportamenti psicopatologici cronici. A tale proposito può essere citata una novella di Checov, in cui un anziano stalliere, nel giorno in cui aveva improvvisamente perso suo figlio, si era ritrovato ad incontrare numerose persone ignare e frettolose, nessuna delle quali gli aveva offerto la possibilità di condividere il suo immenso dolore, sino a che egli non si era ritrovato, piangente, a parlare abbracciato al collo del suo cavallo. A parte questo intervallo letterario, le spiegazioni scientifiche che si danno al bisogno, per quanto ovvio questo possa sembrare, di relazioni interpersonali soprattutto nei momenti di dolore, si basano su diverse ipotesi, fra cui l’attaccamento e la solitudine. Riguardo all’attaccamento, esso è un bisogno insito nell’animo umano per cui si necessita di relazioni sociali, pena la perdita della salute psicologica, anche in assenza di eventi stressanti. I traumi spesso si associano a distruttive modificazioni della rete di relazioni sociali. Alcuni studiosi distinguono l’attaccamento in sicuro, ansioso-evitante, ansioso-ambivalente a seconda che porti a relazioni salde basate su intimità e fiducia, oppure basate sulla paura dell’intimità e della dipendenza da altri, oppure, infine, fondate sulla gelosia e la preoccupazione di essere abbandonati. Ciò rifletterebbe nell’adulto il tipo di relazione che il bambino aveva con i propri genitori, ed ovviamente porta a sviluppare reazioni diverse in caso di traumi. Mikulincer e coll.(42) verificarono che i soggetti con attaccamento sicuro, in seguito all’attacco missilistico irakeno sulle città israeliane durante la guerra del Golfo, mostravano minori livelli di ansia e richiesta di più alti livelli di supporto sociale rispetto alle personalità evitanti. La solitudine può essere distinta in emozionale e sociale, la prima deriva dalla mancanza di un intimo attaccamento ad un’altra persona, la seconda dalla mancanza di una rete di rapporti sociali. Vi sono tuttavia soggetti che hanno stabilmente la percezione della solitudine, derivante da una notevole discrepanza tra il livello di relazioni desiderato e quello ottenuto. Ciò che si può opporre al supporto sociale è anche un sintomo stesso del DPTS cioè il ritiro sociale ed il successivo ripiegamento su di sé dei pazienti, questi sono anche fattori predittivi di maggior gravità del DPTS stesso. Il supporto sociale è un’entità multifattoriale che si può considerare distinta in: 1. emozionale, cerca di favorire nel soggetto la percezione di essere benvoluto stimato accettato e sembra essere quello maggiormente utile di fronte ai traumi da eventi incontrollabili 2. pratico, cerca di fornire alla persona aiuti materiali 3. cognitivo, cerca di fornire consigli, nozioni, risposte; è in genere ciò di cui abbisognano successivamente le vittime quando devono cercare di elaborare le informazioni cognitive conseguenti all’evento stressante. Come sempre il tipo di aiuto deve essere calibrato sui bisogni della persona, sul contesto e il particolare tipo di evento traumatico che ha generato la situazione di emergenza, ed anche in base ad una sequenza temporale per cui in genere le vittime hanno bisogni diversi a seconda del tempo intercorso dall’episodio traumatico. CAPITOLO 2 L’esperienza di Mollica Richard F. Mollica insegna psichiatria alla Harvard Medical School. Nel 1981 è stato tra i fondatori dell’ Harvard Program in Refugee Trauma, uno dei primi centri clinici creati negli Stati Uniti per i sopravvissuti alle violenze ed alle torture di massa. In questo capitolo cercherò di descrivere quanto ho appreso dalla lettura di alcuni testi relativi al suo lavoro. In un suo articolo comparso su Le Scienze nel Settembre 2000 (43) Mollica spiega le ragioni del suo lavoro. Il presupposto è che “finalmente si cominciano a prendere in considerazione i disastrosi effetti della guerra sulla salute mentale dei civili”. Sino ad alcuni decenni fa l’orientamento teorico della scienza e della morale comune di fronte alle violenze che potevano essere inflitte a vittime innocenti, durante le guerre in seguito a stupri o ad abusi infantili o altri eventi traumatici da cause naturali, era di invitare il soggetto a rafforzarsi e a non pensare più a quanto accaduto. L’attenzione era concentrata sui disagi e le ferite fisiche , sui bisogni materiali; si faticava a vedere bene le ferite dell’anima quindi non venivano prese in considerazione perché fossero curate. Il Disturbo Post Traumatico da Stress è stato ufficialmente riconosciuto nel 1980 sul DSM III inizialmente sulla base delle osservazioni condotte sui reduci delle guerre di Corea e Vietnam. Ma è solo negli ultimi due decenni che gli studiosi hanno preso maggiormente in considerazione le conseguenze dei conflitti sulle popolazioni civili. Questi studi stanno rivoluzionando il modo di intervenire per arginare i danni devastanti delle guerre. Nel 1988 l’ Harvard Program in Refugee Trauma inviò una squadra di psichiatri nel maggiore dei campi profughi cambogiani ai confini con la Tailandia, il Site 2. Dei 993 ospiti intervistati, vittime di torture massacri stupri rapine devastazioni, nessuno godeva di un supporto psicologico per fronteggiare l’enorme carico di sofferenza psichica (44). Gli effetti delle violenze di massa sulla salute mentale sono invisibili e si fatica a comprenderli senza una adeguata preparazione. Le differenze culturali tra i soccorritori e le popolazioni scampate ai conflitti non ne