memoria arte follia - Pergine Spettacolo Aperto

PERIODICO DI PERGINE SPETTACOLO APERTO
IN-FORMAZIONE * APPROFONDIMENTI * RIFLESSIONI * A MARGINE DEL FESTIVAL ESTIVO
ANNO 1 * NUMERO 0 * LUGLIO 2008
mostre
teatro danza film
poesia pittura musica
incontri installazioni
e altre cose…
STRUMENTO PREZIOSO PER ESPLORARE LA MEMORIA,
PER INCROCIARE NEL SUO VASTO TERRITORIO SENTIERI
INDIVIDUALI E RIPERCORRERE TRACCE CHE PORTANO A
SPAZI CONDIVISI. L’ARTE. SOPRATTUTTO QUANDO LA MEMORIA
COLLETTIVA SVELA CONTENUTI INGOMBRANTI E DISAGEVOLI,
QUATTRO GIORNATE FUORI E DENTRO
LUOGHI REALI CHE SONO SIMBOLI VIVENTI DI SEGREGAZIONE,
SOLITUDINE, NUDA UMANITÀ. L’ARTE INCONTRA LA FOLLIA,
GLI SPAZI DELL’EX OSPEDALE PSICHIATRICO
NIHIL ALIUD
LE DÀ SPAZI DI RIVELAZIONE, LA SOTTRAE A UN DESTINO DI
QUAM MASSA CARNIS
ERAVAMO CERTAMENTE DEI COLPEVOLI. MA LA SOVRASTRUTTURA DEL
ESCLUSIONE E MARGINALITÀ, ESALTA LA SUA DISTORTA, ABERRANTE
MANICOMIO, QUELLE MANI CHE NON TI OBBEDIVANO, QUEL CORPO
15 17 18 19 LUGLIO PERGINE PADIGLIONE PERUSINI
PUREZZA, LA PORTA A ESSERE SPECCHIO IN FRANTUMI DELLA CONDIZIONE UMANA; LA
CHE NON TI SERVIVA, QUEL SESSO CHE NON AVEVA MIRAGGIO
FOLLIA PERMEA L’ARTE, LE DONA IL PROPRIO DEFORMANTE LINGUAGGIO, LE OFFRE
ALCUNO, TUTTO CIÒ FACEVA DELLA TUA COLPA UN SENTIMENTO
INEDITE TRAME ESPRESSIVE. FUORI DAL MERCATO E DALLA CULTURA
ROBOANTE E SEGRETO, TANTO CHE TU TI IMMERGEVI COME NELLA
UFFICIALI C’È UN’ARTE IRREGOLARE, LIBERA E NECESSARIA, CHE
DISINTEGRA LE BARRIERE CANONICHE TRA UN’ARTE DEI SANI
E UN’ARTE DEI MALATI, ANNULLA LA DISTANZA TRA NORMALITÀ E
FOLLIA, TRA REGOLA E DEVIANZA. E NELLA MAGIA DELLO SPAZIO
SCENICO, NEL MOVIMENTO DI CORPI E VOCI, LA RAPPRESENTAZIONE
DEL DISAGIO PSICHICO ACQUISTA I TRATTI DELLA RIVELAZIONE: ALLE
DANIELA
ROSI RENATA
ANSELMI STEFANO
FAVARO DIEGO SALEZZE
TIZIANO SPINELLI VARINIA
RETTONDINI DANIO MANFREDINI
FRANCESCO VENTRIGLIA PIERA JANESELLI
PALUDE O IN MEZZO ALLE SABBIE MOBILI. CREDO CHE SOLO LE
ILLUSTRAZIONI DEL DORÉ DELLA DIVINA COMMEDIA
DANTESCA POSSANO RENDERE BENE IL FASCINO E LA
MOSTRUOSITÀ DEL MANICOMIO.
ALDA MERINI
SOGLIE E AL LIMITARE DELLA FOLLIA SI NASCONDONO BRANDELLI DI
QUOTIDIANO, PALPABILI TESTIMONIANZE DI QUELLO CHE TUTTI NOI
SIAMO. FINO A RECUPERARE UNA NUOVA DIMENSIONE DEL SACRO, IN
CUI L’ARTISTA, IL FOLLE E LO SPETTATORE DIVENTANO MOSTRI. NEL
SONNO DELLA RAGIONE C’È UN’INTERA CITTÀ CHE SOGNA.
memoria
arte follia
Una piazza di carta per sognatori
■ DI CRISTINA PIETRANTONIO DIRETTORE ARTISTICO DI PERGINE SPETTACOLO APERTO
Nel 2008 il Festival PSA rilegge Pergine come una città che sogna. Ci è sembrata l’occasione giusta per inventarsi, in questa città ideale, anche una
piazza di carta. L’immagine della piazza richiama uno spazio aperto e così
abbiamo pensato debba diventare “La Città dei Matti”: ci piacerebbe ospitasse
i pensieri dei “sognatori” perginesi, che si dimostrasse accogliente per chi
crede che cose come cantare e danzare siano priorità vitali.
Quello che avete in mano è un numero zero, una prima bozza, la presentazione di uno strumento,
che ci auguriamo possa diventare sempre più ricco di spunti inediti e diversi, e sempre più “sentito”. Una piazza di carta, appunto, creata allo scopo di lanciare idee, ipotizzare direzioni, cercare di
capire se e come la cultura e lo spettacolo possano contribuire a cambiare il volto di una città che
in cultura e spettacolo sta investendo moltissimo, prova ne è la costruzione di due nuovi teatri.
“La Città dei Matti” debutta in occasione dell’omonima sezione del festival dedicata al complesso rapporto tra arte e follia. Forse parlare di follia a Pergine è ancora “scomodo”, può generare imbarazzo
o aperto rifiuto. È per tale ragione che PSA sta lavorando con impegno su questo tema, nella duplice
convinzione che le vicende dell’ex Ospedale psichiatrico costituiscano un’importante fetta di storia cittadina e che la dose di follia
che le arti di palcoscenico portano con sé, sia una componente essenziale per sopravvivere in una società come quella attuale.
“La Città dei Matti”, dal 15 al 19 luglio, mette in campo una variegata proposta di spettacoli, esposizioni, riflessioni dentro e
fuori gli spazi dell’ex manicomio. Un grazie particolare va a coloro che hanno reso possibile tutto questo: l’Azienda sanitaria del
distretto di Pergine, il Comune di Pergine, l’Università, la Fondazione Museo storico, la Provincia autonoma di Trento con il “ProImmagine da La dama bianca
getto Memoria”, i collaboratori e i volontari di PSA e, sin d’ora, a
Compagnia Roberto Corona
tutti coloro che vorranno in futuro contribuire a questo progetto.
Festival PSA, 5 luglio 2008
IN REDAZIONE
Giuliano Geri
HANNO COLLABORATO
Maria Giovanna Franch
Giorgia Restieri
Sara Sciortino
FOTOGRAFIE
Marco Ambrosi
Ferdinando Cioffi
Pino Le Pera
Gabriele Orlandi
Archivio Associazione
«Amici della Storia» - Pergine
Fondazione Museo storico
del Trentino
REDAZIONE
via Guglielmi, 19
38057 Pergine Valsugana (TN)
GRAFICA E STAMPA
Publistampa Arti grafiche
via Dolomiti, 12
38057 Pergine Valsugana (TN)
* La Città dei Matti. Con questo
nome era conosciuta, fino a poco
tempo fa, Pergine Valsugana.
