Non solo interpretazioni

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Claudio Tarditi
NON SOLO INTERPRETAZIONI, MA ANCHE FATTI
Note sulla critica girardiana al relativismo
Nell’Introduzione al volume intitolato Verità o fede debole?, Pierpaolo Antonello osserva
acutamente che «il nesso fra religione e violenza oggi così eclatante non nasce perché le religioni
siano intrinsecamente violente, ma proprio perché la religione è innanzitutto un sapere sulla
violenza degli uomini».1 Lo svelamento di questo sapere, com’è noto, è operato secondo Girard
dall’effetto progressivo e inesorabile della rivelazione giudaico-cristiana, svelamento individuabile
nella sempre maggior attenzione per le “vittime” nel mondo moderno e contemporaneo. Il testo
evangelico diviene pertanto il solo strumento ermeneutico in grado di interpretare organicamente
la mitologia e le religioni sacrificali arcaiche come progressivo svelamento dell’origine violenta
della cultura e delle società umane, e la Passione di Cristo come la rottura irreversibile
dell’equilibrio che manteneva stabile la struttura espulsiva del sacro arcaico. Beninteso, questa
rottura irreversibile non ha sortito i propri effetti a breve termine, e tutta la storia occidentale dopo
la venuta di Cristo è intesa da Girard come il luogo della lotta tra l’azione desacralizzante del
messaggio evangelico – di cui la moderna “cura per le vittime” è senz’altro il risultato più maturo ed
evidente - e il tentativo satanico di resistere a questa tendenza inarrestabile – o in modalità
sempre più sottili e intellettualizzate, ma non perciò meno violente, o assumendo le dimensioni
della “violenza assoluta” delle grandi tragedie novecentesche, veri e propri esempi dello
“scatenamento di Satana” di cui parla l’Apocalisse.2 È in questo senso che per Girard la condizione
dell’uomo contemporaneo è proprio descrivibile in termini “apocalittici” o, se si preferisce,
“escatologici”, in quanto - nella prospettiva girardiana - non vi è alcuna garanzia che l’umanità
progredisca verso una riduzione costante della violenza: una tale riduzione è consegnata alla
libertà e alla responsabilità umane, sempre tuttavia esposte al rischio di ridestare la violenza con
crisi mimetiche e persecuzioni vittimarie tanto più acute quanto meno efficace risulta essere oggi il
meccanismo di divinizzazione del capro espiatorio tipico della struttura del sacro arcaico. Con una
battuta, potremmo dire che la nostra condizione presente è caratterizzata dalla violenza, ma
“senza” il sacro.
Ora, tutto ciò ha a che fare con due concetti-chiave per il pensiero contemporaneo, quello di
“interpretazione” e quello di “decostruzione”. L’ipotesi che cerchiamo di prospettare qui è che, nel
pensiero girardiano, questi due concetti siano presenti secondo due livelli differenti: a) come
termini critici e polemici di confronto con l’ermeneutica e con il decostruzionismo, che Girard
considera prospettive “relativiste”; b) come concetti operativi all’interno della teoria mimeticovittimaria, che pone al suo centro il messaggio evangelico proprio come decostruzione del
meccanismo sacrificale e che vede in Cristo un modello di “interpretazione vivente” - forse proprio
per questo l’unico modello che non genera conflitti? - che si incarna proprio per portare a
compimento, con e attraverso la propria morte, il messaggio destrutturante del sacro violento.
Affrontiamo brevemente l’esame di entrambi i livelli concettuali.
a) Senza forzare lo spirito delle opere girardiane, credo si possa sostenere che per Girard
l’ermeneutica - nonostante non costituisca in realtà un indirizzo di pensiero omogeneo - si fondi
sull’assunzione incondizionata del motto nietzscheano secondo cui «non ci sono fatti, solo
interpretazioni». Ciò si traduce, secondo Girard, in un autentico rifiuto di ogni sapere vero e di ogni
prospettiva che intenda assegnare un “senso” alla storia. Già in L’antica via degli empi, Girard
scriveva: «Oggi la volontà di “rispettare le differenze” arriva al punto di mettere tutte le “verità” sullo
1
René Girard, Gianni Vattimo, Verità o fede debole?, a cura di Pierpaolo Antonello, Ancona-Massa, Transeuropa, 2006, p.