aiutano la comprensione. Inoltre le stesse vittime hanno difficoltà e pudore a parlare delle atrocità subite, ed i soccorritori faticano a concepire un così grande orrore. Si instaurano una sorta di incredulità e disinteresse difensivi da parte di chi non ha subito le medesime atrocità, quasi a non voler accettare l’idea di tanto male; ma questo costituisce un’ulteriore sofferenza e motivo di solitudine per i sopravvissuti. Secondo Mollica sono almeno 6 le scoperte basilari che hanno fatto progredire la scienza nell’assistenza a queste vittime. In primo luogo esiste un netto picco di incidenza di gravi malattie psichiatriche tra i soggetti sopravvissuti alla guerra. I progressi nell’epidemiologia psichiatricacampionamenti casuali e rappresentativi delle popolazioni, utilizzazione di intervistatori e sviluppo di criteri diagnostici standardizzati anche per culture diversehanno fornito i primi dati affidabili. Lo studio eseguito dall’HPRT sui rifugiati cambogiani ha evidenziato livelli di depressione clinica acuta e di DPTS pari rispettivamente al 68 e 37 per cento. Analoghe cifre si sono riscontrate tra i profughi bhutanesi in Nepal e bosniaci in Croazia. Prendendo a termine di paragone la popolazione normale, in questa le percentuali si abbassano rispettivamente al 10 e all’8 per cento. La seconda scoperta riguarda il fatto che la natura del trauma può essere misurata in modo rigoroso. Di solito gli psichiatri si preoccupavano del fatto che studiare le esperienze traumatiche in un paziente potesse provocargli ulteriori sofferenze. Ritenevano inoltre che i pazienti fornissero resoconti imprecisi. Ma a partire dai primi anni ‘80 ha preso piede una nuova corrente di idee in medicina, legata ad associazioni quali Amnesty International. I ricercatori impegnati nel campo dei diritti umani hanno sviluppato un metodo sistematico che combina vari tipi di esami clinici per verificare l’accuratezza dei racconti. Lo stesso Mollica racconta che nella sua esperienza con i pazienti indocinesi ne aveva constatato l’incapacità a descrivere le atrocità subite in interviste aperte. Per questo nella sua clinica si era ricorsi ad un semplice strumento di screening noto come Hopkins Symptom Checkclist, ampiamente utilizzato per la popolazione generale sin dagli anni ‘50. Esso è composto da una serie di domande esauribili in 15 minuti e che indagano la presenza di sintomi come la stanchezza, i disturbi del sonno o le idee suicide. Una volta che ne fu fornita una versione indocinese, i pazienti riuscirono a raccontare le loro reazioni emotive senza angosce.. Una versione ulteriormente modificata di questo test, l’Harvard Trauma Question Post Traumatic Stress Disease, centra l’attenzione sugli eventi traumatici ed i sintomi tipici del DPTS. Attualmente tale questionario esiste in più di 25 lingue, con versioni adattate ai diversi contesti culturali. La terza scoperta riguarda una comprensione più approfondita, grazie anche all’etnopsichiatria, del modo di concepire le malattie mentali nei paesi non occidentali. In molte società non sono i medici ma i guaritori tradizionali e gli anziani che si prendono cura del disagio psichico. Tuttavia può residuare una fetta di popolazione che i guaritori tradizionali non riescono a trattare e i medici occidentali misconoscono perché presenta sintomi aspecifici o sfuggenti. Per questo sono stati fatti lavori di catalogazione dei sintomi e delle diagnosi secondo la medicina dei guaritori tradizionali, cosicché i medici occidentali possano identificare la malattia mentale utilizzando i linguaggi locali. La quarta scoperta si basa sull’osservazione che alcune particolari esperienze traumatiche conducono più di altre a sviluppare depressione o DPTS. Per esempio, nell’esperienza di Mollica, tra i rifugiati cambogiani del Site 2 gli eventi maggiormente traumatizzanti erano costituiti da percosse sulla testa, morte di bambini per fame o per omicidio, o la prigionia; mentre la morte di soggetti adulti o la perdita/distruzione delle proprie abitazioni non avevano lo stesso impatto traumatico. La quinta scoperta riguarda le modificazioni organiche cerebrali permanenti conseguenti a stress estremi. Nei primi anni sessanta il ricercatore norvegese Leo Eitinger e i suoi colleghi scoprirono un legame tra i traumi cranici ed i sintomi psichiatrici fra i sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti.. Analogamente anni dopo si osservò una relazione fra danni cerebrali e percosse subite dai prigionieri americani della seconda guerra mondiale e dei conflitti coreano e vietnamita. Ole Rasmussen e colleghi studiarono 200 vittime civili di torture, il 64% aveva danni neurologici. Anche senza una causa fisica diretta, la sofferenza psichica può danneggiare il cervello. Alcuni studi disponibili sui pazienti affetti da DPTS dimostrano, per esempio, la riduzione di volume dell’Ippocampo destro, come già detto nel precedente capitolo. La sesta ed ultima scoperta dimostra l’esistenza di una connessione tra sofferenza mentale ed inadeguatezza sociale. Tra i rifugiati bosniaci che vivono in Croazia e che sono seguiti dai programmi di Mollica, uno su quattro presenta inabilità sociale: incapacità di lavorare, di prendersi cura della famiglia, di partecipare ad attività socialmente produttive. Gli effetti a lungo termine di questi problemi mentali non sono ancora noti. Una recente ricerca condotta su una popolazione danese ha rivelato che le persone