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PREMESSA alla XVI edizione
Il 4 dicembre 2016 verrà ricordato nella storia della Repubblica come una grande vittoria della «Democrazia»: il popolo italiano ha scelto nuovamente la Costituzione nata dalla Resistenza al regime autoritario rendendo vano, con il referendum confermativo, l’attentato alla sovranità pianificato dalla revisione in senso
«premierale» dalla nostra Carta.
La lotta al fascismo ha dato vita ad una classe mai doma di «patrioti» che hanno conservato integri i loro idea­li nella lettera e nello spirito della Costituzione
e, così, rigettato la «riforma».
La Repubblica, malgrado le inevitabili contraddizioni, in settant’anni di democrazia, è riuscita a salvaguardare i principi fondamentali, le libertà e, purtroppo, solo in parte, le regole dello Stato sociale.
L’aggressione vincente del neo-liberismo, l’ingresso nell’Unione europea, la
crisi dello Stato sociale, la progressiva disattivazione dei principi della «Costituzione economica» (artt. 41-47) hanno creato le premesse di nuove diseguaglianze, pertanto gli Stati da attori delle politiche economiche e finanziarie nazionali
hanno assunto il ruolo di spettatori del nuovo scenario globalizzato delegando il
governo dell’economia all’Unione europea.
Così sovranità, libertà, eguaglianza e solidarietà, vessilli dello Stato democratico, sono gradualmente regrediti dinnanzi alle prepotenze del potere «sovranazionale» e dell’«Impero» (Negri) delle multinazionali.
Il principio cardine della sovranità popolare, che apre e chiude la nostra Costituzione (artt. 1 e 139), è rimasto in piedi nonostante il «combinato disposto»
legge elettorale-riforma costituzionale abbia tentato di violarlo, anche attraverso la pressione mediatica operata dal Governo e dai poteri forti che si celavano
dietro di esso.
La maggioranza dei cittadini ha, così, reindossato le vesti di «patriota della
Costituzione» e ha detto «no» al tentativo di «deforma costituzionale».
Questa grande vittoria non ha avuto però le conseguenze che ci saremmo aspettati dal momento che dal 4 dicembre ad oggi non si è svolta nessuna riflessione
da parte delle forze politiche per lo scampato attentato alla Costituzione, né si è
messo in piedi un progetto di riforma alternativo. Così, chi deteneva, per conto
dei poteri forti, le redini del paese non si è allontanato né ha ceduto le armi ma,
protetto dal partito pigliatutto, ha fatto scendere in campo un governo di panchinari … e sulla vittoria del «no» è sceso un temporaneo oblio.
Nessuna formazione politica, in nome del principio dell’alternanza, si è fatta avanti per dar vita ad una nuova alleanza né, tantomeno, proporre sulle ceneri del tentativo fallito, una riforma condivisibile sulle improcrastinabili esigenze
di superamento del bicameralismo perfetto e di riduzione dei costi della politica
che fino a qualche tempo fa costituivano un «dovere inderogabile».
In tale clima, la Corte costituzionale, con sent. 35/2017, ha parzialmente bocciato l’Italicum (la legge elettorale della Camera) con una sentenza immediatamente esecutiva. La Consulta, così, ha lasciato in piedi le «macerie» dell’Italicum (per la Camera) e il «Mattarellum» (per il Senato): due leggi proporzionali
«rattoppate» e «disomogenee» che, se non saranno coordinate ed uniformate, rischiano di fare ulteriori danni alla nostra già martoriata «Repubblica democratica» che pare oggi non sia in grado, a scapito del principio partecipativo popolare, di andare al rinnovo del Parlamento utilizzano regole coordinate che consentano «scelte democratiche» dei rappresentanti del popolo.
Napoli, febbraio 2017
Nascita e vicende della costituzione italiana:
dall’Assemblea Costituente
alla sentenza 35/2017 della
Corte costituzionale
Il 12 aprile 1944 Vittorio Emanuele III, preso atto dell’impossibilità del ripristino del
regime liberale, lasciò la Corona, istituendo una luogotenenza del regno a favore del figlio Umberto e affidando ad un’Assemblea Costituente il compito di scegliere fra monarchia e repubblica: tale decisione fu formalizzata nel decreto legislativo luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151.
Concluso il secondo conflitto mondiale (1945), un nuovo decreto luogotenenziale del
31 luglio 1945, n. 435 istituì un apposito Ministero per la Costituente, col compito di
predisporre tutti gli strumenti per redigere una nuova Costituzione.
La risoluzione della «questione istituzionale» (cioè la scelta tra monarchia e repubblica) venne affidata direttamente al popolo con la previsione di un referendum istituzionale che si sarebbe tenuto contemporaneamente all’elezione della Costituente, il 2
giugno 1946.
La consultazione popolare diede (anche se di misura e accompagnata da numerose polemiche e contestazioni) esito favorevole alla scelta della Repubblica e, così, il 22 giugno
cadde la monarchia e si tenne la prima seduta dell’Assemblea Costituente.
Preso atto che un’Assemblea così numerosa non poteva elaborare un testo costituzionale, si decise di istituire una Commissione ristretta composta solo da 75 deputati.
Tale Commissione si articolò a sua volta in tre sottocommissioni incaricate di redigerne tre diverse parti: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione costituzionale dello Stato, diritti e doveri nel campo economico e sociale.
Il progetto di Costituzione si concluse con l’approvazione del testo definitivo nella
seduta del 22 dicembre 1947, con 453 voti favorevoli e 62 contrari.
La Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948, anche se la Costituente continuò ad operare, in base alla diciassettesima disposizione transitoria, fino al
30 giugno, approvando le leggi sulla stampa e sull’elezione del Senato nonché gli Statuti delle Regioni Speciali.
La Costituzione, frutto del compromesso fra le eterogenee forze politiche protagoniste
dalla «Resistenza» che aveva abbattuto il fascismo (cattolici, socialisti, comunisti, liberali,
azionisti), si compone di 139 articoli cui si aggiungono 18 disposizioni transitorie e finali.
I primi dodici articoli sono dedicati ai Principi fondamentali della Repubblica mentre i successivi articoli sono suddivisi in Diritti e doveri dei cittadini (artt. 13-54) e Ordinamento della Repubblica (artt. 55-139).
Nel corso del tempo, il testo della Costituzione ha subito modifiche solo marginali.
Una riforma sostanziale si è avuta solo con la L. cost. 3/2001, che ha ridisegnato il Titolo V, Parte Seconda relativo all’assetto di Regioni, Province e Comuni.
Da ultimo, con la L. cost. 20 aprile 2012, n. 1, sotto la pressione dell’Unione europea, è stato introdotto nella Costituzione il principio del pareggio di bilancio, modificando gli artt. 81, 97, 117 e 119.
Il 4 dicembre 2016 si è tenuto il referendum che ha bocciato la riforma del bicameralismo
e del Titolo V della Parte II della Costituzione. Tale riforma, nella quale si inserisce l’approvazione della legge elettorale per la Camera dei deputati, cd. Italicum (L. 52/2015),
avrebbe rappresentato una pericolosa svolta antidemocratica con la trasformazione della nostra forma di governo da «parlamentare» in «premierale», mettendo in piedi un Senato con funzioni confuse e anomale non più rappresentativo del popolo, ma delle istituzioni territoriali.
Con sent. 35/2017 la Consulta (che è stata costretta a sostituirsi ancora una volta al
Parlamento) ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’Italicum quanto all’ipotesi
di ballottaggio e alla possibilità per i capolista, se eletti in più collegi, di scegliere il collegio in cui risultare eletti, prevedendo invece il sorteggio.
Questa sentenza, dichiarata dalla Corte immediatamente esecutiva, nell’intento di
fare chiarezza, apre la via da un mare di polemiche dal momento che le leggi elettorali
applicate ai due rami del Parlamento sono profondamente diverse (soglia di sbarramento, collegi elettorali etc.).
In conclusione la sentenza della Consulta con i suoi «tagli unicamerali» (e non poteva essere diversamente) lascia in piedi due sistemi elettorali tutt’altro che compatibili.
A questo punto o si va al voto con queste leggi e difficilmente chi vince potrà governare, oppure non si vota e si riscrivono regole omogenee.
Se si ricorrerà alla prima ipotesi assisteremo ad un anomalo transito dal «porcellum»,
via «italicum», ad un «bordellum» con buona pace dei cittadini elettori.
Costituzione
della Repubblica Italiana
Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947, promulgata dal Capo provvisorio dello Stato il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948 (G.U. 27 dicembre
1947, n. 298, ed. str.)
Principi fondamentali
L
a Costituzione Repubblicana si apre con un gruppo di 12 articoli in cui
sono poste le fondamenta dell’ordinamento della Repubblica.
Tali principi costituiscono i criteri guida cui i poteri dello Stato devono
conformarsi.
Come affermato dalla Corte costituzionale con sent. 1146 del 1988, la Costituzione italiana riconosce e sancisce alcuni principi supremi che non possono
essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi
di rango costituzionale. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione
esplicitamente indica come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale,
quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto quelli che, pur non essendo espressamente menzionati, costituiscono l’essenza dei valori supremi
sui quali si fonda la Repubblica (ad es. la libertà processuale ex art. 13 Cost.).
Norberto Bobbio sintetizza la «nux» dei primi articoli affermando che i diritti dell’uomo, democrazia e pace sono i tre capisaldi inseparabili della Repubblica in quanto senza il riconoscimento dei diritti dell’uomo non c’è democrazia e senza democrazia mancano le condizioni minime per assicurare la pace.