X.
2 Non a caso, Girard insiste spesso sul significato del termine Apocalisse, che significa rivelazione ma anche dispiegamento
della violenza.
stesso piano. Abbandona, in fondo, l’idea stessa di verità, poiché in essa non vede altro che una
fonte di conflitto. Ma se noi mettiamo la “verità dei persecutori” e la “verità della vittima” allo stesso
livello, presto non ci saranno più né verità né differenze per nessuno». 3 L’ermeneutica approda
così, secondo Girard, ad una sorta di “nichilismo conoscitivo”, che si configura come il rifiuto
radicale di ogni forma di sapere e l’abbandono della cultura umana al nulla e al non-senso. Così
facendo, inconsciamente, la nostra epoca rigetta ancora una volta l’unico strumento davvero utile
per uscire dal cerchio interpretativo cui la filosofia sembra condannata: la scrittura giudeo-cristiana.
La crisi sacrificale imperversa in forme sempre più acute: le interpretazioni, infinite e tutte
equivalenti, si trovano in una relazione di rivalità reciproca, perpetuando così la violenza in un
nuovo rito - appunto, l’interpretazione - che si attua continuamente proprio perché incapace di
generare alcun tipo di ordine culturale e sociale. Insomma, l’interpretazione sembra essere “un rito
che gira a vuoto”. Coloro che sostengono di voler “rispettare le differenze” sono del tutto sinceri,
non sono in malafede: essi “non sanno quello che fanno”, nel senso letterale della frase che Gesù
pronuncia sulla croce. Tuttavia, il cosiddetto “rispetto per le differenze” non fa che legittimare il
linciaggio degli innocenti, la ripetizione dell’espulsione. Certo, il pensiero contemporaneo – e lo
stesso pensiero ermeneutico - riconosce l’oggetto del dibattito, la violenza, ma attribuisce tale
violenza alla nozione stessa di verità, espellendola da ogni pensiero razionale e consegnando il
sapere umano al relativismo e al nichilismo conoscitivo. Non è sufficiente riconoscere la violenza;
«[…] è necessario individuare le due prospettive rispetto alle quali tale violenza può essere
considerata e, soprattutto, scegliere fra esse. Evitare di prendere posizione è un inganno.
Ostentare impassibilità – qualunque ne sia il pretesto, storico, filosofico, scientifico – perpetua lo
status quo, prolunga l’occultamento del capro espiatorio, fa di noi degli ottimi complici dei
persecutori»4.
La tendenza nichilistica che Girard attribuisce all’ermeneutica raggiunge l’apice estremo col
decostruzionismo, iniziato con Derrida e diffusosi in varie forme - soprattutto nel campo della
critica letteraria (New criticism) - in molte Università americane. Nella fase centrale del suo
pensiero, in cui emerge progressivamente la nozione di decostruzione, Derrida - in confronto
costante da un lato con l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss e dall’altro con la linguistica
strutturale di De Saussure - enuncia l’idea che l’unico destino possibile per la filosofia oggi sia la
critica di ogni sistema filosofico - quand’anche fondato sullo stesso strutturalismo - volta a
denunciarne la vocazione aporetica: la verità è che “non esiste alcuna verità” in un testo, salvo
forse la verità che afferma l’assenza della verità. Il decostruzionismo, in generale, intende
dimostrare che il destino di qualunque sistema, di qualunque teoria, è di auto-indebolirsi,
decostruirsi. Scrive Girard: «la cieca fiducia nelle metodologie del decostruzionismo, e l’estrema
serietà con cui sono state recepite negli Stati Uniti, hanno avuto come esito l’abbandono della
nostra grande tradizione culturale, in favore di qualsiasi novità che si dia in fatto di ricerca. […] A
dire il vero, le teorie radicali e il decostruzionismo non credono che il sapere sia cumulativo, e ne
criticano il mito […], però finiscono per comportarsi, in base ad uno strano paradosso, allo stesso
modo delle scienze sociali. Sebbene per il decostruzionismo il sapere non sia cumulativo, il
progetto di decomposizione delle illusioni metafisiche occidentali lo è, almeno fino ad un certo
punto: la decostruzione è un’opera lunga e difficile che richiede la collaborazione di molti adepti. I
decostruzionisti non credono nel progresso - inteso in senso ottocentesco e positivista - ma
credono nel progresso della battaglia contro la metafisica occidentale e la loro reale posizione è
esattamente speculare a quella di chi crede nel progresso».5 Da un punto di vista più strettamente
René Girard, L’antica via degli empi, trad. it. di C. Giardino, Milano, Adelphi, 1983, p. 136.