Una città il cui paesaggio, reale
e simbolico, era dominato dal
manicomio, un luogo senza nome,
come tutti i manicomi, un luogo
della vergogna, che per oltre un
secolo ha ospitato gente di lingua e
cultura diverse, italiani e tedeschi,
ma anche ladini e mocheno-cimbri.
Un luogo in cui ogni identità
– culturale, linguistica, ma
soprattutto umana – si perdeva
in un’esistenza anonima, dove
l’estraneità della parola era la muta
traccia che conduceva dentro
storie di dolore e segregazione, ma
anche di speranza e riscatto.
Dall’ospedale psichiatrico sono
transitate migliaia di esistenze, che
hanno intrecciato la loro vicenda
personale con quella di un’intera
città: tanti pazienti, altrettanti
medici e paramedici, ma anche
personale di servizio e di gestione,
che aveva il compito di tenere
in piedi l’istituzione totale. Un
universo di microstorie, racconti
e testimonianze di chi stava dentro,
di chi stava fuori, di chi stava un
po’ dentro e un po’ fuori. È forse il
luogo più autentico della memoria
collettiva, un patrimonio con cui
un’intera comunità si specchia nel
suo passato. Oggi la Città dei Matti
è la “Città che Sogna”, così
abbiamo voluto intitolare l’edizione
2008 di Pergine Spettacolo Aperto.
Per molti che hanno fatto la storia
di Pergine il sogno, per lungo
tempo, è stato quello di una vita
normale, di un’esistenza senza
barriere, un sogno di libertà e di
integrazione. A trent’anni dall’entrata
in vigore della Legge 180 vogliamo
dunque dedicare il numero zero
a chi ha reso questo sogno realtà:
Franco Basaglia. *
FESTIVAL PERGINE SPETTACOLO APERTO
Via Guglielmi, 19
38057 Pergine Valsugana (TN)
tel. 0461 530179
fax 0461 533995
[email protected]
www.perginepsa.it
Per informazioni, richieste e contributi: [email protected]
GIUGNO2008
2008
| 2 | LA CITTÀ DEI MATTI | NUMERO 0 * LUGLIO
DISSONANZE
Un’arte libera, totale e necessaria, che ci costringe ad aprire gli occhi.
Un’arte che fa delle nostre vite un inno alla Vita e che ci rappresenta tutti.
A Pergine approda l’Outsider Art.
SOGNARE… AD OCCHI APERTI
L’OUTSIDER ART A PERGINE
■ DI MARIA GIOVANNA FRANCH
«“Noi abbiamo paura a passare di lì, c’è il Bigio”, dicevano le mie neurologica Franca Martini di Trento, in cui Daniela lavora in
compagne quando, ancora alle elementari, si tornava da scuola. qualità di responsabile culturale.
“Ma cosa vi fa il Bigio da aver paura?”, chiedevo io. Non sapevano «Esiste un notevole interesse per questa realtà espressiva in quasi
cosa rispondere, ovviamente. Il Bigio era l’artista out del paese. tutta Europa – spiega Daniela – e in particolare negli Stati Uniti,
L’ubriacone che imbrattava i muri delle case di Isola della Scala. dove tutti gli anni si tiene, a New York, una Fiera mondiale di
L’anello debole della catena nella vita pigra e monotona di una Outsider Art. Verona per parte sua ha una lunga tradizione. Esipiccola comunità. Era l’individuo indecente e imbarazzante che in- steva nell’Ospedale psichiatrico a San Giacomo alla Tomba un
terrogava i passanti. Bigio era l’altro, era Altro. Ma per me Bigio atelier organizzato da un noto scultore scozzese, Michael Nobel,
era prima di tutto l’artista. Lui non farfugliava le frasi informi de- che ha lanciato un autore come Carlo Zinelli, collezionato da Dugli ubriachi, lui vaticinava; lui non imbrattava i muri, ma dise- buffet e ritenuto dallo stesso (ma anche da Breton) una delle
gnava soggetti sacri; lui non era
massime espressioni dell’Art
l’anello che non tiene, ma un anel- 18-19 luglio 2008 dalle ore 15
Brut già negli anni cinquanta.
lo in grado di riflettere il luccicare
Anche la mostra Oltre la ragioPergine Padiglione Perusini, ex Ospedale Psichiatrico
del sole; lui non era il provocatore,
ne, tenutasi al Palazzo della
ma la voce delle verità ultime. BiRagione di Bergamo nel 2006,
AD OCCHI APERTI Percorsi di Outsider Art a cura di Daniela Rosi
gio fu il mio incontro con l’artista;
ha rilanciato l’interesse per
Con la partecipazione attiva del “Progetto Outsider Art” Centro Franca Martini
fu il mio imprinting outsider; fu e
questo tipo di arte, mentre ad
A.T.S.M. di Trento e Accademia di Belle Arti G.B. Cignaroli di Verona
rimane per me il simbolo dell’arte
ArtVerona spetta il primato di
libera, totale, necessaria.»
aver ospitato gli outsider insieOpere:
Così Daniela Rosi, curatrice della
me a tutti gli altri artisti, abMacchie d’autore
* Diego Salezze (percorso libero)
mostra di Outsider Art al Padigliobattendo finalmente la barriera
Macchie d’autori
* Diego Salezze e Marco Ambrosi
ne Perusini dell’ex Ospedale psiche impediva agli autori marIl bestiario di Trane
* Tiziano Spinelli (atelier Fatato
Gengiscao Marzana-VR)
chiatrico di Pergine, spiega il suo
ginali di stare a fianco, o meSpaziale nella nave
incontro, fatale, con l’arte e la folglio, dentro l’Arte ufficiale.»
* Renata Anselmi (atelier Fatato
Gengiscao Marzana-VR)
lia, con l’arte dentro la follia.
Dal 2007 anche il Festival
Serial without killer
* Varinia Rettondini (atelier AutArt Mantova)
L’Outsider Art, detta anche “Arte
dell’Economia di Trento riserva
Stefano
Favaro
(atelier
AutArt
Mantova)
Lineamenti per una
*
irregolare”, comprende la grande
uno spazio all’outsider. E ora
nuova teoria
e variegata famiglia di artisti marPergine, in un luogo difficile
dell’evoluzione
ginali, folk, naïf, visionari, spesso
come un padiglione abbandomalati mentali, dunque social- E ancora installazioni di vita manicomiale, canti orfici, ritratti d’autore,
nato di quello che fu uno dei
mente emarginati, sempre o quasi video e frammenti letterari.
più importanti manicomi itasempre sprovvisti di formazione Per saperne di più: www.perginepsa.it L’arte di essere fuori - spazi aperti
liani del secolo scorso. Qui la
artistica. Si tratta di un’arte che si
follia dialoga con i suoi fantamuove al di fuori del condizionamento di canoni, correnti e mercati, e che si rivela sui muri e le
facciate delle case, negli angoli dove cercano riparo i barboni,
nelle corsie di un ospedale e nelle stanze dei centri di salute mentale. E poi negli atelier, quelli privati di artisti affermati, quelli collettivi e quelli protetti. Anche negli atelier gestiti da Daniela e dai
suoi allievi dell’Accademia di Belle Arti G.B. Cignaroli di Verona.