I più importanti principi enunciati in tali articoli sono:
— la forma di governo repubblicana (artt. 1; disp. finali XII, XIII) sancita
dal referendum popolare del 2 giugno 1946;
— il principio democratico (art. 1): rappresenta la norma base del sistema in
quanto la Repubblica si fonda sul consenso dei cittadini, esclusivi e legittimi titolari della sovranità, i quali partecipano direttamente alla politica nazionale (democrazia diretta), ma soprattutto attraverso i propri rappresentanti (democrazia indiretta) esercitando liberamente e senza costrizioni il diritto di voto;
— il riconoscimento e la tutela delle diversità culturali (artt. 3, 5, 6)
degli individui (lingua, tradizioni, costume, religione etc.) che non devono
rappresentare motivo di discriminazione tra i cittadini;
Costituzione della Repubblica italiana
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— il principio personalista e della dignità umana (artt. 2, 3): la Repubblica «riconosce il primato assoluto della persona al di sopra dello Stato (a prescindere dal sesso, religione etc.)», ne garantisce il «pieno
sviluppo» e tutela la libertà dell’individuo di fronte a qualsiasi restrizione di
libertà, aggressione ed abusi delle autorità costituite (pubbliche o private).
Questo principio non può mai prescindere dal rispetto dell’individuo soprattutto nei momenti più delicati della vita sociale (es.: nelle carceri, durante
il trattamento sanitario etc.) nei quali la dignità umana può essere più facilmente mortificata;
— il principio pluralista (artt. 2, 5), che esalta le comunità intermedie (formazioni sociali) fra individuo e Stato (famiglia, partiti, sindacati, collettività locali) considerate le sedi più idonee per la crescita e lo sviluppo della personalità;
— il principio lavorista (artt. 1, 4), che colloca il lavoro e i lavoratori al centro della vita del paese connotando anche l’Italia come modello di «Stato
sociale». Favorire l’occupazione, infatti, costituisce la più alta aspirazione
della Repubblica che nega qualsiasi forma di privilegio di classe o di ceto e
impone, indistintamente a tutti, attraverso il lavoro, il dovere di contribuire «al progresso materiale e spirituale della società»;
— il principio solidarista (artt. 2, 4), che invita i cittadini ad adempiere ai
doveri inderogabili di fratellanza e solidarietà; tale principio, oltre ad
affermare il «Sacro» al dovere di difendere la patria e di essere fedeli alla Repubblica, impone anche l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche (obblighi fiscali) secondo la propria capacità contributiva improntata al
criterio della proporzionalità e progressività tributaria (la quota del reddito da
versare allo Stato varia in ragione della capacità contributiva del soggetto)
e antielusività (vieta ai contribuenti tentare di sottrarsi agli obblighi contributivi). Il principio «solidarista» è l’anima dello «Stato sociale», che si assume tra l’altro l’onere di favorire l’accesso all’istruzione generale gratuita, l’assistenza sanitaria e sociale per tutti, le assicurazioni sociali e
il sistema pensionistico e previdenziale;
— il principio di eguaglianza (art. 3) degli individui, sia di fronte alla legge che nella società.
L’eguaglianza giuridica (sintetizzata nell’espressione «La legge è uguale per
tutti») rappresenta una conquista indiscussa dello Stato di diritto, mentre
l’eguaglianza sostanziale costituisce nei paesi in cui vige la «libera iniziativa
economica» solo un’aspirazione, un traguardo ideale cui la Repubblica aspira
attivandosi in prima persona alla rimozione degli ostacoli di ordine sociale ed
economico che impediscono il libero sviluppo della personalità di ciascuno;
— il principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5) in base
al quale, pur garantendosi il pluralismo istituzionale, deve essere conservata l’unità politica raggiunta con il Risorgimento, senza possibilità di dividere il territorio o parte di esso;
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Principi fondamentali
— il riconoscimento del decentramento amministrativo, della promozione e del riconoscimento delle autonomie locali (Regioni, Comuni etc.) (artt. 3, 5, 6) in base al quale è possibile attuare forme di decentramento legislativo e amministrativo per avvicinare i governati ai governanti nelle Comunità locali;
— il principio pattizio (artt. 7-8) in base al quale i rapporti fra Stato italiano
e confessioni religiose sono regolati da veri e propri accordi, di tipo internazionale, con la chiesa cattolica (essendo riconosciuta come Stato indipendente e sovrano), approvati con legge per i culti acattolici.
Da una lettura di questi principi traspare la volontà del Costituente di prendere le distanze non solo dal regime fascista, ma anche dal precedente modello di
Stato liberale, le cui contraddizioni avevano consentito, dal 1922 al 1943, l’instaurazione della dittatura.
Il modello d’organizzazione statale delineato dal Costituente è, dunque, quello
dello Stato sociale di diritto che si fa carico di intervenire attivamente nella società, nell’economia e nella finanza per garantire a tutti l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà democratiche.
Dal riconoscimento delle diverse formazioni sociali (famiglia, scuola, sindacati, partiti etc.), denominate dall’insigne filosofo Capograssi «grandi centri
di energia sociale», si evince una visione di uno Stato nel quale il potere non
si arrocca monopolisticamente nei soli apparati centrali, ma si irradia e si avvicina ai cittadini e alle loro spontanee forme di aggregazione di base (Comuni, Città metropolitane etc.) affinché tutti gli individui si sentano protagonisti
della vita e dei progressi economici, politici e sociali della Repubblica (cd. democrazia partecipativa).
Il progetto costituzionale contenuto nei principi fondamentali traccia anche le linee fondamentali della politica estera italiana.
Si sancisce, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e l’affermazione del principio pacifista (art. 11), cancellando, così, ogni aspirazione espansionistica basata su aggressioni armate
contro altri popoli, obiettivo primario cui avevano mirato durante i due secoli scorsi i principali paesi europei, compresa l’Italia che ha portato, anche grazie all’intervento delle Nazioni Unite, alla decolonizzazione e al riconoscimento
del «principio dell’autodeterminazione dei popoli» che è analogo a quello
di sovranità popolare sancito in diritto interno.
Dopo la catastrofe fascista, la Repubblica ha rinnegato la violenza bellica come
strumento di offesa agli altri popoli ed ha aderito, così, all’Organizzazione
delle Nazioni Unite (1955) e ad altri accordi internazionali aventi ad oggetto la tutela della pace,della sicurezza e dello sviluppo democratico dei popoli.
Art. 1
Costituzione della Repubblica italiana
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1
L’Italia è una Repubblica democratica [139] (1), fondata sul lavoro (2) [4].
La sovranità appartiene al popolo (3) [48, 56, 58, 712, 75, 101], che la
esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione (4).
Repubblica democratica: forma di
governo espressa dal popolo nel referendum istituzionale del 2 giugno del 1946.
Con l’avvento della Repubblica le cariche pubbliche si riconducono direttamente o indirettamente al consenso del popolo (dal greco démos = popolo e kratos
= governo), ed il potere ascende dal basso (cittadini) verso l’alto (suoi rappresentanti) e non al contrario, come nello Statuto albertino e nell’ordinamento fascista.
Il concetto di «democrazia» esprime, dunque, il «potere del popolo sul popolo»
(Bobbio) e costituisce la norma base del
sistema che legittima e conferisce efficacia e applicabilità ai diritti inviolabili e
alle libertà fondamentali che rappresentano l’intangibile «tavola dei valori»
fondamento di ogni sistema democratico.
Lavoro: principale aspirazione del Costituente che sancisce la definitiva abolizione dei ceti (nobiltà, borghesia etc.) e delle corporazioni.
Sovranità: «potere supremo» dello Stato all’interno del proprio territorio (sovranità interna) e «indipendenza» rispetto a qualsiasi altro ordinamento (sovranità esterna).
Popolo: titolare esclusivo della sovranità
composto dai cittadini. La cittadinanza
è la condizione cui l’ordinamento riconnette una serie di diritti (ad es. il diritto
di voto) e doveri (concorrere alle spese
pubbliche) ad esse correlate.
Forme e limiti: il popolo non può esercitare la sovranità in modo arbitrario, ma
solo nel rispetto delle procedure stabilite e all’interno del quadro istituzionale
delineato dalla Costituzione (democrazia costituzionale).
Costituzione: legge fondamentale dello
Stato che descrive i valori e i principi che
sono alla base della Repubblica e che descrive l’organizzazione politico-istituzionale.
La Costituzione italiana si fonda su inviolabili valori (tutela dell’uguaglianza e
della libertà degli individui etc.) che sono
indefettibili e rappresentano una conquista irrinunciabile di tutte le democrazie.
(1) Con l’espressione Repubblica democratica l’Assemblea Costituente ha inteso, innanzitutto, riconfermare il risultato della consultazione popolare tenutasi il 2 giugno del 1946 (referendum istituzionale), con cui gli italiani hanno scelto la forma di Stato repubblicana abbandonando quella monarchica.
La Repubblica deve fondarsi esclusivamente
sul consenso di tutti i governati. Esso si esprime attraverso il suffragio universale, senza consentire a nessuna autorità di ridimensionarlo in
qualsiasi modo. In tale ipotesi la «democrazia»
rischia di essere trasformata in «democratura»
(dittatura dei poteri costituiti).