che erano state vittime della persecuzione nazista presentavano tassi di disturbo post traumatico superiori alla norma nel successivo periodo di 50 anni. Questi traumi possono avere effetti transgenerazionali: i ricercatori hanno notato tassi di disturbo mentale anche nei figli di sopravvissuti all’Olocausto maggiori rispetto ad un gruppo di confronto formato da ebrei non traumatizzati. E’ una questione più che mai aperta per cui risulterebbe rischioso azzardare spiegazioni eziologiche. Per capire le conseguenze a lungo termine della guerra è in corso uno studio longitudinale in Bosnia ad opera di Mollica e collaboratori. La tesi di fondo è che sebbene un numero relativamente piccolo di sopravvissuti alle violenze di massa presenti malattie mentali gravi ed in acuto tali da richiedere un intervento psichiatrico intenso, la grande maggioranza soffra di problemi mentali di minore gravità ma di lunga durata. L’esaurimento fisico, l’odio, la sfiducia, l’apatia sono una realtà pervasiva che può perdurare a lungo minando la buona salute dell’individuo e della società stessa di cui fa parte, frenandone lo sviluppo sociale ed economico. Solo negli ultimi anni le organizzazioni mondiali hanno preso atto di ciò. L’OMS ha pubblicato numerosi studi e Linee Guida su come gestire programmi di interventi umanitari in zone di emergenza (45). La Banca Mondiale per esempio ha riconosciuto che i vecchi modelli di sviluppo non funzionano più per le nazioni devastate dalle guerre e che se ne devono elaborare altri. Le agenzie umanitarie internazionali hanno messo in piedi cliniche psichiatriche con personale locale nelle zone devastate come Cambogia e Timor Est. In Sudafrica ed in Bosnia i medici locali sono apparsi in televisione per spiegare alla popolazione quali problemi possono sorgere e quali siano i mezzi di cura. All’interno del programma di Mollica stanno nascendo microimprese per aiutare le persone depresse a rientrare nel mondo del lavoro produttivo. Secondo le stesse parole di Mollica, “questi sforzi sono molto importanti per rompere il circolo vizioso di letargia e desiderio di vendetta che affligge un’area sempre più vasta del mondo”. Nel loro lavoro Mollica e l’Harvard Program in Refugee Trauma (HPRT), hanno dovuto affrontare e conciliare le diversità culturali (44), come dimostrano gli sforzi fatti con i profughi cambogiani di valorizzare i guaritori tradizionali, gli anziani dei villaggi e i riti dei monaci buddisti con la medicina tradizionale occidentale. Questa linea di condotta ha portato i medici occidentali dell’HPRT a coniare il termine di CED, ovvero Cambodian Categories of Emotional Distress, individuando così le malattie mentali e le relative conoscenze tramandate oralmente in Cambogia. Inoltre, riconoscendo l’importanza di una triplice modalità propriamente cambogiana di prendersi cura delle malattie, è stato individuato l’acronimo KCBM, ovvero: 1. Kruu khmer healing practices, ovvero i guaritori tradizionali che utilizzano erbe medicinali, amuleti, rituali, incantesimi, ecc 2. cambodian and western styles of Counselling, il counselling appunto attuato sia dai guaritori tradizionali o dagli anziani dei villaggi, sia da medici occidentali 3. Buddhism, la medicina dei monaci buddisti che si avvale di riti religiosi, medicinali a base di erbe e meditazione 4. western Medication, si riferisce alla diagnosi ed ai trattamenti del DSM Tutto questo nello sforzo di armonizzare le differenze culturali a beneficio dei pazienti. Sappiamo (3) che i sintomi principali del DPTS sono sostanzialmente i medesimi in tutte le società umane ed etnie. Per esempio nell’ambito del CED, di cui abbiamo appena parlato, il DPTS prende il nome di Tierur-na-kam ed indica la sintomatologia, simile a quella descritta nel DSM IV, di chi è stato vittima di torture o atti crudeli e barbarici. Certo è però che le differenze culturali giocano un ruolo importante soprattutto nella manifestazione di certi sintomi piuttosto che altri. Williams, psichiatra di un battaglione inglese stanziato nel Bruma durante la seconda guerra mondiale, osservò che i militari inglesi mostravano un maggior tasso di malattie psichiatriche rispetto ai commilitoni indiani soprattutto relativamente ai sintomi d’ansia e crisi di pianto. Ciò era imputabile al retaggio culturale che gli indiani subivano considerando un’onta molto grave perdere il controllo, piuttosto presso di loro i disturbi di isteria erano maggiormente rappresenti. Anche studi sui profughi afgani dimostrano che se la sintomatologia del DPTS consistente in grave disforia, disturbi del sonno, perdita dell’appetito era manifestata da tali pazienti, non così i sintomi considerati socialmente inaccettabili quali crisi di pianto, sensi di colpa, idee suicide e tentativi di suicidio. Pure nella terapia il confronto fra diverse culture deve essere attento e proficuo: da una parte per non ledere le vittime con atti terapeutici inadeguati alla loro sensibilità, dall’altra per cogliere qualsiasi spunto valido da culture diverse per la trattazione del trauma. Per esempio sono stati studiati i rituali di purificazione degli indiani d’America, uno in particolare l’Inipi Orinare, ovvero Sweat Lodge, ovvero Dolce Alloggio. Tale evento religioso collettivo di ringraziamento e perdono, veniva vissuto da tutta la tribù che gli attribuiva, con molta convinzione, significati di introspezione personale, crescita spirituale ed umana, guarigione fisica