Ibidem. Girard ironizza molto spesso su coloro che non prendono posizione: «Se neppure qui si ammette una certezza,
se si parteggia senza riserve per la grande democrazia dell’interpretazione mai-vera-mai-falsa che ai giorni nostri va per
la maggiore al di fuori del matematizzabile, un simile risultato [la rinuncia alla demistificazione dei testi] sarà inevitabile.
Ma allora dovremmo condannare retrospettivamente anche coloro che misero fine ai processi di stregoneria. Erano
anche più dogmatici dei cacciatori di streghe e al pari di costoro credevano di essere i depositari della verità […] Se i
nostri antenati avessero ragionato nello stesso modo dei maestri ora in auge non avrebbero mai messo fine ai processi
di stregoneria». (René Girard, Il capro espiatorio, trad. it. C.Leverd Christine e F.Bovoli, Milano, Adelphi, 1987, p. 161).
5 René Girard, Il pensiero rivale, Ancona, Transeuropa, 2006, pp. 160-161. A tal proposito, Girard aggiunge: «Bisogna
sottolineare che i primi rappresentanti del post-strutturalismo e del decostruzionismo avevano tentato di opporsi alle
conseguenze anti-intellettualistiche di alcune delle loro posizioni teoriche, insistendo sul fatto che il discorso filosofico,
sebbene abbia un fondamento intrinsecamente aporetico, debba comunque restare oggetto di studio, in quanto è il più
3
4
teorico, il decostruzionismo muove da due principi di fondo: in primo luogo, le interpretazioni di un
testo sono infinite, e altrettanto infinite sono le interpretazioni che possono essere date di queste
prime interpretazioni; in secondo luogo, tutte le interpretazioni di un testo sono ugualmente valide
e necessarie, non ve n’è una migliore di un’altra. Insomma, le interpretazioni sono infinite e tutte
necessarie6, in quel vertiginoso walzer mimetico che i decostruzionisti definiscono - salutandone
gioiosamente la diffusione a macchia d’olio - esprit de contradiction: ma quando e perché la
contraddizione diventa un esprit? «Quando si diffonde come un virus per dominare e distorcere
qualsiasi argomentazione. Le contraddizioni servono da stimolo alla vita intellettuale, ma quando
sono in eccesso uccidono l’autentica creatività. I movimenti intellettuali possono morire per
insufficienza di contraddizione, ma anche per overdose».7 L’attacco contro la verità – o, in altri
termini, contro l’idea che ogni pensiero abbia un referente, un contenuto portatore di senso – è il
traguardo a cui si giunge sempre al termine di una escalation mimetica che ha come posta in gioco
la verità stessa. Ciò avviene in due fasi: la prima è una fase positiva, in cui tutti cercano di
raggiungere la verità, accorgendosi tuttavia che, alla fine, ognuno si trova con la “propria” verità da
difendere contro le verità degli altri; la seconda fase inizia proprio quando tutti abbandonano altrettanto mimeticamente - la ricerca della verità veicolando la rivalità sull’abilità di dimostrare
l’impossibilità di pervenire ad alcun tipo di verità. Scrive Girard: «Il formalismo, con la sua
minimizzazione del contenuto, appartiene già a questa fase […], mentre lo strutturalismo e il poststrutturalismo diventano modalità ben più radicali di espulsione del contenuto. Esaltare il significato