Ciascuno, dunque, ha il diritto di prendere parte, in condizioni di uguaglianza, alla vita
politica del Paese eleggendo senza condizionamenti i propri rappresentanti in seno agli organi legislativi o, attraverso il referendum, governare direttamente il Paese.
(2) Fondamento primario della Repubblica
è il riconoscimento del valore del lavoro, inteso come principale mezzo per il progresso materiale e spirituale dell’intera società.
Tale obiettivo, purtroppo, rappresenta solo
una chimera in una Repubblica basata sul principio di «libera iniziativa economica» e non sulla
«piena occupazione» soprattutto se cancella la
presenza dello Stato nei principali settori economici del Paese, favorendo, al contrario, l’ascesa
di una casta spinta alla conquista dei centri nevralgici del potere economico e politico.
(3) Nei regimi democratici la sovranità si
esercita secondo due modelli:
— quello della democrazia rappresentativa,
nella quale i cittadini eleggono i propri rappresentanti al Parlamento e nelle altre assemblee elettive locali che, a loro volta, par-
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Principi fondamentali
tecipano alla «designazione» e al controllo
degli organi di Governo del paese;
— quello della democrazia diretta, nella quale
i cittadini partecipano in prima persona alle
scelte politiche, votando nei referendum [v.
75], proponendo testi di legge [v. 71], costituiscono liberamente partiti [v. 49] o sindacati [v. 39].
Se per esigenze di governabilità fino ad oggi
la democrazia rappresentativa ha costituito la regola, oggi – grazie all’evoluzione dell’informatica e dietro l’iniziativa di alcuni movimenti e
partiti – si aprono nuovi spiragli alla democrazia diretta con l’utilizzo della cd. «democrazia elettronica» che trova nel social network e
nei blog nuove ed originali forme di diretto coinvolgimento dei cittadini sulle scelte politiche.
In ogni caso, poiché la sovranità appartiene
sempre e comunque a tutto il popolo, la maggioranza dei suoi rappresentanti deve consentire alla
Art. 2
minoranza di poter esprimere senza pressioni e condizionamenti le proprie idee e l’eventuale dissenso
per consentire un corretto confronto democratico
nel Paese. È questo il principio dell’alternanza
che caratterizza tutti i sistemi politici democratici.
(4) Questa regola, sancita dal secondo e dal
primo comma dell’art. 1, connota il nostro ordinamento come Stato di diritto, in cui il principio della soggezione alla legge fa sì che sia
i cittadini che i pubblici poteri siano tenuti al
rispetto della Costituzione e dei suoi principi
(principio di legalità costituzionale).
La Repubblica, dunque, viene riconosciuta dal Costituente come modello di democrazia costituzionale e non maggioritaria che non
tutela le minoranze e che tende ad affermare la
cd. «dittatura della maggioranza» in quanto: «La
Costituzione di un paese non è un atto del suo
governo, bensì del popolo che ‘costituisce’ il
governo» (Thomas Paine, I diritti dell’uomo)».
La Costituzione riassume all’articolo 1 la sua norma base che impone il carattere democratico della Repubblica e afferma il primato della Costituzione, che costituisce, in primis, il «manifesto» dei principi e dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino (cd. democrazia costituzionale).
La Repubblica si fonda esclusivamente sul consenso popolare e sulle regole da esso dettate direttamente (ad es. referendum) o indirettamente (attraverso la libera elezione dei propri rappresentanti nelle assemblee legislative).
Importante novità della Carta è il riconoscimento del lavoro inteso come
principio basilare della società, per cui non ha più alcun peso politico
e sociale il censo o i privilegi di nascita o di casta.
Tale dichiarazione non ha carattere classista, ma enuncia il fondamento
sociale e ideologico della Repubblica, che viene dettagliatamente specificato nelle successive norme della Costituzione.
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La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo
(1) [4, 13 ss.], sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità [18, 19, 20, 29, 39, 45, 49; c.c. 14 ss., 2247 ss.], e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (2) politica,
economica e sociale [4, 23, 41-44, 52-54; c.c. 834-839, 1175, 1176, 19003].
Repubblica: è l’ordinamento giuridico
statale inteso nel suo complesso.
L’impegno costituzionale di riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, ridimensionati o cancellati dal pre-
cedente ordinamento fascista, viene solennemente assunto non soltanto dallo
Stato-apparato, ma anche dallo Stato-collettività, comprensivo di tutti i
corpi sociali e di tutti gli ordinamen-
Art. 2
Costituzione della Repubblica italiana
ti particolari che ad esso fanno capo
(Martines).
Riconosce e garantisce: l’ordinamento giuridico non solo prende atto che ad
esso preesistono alcuni diritti inviolabili essenziali (riconosce) anche se non espressamente menzionati dal Costitutente
(es. diritto alla riservatezza, alla salubrità dell’ambiente), ma si impegna anche
a salvaguardarne la titolarità e l’esercizio (garantisce), senza nessuna forma
di discriminazione. In base a tale assunto non è, dunque, da considerare l’uomo
in funzione dello Stato, ma lo Stato in funzione dell’uomo (Mortati).
Diritti inviolabili dell’uomo: sono
al vertice di ogni Costituzione democratica e devono considerarsi preesistenti allo Stato, originari, in quanto innati nella natura umana e caratterizzanti il
DNA dello Stato democratico.
Una loro qualsiasi limitazione (o modifica in senso restrittivo) costituirebbe un
«sovvertimento» dell’assetto costituzionale e della democrazia.
In particolare, i diritti sono «inviolabili» perché:
— sono irrinunciabili, inalienabili, indispensabili, intrasmissibili e imprescrittibili;
— il loro esercizio non può essere limitato dai pubblici poteri se non temporaneamente per circostanze eccezionali e nel rispetto di precise garanzie enunciate dalla Costituzione;
— sono sottratti alla revisione costituzionale, in quanto la loro evetuale soppressione o lo smantellamento
dell’apparato di garanzie che li tutela determinerebbero un sovvertimento dell’assetto democratico;
— sono riconosciuti indistintamente
a tutti e, quindi, non solo ai cittadini ma anche agli stranieri, agli apolidi e persino ai clandestini, che hanno anch’essi dignità di esseri umani.
Ciò spiega perchè la Costituzione utilizza in molti casi l’espressione «tutti» proprio in riferimento ai diritti e
alle libertà fondamentali.
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Singolo: si specifica il valore costituzionale delle persone (principio personalista) in quanto viene posta in primo piano la dimensione individuale cui fa capo il
patrimonio inviolabile e indefettibile dei
diritti e delle libertà fondamentali.
Formazioni sociali: comunità intermedie fra Stato e individuo nelle quali
si concretizza il bisogno di socialità della
persona per consentir loro di sviluppare
adeguatamente la propria personalità.
Vi rientrano, fra gli altri, la scuola, i partiti, i sindacati, e, in primis, la famiglia.
Le formazioni sociali costituiscono, dunque, liberi e autonomi centri di incontro,
discussione e confronto tra uomini liberi, uguali e di pari dignità caratterizzando, così, la nostra Repubblica come una
democrazia partecipativa.
Doveri inderogabili di solidarietà:
posizioni giuridiche di obbligo a contenuto solidaristico che interessano gli aspetti politici, economici e sociali della vita
del Paese ai quali nessuno può sottrarsi.
Esempi sono: la difesa della Patria (v.
52), l’obbligo di contribuzione alle spese pubbliche (v. 53), la fedeltà alla Repubblica (v. 54).
L’adempimento di tali doveri trasforma
l’individuo (naturalmente spinto all’egoistico e prioritario appagamento dei propri bisogni individuali) in membro effettivo, partecipe e responsabile della comunità nazionale.
(1) Questa norma rappresenta una clausola
generale con la funzione di tutelare e garantire
i diritti dell’uomo, intesi come diritti naturali e valori di libertà che appartengono all’uomo come essere libero e che hanno una valenza storica, ideologica, indiscussa e consolidata.
Sono contenuti nella Carta in affianco a quelli di identico valore che, ispirandosi alla Costituzione, si vanno affermando con l’evoluzione
del costume sociale (es. diritto alla riservatezza, diritto all’identità sessuale etc.).
Questa elasticità permette che una ulteriore generazione di diritti, anche se non esplicitamente menzionati dalla Carta, possa entrare a far parte del patrimonio comune di una ta-
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Principi fondamentali
vola di valori che caratterizza la forma Stato
democratico.
Ciò connota l’art. 2 come «norma a fattispecie aperta» (Barbera), in sintonia con
lo spirito garantista della Costituzione che tutela globalmente (e in qualsiasi forma) i valori inviolabili della persona. Dunque l’art. 2 non rappresenta una norma a fattispecie chiusa che,
come tale, si limita solo alla rigorosa classificazione dei diritti e delle libertà.
I diritti inviolabili dell’uomo oltre ad essere sanciti dalla Costituzione, «di cui rappresentano il DNA» (PICIOCCHI), formano oggetto di
numerose convenzioni internazionali tutte ratificate dall’Italia. Tra essi si ricordi la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che
ha istituito la Corte europea dei diritti dell’uomo, organo giudicante sovranazionale chiamato a rendere effettiva la tutela del catalogo dei
diritti in essa riconosciuti.
Si noti che alle norme della CEDU è riconosciuto il valore di norma interposta nei giudizi di legittimità costituzionale [v. 134], per cui
sia il legislatore nazionale che quello regionale non possono porsi in contrasto con le norme
e i valori espressi in essa contenute.