Proprio in Accademia si è tenuto un corso di specializzazione postdiploma in Outsider Art, unico esempio in Italia, e un osserva▲ Renata Anselmi Angeli che fuggono via
torio nazionale per il monitoraggio delle opere che escono dai
(part.)
luoghi di cura, in convenzione con il Centro di Riabilitazione
Padiglione Perusini
LUGLIO 2008 * NUMERO 0 | LA CITTÀ DEI MATTI | 3 |
DANIELA ROSI nasce a Isola della Scala (Verona)
smi, i muri sembrano parlare, sottovoce, ultimi
nel
1959.
Diploma accademico in Scenografia, è stata
testimoni di lamenti, frasi insensate, parole di
curatrice
di
oltre cinquanta di mostre di Arte irregolare,
conforto, preghiere, sguardi, gesti umani, nascirealizzate
in diverse città italiane, tra cui la sezione
te e morti. «Un luogo sacro – continua Daniela –
speciale
dedicata
all’Outsider Art alla fiera mercato
a cui ci siamo avvicinati con reverenza. Per preArtVerona
fin
dalla prima edizione del 2005.
parare la mostra siamo entrati e rientrati nelle
È
coordinatrice
del progetto sull’Outsider Art
stanze del Perusini, abbiamo osservato le vetraall’Accademia
di
Belle
Arti di Verona e degli atelier
te, i bagni vuoti, raccolto oggetti di cui non sadei reparti di psichiatria delle aziende ospedaliere
pevamo spiegarci l’uso, ci siamo soffermati su
di Verona e di Mantova. Autrice di diversi articoli
resti di piccoli lavori creativi, bandierine, cape saggi sul tema dell’Outsider Art per riviste e
pellini e coroncine per le feste comandate, abcataloghi d’arte nazionali e internazionali, dirige la
biamo sciolto grovigli di cinghie di contenzione,
collana “I Funamboli” per i tipi della Campanotto di
rubato lacerti di memorie rimaste intonse, scoUdine, dedicata agli artisti marginali. È responsabile
perto piccole installazioni artistiche involontaculturale del Centro di Riabilitazione neurologica
rie come un Cristo reclino su uno specchio, un
“Franca Martini” di Trento.
semplice santino che si è piegato, nel tempo,
sotto il peso della croce. In questo luogo abita
per qualche giorno quanto c’è di più vivo e libero nella vita de- gine, hanno già esposto in fiere di arte contemporanea, mentre
gli uomini: l’arte. Ed è per questo, ispirati anche dal tema scelto Stefano Favaro, anch’esso in mostra a Pergine, ha pubblicato per
quest’anno per il festival PSA, che abbiamo deciso di chiamare l’editore Campanotto di Udine un volume dal titolo Lineamenti
la mostra Ad occhi aperti. La città può svegliarsi dall’incubo del per una nuova teoria dell’evoluzione, una raccolta di immagini e
suo manicomio e trasformare finalmente i suoi sogni collettivi pensieri che rovesciano il mondo. Tra gli artisti seguiti direttain realtà. Sognare ad occhi aperti, appunto, prima di addormen- mente da Daniela Rosi è presente Diego Salezze, che lavora statarsi, prima che sia troppo tardi.»
bilmente a Ca’ Vignal, con le sue Macchie d’autore.
Le opere esposte al Perusini provengono dagli atelier Fatato Gen- «Tutte queste espressioni artistiche – così Daniela – attingono la
giscao del C.d. L’Arca, Marzana, Verona e AutArt del C.p.s. di loro linfa nel profondo di ognuno di noi, nell’inconscio collettivo
Mantova (diretti rispettivamente da Cristina Joechler e Igor No- dell’umanità. È un’arte che fa delle nostre misere vite un inno
velli), vere e proprie officine di creatività in cui le capacità degli alla Vita. Un’arte che ci rappresenta tutti, nessuno escluso.»
utenti/artisti interagiscono con artisti usciti dal percorso formati- Un’arte che ci coglie nel sonno, indifesi, e ci obbliga ad aprire gli
vo accademico. Tiziano Spinelli e Renata Anselmi, presenti a Per- occhi. *
▲ Ospedale psichiatrico di Pergine,
ingresso (anno 1882)
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DISSONANZE / GLI ARTISTI
DIEGO SALEZZE è nato a Verona, dove vive e lavora, nel 1973.
Figlio d’arte (sia il nonno sia la madre pittori), dipinge da parecchi anni.
Ha partecipato a laboratori espressivi diretti da Luigi Scapini
ed è uno degli autori degli Psycotarocchi editi da Dal Negro.
Lavora in modo molto materico, utilizzando il colore puro, e si esprime
sia con un figurativo molto stilizzato sia con l’astratto.
Le note “macchie” sono il suo vero tema caratterizzante.
Possiede una particolarissima carica espressiva che raggiunge
nella sintesi astratta la sua massima capacità di sorprendere.
Macchie d’autore
▲ Macchie
Macchie
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DISSONANZE / GLI ARTISTI
Il bestiario di Trane - L’aquila della saguana
▼ Il bestiario di Trane - La pantera dell’Africa
TIZIANO SPINELLI è nato a Grezzana (VR) e ha iniziato
la sua attività pittorica nell’atelier di Arte irregolare
del CSM L’Arca, sezione Lessinia, a Verona.
I suoi soggetti ci appaiono come immagini
provenienti dall’universo delle favole. Ha realizzato
un vero e proprio bestiario che ci riporta al mondo
dell’illustrazione e a quello più criptico e complesso
del bestiario medioevale. Lavora sia su dimensioni
di media misura sia su grandi superfici.
La tecnica che predilige è l’acrilico su carta
o su tavole di legno.
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| 6 | LA CITTÀ DEI MATTI | NUMERO 0 * LUGLIO
RENATA ANSELMI è nata a Verona.
Pur manifestando un’indole
originale e creativa, si è accostata
al disegno e alla pittura solo di
recente, dimostrando subito
grande originalità, forza
espressiva e maturità artistica.
Renata ama moltissimo i colori:
colori forti, accesi, che non
passano certo inosservati.
Colori che accostati tra loro nei
modi più inaspettati, hanno il
potere di accendere le forme e di
introdurci – noi, curiosi avventori
catapultati inaspettatamente
nel suo mondo – direttamente
nei suoi percorsi interiori.
Angeli che fuggono via
▼ Spaziale sulla nave
I gatti sulla luna
LUGLIO 2008 * NUMERO 0 | LA CITTÀ DEI MATTI | 7 |
DISSONANZE / GLI ARTISTI
VARINIA RETTONDINI, originaria di
Bancole di Porto Mantovano, ha
dimostrato sempre particolare
propensione all’espressione
figurativa. A scuola veniva spesso
elogiata per la qualità dei suoi
lavori. Dopo la formazione
dell’obbligo abbandona ogni
forma di espressione artistica per
riprenderla poi frequentando
AutArt, dove si distingue fin da
subito per le sue particolari
capacità. Oggi, dopo tre anni di
frequentazione dell’atelier, Varinia
realizza formati mega con il tema
della reiterazione dei soggetti. Di
particolare impatto figurativo i
seriali giganti esposti in questa
occasione.