e psichica attraverso un profondo senso della collettività. Tale rito è stato studiato ed adattato in via sperimentale in alcune terapie di gruppo a pazienti vittime di DPTS con buoni risultati (46). CAPITOLO 3 L’esperienza palestinese Quest’anno, dal 18 al 23 Agosto, sono stata a Gerusalemme. Avevo preso contatti con la Cooperazione Italiana perché desideravo fare esperienza, seppure in così poco tempo e proprio in quella terra così martoriata dalla guerra, di come si tenta di aiutare la popolazione civile rispetto ai traumi da guerra in corso. Sono stata accolta davvero con tanta generosa amicizia dalla dr.ssa Loredana Savarino, psicologa, e da suo marito Claudio, funzionario della Cooperazione. In particolare Loredana è stata la mia guida, con tutte le valenze che si possono dare a questo termine, nella comprensione di cosa sia questo lavoro all’estero. Loredana è responsabile di un progetto umanitario a Beit Rima, che descriverò in seguito e che è principalmente diretto alla popolazione infantile. Prima di tutto ritengo opportuno fornire una descrizione generale della situazione palestinese avvalendomi del rapporto datato Luglio 2003: “A psychosocial assessment of palestinian children”. Tale studio è stato condotto da un’ONG palestinese (NPA: National Plan of Action for palestinian children, nella persona del dr Cairo Arafat) e dall’ONG statunitense Save the Children (nella persona del dr Nei Boothby, professor of pubblic health alla Columbia University). Le prevedibili ragioni per cui è stato steso questo studio, sono dovute alle segnalazioni di sofferenze psicologiche nella popolazione infantile a seguito dello scoppio della seconda Intifada. Lo studio è stato progettato per cogliere principalmente come i bambini stessi percepiscono la propria situazione e per fornire loro un open forum in cui esprimersi. Nei mesi di Luglio e Agosto 2002 sono stati reclutati 1266 bambini palestinesi fra i 5 ed i 17 anni che hanno formato un campione randomizzato e stratificato di soggetti in cui equamente erano rappresentati maschi e femmine, residenti in città, aree rurali e campi profughi e, infine, il 61% proveniva dai territori della West Bank mentre il 39% dalla striscia di Gaza. Dall’ascolto e dall’osservazione dei bambini è stato constatato che il 93% riferisce di sentirsi esposto ad attacchi e non sicuro, temendo non solo per la propria incolumità ma anche per quella di amici e familiari. Almeno il 48% di loro ha vissuto personalmente situazioni di violenza armata o ne è stato testimone riguardo ai propri cari; il 21% ha dovuto lasciare la propria realtà per temporanee o definitive ragioni di sicurezza. I più colpiti sono i bambini della striscia di Gaza rispetto ai territori della West Bank e i bambini dei campi profughi o delle città rispetto alle aree rurali. Lo stress sopportato dai bambini palestinesi è aumentato dalla diffusa percezione che i loro genitori non possono sempre e comunque rispondere al loro bisogno di cura e protezione, ciò è sentito dal 52% dei bambini soprattutto dai più grandi fra loro. Oltretutto le limitazioni materiali e finanziarie e la perdita di controllo sugli eventi esterni, rende le stesse persone che dovrebbero dare protezione ai bambini, cioè i genitori e gli insegnanti, sfiduciati, frustrati ed insicuri nelle loro capacità, impoveriti nelle loro risorse mentali ed emotive. In questo contesto non risulta strano constatare che 9 su 10 genitori descrivono sintomi da reazione post traumatica nei loro bambini come incubi notturni, enuresi, aumento dell’aggressività, iperattività, così come calo dell’attenzione e della concentrazione. Una minoranza di genitori, 5-8%, hanno notato nei loro figli idee ossessive di vendetta e di morte. A dispetto delle avverse circostanze, tuttavia, in questo studio i bambini palestinesi si sono dimostrati provvisti di resistenze psicologiche e meccanismi di difesa evidenziati da una mantenuta fiducia nel futuro. Infatti il 70% di loro continua a sentirsi in grado di poter migliorare la propria vita principalmente impegnandosi a maturare da un punto di vista scolastico, ma anche personale e sociale. Inoltre il 71% di questi ragazzi dimostra di incanalare costruttivamente le proprie energie in attività positive e non violente. Il 96% dei ragazzi contattati continua a vedere nell’istruzione l’arma più idonea per assicurarsi un futuro migliore e per portare ad una risoluzione non violenta dell’occupazione in corso; tutto ciò nonostante l’allarme di genitori e insegnanti sul calo di attenzione e concentrazione dei ragazzi. In maniera concomitante la scuola è cresciuta d’importanza anche come social forum e risorsa di supporto ai bambini, non ci sono altrimenti alternative per incontrarsi con i propri coetanei in attività ricreative ed informali. I genitori stessi non incoraggiano i bambini ad uscire di casa temendo i pericoli dell’ambiente esterno. Ciò è molto frustrante per i bambini che si sentono limitati nelle loro libertà personali e nella possibilità di parlare con i loro coetanei scambiandosi opinioni, cosa che appare per loro più importante che giocare.. Oltre a focalizzarsi sulla scuola, le altre attività positive in cui i bambini riversano le loro energie sono l’aiuto domestico ai genitori, ed alla comunità, la partecipazione a dimostrazioni pacifiche. Il 71% dei bambini considera importante resistere attivamente all’occupazione per lo più concentrandosi in azioni non violente