Alla CEDU rinvia anche la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre
2000 (v. appendice) che codifica i diritti fondamentali a livello europeo. Tra tali diritti richiamati dalla Carta vanno menzionati il rispetto dell’integri-
Art. 2
tà fisica, della salute, il diritto alla dignità umana,
la libertà di pensiero e di religione, che la Costituzione italiana tutela, rispettivamente, agli artt. 32,
3, 21, 8 (v.). Ad essi, poi, la Carta aggiunge anche
i cd. diritti di nuova generazione (es.: la tutela
del consumatore di cui all’art. 38 v.).
Infine, con l’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona il 1° dicembre 2009, è stata prevista l’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed è stato riconosciuto valore giuridico vincolante alla Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea (art. 6 TUE).
Tutto ciò comporta una tutela multilivello
dei diritti fondamentali che si articola: a livello
nazionale, al livello CEDU e al livello europeo
trovando rispettivamente nei tribunali nazionali,
nella Corte europea e nella Corte di Giustizia, i
propri organi di vigilanza e tutela.
(2) «Solidarietà» nella Costituzione significa non solo adempimento dei doveri imposti
dallo Stato, ma più in generale connota l’agire
individuale e sociale inteso come libera e spontanea espressione della socialità che caratterizza l’essere umano al di là del personale calcolo
utilitaristico o delle imposizioni di un’autorità
legalmente sovraordinata.
Si ricordi, infine, che tutti i valori sanciti dagli artt. 2 e 3 dalla Costituzione tra cui il «dovere di solidarietà» furono già solennemente
sanciti nella triade liberté, égalité, fraternité
proclamata dalla Rivoluzione francese (1789).
L’art. 2, proclama solennemente «i diritti dell’uomo e del cittadino»
in contrapposizione col totalitarismo fascista che negava i diritti inviolabili,
traducendo in linguaggio giuridico i tre principi fondanti della Repubblica:
— il principio personalista che riconosce e garantisce i diritti individuali dell’uomo considerato come singolo individuo;
— il principio pluralista che riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo nell’ambito delle formazioni sociali cui liberamente sceglie
di appartenere;
— il principio solidarista che richiede a tutti l’adempimento dei doveri
inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (v. ante) per
garantire la corretta sopravvivenza dello Stato.
In particolare, in base al principio personalista, al vertice dei valori riconosciuti dall’ordinamento giuridico si colloca la persona, sia nella sua dimensione individuale che in quella sociale, per cui è lo «Stato chiamato ad agire in funzione della persona, non la persona per lo Stato» (ONIDA).
Art. 3
Costituzione della Repubblica italiana
18
La Costituzione, cancellando ogni retaggio del passato, non considera più
l’essere umano nella veste di suddito di uno Stato «onnipotente» (come accaduto sotto l’ideologia fascista), ma ne esalta la libertà e la dignità, considerate valori umani inviolabili (cioè immodificabili) e supremi.
La persona, titolare esclusiva delle libertà individuali (art. 13 e ss.)
e dei diritti sociali (art. 32 e ss.), viene, dunque, prima dello Stato ed è
al centro di tutti i rapporti sociali: la Repubblica ha il dovere di attivarsi affinché le norme emanate dallo Stato (e dagli altri enti con poteri normativi)
non tradiscano tali principi facendo venir meno le condizioni necessarie per
il libero sviluppo dell’individuo.
La Costituzione in questo articolo ha riconosciuto anche alle formazioni
sociali un ruolo essenziale nella crescita dell’individuo, rendendole destinatarie degli stessi diritti dell’individuo (principio del pluralismo sociale)
in quanto ad esse fanno capo le cd. libertà collettive [ad es. il diritto di riunione e associazione (artt. 16 e 17), di sciopero (art. 49 etc.)].
L’ultimo comma afferma, infine, il principio solidarista, che impone ai cittadini di contribuire alla concreta attuazione dei valori supremi del sistema,
partecipando attivamente alla vita politica, economica e sociale (artt. 52-54).
Da tale principio derivano precisi doveri a vantaggio della comunità, ai quali
il singolo non può sottrarsi e che sono il vessillo dello «Stato sociale» che
rappresenta un’integrazione necessaria alla forma di «Stato di diritto».
3
Tutti i cittadini (1) hanno pari dignità sociale (2) e sono eguali davanti alla legge (3), senza distinzione di sesso [29, 31, 371, 481, 51; c.c. 143,
230bis], di razza, di lingua [6], di religione [8, 19, 20], di opinioni politiche
[21, 49], di condizioni personali e sociali (4) (5).
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico [243, 34, 36, 40] e sociale [302, 31, 32, 37], che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana [37, 38] e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori [35] all’organizzazione politica [48, 49], economica [39, 45-47] e sociale [31, 34] del Paese (6).
Cittadino: individuo appartenente a un
determinato Stato che gli riconosce una
serie di diritti e doveri. Tale espressione oggi indica non solo la cittadinanza
nazionale, ma anche quella «europea».
Pari dignità sociale: valore costituzionale primario, che va al di là della occupazione o professione e delle condizioni
socio-economiche del singolo in virtù del
primato riconosciuto all’essere umano
di fronte allo Stato. Ciascuno ha, infatti, diritto di essere trattato e riconosciu-
to come «uomo» in ogni rapporto sociale in cui si viene a trovare. Tale principio
ha un forte significato ideologico di connotazione di sistema ed è la premessa logica del divieto di discriminazione enunciato al secondo comma.
Uguali davanti alla legge: non vengono riconosciuti più i privilegi che in passato erano appannaggio solo di alcuni cittadini o classi sociali (cfr. la XIV disp. trans.
della Costituzione che cancella qualsiasi
riconoscimento dei titoli nobiliari).
19
Principi fondamentali
Sesso: tale eguaglianza trova applicazione nell’ambito della famiglia (29), dei
rapporti di lavoro (37), nell’accesso ai
pubblici uffici e idoneità alle cariche
elettive (51) e importa il rispetto delle
pari opportunità tra uomini e donne.
Razza: impone la parità di trattamento
tra le persone a prescindere dalla loro
origine etnica.
Lingua: a difesa dell’identità culturale
delle diverse comunità presente sul territorio nazionale (art. 6).
Religione: si oggettiva nella libertà di
professare qualsiasi confessione perché
i suoi riti non si oggettivino in comportamenti illegali o contrari al buon costume (v. infra artt. 7, 8).
Opinioni politiche: a tutela della libertà di pensiero (art. 21), libertà di voto (art.
48) di iscrizione ai partiti politici (art. 49).
Condizioni personali e sociali: la Repubblica non può far prevalere qualsiasi
forma di discriminazione e diseguaglianza
(basata su tali condizioni) che, come tale,
impedisce il pieno sviluppo della persona.
Ostacoli di ordine economico e sociale: insieme delle situazioni di potenziale inferiorità (basso reddito individuale e familiare, minor grado di istruzione,
handicap fisici o psichici etc.) che ledono la dignità umana, attenuando nel singolo anche l’impulso a realizzarsi come
persona. Tali ostacoli, se non opportunamente rimossi da chi governa, rappresentano una fonte di discriminazione
tra quanti vivono ed operano nel Paese.
Uguaglianza: «tutti gli uomini nascono liberi o rimangono uguali nei
loro diritti» così recita la «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» del 1789 che ha ispirato, assieme a
quella americana, la nostra Costituzione.
Pieno sviluppo della persona: obiettivo prioritario cui deve tendere la Repubblica per consentire «a tutti i membri
della società di partecipare alla gara della
vita in condizioni di parità».
Tutti i lavoratori: tale espressione include anche gli stranieri, immigrati o
clandestini (v. nota 1) che svolgono il
Art. 3
proprio lavoro sul territorio della Repubblica o per lo Stato all’estero.
Questi ultimi, pur non essendo titolari di diritti politici (es. voto) vantano in
ogni caso parità di diritti economici e
sociali oltre al rispetto dovuto a tutti i
diritti inviolabili riconosciuti a qualsiasi essere umano.
(1) Anche se la norma fa riferimento ai soli
cittadini, la giurisprudenza costituzionale (cfr.
sent. 120/1967) ha correttamente riconosciuto
l’operatività del principio di uguaglianza anche
nei confronti di tutti: apolidi, stranieri e persino ai clandestini, relativamente al godimento dei
diritti fondamentali dell’individuo (la piena tutela
giurisdizionale, l’accesso ai pubblici servizi etc.).
Tale interpretazione trova piena conferma
nel secondo comma, che riconosce a tutti i lavoratori (siano essi cittadini, stranieri o apolidi
anche se irregolari) una serie di diritti economici e sociali, in affianco al nucleo fondamentale
di valori costituito novero dei diritti inviolabili.
Per quanto attiene la cittadinanza si veda
la L. 91/1992 che determina i casi di acquisto e
perdita della stessa. Lo status di cittadino italiano, comporta automaticamente il possesso
della cittadinanza europea.
(2) La tutela della pari dignità sociale, insieme alla «dignità» del singolo di cui all’art. 2,
rappresenta una manifestazione del più generale
principio dell’inviolabilità della dignità umana.
La tutela e il rispetto di tale diritto è sancito all’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (v. Appendice), che dedica l’intero Capo alla dignità umana analizzandone e tutelandone le diverse forme di espressione e di negazione (si pensi alla schiavitù e al
lavoro forzato, vietati dall’art. 5).