▲ Moke
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| 8 | LA CITTÀ DEI MATTI | NUMERO 0 * LUGLIO
Molto si è detto, ma forse non ancora abbastanza,
delle felici alleanze che si possono instaurare tra
l’arte e la psichiatria, a condizione che quest’ultima
accolga con benevolenza e rispetto quella leggerezza
non verbale di cui gli artisti sono portatori.
Teresa Maranzano
STEFANO FAVARO è nato
a Mantova. Artista totale:
inventore, ingegnere, pittore,
opinionista di “Rete 180, la voce
di chi sente le voci”, craniologo.
Ha camminato tra il traffico
mentre puliva le strade e le
aggiustava, ha teso il suo cavo tra
le spiagge di Ramsgate e i
serbatoi di fenolo, ha attraversato
il mare sottocoffa e ha
passeggiato tra le mucche di
Tripoli. La sua impresa artistica si
rivela soprattutto in una grande
presa della luce. Cauto nello
spendere, lento perché così è
nato, precisissimo. Ma come
artista ha fatto alla svelta.
▲ Filtro per fumi industriali
Tazza (generica) di plastica,
antiurto, antigelo, antibru
LUGLIO 2008 * NUMERO 0 | LA CITTÀ DEI MATTI | 9 |
CONSONANZE / IL TEATRO
Risveglia il terrore,
suscita inquietudine,
evoca remoti incanti,
rivela quell’eterno e
fragile equilibrio tra
realtà e fantasia che
è la condizione umana.
È l’artista che incontra
il folle, che diventa
“mostro”.
Danio Manfredini,
uno degli interpreti
più originali del teatro
contemporaneo,
presenta a Pergine
il suo ultimo lavoro.
I MOSTRI FRA NOI
INTERVISTA A DANIO MANFREDINI
■ DI GIORGIA RESTIERI
Perché hai intitolato il tuo
Nel suo ultimo spettacolo che va in scena a Pergine, Danio contatto. C’è quindi un fattore
ultimo spettacolo Il sacro
Manfredini si misura con il disagio psichico, tema che ha avuto
di continuità alla base di questa
segno dei mostri ?
modo di approfondire a lungo insegnando pittura in una casa di
mia ricerca. Non avevo ancora
Il titolo si rifà a una frase di Jean
cura psichiatrica di Milano e condividendo con i pazienti
messo mano a questo materiale
Genet: «se li ho appesi al muro» – si
parte del proprio disagio esistenziale. L’evocazione di
documentario, perché da un lato
riferiva ai carcerati – è perché avevasentimenti, emozioni, sogni e sofferenze di
era un tema molto delicato e dall’alno agli angoli della bocca il sacro segno
alcuni di loro sono la materia da cui
tro perché la comunità in cui avevo lavodei mostri». Sin dall’inizio ho temuto che la
ha tratto spunto.
rato era stata creata in virtù dell’entrata in
parola “mostro” potesse generare una definizione
vigore della 180, quindi da nuove modalità di cunegativa. Sul vocabolario è indicata anche come “segno di
ra e gestione del disagio psichico, dalla creazione di strutture
Dio”, da monstruum, “rivelazione”, ciò che ha a che fare con il di- d’accoglienza differenti. Quei pazienti a cui un giorno era stato
vino. Ed è in questa accezione più positiva che ho voluto intende- detto: «questa è casa vostra», all’improvviso si sono sentiti dire:
re il titolo del mio spettacolo: da una parte perché all’interno del «questa non è più casa vostra», e sono stati destinati alcuni a
contesto sociale il folle viene guardato come un individuo da te- ospizi, altri ad appartamenti in condivisione con altri pazienti,
mere, da allontanare, da guardare con una certa soggezione; dal- altri a centri di accoglienza e di cura come quella. È là che ho
l’altra perché l’artista che cuce l’opera è anch’esso considerato un fatto un’esperienza importante per la mia vita, non soltanto per
mostro sacro. Ho capito insomma che c’era una consonanza tra la mia attività artistica. Un ambiente ricco di stimoli, dove valequesta parola e ciò che volevo mettere in scena, la stessa conso- vano princìpi di gestione un po’ anarchici, ma anche alcune regonanza che esiste tra il mondo della follia e il mondo dell’arte, an- le che cercavo di comprendere come funzionali, atte a uno scopo
che se non bisogna dimenticare che per l’artista attingere alla preciso. Rimaneva l’intenzione di trattare queste persone come
sfera dell’immaginazione è quasi sempre un’attività sotto control- esseri umani, di relazionarsi a loro partendo dalle loro stesse
lo, mentre per il folle molto spesso non lo è affatto.
condizioni. E soprattutto la consapevolezza che dietro le loro
espressioni, banali o geniali, quotidiane o estemporanee, c’era un
Da cosa è nato questo lavoro?
particolare percepirsi nel mondo, uno strenuo tentativo di trovare
Da tanti appunti presi durante i dodici anni di lavoro nella casa un posto nella realtà o almeno all’interno di una comunità. Sono
di cura psichiatrica e da annotazioni raccolte anche nel periodo state queste le motivazioni che mi hanno spinto a riprendere in
successivo, dato che con alcuni degli ex internati sono ancora in mano questa materia narrativa, in particolare a trarre spunto dagli
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Il percorso di formazione di
autore-attore di DANIO MANFREDINI
risale agli anni Settanta, presso il
Laboratorio del centro sociale
Isola di Milano e con il gruppo
teatrale Tupac Amaru di Cesar
Brie. Nei primi anni Ottanta
studia con Ryszard Cieslak e
Stanislaw Scierzki del celebre
Grotowski’s Theatre Workshop,
per poi insegnare scenografia
alla Scuola d’Arte drammatica
Paolo Grassi. Al di fuori di ogni
traccia codificata e soltanto
apparentemente anarchico, sin
dall’inizio il suo percorso artistico
è caratterizzato dal rigore nella
ricerca teatrale, da una ferrea
disciplina etica ed espressiva.
Punto di riferimento importante
per il teatro di Danio Manfredini
è la pittura, intesa nel senso più
intimo e profondo di visioni
interne che caratterizzano
fortemente l’incontro tra il
pubblico e l’attore, così come la
sensazione, che offre possibilità
d’azione, di presenza nello spazio.
Tra le sue opere teatrali si
ricordano La crociata dei bambini
dal poema di Bertolt Brecht
(1984), Notturno (1985), Miracolo
della rosa (1988), con il quale
vince il Premio Ubu 1989, il recital
per sax e voce Misty (1989),
La vergogna (1990), Tre studi
per una crocifissione (1992).