e pacifiste. Un gruppo minore (21%) si dimostra più concentrato sull’autodifesa chiudendosi in casa e tenendosi lontano dai pericoli. Solo una minoranza pari al 7% considera importante il sacrificio personale e violento nel conflitto come soldati o martiri. Per quel che riguarda i genitori, l’ambiente esterno così pericoloso è percepito ovviamente come incontrollabile da loro, ma persiste il senso di dovere e responsabilità nei confronti dei loro bambini anche se il 43% degli intervistati si dimostra sfiduciato nella capacità di prendersi cura dei propri figli proteggendoli, nella convinzione che superiori cambiamenti in campo politico ed economico debbano verificarsi prima che essi riacquistino di nuovo la capacità di tutelare appieno i propri figli. A dispetto di questa loro stessa sofferenza, la maggior parte dei genitori è consapevole dell’importanza della propria funzione di supportare i figli alleviando i rischi di gravi danni psicologici a lungo termine. Sono quindi attenti osservatori del cambiamento nella condotta dei loro figli che considerano una normale reazione ad una situazione eccezionalmente grave. Al pari dei loro bambini sono convinti dell’importanza della scuola e degli scambi reciproci fra i bambini stessi, nonché dell’importanza di un proficuo dialogo tra genitori e figli, nonostante le difficoltà ad attuarlo. Il 65% dei genitori riporta significativi scambi con i propri figli, attraverso il dialogo, meno soddisfacenti per un 12%, totalmente inesistenti per un 23%. Pure è sorprendente il grado di inconsapevolezza che alcuni genitori hanno rispetto al loro ruolo di modelli per i figli, ma ciò riflette il loro calo nell’autostima. Riguardo agli insegnanti, essi pure sono consapevoli dell’importanza della scuola nell’aiutare appunto i ragazzi ad adattarsi ed ad affrontare la difficile situazione che vivono. Quasi il 90% di loro sostiene che i risultati ottenuti dagli alunni migliorano se viene lasciato loro il tempo ed il modo di esprimere pensieri ed emozioni in classe, oppure quando è loro permesso di svolgere attività fisiche od artistiche, o quando hanno l’opportunità di esprimere e confrontarsi con le loro stesse emozioni durante le normali attività scolastiche. Il 57% degli insegnanti ed il 60% dei ragazzi trovano che il rapporto reciproco sia migliorato dall’inizio dell’intifada; per il 12% degli insegnanti ed il 10% degli alunni invece i rapporti reciproci si sono deteriorati. In accordo a questi risultati, questo studio propone un triplice intervento per migliorare le condizioni dei bambini, agendo appunto nel sostegno diretto ai ragazzi, ai genitori ed agli insegnanti. Nello specifico lo studio si raccomanda che: 1. i programmi ristabiliscano il più possibile una condizione di normalità anche coinvolgendo le realtà civili, per offrire ai ragazzi occasioni ricreative, sportive e culturali 2. sia fornito un supporto finalizzato a rendere consapevoli i ragazzi dei loro sintomi psicologici e del loro significato, ciò agendo anche sui genitori e fornendo a questi stessi un similare supporto psicologico 3. oltre alle normali attività scolastiche sia data l’opportunità ai bambini di trovarsi in centri dove ulteriormente sia consentito loro di crescere e ricrearsi nel gioco e nel confronto reciproco. In aggiunta dovrebbe esser fornito un adeguato counselling anche agli insegnanti. In questa linea si colloca anche il progetto italiano a Beit Rima. Questa è una cittadina palestinese sita nei pressi di Gerusalemme all’interno della West Bank, dove, prima di quest’ultima intifada, la popolazione godeva di un buon livello socio economico. Ora invece il crollo del turismo e delle attività commerciali ha portato povertà e disoccupazione come in molte altre zone palestinesi, provocando ovviamente un generale clima di malessere, depressione, apatia e sfiducia nel futuro. Lo scopo del progetto è quello di fornire un supporto ai bambini di Beit Rima coinvolgendo in questo alcune donne della stessa città nel ruolo di “facilitatori” (ovvero educatrici/animatrici), attraverso l’apertura di un centro ricreativo. Ho potuto visitare personalmente il centro e leggere la documentazione descrittiva di questa iniziativa. Questo progetto si attua attraverso tre differenti approcci: 1. ricreativo, 2. educativo e 3. terapeutico. Il primo mira a permettere di scaricare l’aggressività e le frustrazioni accumulate dai bambini attraverso una via controllabile e positiva. Il secondo ha come scopo di insegnare ai bambini gli strumenti e le strategie per risolvere positivamente i conflitti ed i problemi nella prospettiva di migliorare ora ma anche nella loro futura vita adulta, qualità di vita e relazioni sociali. Il terzo punta l’attenzione sull’autostima, la comunicazione, la capacità di attenzione e di concentrazioni e i disturbi del linguaggio dei bambini. L’attività del centro consiste nell’apertura quotidiana per 3 o 4 ore, distinte in due turni di un’ora e mezza o due ciascuno, sette giorni su sette ai bambini fra i 6 ed i 12 anni. E’ gestito da 6 donne, le quali hanno un giorno libero a turno nella settimana ma tutte lavorano il venerdì per organizzare attività ricreative maggiori nel giorno di festa e permettere a quanti più bambini possibile di parteciparvi. Il centro può accogliere 100 bambini al giorno distinti in due turni da 50, ciascun turno prevede l’ulteriore distribuzione dei bambini in 5 gruppi. Ogni gruppo è guidato da un “facilitatore” che