In particolare, la Carta introduce ulteriori diritti, quale quello degli anziani ad una vita dignitosa e indipendente (art. 25), che la nostra Costituzione non tutela espressamente ma che rappresentano una manifestazione del principio di
non discriminazione insito nel principio di uguaglianza e sancisce il principio dell’affermative
action in materia di lavoro tra donne e uomini.
(3) L’uguaglianza formale va intesa in due
diverse accezioni: come uguaglianza davanti alla
legge o come uguaglianza nella legge.
Art. 3
Costituzione della Repubblica italiana
Quanto al primo significato, essa indica
che nessuno può ergersi al di sopra della legge facendo valere nei confronti dei suoi simili inammissibili condizioni di superiorità o differenze sociali.
L’uguaglianza nella legge, invece, pone un
vincolo allo stesso legislatore, vietandogli di
emanare leggi che contengano discriminazioni
fondate sulle qualificazioni personali che vengono spressamente indicate dalla Costituzione:
sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali.
Il principio di uguaglianza dinanzi alla legge trova piena garanzia e tutela anche a livello
sovranazionale e, più precisamente, all’art. 20
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (v. Appendice).
(4) Il principio di eguaglianza si impone a
diverse categorie di destinatari:
— innanzitutto ai giudici, che devono giudicare senza discriminazioni o favoritismi coloro che hanno commesso gli stessi reati;
— agli amministratori, cui incombe per disposizione costituzionale l’obbligo di essere imparziali nei confronti di tutti (v. 97).
Tuttavia esso incide anche sul contenuto
delle leggi (sia nazionali che regionali), che non
possono introdurre norme discriminatorie alla
luce dei citati parametri di riferimento elencati
nella seconda parte del primo comma.
Il principio di eguaglianza formale trova ulteriore specificazione in altre norme: nell’art. 29,
che attribuisce ai coniugi, all’interno della famiglia, pari dignità morale e giuridica; nell’art. 37,
per il quale la donna lavoratrice ha gli stessi diritti dell’uomo lavoratore; nell’art. 48, che sancisce il principio del suffragio universale etc.
(5) Trattare in modo sempre uguale le complesse situazioni che si presentano nella realtà
giuridica e sociale non sempre può rivelarsi conforme a giustizia. Ciò spiega perché la Costituzione autorizza differenti trattamenti fondati proprio su una delle qualificazioni personali
indicate in questo primo comma. All’art. 6 (v.),
ad esempio, si giustifica la creazione di norme
specifiche a tutela delle minoranze linguistiche.
20
Al legislatore spetta, il delicato compito di
valutare se una eventuale forma di discriminazione o condizione di favore introdotta dalla legge sia ragionevole e giustificabile (principio di ragionevolezza delle leggi), alla luce
della presunzione generale di irragionevolezza per le discriminazioni elencate già nel citato secondo comma.
(6) Per ridurre le diseguaglianze di fatto,
determinate dalla disparità di condizioni economiche, tipiche di ogni sistema liberale, la Repubblica può solo limitarsi ad attenuare gli «scarti
sociali» che, altrimenti, possono diventare desocializzanti, distruggendo nell’individuo la convinzione di appartenere alla comunità nazionale in condizioni paritarie.
Ciò spiega lo stimolo del Costituente a promuovere l’eguaglianza rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano
l’estensione del diritto di eguaglianza a tutti e
a favorire le adeguate azioni positive per consentire il pieno sviluppo della persona umana.
Tale aspirazione all’eguaglianza sostanziale, in un paese ove vige l’economia di mercato, segna il passaggio dall’ordinamento liberale
(in cui la società è organizzata sui principi della
proprietà privata e dell’assoluta libertà economica) ad una nuova forma di Stato sociale ed
interventista che, pur riconoscendo la piena libertà economica dei singoli, si impegna a creare le condizioni necessarie per consentire l’accesso di tutti almeno alle imprescindibili e incancellabili utilità sociali come la salute (v. 32),
il lavoro (v. 38), l’istruzione (v. 34).
In questo senso il principio di uguaglianza
sostanziale si riconnette alla realizzazione della democrazia implicando una effettiva garanzia di pari opportunità di lavoro riconosciuta
a tutti gli individui e il conseguente intervento
riequilibratore da parte dello Stato e delle pubbliche istituzioni attraverso le «azioni positive».
La parità di chances, comunque, è riconosciuta dalla Costituzione solo in fase di partenza, ma non nei risultati successivi che derivano
unicamente dall’abilità produttiva ed economica del singolo (SCARPONI).
L’art. 3 viene definito il «cuore della Costituzione» perché ne rappresenta una delle principali chiavi di lettura: non a caso la Corte costituziona-
21
Principi fondamentali
Art. 4
le parla di «principio generale che condiziona tutto l’ordinamento
nella sua obiettiva struttura» e che rappresenta la condizione essenziale per lo sviluppo dell’essere umano.
In base a tale principio la legge deve rivolgersi «egualmente» a tutti, governanti e governati, uomini e donne, cittadini e non cittadini, e nessuno
può essere esentato a nessun titolo dal rispettarla.
Il legislatore, dunque, non può emanare leggi «ad personam» che favoriscano
alcuni cittadini anche nel caso ricoprano importanti cariche istituzionali: costoro,
anzi, devono essere d’esempio del pieno rispetto della Costituzione e delle leggi.
Questo articolo costituisce allo stesso tempo sia il fondamento dello Stato di diritto (primo comma) che dello Stato sociale e interventista (secondo comma):
— il primo comma nega rilevanza giuridica alla diversità di condizioni materiali in ossequio al principio «la legge è uguale per tutti»;
— il secondo comma, partendo dalla presa d’atto delle diseguaglianze
come momenti limitatori della «libertà economica» (tipica dello Stato liberale) a favore dei soggetti economicamente e socialmente più deboli,
impone alla Repubblica una serie di azioni positive per dare a tutti pari
opportunità economiche, politiche e sociali (es.: rispetto delle quote cd.
«rosa» nella presentazione delle liste elettorali).
L’art. 3 sancisce altresì il principio di ragionevolezza, che determina equi
termini di convivenza civile conferendo alla Repubblica l’onere di rimuovere gli ostacoli economici tutte le volte che gli stessi impediscono il pieno sviluppo della persona.
4
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini (1) il diritto al lavoro (2)
[35 ss.; c.c. 2060 ss.] e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto (3).
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità
e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società (4).
Diritto al lavoro: non si tratta di un
diritto soggettivo perfetto che conferisce
al singolo l’immediata pretesa a ottenere
un posto di lavoro, ma postula un’obiettivo sociale della Repubblica: assicurare il lavoro a tutti.
L’articolo invita i poteri pubblici alla creazione di quelle condizioni che garantiscano il lavoro a tutti i cittadini attraverso lo svolgimento di una politica sociale ed economica rivolta al raggiungimento della piena occupazione.
Possibilità e scelta: lo Stato deve consentire al singolo di decidere la propria
attività lavorativa liberamente in conformità alle proprie attitudini e al titolo professionale acquisito.
Promuove le condizioni: è l’impegno
concreto assunto dallo Stato-interventista, che si fa carico di una serie di obiettivi di politica nazionale (massima occupazione, sviluppo etc.).
Attività o funzione che concorra al
progresso materiale o spirituale del-
Art. 4
Costituzione della Repubblica italiana
la società: questa espressione descrive
uno specifico dovere di solidarietà. Si
richiede, infatti, che ciascuna prestazione d’opera apporti una concreta utilità alla
collettività e al progresso della società.
(1) Avendo aderito il nostro Paese all’Unione
europea per «cittadini» devono intendersi tutti
coloro che sono in possesso della cittadinanza
europea e che possono far valere i propri diritti
su tutto il territorio dell’Unione europea (circolazione, soggiorno, tutela diplomatica, accesso ai documenti delle istituzioni europee etc.).
(2) Il diritto al lavoro è innanzitutto un diritto di libertà, che consente di scegliere il tipo
e le modalità di esercizio della propria attività
lavorativa. Sono, quindi, da considerarsi incostituzionali (v. 134) quelle leggi che introducono limitazioni od ostacoli al libero esercizio dell’attività lavorativa.
Il diritto al lavoro e all’esercizio di una professione liberamente scelta trova idonea tutela
anche a livello sovranazionale e, precisamente,
all’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione europea (v. Appendice). Quest’ultima, inoltre, estende tale diritto ad ogni cittadino
dell’Unione – garantendo quindi la libertà di circolazione dei lavoratori sul territorio dell’Unione – ed equipara, come detto, i cittadini europei
ai cittadini dei paesi terzi che sono autorizzati a
lavorare negli Stati membri.
(3) Il lavoro è lo strumento attraverso il quale le persone si procurano i mezzi per il loro sostentamento considerato, al pari della sovranità
popolare, una norma base, cioè, il fondamento dell’intero ordinamento repubblicano (v. 1).
22
Per questo motivo i pubblici poteri sono
chiamati ad intervenire per rendere effettivo
tale diritto. I mezzi, le modalità, i tempi, sono,
però, lasciati alla discrezionalità del legislatore ordinario e al libero gioco delle parti sociali
(rappresentanti dei lavoratori e datori).
La norma ha valore programmatico, non
precettivo, ossia non sancisce obbligo di favorire la stabilità dell’occupazione attraverso il controllo pubblico alla corretta disciplina dell’accesso, dello svolgimento e della cessazione del
rapporto di lavoro.