Nel 1997 presenta al Festival di
stati d’animo dei pazienti che più volte avevo avuto modo di registrare: un arcobaleno di emozioni, di umori, di atteggiamenti e
inclinazioni in molti casi simili ai nostri, soltanto espressi in modalità differenti, più accentuate, o di cui forse avevo amplificato
certe risonanze o sfumature. Da questo repertorio di storie e vicende quotidiane che mi ha offerto la comunità ho ricreato un
contesto reale, che è la scena teatrale, dove la sfera emotiva potesse essere osservata con una lente d’ingrandimento.
Dov’è la tua personale follia nel teatro che proponi?
Non penso di potermi inserire a pieno titolo nella categoria dei
folli. Credo però che ogni percezione profonda della realtà è in
sé un rompere le frontiere, una sovrapposizione di piani, un attraversare i confini tra immaginazione, visione, realtà, sogno,
fantasia. È questa indistinzione, questo particolare rapportarsi al
mondo che circonda i nostri sensi la dimensione in cui interviene
l’attività artistica, in particolare il lavoro teatrale: la rappresentazione, ciò che il pubblico vede, è una confusione di piani in cui
fantasia, memoria, immaginazione compongono una dinamica. È
proprio questo l’aspetto magico della messa-in-scena: la realtà
che assomiglia a un sogno, che si nutre di immaginazione, che
perde i suoi contorni immediatamente percepibili. La traduzione
del “sacro segno” parte dalla ricreazione dei ricordi, anch’essi appartenenti alla sfera dell’immaginazione: giorni, situazioni, momenti che, proprio perché manipolati dall’immaginazione,
tendono a conservare un’impronta di realtà, a ritornare percezione nel momento stesso in cui rivivono nello spazio “artificioso”
Santarcangelo la prima parte del
nuovo lavoro Al presente, che dal
1998 porterà in forma definitiva
nei più importanti festival di tutta
Italia. Nel 2000 riprende, rivisto
e corretto, lo spettacolo La
vergogna, di cui muta il titolo in
Hic desinit cantus, opera ispirata
a Pier Paolo Pasolini e Jean
Genet. L’8 luglio 2003 debutta al
Festival Santarcangelo dei Teatri
con Cinema Cielo.
Tra i tanti spettacoli a cui Danio
Manfredini ha partecipato,
ricordiamo Il muro (1991) e Il
silenzio (2000) di Pippo Delbono,
Parsifal (1999) di Cesare Ronconi
con il teatro Valdoca.
Danio Manfredini (foto di Pino Le Pera)
e il suo autoritratto
della messa-in-scena. Artificioso nel senso che ho lavorato con
degli attori, ho affidato loro le parti, ho assegnato ruoli precisi,
cosa che è di per sé una deformazione dell’esperienza originaria:
non ci sono più quelle persone con cui ho interagito allora, che
hanno dato sostanza al mio vissuto, adesso ho davanti a me altri
corpi, diversi, che tuttavia restituiscono vita ai ricordi e ai loro
veri protagonisti. Gli attori non solo hanno ripercorso le biografie
di quelle persone, le loro vicende esistenziali, le tracce che hanno
lasciato dentro di me e nella mia stessa immaginazione, ma provano a entrare in consonanza con quelle che erano le loro esperienze, le loro sensazioni, le loro espressioni e questa è un’ulteriore
deformazione. Va in scena, insomma, il filtro di un attore che percepisce la possibilità di rispecchiarsi in una condizione: il teatro è
prima di tutto deformazione, non dimentichiamocelo.
Non ti è mai venuto in mente di fare teatro con i tuoi pazienti?
Mi è venuto in mente, certo, soprattutto all’inizio. Glielo avevo
anche proposto ma il messaggio che, a modo loro, mi hanno sempre trasmesso è che il teatro è una forma d’arte che solleva troppe emozioni, che mette a nudo, che coinvolge nel profondo. E in
effetti li capivo e li capisco tuttora. Mi trovavo in un contesto di
patologia, di disagio profondo, certe volte davanti a casi piuttosto
gravi, in una situazione delicata proprio dal punto di vista emozionale. C’era in loro una specie di intasamento della mente, una
difficoltà ad aprirsi totalmente all’ascolto, a liberarsi da certe ossessioni. La pittura, al contrario, generava stimoli diversi, richiedeva un approccio più lieve: più facilmente i pazienti assorbivano
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nella loro mente colori e immagini. Non abbiamo soltanto dipinto
ma abbiamo visto molti quadri assieme. In quelle occasioni notavo
come la visione del pittore penetrava in loro, cambiava il paesaggio interno della loro mente,
apriva non solo squarci di oscurità e inquietudine, ma anche di
bellezza.
Gli attori hanno conosciuto i
personaggi che mettono in scena?
Qualcuno sì, di altri hanno soltanto visto delle foto, o letto i
miei racconti oppure seguito le
mie imitazioni.
15 luglio 2008 ore 21.30
Pergine Teatro Tenda
IL SACRO SEGNO DEI MOSTRI
Ideazione e regia Danio Manfredini
con Simona Colombo, Cristian Conti, Afra Crudo, Vincenzo Del Prete,
Danio Manfredini, Giuseppe Semeraro, Carolina Talon Sampietri
Luci Maurizio Viani
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, CTB Teatro Stabile di Brescia
Il sacro segno dei mostri indaga il mondo e l’atmosfera del disagio psichico, tema caro a Danio Manfredini che per anni ha insegnato pittura
in una casa di cura di Milano per malati psichici. I sentimenti, le sensibilità di alcune di queste figure, sono il fulcro di questa creazione.
«Fu intorno ai trent’anni che entrai a lavorare come conduttore dell’atelier di pittura presso una comunità psichiatrica nata a seguito della Legge 180 che prevedeva il superamento della vecchia istituzione
manicomiale. Entrai in quel contesto con l’attenzione di chi entra nella
foresta. Non si trattava di confrontarsi con belve feroci ma con esseri
umani imprevedibili, fragili e vulnerabili. Provavo soggezione, timore e
attrazione. Ogni paziente con cui venivo a contatto era un mondo unico,
misterioso. Stavo in ascolto, parlavo poco, capivo che dovevo fare attenzione a come mi muovevo nello spazio, imparavo a essere presente senza invadere. Ho lavorato dodici anni con quelle persone; mi sono
licenziato da otto. Lasciare la comunità fu difficile e in qualche modo
lacerante. Nel corso di quegli anni avevo scritto diversi appunti, stralci
di conversazioni con loro, accadimenti particolari. Ho rovistato nei quaderni in cerca di queste tracce. Questi frammenti sono stati il punto di
partenza per il lavoro con gli attori, insieme a foto, qualche video, e soprattutto i miei racconti.» (Danio Manfredini)
L’attore può essere considerato
a suo modo un pazzo?
Indubbiamente l’attore si getta a
capofitto dentro alcune situazioni
proprio per ricrearle in scena, vi
si abbandona completamente,
spesso finisce per perdere fatalmente ogni discrimine tra rappresentazione e realtà, e in questo
senso sì, è un pazzo. Ma l’attore
sveste i panni del personaggio nel
momento in cui terminano le prove o lo spettacolo, dopodiché torna alla sua vita, al suo mondo, alle sue relazioni, ai suoi affetti.