coinvolge in bambini in giochi adatti alle fasce di età, per esempio: Attività di gruppo Espressività Sport e giochi Letteratura Da 6 a 8 anni Da 9 a 12 anni Gioco della sabbia* Gioco della sabbia Basket e pallavolo Basket e pallavolo Novelle sui diritti dei Novelle sui diritti dei bambini bambini Giochi simbolici attraverso Stage di disegno e di Arti 1 l’uso di giocattoli, disegno pittura e pittura Teatro di burattini, danza Teatro e danza Arti 2 • si tratta di un gioco di introspezione che mostra molto efficacemente la personalità del bambino lasciato libero di manipolare come vuole la sabbia Queste attività devono essere la realizzazione nella pratica dei 3 approcci/scopi di cui abbiamo parlato prima; in particolare: 1. ricreativo, i giochi che i bambini possono fare nel centro sono sicuramente diversi da qualsiasi altra opportunità che viene loro offerta in questa area rurale 2. educativo, questo è l’incarico principale dei “facilitatori” attraverso il loro modo di guidare i bambini. Importanti obiettivi devono essere: risolvere i problemi senza usare aggressività o violenza, rispettare le regole collettive, rispettare gli spazi comuni, assumere atteggiamenti attivi e responsabili rispetto all’apprendimento, alle informazioni e alla vita in generale.. Le attività vanno scelte allo scopo sia di favorire quanto più è possibile lo sviluppo mentale dei bambini in base alla loro età, sia di influire positivamente sulla loro personalità in termini di pensiero razionale, doti artistiche ed espressive, comunicazione, educazione artistica e coordinazione. 3. terapeutico, quest’ultimo è demandato in particolare alle attività di teatro e gioco della sabbia. Si considerano diretti beneficiari di questo progetto sia i bambini che i “facilitatori” Gli uni, anche in base a quanto confermato dai loro genitori, stanno maturando cambiamenti positivi nella loro condotta quotidiana, soprattutto per ciò che riguarda la concentrazione, l’iperattività, l’aggressività nei confronti degli adulti o dei loro coetanei, il generale benessere. Questa maturazione si è resa evidente nel corso dei mesi di apertura del centro attraverso una fase iniziale in cui i bambini erano tristi e sfiduciati, una successiva di grande confusione per il manifestarsi dell’aggressività e delle frustrazioni lungamente represse, sino alla fase attuale di serena partecipazione alle attività con atteggiamenti positivi dei bambini fra di loro e verso gli adulti ed un senso di ritrovata speranza. Gli altri, i “facilitatori”, hanno guadagnato, dal loro impegno nel centro e dai positivi feed-back ricevuti dai genitori e dalla comunità, un miglioramento della loro autostima, dell’efficienza e del coinvolgimento nelle attività del centro. Essi sono sempre più attivi, consapevoli della loro possibilità di contribuire positivamente al benessere della loro comunità attraverso il loro lavoro. Esistono anche i beneficiari indiretti del progetto, in primo luogo 1. i genitori che si sono sentiti rafforzati nel loro ruolo genitoriale e nell’autostima grazie al migliorato comportamento dei figli, instaurandosi così un circolo virtuoso nella relazione genitori-figli 2. la comunità cittadina, che cresce nella fiducia nei confronti delle autorità locali e delle risorse della stessa popolazione di contribuire attivamente alla vita pubblica 3. le autorità locali; esse, da una parte, si sentono più coinvolte e fiduciose nella possibilità di contribuire positivamente al benessere della popolazione e, dall’altra, prendono coscienza dell’importanza di una tutela psicosociale dei cittadini. Infatti esse stanno proponendo sempre più spesso nuovi interventi per i bambini ma anche per le donne ed i giovani. Esse sono molto attive nella ricerca di fondi per finanziare i loro progetti, più disponibili a condividere le loro esperienze con i villaggi vicini e più collaborativi con le ONG. Questo progetto ha delle potenzialità di ulteriore crescita. Una delle proposte future sarà l’apertura del centro anche a fasce di età minori, comprese fra i 3 ed i 6 anni, durante le ore del mattino. E’ allo studio un’esperienza pilota per dare una risposta anche ai giovani fra i 12 ed i 18 anni. Tale intervento deve essere attentamente valutato per non recare offesa alle abitudini e alla cultura locali, perciò si stanno studiando adeguate attività, spazi e tempi per ragazzi e ragazze. Infine per i genitori si stanno valutando di offrire incontri collettivi o lezioni sui migliori approcci educativi nei confronti dei bambini in situazioni di crisi, tenute da selezionate ONG esperte del settore. L’obiettivo è provvedere ai genitori strategie educative adeguate alla realtà di conflitto che crea nuove necessità ai bambini ma che è nuova anche per i genitori stessi. In più attraverso questi contatti i genitori avranno l’opportunità di incontrare persone specializzate nel settore cui potranno far riferimento privatamente in seguito se lo riterranno opportuno. Esistono molte altre iniziative/organizzazioni che operano attivamente nel settore infantile; fra queste citiamo soprattutto l’UNICEF che ha un ruolo guida e che dallo scorso Settembre dovrebbe aver fatto partire 4 progetti pilota nelle scuole interpellando la stessa dr.ssa Loredana Savarino in qualità di tecnico del gioco della sabbia. L’UNDP ente che crea soprattutto infrastrutture come i play-ground avendo l’intenzione di crearne uno anche in un ospedale con educatori/animatori