La stabilità è comunque assicurata dal riconoscimento del diritto del lavoratore illegittimamente licenziato di essere reintegrato nel
posto di lavoro. Tale diritto tuttavia è stato fortemente ridimensionato negli ultimi anni e sostituito da una tutela esclusivamente risarcitoria. In particolare, con l’introduzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele
crescenti (D.Lgs. 23/2015 di attuazione del Jobs
Act) viene realizzato un vero e proprio cambio
di paradigma nella concezione stessa del rapporto di lavoro con il superamento del modello di tutela del lavoro incentrato sulla stabilità,
considerato ora invece come un fattore frenante dell’occupazione.
Allo stesso modo non è in astratto configurabile un diritto al mantenimento del posto di
lavoro che trova nei cd. «ammortizzatori sociali» (art. 38) una specifica forma di tutela a carico dello Stato.
(4) Il lavoro non rappresenta solo un diritto, bensì anche un dovere di solidarietà sociale (v. 2) che ciascuno è tenuto ad adempiere per
contribuire al progresso dell’intera collettività.
Lo Statuto Albertino, come tutte le Costituzioni liberali dell’800, non disciplinava né la materia economica né il lavoro fondandosi sul noto principio
del cd. laisser-faire: lasciare cioè che l’equilibrio economico (che si regge sulle
leggi della domanda e dell’offerta) fosse determinato dal libero gioco delle leggi di mercato a prescindere dal raggiungimento dell’obiettivo del pieno impiego.
La Costituzione, al contrario, pone a fondamento del nuovo ordinamento
repubblicano il lavoro, sancendo l’obbligo del legislatore e dei poteri pubblici di favorire la piena occupazione.
Corollario di tale principio è il catalogo dei diritti sociali che il Costituente ha previsto, per quanto riguarda il lavoro subordinato, nelle successive disposizioni costituzionali (artt. 35-38) che connotano il nostro come
23
Principi fondamentali
Art. 5
«Stato sociale» (la tutela di ogni forma di lavoro, il diritto ad una retribuzione proporzionata e adeguata, il diritto alle ferie e al riposo settimanale,
il diritto all’eguale trattamento giuridico ed economico di uomini e donne a
parità di qualifica etc.).
La norma in esame, però, si limita a dettare solo le regole e i principi cui debba ispirarsi il mercato del lavoro al fine di eliminare inique barriere di accesso
e favorire per quanto possibile la stabilità e la durata del rapporto di lavoro.
Questo articolo definito in sede di Assemblea Costituente da Calamandrei
come una «rivoluzione promessa», nell’attuale situazione di crisi del nostro Paese, oggi, ha il triste sapore di «rivoluzione mancata».
5
La Repubblica, una e indivisibile (1), riconosce e promuove (2) le
autonomie locali [114 ss.]; attua nei servizi che dipendono dallo Stato
[97] il più ampio decentramento amministrativo (3); adegua i principi ed
i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento (4).
Repubblica unica e indivisibile: la
Costituzione italiana ribadisce con forza
l’opzione inderogabile del popolo italiano per una forma di Stato unitario.
Il carattere unitario della Repubblica va inteso in una triplice accezione
(ROLLA):
— politico-istituzionale: che assolve
ad una funzione garantista, proponendosi di conservare l’unità raggiunta
con l’Unità (1861) ed evitare che un
eventuale pluralismo federale possa degenerare in separatismo istituzionale;
— giuridico-ordinamentale: che riafferma l’esigenza che tutte le articolazioni territoriali del sistema si ispirino ad un comune sistema di valori di condivisione nazionali (patriottismo istituzionale);
— unitaria, che ne postula l’intervento affinché non venga mai lesa, su
tutto il territorio nazionale, la parità
tra i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali e che vengano rispettate le pari opportunità e i doveri di
solidarietà previsti in capo ai singoli
dalla Costituzione.
L’indivisibilità, dunque, sancisce il divieto di dividere il territorio in più entità
di tipo statuale nemmeno mediante revisione costituzionale (v. 139).
Riconosce e promuove: la Repubblica «riconosce» gli enti locali già presenti
sul territorio già dalla nascita del Regno
d’Italia (1861) (Comuni), mentre il legislatore del ’48, riferendosi alle allora costituende «Regioni», adopera il termine
«promuove» per sancire l’impegno della
Repubblica ad ampliare le sfere delle autonomie territoriali dello Stato-comunità.
Autonomia locale: riconoscimento della capacità dell’ente locale di regolamentare e gestire una parte di affari pubblici connessi a specifiche esigenze locali.
Tale potestà va esercitata nel rispetto della Costituzione ed è limitata al solo territorio dell’ente locale.
In particolare si distingue:
— l’autonomia normativa, che consiste nel darsi delle norme che regolino determinati aspetti della comunità territoriale;
— l’autonomia amministrativa attraverso atti amministrativi con identico
valore di quelli statali, ma circoscritti
ai singoli territori di competenza;
— l’autonomia finanziaria per la
gestione autonoma di una parte del-
Art. 5
Costituzione della Repubblica italiana
le risorse finanziarie necessarie per
l’esercizio delle proprie funzioni.
Decentramento amministrativo: è
una forma di ramificazione sul territorio dell’amministrazione diretta statale che affida ad appositi uffici decentrati
dello Stato centrale (Prefetture, Questure, Direzioni regionali dei ministeri) le funzioni e le competenze amministrative facenti capo agli organi centrali.
(1) L’affermazione dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica è il principio guida
che rappresenta la «facciata» interna della «sovranità» (Berti).
Tale disposizione si configura come norma di:
— principio in quanto costituisce un presupposto necessario e indefettibile della struttura della Repubblica italiana;
— organizzazione che caratterizza la forma di
Stato italiana;
— programma che non consente modifiche
della Costituzione che mettano in pericolo
l’unità dello Stato.
Il carattere unitario dell’ordinamento costituzionale richiede che le relazioni tra i livelli
istituzionali in cui si articola la Repubblica (Stato, Regioni, Comuni etc.) si ispirino al principio di lealtà costituzionale: le diverse parti (istituzionali), nel proprio agire, sono tenute a collaborare per il mantenimento ed il rafforzamento dell’ordinamento generale (ROLLA).
(2) La Costituzione non si è limitata soltanto a prendere atto delle realtà locali già esistenti nel regno d’Italia (1861-1948) ma ha inteso
promuovere anche l’istituzione ex novo delle Regioni al fine di ampliare la sfera di autonomia
delle comunità territoriali per consentire al cittadino di partecipare più da vicino alla vita politica del paese, attraverso le singole comunità
locali. Tale esercizio si attua per le Regioni autonome nelle forme e nei limiti dettagliatamen-
24
te stabiliti dal Titolo V della Parte Seconda, che
gradua e diversifica l’autonomia degli enti rappresentativi delle comunità locali.
La riforma costituzionale realizzata dalla L.
cost. 3/2001, oltre ad ampliare i margini di autonomia delle Regioni ordinarie, ha costituzionalizzato anche la Città metropolitana (v. 114)
che rappresenta un nuovo ente locale disciplinato dall’art. 23 D.Lgs. 267/2000 (Testo unico
degli enti locali).
(3) In base al principio del decentramento, l’organizzazione dello Stato è invitata, al fine
di evitare un ingiustificabile irrigidimento centralizzato, ad articolarsi in più centri di potere, ciascuno dei quali con ragionevoli margini
di libertà di azione.
All’interno della nozione unitaria è, inoltre,
possibile distinguere fra decentramento del potere centrale:
— autarchico, quando le funzioni vengono trasferite ad enti diversi dalla persona dello
Stato dotati di autarchia, cioè capacità di
porre in essere atti amministrativi che abbiano la stessa natura e la stessa efficacia degli
atti statali;
— burocratico, quando agli uffici periferici
vengono trasferite potestà decisionali (con
relative responsabilità) e non soltanto compiti preparatori o esecutivi;
— funzionale, quando determinate funzioni
vengono attribuite a strutture che godono
di autonomia operativa, finanziaria e contabile.
(4) Alla promozione si affianca l’adeguamento della legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento. L’art. 5 viene a
rappresentare un vincolo specifico per il legislatore sia statale (che conserva rilevanti funzioni in materia di ordinamento degli enti locali e di allocazione delle funzioni amministrative) che regionale (le Regioni sono il centro del
sistema delle autonomie locali).
Contrapponendosi all’ordinamento fascista, (fortemente accentrato come tutte le dittature) in cui qualsiasi forma autonomistica era vietata, la Costituzione sancisce, accanto al citato pluralismo ideologico, il principio del
pluralismo territoriale, in base al quale lo Stato non ha più il monopolio delle funzioni sovrane, ma le affida e riconosce ad autonomi centri di potere locali diversi da esso.
25
Principi fondamentali
Art. 6
L’art. 5, infatti, nel ribadire l’intangibile principio di unità e indivisibilità della Repubblica, oltre a riconoscere il principio del decentramento, promuove nuove forme di autonomie locali.
Dall’esame della norma sono desumibili tre corollari fondamentali:
1) l’unità e l’indivisibilità territoriale della Repubblica riconosciuto come limite invalicabile al riconoscimento e alla promozione delle autonomie locali;
2) l’attuazione del più ampio decentramento amministrativo nella erogazione dei servizi per una più agevole fruibilità degli stessi;
3) l’adeguamento della legislazione dello Stato alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Il Costituente, dunque, si impegna a potenziare la «pluridimensionalità
del cittadino» (PIZZETTI) ovvero il suo coinvolgimento sia a livello di stato persona che di enti locali.