La follia è prima di tutto una dimensione di sofferenza da cui
non puoi entrare e uscire a piacimento, in cui l’individuo è trascinato dentro come in un vortice e privato della libertà. Non dobbiamo mai dimenticarci che la follia è disagio, chiusura, paura,
ansia, solitudine; non è affatto una condizione augurabile o un
qualcosa a cui aspirare, soprattutto per il dolore che procura
l’emarginazione dalla società. Puoi avere tutta la genialità,
l’estro, la saggezza che vuoi, puoi percepire la realtà in modi diversi e interessanti, puoi dimostrare quella lucidità e sensibilità che
tutti gli altri non hanno, ma finché sei costretto a essere un sog-
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getto marginale, a non essere
ascoltato, a non avere piena dignità sociale, questa tua “diversità” può essere soltanto motivo
di disperazione. In altri tempi il
folle era quasi il portatore di un
messaggio divino, apparteneva
a un universo magico, sciamanico, ma nel mondo contemporaneo tutto questo è andato
perduto. Il folle è soltanto un
emarginato, niente di più.
Che cosa ti aspetti da
questo ultimo tuo spettacolo?
Non ho voluto mettere in scena questa vicenda con il semplice intento di raccontare le
biografie dei personaggi, ho
cercato piuttosto di creare dei
quadri scenici dentro i quali
far agire queste figure e, attraverso l’azione degli attori, evocare una storia che sta alle
spalle, una condizione umana.
La difficoltà è stata soprattutto
quella di comprendere e ordinare la struttura dei ricordi.
Ne è venuta fuori così una
messa-in-scena scandita per
quadri che corrispondono ciascuno a un momento inserito in un arco di tempo piuttosto lungo: infatti ogni attore compare prima giovane e poi vecchio.
Quello che volevo tracciare, in fondo, era il senso del tempo, di
come il tempo cambia le persone nel suo essere il deposito di
esperienze, stati d’animo, incontri, situazioni, gioie, drammi, tragedie, tutto ciò che insomma è vita. In questo contesto la dimensione della follia acquisisce davvero un valore e un significato del
tutto particolari. Una follia ripercorsa da “fuori”, da quello che ho
visto e sperimentato. Ciò che
sta “dentro” è e rimarrà semImmagini da Il sacro segno dei mostri
pre per me un mistero. *
foto di Pino Le Pera
CONSONANZE / LA DANZA
Al limite della follia troviamo la normalità, come se ne fosse una componente inscindibile.
Francesco Ventriglia, giovane coreografo e danzatore, realizza a Pergine una nuova produzione
incentrata sul tema della follia. Rigore e fantasia coreografica, geometrie e vitalità, il suo
modo di concepire la danza trasmette in pieno l’emozione della vita.
NORMALE
ANCHE LA FOLLIA MERITA I SUOI APPLAUSI
■ DI SARA SCIORTINO / FRANCESCO VENTRIGLIA
Sono figlio del mio tempo e
PSA una produzione inNon credo nelle etichette ma sono fermamente convinto che la danza
delle sue contraddizioni, è duncentrata sul tema della folcontemporanea possa e debba avere una valenza civile. Attraque di questo che voglio parlare ed
lia. La creatività di Francesco ha
verso i miei lavori cerco di far riflettere. Il tema della
è ciò che cerco di esprimere. La danza
incontrato la follia, le ha dato spazi
follia, così come è stato in passato quello della
aiuta a riflettere, perché, riuscendo a sudi rivelazione, la ha donato un lindisabilità, mi interessano perché sono un
perare il fattore puramente estetico, è una
guaggio e forme espressive, le ha aperto
uomo che vive osservando gli altri,
delle forme d’arte che maggiormente trasmette
nuove prospettive. In Normale sperimenta la
ne vive i contrasti, le margil’emozione della vita. I miei lavori sono dunque
normalità della follia, non attraverso le tematinalità, le energie più
un’indagine della realtà, ma anche studi interiori;
che e le categorie proprie della patologia psichiatriimprevedibili e
ca, ma riflettendo sul concetto di normalità come
producono riflessioni che poi trasferisco nella dimensione
nascoste.
insieme di regole al di fuori delle quali non è possibile vidello spettacolo, la forma di comunicazione umana che più
vere senza essere emarginati socialmente e condannati a un
sento mia. L’essenza di questa mia ultima creazione sta tutta
destino di diversità.
nel titolo: Normale. Rifuggendo dall’accettazione passiva del dato
di fatto, la follia assume una sua realtà espressiva che induce a ca- Lo spettacolo si articola in due momenti distinti, all’interno e alpire le relazioni, a interagire con l’alieno disagio, entrando in co- l’esterno del Padiglione Perusini, unica testimonianza tangibile
municazione con la dimensione subalterna della normalità. Anche di quelle che sono state per oltre un secolo le strutture manicola follia, come espressione quotidiana nascosta dietro l’apparente miali di Pergine, un luogo caduto in disuso da pochi anni. La priconvenzione “normale’’, merita i suoi applausi. La normalità che ma parte si svolge all’interno del Padiglione, al primo piano,
ha preceduto la follia diventa dunque, per assurdo, la conseguenza dove viene realizzato un percorso dal sapore performativo, che
permette allo spettatore di attraversare gli spazi e diventare testiche la follia finisce per generare.
mone di un passato vissuto e nascosto, ridando vita, con la sua
Francesco Ventriglia è stato invitato dalla direttrice artistica del stessa presenza, a quella città invisibile che era l’Ospedale psilaboratorio danza, Maria Pia Di Mauro, a realizzare per il festival chiatrico. All’esterno, in uno spazio scenico creato di fronte alla
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facciata e alle grate di sicurezza, verrà allestito il corpo vero
e proprio dello spettacolo.
Penso che possa essere interessante esplorare questo tema,
perché lo sento molto vicino a
me. Il mio primo approccio con
la follia l’ho toccato direttamente dai racconti dei miei familiari. Avevo uno zio che era stato
rinchiuso in un manicomio, purtroppo, come spesso accadeva,
per una depressione trascurata.
Ed è proprio questa situazione,
che credo possa accomunare
molti ex internati, che ho voluto
raccontare con il mio lavoro,
perché mi interessa narrare l’antefatto della follia codificata dal
sistema, ciò che precedeva l’ingresso in questi luoghi di segregazione
e disperazione, come erano insomma le persone prima di essere rinchiuse. Ho lavorato soprattutto sui racconti degli ex internati, per
recuperare i loro ultimi ricordi, frammenti di vita vissuta e per molti versi negata. E partendo da queste tracce di memoria vorrei rappresentare la follia che si nasconde dietro la normalità e viceversa:
spesso il manicomio, la detenzione, ce li costruiamo noi stessi perché abbiamo paura di uscire dalle rassicuranti regole di una normalità imposta dalle convenzioni sociali.
Ventriglia ha iniziato ad approfondire il tema della follia seguendo diverse tracce narrative, ma soprattutto grazie agli scritti di
Alda Merini. Ha così sviluppato una ricerca che si basa sulla riflessione della condizione umana e della creatività coreografica.