per i piccoli pazienti. Infine l’UNRWA che, oltre a gestire i campi dei profughi palestinesi ed il loro status politico, si occupa anche della loro educazione, salute ed infrastrutture; in questo senso tale ente si sta organizzando per promuovere forti azioni in termini di psicoterapie di supporto, già ora adottano programmi così detti extracurricula che intrattengono i bambini a scuola per attività ricreative pomeridiane. Anche nel settore dell’età adulta, dalle informazioni che ho potuto raccogliere, esistono progetti di igiene mentale finanziati dalla Commissione Europea, da ONG attive in terra di Palestina, come Novi Mondo o da enti culturali come la Orient House Association che ora ha preso il nome di Arab Study Society. Per quanto posso aver capito dal mio breve soggiorno in terra palestinese, i Palestinesi sanno di essere presi in considerazione come popolazione e lo dimostrano gli aiuti umanitari sia alimentari che sanitari che ricevono. Essi sono una popolazione con un notevole substrato umano e sociale di persone colte ed attive, reattive rispetto agli stimoli ed agli aiuti che ricevono dall’esterno. Ma costituisce un grave problema la necessità di un supporto psicologico alle singole persone. Non necessariamente interventi di medicalizzazione eccessiva o di vere e proprie psicoanalisi, ma un supporto cosiddetto psicosociale. La situazione di conflitto continuo, a bassa intensità creata dalla seconda intifada, prostra le persone con disagi non solo legati ai lutti ed alle devastazioni degli scontri armati, ma anche alla disoccupazione, alla povertà, alle notevoli restrizioni delle libertà personali, alle umiliazioni che stanno schiacciando le popolazioni dei territori occupati. Il perdurare di questi stress crea situazioni esplosive nella popolazione civile. Ci sono bambini nati ad Intifada già iniziata che non hanno mai conosciuto altro se non la guerra: si rischia di perdere un’intera generazione! Ma uno dei problemi nascenti relativi al supporto psicologico è che rischia di esser improvvisato da persone non esperte. Si stanno infatti diffondendo programmi promossi da varie organizzazioni che propongono “esperti” sprovvisti in realtà della sufficiente preparazione, costituendo un reale pericolo di nuocere alla mente di persone già così provate dalla situazione in corso. CONCLUSIONI “La volontà di non credere”… Sono parole del romanziere Herman Wouk, e possono ben descrivere il rifiuto del male che spesso si accompagna alla notizia delle sofferenze e degli orrori inflitti alle vittime di conflitti o violenze in generale. Eppure il male, tutto quel male, esiste e attraverso la consapevolezza e la diffusione di una cultura di pace è possibile a ciascuno di noi cercare di arginarlo, quasi espiarlo. Altrimenti ne saremo complici, nella misura in cui avremo preferito non credervi e pensare ad altro per non soffrire, per non impegnarsi! UN GRAZIE GRANDISSIMO A: Dr.ssa Elisa Gambetti, psicologa, per la sua professionalità e competenza, per la sua generosa amicizia! Dr.ssa Loredana Savarino, psicologa, (con Claudio, Marta e Clara) per la sua intelligenza e sensibilità, per la sua calorosa accoglienza! Dr.ssa Orietta Filippini, ricercatrice di storia moderna, per i suoi preziosi consigli e la paziente amicizia! Dr.ssa Sabrina Ravaglia per la sua generosa disponibilità, la tolleranza e la fortezza! Dr.ssa Federica Fabbri, psicologa clinica, per il suo sostegno morale e la sua dolcezza! Dr Lorenzo Adimari, esperto in informatica, per la sua generosa, fraterna e paziente disponibilità! Irina mantovani, Mattia Nerini , Bill, Daniele, Eugenio, Fede, Marco, Ado, Ilaria, Silvia, Iolo, Silvia, Veronica e Mattia, Benda e tutti gli amici della mia Parrocchia, perché..esistono! Ai miei genitori, ai miei fratelli e alle loro spose, al mio piccolo nipote, a Teresa, a nonna e Renato! Dr Riccardo Colasanti, Lodovica Mazza e tutti i responsabili e gli organizzatori del II° Master in Medicina delle Immigrazioni, delle Povertà e delle Emarginazioni, per avermi aperto gli occhi della mente con cui…. “..ho visto cose che voi umani….” BIBLIOGRAFIA CAPITOLO 1 1) American psychiatric Association (2002). “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, DSM-IV-TR”. Washington: American Psychiatric Press. 2) Anaesthesiology and Intensive Care Congress (12th April 2003). “Follow up in anaesthesia and intensive care”. University of Ferrara. 3) William Yule (1999). “Post-Traumatic Stress Disorders. Concepts and Therapy”. Chichester: Wiley&Sons. 4) Bremner J., Tammy M., Delaney R., Southwick S., Mason J., Johnson D., Innis R., McCarthy G., Charney D. (1993). “Deficit in short-term memory in post traumatic stress disorder”. American Journal of Psychiatry, 150 (7), 1015-1019. 5) Bremner J., Krystal JH., Southwick SM., Cherney D. (1995). “Functional neuroanatomical correlates of the effects of stress on memory”, Journal of Traumatic Stress, 8,527-553. 6) Zeitlin S., Mcnally R. (1991). “Implicit and explicit memory bias for threat in post traumatic stress disorder“. Behaviour Research and Therapy, 29, 451-457. 7) Vrana S., Roodman A., Beckham J. (1995). “Selective processing of traumarelevant words in post traumatic stress disorder”. Journal of Anxiety Disorder, 9, 515-530. 8) McNally R., Litz B., Prassas A., Shin L., Weathers F. (1994) “Emotional priming of autobiographical memory in post traumatic stress disorder” Cognition and Emotion, 8, 351-356. 