«Decentramento» e «autonomia», pur non essendo sinonimi, perseguono
a livello costituzionale lo stesso fine: permettono, cioè, di avvicinare i propri destinatari ai servizi e alle funzioni che dipendono dallo Stato.
L’autonomia riconosciuta agli enti territoriali, consente, dunque, di formulare un proprio indirizzo politico e amministrativo in base alle istanze
politiche e programmatiche, che, attraverso libere elezioni, provengono dalle singole comunità che li compone e li elegge. Si noti, infatti, che gli organi di Governo di ciascuna Regione, essendo eletti dai cittadini di appartenenza, sono talvolta composti da maggioranza diverse da quelle dello Stato.
Lo Stato resta comunque il principale ente sovrano centrale e indefettibile del sistema obbligato a garantire a tutti l’esercizio dei poteri che la
Costituzione riconosce agli enti territoriali.
6
La Repubblica (1) tutela (2) con apposite norme le minoranze linguistiche [X disp. trans. e fin.] (3).
Repubblica: [v. 2].
Apposite norme: a differenza dell’art.
3 Cost. che garantisce solo in negativo la
libertà linguistica (contro ogni forma di
discriminazione), tale disposizione tutela in positivo le minoranze linguistiche
concedendo un potere normativo alle
Regioni in cui tali comunità sono presenti e attive.
Minoranza linguistica: formazione sociale che risiede storicamente sul territorio e che si caratterizza per l’uso di una
lingua differente da quella italiana: da
ciò si desume l’appartenenza di tali comunità a etnie diverse definite «comunità
diffuse sul territorio nazionale», prive
di una propria organizzazione istituzionale, di cui la Repubblica intende, comunque, conservare l’identità sociale, tradizionale e culturale proprio a partire dalla
tutela del singolo patrimonio linguistico.
(1) La Costituzione usa in questo comma
il termine «Repubblica» e non quello di «Stato» perché l’impegno di tutelare le minoranze è
un obbligo che ricade non soltanto sugli organi dello Stato centrale, ma si estende parimenti a tutte le comunità territoriali e istituzionali
in cui queste formazioni sociali sono presenti e
che costituiscono nel loro insieme la Repubblica.
Art. 6
Costituzione della Repubblica italiana
Anche la comunità internazionale, al pari di
quella statale, tende a tutelare le minoranze, soprattutto attraverso specifici trattati, con i quali gli Stati, nel cui territorio sono presenti tali
gruppi, sono tenuti a garantire alle minoranze
parità di diritti, libertà ed autonomia.
(2) La norma in esame oltre a vietare, alla
stregua dell’art. 3, ogni forma di discriminazione
(vale a dire un trattamento peggiorativo fondato
sulla diversità di lingua) offre anche una tutela
positiva, al fine di conservare il patrimonio linguistico e culturale delle minoranze in ossequio
ai principi generali di pluralismo e tolleranza.
Il contenuto della norma trova tutela anche
a livello sovranazionale: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sancisce all’art.
21 (v. Appendice), nella versione del 2007 entrata in vigore con il Trattato di Lisbona il 1°
dicembre 2009, il divieto di qualsiasi discriminazione fondata (anche) sulla lingua e, all’art.
22, il rispetto da parte dell’Unione della diversità linguistica (oltre che culturale e religiosa).
Quest’ultimo principio si fonda soprattutto sulla
natura stessa dell’Unione europea, intesa come
struttura sovranazionale formata da diversi Stati
membri portatori di culture e tradizioni differenti.
(3) Fino alla emanazione della legge n. 482
del 1999, non esisteva nel nostro ordinamento
una legge-quadro che dettasse principi e cri-
26
teri direttivi uniformi per la tutela delle minoranze, tale da assicurare su tutto il territorio nazionale standard minimi generali condivisi di tutela.
Uno status giuridico privilegiato veniva riconosciuto soltanto alle minoranze nazionali (francofona in Valle d’Aosta, germanofona in Trentino Alto Adige, slovena in Friuli-Venezia Giulia) cui una legislazione di rango internazionale (trattati di pace del ’45) o costituzionale (gli
Statuti delle Regioni speciali) e di attuazione
statutaria, riservava forme particolari di tutela.
La legge 482/99 assicura, invece, interventi
a tutela del patrimonio culturale e linguistico di
tutte le minoranze storiche (albanesi, catalane,
germaniche, greche, slovene e croate e di quelle
parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo) a livello di
scuole, università, amministrazioni pubbliche,
favorendone la conoscenza, l’uso, la conservazione della loro tradizione linguistica e culturale.
Si noti che l’elenco dei soggetti tutelati dalla
L. 482/1999 non include i nomadi, gli immigrati e, più in generale, le nuove minoranze che si
vanno formando nel nostro paese. Tale esclusione
non ha tuttavia impedito, anche al nostro governo,
di ricomprendere i suddetti gruppi nelle categorie
specificamente tutelate dalla Convenzione-quadro
sulle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa.
La Costituzione, differentemente da quanto previsto da altre Carte costituzionali (come quella francese, spagnola etc.), non indica la lingua ufficiale della Repubblica, ma si limita a ribadire il precetto già contenuto nell’art.
3 nella parte in cui vieta ogni forma di discriminazione in base alla
lingua, impegnandosi a promuovere la tutela delle minoranze alloglotte
che rientrano a pieno titolo nel novero delle «formazioni sociali» (art. 2).
L’articolo 6 non si limita a ribadire le prescrizioni dell’art. 3 ma sancisce
l’uguaglianza nella diversità e tutela le minoranze linguistiche come
diretta conseguenza del mutato trattamento delle minoranze dopo la caduta del regime fascista e la nascita di un nuovo Stato democratico, pluralista e sociale (PIZZORUSSO).
Il regime fascista, esaltando i valori dell’unità e della nazione, adottò una indiscriminata politica repressiva verso tutte le minoranze (come, ad esempio, le disposizioni sulla italianizzazione dei cognomi) e ne promosse la forzata assimilazione e adeguamento al gruppo linguistico dominante.
I diritti riconosciuti alle minoranze sulla base di tale norma sono diversi: si
va dal bilinguismo (nell’istruzione scolastica, nei rapporti con le pubbliche
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Principi fondamentali
Art. 7
amministrazioni e nelle indicazioni topografiche) alla coufficialità della lingua francese e di quella tedesca, rispettivamente in Val d’Aosta e Trentino.
Anche le regole relative alle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni devono
tener conto della consistenza numerica dei gruppi linguistici, a tutela dell’uso
della lingua minoritaria nei rapporti tra i cittadini e la pubblica amministrazione.
Identico riconoscimento del rispetto delle minoranze linguistiche è ravvisabile nella
nuova formulazione dell’art. 116 (v.), così come modificato dalla L. cost. 3/2001, che
denomina la Valle d’Aosta utilizzando la lingua francese (Vallée d’Aoste), mentre
il Trentino-Alto Adige viene menzionato in lingua tedesca con il toponimo Südtirol.
Bisogna ribadire comunque che il principio di unitarietà della nazione
costituisce comunque un baluardo insormontabile dell’uso della lingua italiana, che è (e resta) la lingua ufficiale del Paese che conserva il primato rispetto alle altre lingue (TAR Lombardia, sez. III, 25-5-2013, n. 1348).
7
Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani (1).
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi (2). Le modificazioni dei Patti (3), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di
revisione costituzionale [138] (4) (5).
Chiesa cattolica: entità religiosa considerata dal Costituente «indipendente
ed estranea» dalla persona dello Stato,
cui viene riconosciuta, la propria attività.
Indipendenti e sovrani: questa locuzione sottolinea il carattere originario e
indipendente sia dell’ordinamento statale
che di quello della Chiesa cattolica, la
quale costituisce, al contrario delle altre
confessioni religiose, un soggetto di diritto internazionale con il nome di «Stato della Città del Vaticano».
Patti Lateranensi: accordi sottoscritti l’11 febbraio 1929 nel Palazzo di San
Giovanni in Laterano da Mussolini (per
l’Italia) e dal Cardinale Gasparri (per la
Santa Sede) con i quali si affermò il principio della contrattazione bilaterale con
la Chiesa cattolica, considerata, in quanto soggetto di diritto internazionale, sullo stesso piano negoziale dello Stato italiano (v. nota 2).
(1) La Costituzione configura Stato e Chiesa cattolica come due ordinamenti indipeden-
ti sovrani, relativamente ai fini che ciascuno di
essi persegue.
I rapporti fra i due ordinamenti sono sottratti alla disciplina del legislatore ordinario e sono
regolati mediante accordi bilaterali, secondo il
modello delle relazioni internazionali fra Stati.
(2) I Patti Lateranensi si articolavano in tre
distinti documenti: un Trattato, un Concordato e una Convenzione finanziaria.
Il Trattato riconosceva la piena soggettività internazionale allo «Stato della Città del
Vaticano» attraverso la definitiva rinuncia sancita a livello internazionale, da parte dello Stato italiano, ad una seppure minima estensione
di territorio.
L’art. 1 affermava il principio della religione cattolica intesa come religione ufficiale dello
Stato, principio successivamente superato per
l’applicazione del principio di laicità.
Il Concordato disciplinava le condizioni della Chiesa cattolica in Italia, riconoscendo
ad essa il libero esercizio del potere spirituale e della giurisdizione in materia ecclesiastica,
regolando la posizione giuridica dei vescovi e
del clero, il regime del matrimonio canonico (al
Art. 7
Costituzione della Repubblica italiana
quale si riconosceva automaticamente rilevanza
agli effetti civili) nonché la disciplina degli edifici di culto e degli enti ecclesiastici (v. nota 3).