Così come è stato per Il mare in catene (Biennale di Venezia
2007) la coreografia di Normale diventa un procedimento in cui
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il coreografo milanese offre
una suggestione e i danzatori la arricchiscono di volta
in volta con la loro sensibilità e partecipazione interiore, fino a generare un
procedimento in crescendo
di intensità, che porta i
danzatori stessi a trovare un
nuovo modo di danzare e
un nuovo approccio al movimento.
Non nutro particolari aspettative dal mio lavoro, non lo
faccio mai, sarà il pubblico a
decidere. Per il momento sono soddisfatto di ciò che sono
riuscito a creare con tutti
miei interpreti capaci, ciascuno a suo modo, di trasmettermi il loro universo umano, lasciandosi condurre, con fiducia, attraverso la difficile ricerca non di
danzare ma di essere. Con loro ho sempre instaurato un rapporto
di scambio e di stimoli reciproci, è così che mi piace lavorare.
Immagini da Normale
foto di Gabriele Orlandi
Anche in questa occasione
Ventriglia ha lavorato con la
Compagnia Eliopoli e i neodiplomati della Scuola di Ballo
del Teatro alla Scala di Milano,
con la partecipazione della sua
“musa” Stefania Ballone, danzatrice del Corpo di Ballo del
teatro milanese. Rinnovando,
per le musiche, il sodalizio artistico con Emiliano Palmieri. *
Formatosi presso la Scuola di
Ballo del Teatro alla Scala di
Milano, dove si diploma nel 1997,
FRANCESCO VENTRIGLIA entra
subito a far parte del Corpo di
Ballo del teatro stesso. Nel 1998
debutta come ballerino solista
con In the Middle Somewhat
Elevated di William Forsythe e
l’anno successivo Natalia Makarova
lo vuole interprete dell’Idolo d’oro
nella sua Bayadère. Oltre al
repertorio classico, le sue interpretazioni spaziano da George
Balanchine ad Alvin Ailey, da
John Neumaier a John Cranko,
da Angiolin Preljocaj a Jacopo
Godani, da Jiří Kilián a Maurice
Bejart. Roland Petit gli affida il
ruolo di Toreador nella sua
Carmen e quello di Quasimodo
nel suo Notre Dame de Paris. Al
fianco di Sylvie Guillem è Hilarion
in Giselle al Metropolitan di New
York e al Covent Garden di Londra.
All’attività di interprete Ventriglia
affianca quella di coreografo
coinvolgendo spesso danzatori
del Teatro alla Scala. Tra i suoi
allestimenti ricordiamo La
solitudine del Gigante, D.N.A.,
Mandorle, Giallo ’700, quest’ultimo
per la Scuola di ballo scaligera.
Nel 2006 crea tre spettacoli per
Roberto Bolle: La Lotta, che
debutta a Roma presso la Curia
del Senato romano nei Fori
imperiali, il Concerto di Capodanno
del Teatro la Fenice di Venezia
trasmesso su Rai Uno e Il Mito
della Fenice presso il Teatro
Smeraldo a Milano. In seguito
fonda la compagnia Eliopoli. Ed è
con questa stessa compagine che
Ventriglia presenta, per la prima
volta alla Biennale di Venezia
edizione 2007, Il mare in catene,
seguendo una sua personale
interpretazione del tema del
festival, “Body & Eros”. La sua
carriera di coreografo prosegue a
Verona, dove realizza, nel dicembre
2007, per la Fondazione Arena
di Verona, Sogno di una notte
di mezza estate e Jago, l’onesta
poesia di un inganno, con le
étoile Eleonora Abbagnato e
Alessandro Riga, e il Corpo di
Ballo dell’Arena di Verona.
Recentemente, su invito dell’étoile
Svetlana Zakharova e del Teatro
Bolshoi di Mosca, ha riproposto
il passo a due Black, e ha
presentato al Teatro Mariinskij di
San Pietroburgo Contraddizioni,
nuova creazione per la prima
ballerina Uljana Lopatkina. In
questa stessa occasione è stato
anche interprete di un suo lavoro
dal titolo Stabat Mater, ispirato
all’opera di G.B. Pergolesi.
Nel 2007 coreografa a Parigi
la cerimonia di presentazione
per la candidatura di Milano
a sede dell’Expo 2015.
Ha ricevuto il Premio Tani come
giovane coreografo emergente
e il Premio Positano Léonide
Massine come promessa della
coreografia italiana.
18 e 19 luglio 2008 ore 21.00
Pergine Padiglione Perusini, ex Ospedale Psichiatrico
NORMALE. Anche la follia merita i suoi applausi
Regia e coreografia Francesco Ventriglia
Assistente alla coreografia Maria Pia di Mauro
Musiche originali di Emiliano Palmieri e Massimo Fiacchini
Light designer Andrea Giretti
Coordinamento Anna Meroni
Maestro collaboratore Valeria Vitaterna
Con i neodiplomati della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala
di Milano
Rebecca Bianchi, Giuseppe D’Agostino, Antonio De Rosa,
Beatrice Mazzola, Mattia Russo, Alessandra Vassallo
Con la partecipazione di Stefania Ballone, danzatrice del Corpo di Ballo
Teatro alla Scala di Milano
Si ringrazia il maestro Frédéric Olivieri, direttore Scuola di Ballo Accademia
Teatro alla Scala di Milano
Produzione laboratori danza Festival PSA e Compagnia Eliopoli
«Uno spettacolo che raccoglie la memoria di un’umanità diversa, che per molto tempo ha abitato questi luoghi dove il confine era solo da una parte o dall’altra di un cancello, un’indagine sulle ancore che la follia cala
quotidianamente nella normalità, sovvertendo il destino di uomini comuni alla
ricerca continua di un equilibrio, in bilico tra l’esistere e il dover essere.
Una galleria fotografica, scorci di vite passate, raccontati attraverso il presente di cuori disabitati, di corpi che si riorganizzano nel ricordo del tempo
che ha preceduto la follia. Il tempo dell’infanzia, la scoperta dell’amore,
della femminilità, della maternità. Emozioni sospese che si raccontano dentro e fuori da quel cancello, sospese tra la normalità fatta di regole comuni,
sicure, e il disorientamento dato dal rifiuto delle regole imposte dagli altri e
dalla costruzione di un universo altro dove il sé non incontra più il “tutti”. E
poi l’attesa, la pazienza, un nuovo rapporto con il tempo, con un fuori, ormai solo immaginato, idealizzato.» (Francesco Ventriglia)
Molta follia è divina saggezza
per occhio che discerna.
Molta saggezza – assoluta follia.
Ma è la maggioranza
che prevale, anche in questo.
Approva – e sei savio.
Dissenti – e sei d’immediato pericolo.
Legato alla catena.