9) Stroop J., (1935). “Studies of interference in serial verbal reactions”. Journal of Experimental Psychology, 18, 643-662. 10) Horowitz M., (1976) “Stress response syndromes” New York: Jason Aronson. 11) Attias J., Bleich A. & Gilat S., (1996) „Classification of veterans with posttraumatic stress disorder using visual brain evoked P3s to traumatic stimuli“ british Journal of Psychiatry, 168, 110-115 12) Charney D. S.,Deutch A. Y., Krystal J.H.,Southwick S.M.& Davis M., (1993), “Psychobiologic mechanisms of posttraumatic stress disorder” 13) Gold PE & Zorenetzer SF, (1983) “The mnemon and its juices: neuromodulation of processes” Behavioral and neuronal biology. 38, 151-89. 14) McCough JL. (1983) “Hormonal influences on memory” Annual review of psychology, 34, 297-323. 15) Rachman S., (1980) “Emotional processing” Behaviour research and therapy, 8, 15-60. 16) McIvor R. (1997).”Physiological and biological mechanisms”. In Black D., Newman M., Mezey G., Harris Hendricks J. ”Psychological trauma: a development approach”. pp 55-60 London, Gaskell. 17) Bremner JD, Krystal JH., Southwick SM.&Cherney DS., (1996), “Noradrenergic mechanism in stress and anxiety: I° Preclinical study” Synapse,23,28-38 18) Papez JJWA.,(1937) “A proposed mechanism of emotion” Archieve of neurology and psychiatric, 38, 725-744 19) Davis M., (1992) “The role of amygdala in fear and anxiety” Annual rewiev of neuroscience 15,353-375 20) Helmestetter FG, (1992), “Contribution of amygdala to learning and perfomance of conditional fear” Pshysiological Behaviour, 51, 1271-1276 21) Kesner RP (1992), “Learning and memory in rats with emphasis on the role of Amygdala”. In J.A. Aggelton (Ed.), “The Amygdala: neurobiological aspect of emotion, memory and mental disfunction”, New York, Wiley Liss 22) LeDoux JE (1992) “Emotion and Amygdala” In J.A. Aggelton (Ed.), “The Amygdala: neurobiological aspect of emotion, memory and mental disfunction”, New York, Wiley Liss 23) Gray JA (1987) “The psychology of fear and stress” (2nd ed). Cambridge. Cambridge University Press 24) Nadel L & Zola-Morgan S (1984). “Infantile amnesia: a neurobiological perspective”, In M Moscovitch (Ed.) “Infant memory”, New York, Plenum Press 25) Schacter DL & Moscovitch M (1984) “Infantile amnesia: a neurobiological perspective”, In M Moscovitch (Ed.) “Infant memory”, New York, Plenum Press 26) Van der Kolk BA, Greenberg MS, Boyd H (1995) “Inescapable shock neurotransmitters and addictions to trauma: towards a psychobiology of post traumatic stress“ Biological Psychiatry, 20, 314-325 27) LeDoux JE (1989) “Cognitive emotional interactions in the brain” Cognition and Emotion, 3, 267-289 28) Gray JA (1994) “Framework for taxonomy of psychiatric disorder”, In SHM Vam Goozen, NE van de Poll & JA Sergeant (Eds), “Emotions: essays on emotion theory” Hillsdale NJ, Lawrence Erlbaum. 29) Bremner JD, Krystal JH., Southwick SM.&Charney DS., (1996), “Noradrenergic mechanism in stress and anxiety: II° Clinical studies” Synapse,23, 39-51 30) Rauch SL, van der Kolk BA, Fisler RE, Alpert NM, Orr SP, Savage CR, Fischman AJ, (1996) “A symptom provocation study of post-traumatic stress disorder using Positron Emission Tomography and script-driven imagery“ Archives of general psychiatry, 53,380-387 31) Janet P (1889), “L’automatisme psychologique“ Paris Alcan (32) Brewin CR, Dalgleish T & Joseph S, (1996), “A dual representation theory of posttraumatic stress disorder“ Psychological Review, 103,670-686 33) Kardiner A, (1941), “The traumatic neuroses of war“ New YorkNew York, Hoeber 34) Rachmann S, (1971), “Obsessional ruminations“, Behaviour research and therapy, 9,229-235 35) Rachmann S, (1978),“An anatomy of obsessions“ Behaviour analysis and modification, 2,253-278 36) Rachmann S, (1981), “Unwanted intrusive cognitions”, Advances in Behaviour research and therapy, 2,89-99 37) Rachmann S & De Silva P (1978) “Abnormal and normal obsessions“ Behaviour research and therapy, 16.233-248 38) Parkinson LA& Rachman S, (1981), Intrusive thoughts: the effects of an uncontrived stress”, Advances in Behaviour research and therapy, 3,111-118 39) Salkovskis PM, (1990), “Obsessions, compulsion and intrusive cognitions”, In DF Peck & DM Shapiro (Eds.), “Measuring human problems”, Chichester: Wiley 39) Edwards S & Dickerson M, (1987). “Intrusive unwanted thoughts: a two stages model of control”, British Journal of medical psychology, 60,317-328 40) Solomon Z, (1993) “Combat stress reaction: the enduring toll of war” New York, Plenum Press 41) Creamer M, (1995) “A cognitive processing formulation of posttrauma reactions”, In RJ Kleber, CR Figley & BPR Gerson (Eds.) “Beyond trauma, cultural and societal dynamics” New York Plenum Press 42) Mikulincer M, Florian V & Weller A (1993) “Attachment styles, coping strategies and post traumatic psychological distress: the impact of the Gulf war in Israel”, Journal of personality and social psychology, 61,273-280 CAPITOLO 2 43) Le Scienze, Settembre 2000 44) Mollica R, Lavelle J, Tor S, Allden K, Potts L, (1996), “Harvard Guide to khmer mental health by Harvard Program in Refugee Trauma”, Cambridge, President and fellows of Harvard College. 45) Department of mental health and substance dependence in World Health Organization, (2003) “Mental health in emergencies”, Geneva 46) Wilson JP, (1989) “Trauma trasformation and healing: an integrative approach to theory”, Research and post traumatic therapy. New York: Brunner/Mazel.