La Convenzione finanziaria, infine, prevedeva un risarcimento (mai corrisposto da parte del
Regno d’Italia) al Papa per la perdita dei territori
dello Stato Pontificio occupati dal Regno d’Italia.
(3) Il 18 febbraio 1984 è stato sottoscritto
tra il Governo italiano e la Santa Sede un nuovo Accordo, detto di Villa Madama, contenente
«modifiche consensuali del Concordato lateranense». Esso costituisce in realtà uno strumento nuovo di regolamentazione internazionale dei
rapporti tra Stato e Chiesa cattolica, ispirato ai
principi di eguaglianza tra le confessioni religiose, neutralità e laicità espressi dalla Costituzione repubblicana, e più consono anche ai valori sanciti dal Concilio Vaticano II.
Il nuovo Concordato, consta di tre parti:
— il Preambolo, in cui si fa riferimento alle
trasformazioni che hanno interessato la società italiana, negli ultimi cinquanta anni,
dal punto di vista giuridico e religioso;
— il testo dell’Accordo vero e proprio, composto di quattordici articoli;
— il Protocollo addizionale, articolato in sette punti, per consentire la migliore applicazione delle modifiche convenute.
Punti qualificanti del nuovo Concordato sono:
a) neutralità dello Stato in materia religiosa
(viene abrogato il principio confessionista
della religione di Stato e affermata la piena
laicità dello stesso);
b) assoluta autonomia della organizzazione
della Chiesa cattolica (viene abrogata la
norma che prescriveva il gradimento dello Stato per la nomina degli ecclesiastici ad
uffici con cura di anime);
c) abrogazione dei privilegi per gli enti ecclesiastici;
d) nuova disciplina del matrimonio cattolico;
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e) abrogazione del principio secondo il quale l’insegnamento della religione cattolica
nelle scuole costituisca «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» (art. 36
Concordato del 1929).
(4) La norma ha costituzionalizzato il principio pattizio, in base al quale lo Stato italiano
si impegna a stabilire a livello internazionale e
di comune accordo con la Chiesa cattolica ogni
modifica dei Patti Lateranensi.
Se però tale accordo non viene raggiunto,
la Repubblica dovrà ricorrere all’emanazione
di una legge costituzionale [v. 138] per abrogare l’art. 7 e rivedere unilateralmente i Patti
(all’epoca in cui fu redatta la Costituzione. Questa clausola non costituisce una contraddizione
perché quando fu accettata la Chiesa confidava
sulla presenza di un partito cattolico maggioritario in Parlamento – la Democrazia Cristiana
– che avrebbe completamente scongiurato tale
possibilità, dal momento che per approvare una
legge costituzionale sono necessarie maggioranze molto ampie).
Alla legge di esecuzione di tale accordo è
riconosciuta una capacità di resistenza passiva
superiore a quella della legge ordinaria: trattasi,
cioè, di una «fonte rinforzata» che prevede un
ulteriore elemento per la modifica o cancellazione della stessa costituito dal preventivo accordo tra Stato e religione cattolica.
(5) Le modifiche dei Patti Lateranensi,
pur non essendo state costituzionalizzate sono
oggetto di legge ordinaria solo se esiste un preventivo accordo.
La Corte costituzionale, tuttavia, ha individuato un limite all’immissione nel nostro ordinamento di norme concordatarie: in relazione
al rispetto dei principi supremi del nostro ordinamento, come il principio d’eguaglianza (v.
3), il diritto alla tutela giurisdizionale (v. 24), il
principio del giudice naturale (v. 25), la libertà
religiosa (v. 19).
L’art. 7 disciplina i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sancendo due
principi fondamentali: il principio della distinzione dei due ordini (Stato e Chiesa) e quello di bilateralità.
In base al primo, il fenomeno religioso deve essere considerato, nella
sua dimensione sia individuale che collettiva, autonomo e distinto rispetto allo Stato.
29
Principi fondamentali
Art. 8
Il principio di bilateralità, invece, riconosce alla Chiesa cattolica (come a
tutte le altre formazioni sociali con fini di culto) la possibilità di stipulare con
la Repubblica nuovi e diversi accordi in materia religiosa.
Pertanto, l’art. 7 rappresenta un unicum nel panorama internazionale non
riscontrabile in alcuna Carta costituzionale straniera.
La Costituzione italiana, pur sancendo il divieto di discriminazione religiosa, non definisce lo Stato italiano come «laico», come avviene in altri ordinamenti (ad es. l’art. 1 della Costituzione francese che dichiara apertamente che la Francia è una Repubblica laica).
Per tale motivo, parte della dottrina parla di «laicità all’italiana» (CAMASSA), pur essendo l’Italia in tutto e per tutto uno Stato laico.
La laicità, infatti, è un principio supremo e inderogabile a tutela della
libertà religiosa la quale implica equidistanza, rispetto ed imparzialità e non discriminazione nei confronti di tutti i culti e religioni.
8
Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge [19] (1).
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi [2, 20] secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese
con le relative rappresentanze (2).
Confessione religiosa: è un tipo di
formazione sociale dotata di una propria
organizzazione e di proprie norme con
fini religiosi.
Egualmente libere: significa che la Costituzione afferma e ribadisce il principio del
pluralismo confessionale e non ammette nessuna forma di discriminazione fondata sulla diversità di fede religiosa (v. 3).
Eventuali differenze vigenti in materia
si porrebbero in contrasto col principio
di libertà di culto facendo venir meno il
principio di «laicità» dello Stato, che sancisce il rispetto delle scelte di coscienza
e di culto di ciascun individuo.
Statuti: il Costituente attribuisce ai culti acattolici una specifica autonomia che
consente ad essi di organizzarsi con propri statuti (senza ingerenza da parte dello Stato) che permettano loro di fissare
le proprie regole, nel rispetto dei principi
fondamentali dell’ordinamento italiano.
Intesa: accordo tra un culto diverso da
quello cattolico e la Repubblica.
Tali accordi sanciscono il principio che
la legislazione statale in materia religiosa non può assumere carattere unilaterale, ma deve essere sempre concordata con le singole confessioni.
(1) La Repubblica, ispirandosi ai principi di
tolleranza, laicità e «neutralità religiosa», si
impegna a tutelare (ex art. 3 Cost., comma 1)
senza distinzioni la presenza sul territorio di tutte le confessioni religiose diverse dalla cattolica.
Identica tutela la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea garantisce all’art. 10
(v. Appendice) dove sottolinea, tra l’altro, che
tale diritto include anche la libertà di cambiare
la propria religione, e all’art. 21 (nella versione 2007 entrata in vigore con il Trattato di Lisbona il 1° dicembre 2009) che vieta, fra l’altro, qualsiasi forma di discriminazione fondata
sulla religione.
Art. 8
Costituzione della Repubblica italiana
Per lungo tempo, tuttavia, tale principio è
stato inteso solo come mera forma di riconoscimento a tutti del diritto di professare liberamente il proprio credo e svolgere le pratiche inerenti alle proprie credenze.
La tutela penale dei culti, ad esempio, contenuta nel codice penale (codice Rocco, risalente al 1930), risultava discriminatoria a favore della sola religione cattolica: per questo motivo la Corte costituzionale [v. 134], dichiarato incostituzionale l’art. 724 c.p. (che puniva la
bestemmia contro Divinità, Simboli e Persone
venerati nella religione di Stato), proprio nella parte in cui faceva riferimento alla sola fede
cattolica (sentenza n. 440 del 1995).
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(2) La Repubblica accoglie il principio pattizio, in base al quale i rapporti con le confessioni religiose sono regolati mediante accordi tra le parti; in particolare le intese sono stiputale con i culti acattolici devono essere considerate come semplici convenzioni di diritto
pubblico interno.
Solo a partire dal 1984, lo Stato italiano,
con grande ritardo, ha cominciato a dare attuazione alla norma in esame, stipulando per prima l’intesa con la Tavola Valdese, cui sono seguite ulteriori con altre confessioni religiose (v.
scheda a fine articolo).
L’art. 8 sancisce il principio del pluralismo delle confessioni religiose
in netta contrapposizione al dettato dell’art. 1 dello Statuto albertino, che
proclamava la sola religione cattolica come religione di Stato (principio del
confessionalismo di Stato).
La laicità dello Stato non rappresenta una forma di indifferenza nei confronti della religione, ma garantisce unicamente l’eguale tutela del sentimento di coscienza e di culto del singolo (indipendentemente dalla confessione che esprime) nonché il riconoscimento della libertà religiosa, purché la stessa non intacchi i principi fondamentali dell’ordinamento, quelli di ordine pubblico e il buon costume (v. 19).
Non si può parlare, tuttavia, di piena parità in quanto le confessioni sono
collocate in una scala gerarchica che vede al primo posto la Chiesa cattolica (che beneficia di fonti negoziali privilegiate come i concordati, in
grado di incidere anche sulle norme costituzionali), poi le altre confessioni
che hanno stipulato intese con lo Stato, e infine, quelle disciplinate unicamente dalla legge italiana sui culti cd. «ammessi» così definiti «in maniera palesemente discriminatoria» nel 1929.
Nel nostro Paese manca una legislazione unitaria sulla libertà religiosa sebbene sia riconosciuta la possibilità per le singole religioni di negoziare con
lo Stato, per garantire la libertà religiosa nel rispetto della peculiarità di ciascun credo.