Emily Dickinson
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TESTIMONIANZE
Oltre la siepe
■ DI PIERA VOLPI JANESELLI
L’Ospedale psichiatrico era per noi abitanti di Pergine sinonimo di dolore, di emarginazione, di situazioni umane verso
le quali non si poteva intervenire se non solo ed esclusivamente attraverso la segregazione e la custodia, e, in un certo
modo, gli ammalati ospiti dell’OP incutevano paura. Faceva
una certa impressione quell’edificio enorme, suddiviso in
“padiglioni” con le finestre sbarrate, oltre le quali era difficile intravedere quale poteva essere la vita di tutti i giorni. Durante i primi anni della mia residenza a Pergine (1952-53)
chiedevo spesso, al personale che sapevo dipendente dall’istituzione manicomiale, chi accogliesse quel grande edificio,
quali erano le terapie adottate per migliorare lo stato psichico dei degenti e perché, a volte, passando in prossimità dei
padiglioni si sentivano persone che con la voce volevano far
capire il loro disagio. La risposta era sempre molto incompleta e legata a una riservatezza che giustamente ritenevo protettiva di una condizione umana tanto problematica. A volte
si veniva a sapere di qualche persona che era stata ricoverata
nell’OP, e, per quella persona, il fatto di essere entrata in
quella specifica struttura poteva condizionare ogni progetto
futuro. Sembrava quasi che un episodio, quale poteva essere
il ricovero in OP, forse unico, forse marginale, forse prodotto
da cause dipendenti da situazioni e agenti esterni, riuscisse a
trasformare in un sentimento di pietà quello che prima era
amicizia, o sicurezza, fiducia verso una persona. E mi chiedevo se la malattia o l’istituzione manicomiale ne potevano
essere la vera causa. Passando accanto alla fitta siepe che divideva l’area dei padiglioni da alcune vie di Pergine, si udivano voci concitate, a volte urlanti (ciò che in seguito gli
psicofarmaci hanno eliminato), oppure si sentiva il rumore
dei passi affrettati degli ammalati, che muovendo il ghiaino
con un ritmo poco omogeneo, rispecchiavano l’instabilità di
chi correva per guardare fra la siepe, nel tentativo di porgere
una mano o inviare un saluto. Queste situazioni facevano
pensare a qualcuno che volesse scappare, che volesse aggredire, mentre oggi, a distanza di tanti anni, posso veramente
affermare che erano richieste di aiuto, tentativi di riagganciare quella realtà esterna che la malattia li aveva costretti
ad abbandonare.
Piera Volpi Janeselli ha lavorato per 27 anni presso l’Ospedale Psichiatrico di Pergine come assistente sociale. Il testo è tratto dalla tesi di laurea dal titolo Il servizio sociale
nella psichiatria istituzionale. Memoria e rilettura di una
esperienza nell’Ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana,
Università degli Studi di Trento, a.a. 2004/2005.
PSA ringrazia:
la Regione Autonoma Trentino Alto Adige, la Provincia Autonoma di Trento, il Comune di Pergine
Valsugana, il Centro Servizi Culturali S. Chiara, la Cassa Rurale di Pergine, la Fondazione Cassa
di Risparmio di Trento e Rovereto, l’Azienda per il Turismo Valsugana Lagorai - Terme - Laghi,
l’Azienda provinciale per i Servizi sanitari - distretto di Pergine, la Fondazione Museo storico
e l’Università di Trento, il Mediocredito Trentino Alto Adige, il Bim Brenta, Trenta SpA,
Sant’Orsola Sca, Itas Assicurazioni, ProLoco Pergine, Publistampa Arti grafiche, Videoframe
Multimedia, Palcos srl, Pulinet, Shop Center Valsugana, Bimotor, Invisible Site
carta riciclata Cyclus offset: 100% macero da raccolta differenziata, sbiancata senza cloro;
marchi di garanzia: Angelo Blu, Nordic Swan, European Eco-label Flower e Napm;
inchiostri con solventi a base vegetale.
Publistampa Arti grafiche è certificata FSC - Chain of Custody CQ - COC - 000016
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CITTADINANZE
Tutto è iniziato un anno fa. Quando
il direttivo di PSA, insieme alla
nuova presidenza e direzione
artistica, decise di inaugurare il
nuovo corso scommettendo su una
proposta che ad alcuni parve
un’ardita provocazione, ad altri
un’offensiva riesumazione di un
tabù collettivo, ad altri ancora un
intelligente e stimolante rilancio
per una delle rassegne festivaliere
più longeve e seguite in Trentino.
Il titolo che volemmo dare
all’edizione 2007 era quanto mai
emblematico e non lasciava adito
a equivoci: “Apriamo alla follia”.
Un’apertura non soltanto
tematica, ma anche e soprattutto
reale: dopo tanti anni gli edifici
che per oltre un secolo hanno
ospitato uno dei più importanti
manicomi del Nord Italia sono
stati riaperti e simbolicamente
restituiti alla antica destinazione
d’uso. Per un giorno – anch’esso
dall’alto contenuto simbolico, il
14 luglio – sono diventati teatro di
mostre fotografiche, documentari,
performance, laboratori, incontri,
discussioni pubbliche, ma
soprattutto l’occasione per
restituire a un’intera comunità un
immenso patrimonio di storie, una
memoria rimossa che, nel bene e
nel male, ha segnato la vita di
tutti i perginesi. L’inaspettata
partecipazione di pubblico, il
grande interesse manifestato
per ogni singola iniziativa, le
critiche – rivelatesi quasi sempre
costruttive – mosse dai detrattori
hanno avuto il potere di consolidare
un audace esperimento in vero e
proprio progetto, sul quale PSA ha
intenzione di investire, in futuro,
risorse materiali, energie creative e
tanta passione.
Quest’anno vogliamo proseguire
nell’itinerario tracciato un anno
fa, dedicando ben quattro
giornate al tema della memoria ed
eleggendo alcune aree dell’ex
Ospedale psichiatrico a luoghi di
rappresentazione artistica, di
narrazione e di riflessione, spazi
di incontro e di dialogo, di
testimonianza e di emozione.
L’intento è ancora quello di
abbattere metaforicamente sbarre
e recinti, di esplorare il misterioso
e scabroso territorio della follia
umana mediante il multiforme
linguaggio dell’arte, senza con
questo operare indebite
sovrapposizioni con tutti quegli
operatori che quotidianamente
hanno a che fare con la follia
intesa come malattia, sofferenza,
esclusione, bisogno di cura,
semplicemente offrirle margini di
rappresentazione e dunque di
possibile integrazione.
La Città dei Matti è pronta ad
accogliere il contributo di tutti i
perginesi, e di tutti coloro i quali,
senza alcuna distinzione di
provenienza, vorranno partecipare
attivamente al nostro progetto.
È per questo che vogliamo fare
della rivista omonima, che nasce
in occasione del Festival 2008,
non soltanto uno spazio di
approfondimento culturale e un
bollettino di informazione sugli
eventi, le iniziative e i progetti
delle amministrazioni locali e dei
tanti enti e associazioni che
promuovono sul territorio cultura
e spettacolo, ma anche una sorta
di “piazza di carta”, per
raccogliere ricordi, documenti,
immagini di chiunque abbia
voglia di raccontare storie da un
passato comune e mettere in
condivisione frammenti di
memoria individuale e familiare, e
in certi casi sottrarli allo stigma
della vergogna e della rimozione.
La Redazione è dunque a
disposizione di chiunque avesse
voglia di inviare materiale
documentario o semplicemente
scrivere o narrare a voce le
proprie testimonianze, per
pubblicarle, anche in forma
anonima, su queste pagine o
semplicemente per conservarne
traccia in un indice della memoria
dell’ex Ospedale psichiatrico che
vogliamo sin d’ora costruire. *