a spese del referente e il significante a spese del significato, ha sempre lo scopo di demolire gli
aspetti ancora positivi sopravvissuti fino a quel momento. Lo strutturalismo è un’eccellente analisi
di cosa accade alla cultura quando l’esprit de contradiction prende il sopravvento. Lo strutturalismo è
l’esprit de contradiction che si spara sul piede, mentre il post-strutturalismo è quel piede ferito, che
prende in mano la pistola per sparare al corpo intero».8
b) Se proviamo a procedere al di là di questo livello critico in cui Girard prende posizione nei
confronti dell’ermeneutica e del decostruzionismo in quanto “scuole” di pensiero - è bene
sottolineare: sotto l’aspra critica girardiana cadono una “certa” ermeneutica e un “certo”
decostruzionismo - è forse possibile rintracciare la presenza di una dimensione “interpretativa” e
“decostruttiva” all’interno del pensiero girardiano stesso. Cerchiamone conferma in alcuni luoghi
testuali recenti. In un colloquio del 2004 con Gianni Vattimo,9 che Girard considera appartenente
alla tradizione ermeneutico-decostruzionista - alla quale, d’altra parte, ammette di appartenere in
un certo senso anche lui stesso10 (ammissione che avvalla sempre più la presente ipotesi) afferma: «[…] credo che il punto di avvicinamento più efficace sia proprio quello della prospettiva
ermeneutica e della fine della metafisica […]. A questo proposito, secondo me, si tratta di partire dal
Vecchio Testamento, perché mi sembra che la questione dell’interpretazione sia già centrale
proprio in quel testo. Il Vecchio Testamento si offre alla nostra lettura già come un sistema interpretativo.
[…] E l’idea che Cristo sia l’interpretazione vivente mi sembra molto efficace; tuttavia, c’è una cosa
che manca […]: il fatto che nel momento culminante dell’intera vicenda di Gesù noi troviamo la sua
Passione, ovvero il fatto che lui muoia, e di una morte violenta. Dal mio punto di vista, la differenza
tra le storie del Vecchio Testamento […] e il Vangelo, è che in quest’ultimo non solo troviamo la
decostruzione del mito pagano e arcaico, ma che questa decostruzione viene attuata da una morte
[…]».11 Una morte “reale”, non meramente simbolica: dunque un “fatto”.
Dopo il breve percorso seguito, ritengo possibile suggerire che, nonostante le ripetute
condanne dell’ermeneutica - specie nella sua variante decostruzionista, bollata come relativista e
quindi nichilista - da parte di Girard, nella teoria mimetico-sacrificale non è affatto assente il plesso
solido tra i discorsi disponibili e rimane indispensabile per la nostra formazione intellettuale. Con molti dei loro epigoni,
tuttavia, non sono state prese le precauzioni necessarie» (Ivi, p. 162).
6 Scrive Girard: «La convinzione che si possano scrivere delle cose più o meno buone è un pregiudizio metafisico a cui
credono solo quelli che provengono dai settori scientifici o dagli ambienti tecnici della cultura umanistica; non possono
né capire né apprezzare lo splendido nuovo mondo che l’avanguardia critica e teorica sta costruendo» (Ivi, p. 165).
7 Ivi, p. 170.
8 Ivi, p. 174.
9 René Girard, Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, cit.
10 Ivi, p. 50.
11 Ivi, pp. 48-49 (corsivo nostro).
concettuale interpretazione-decostruzione, ma anzi esso ne occupa una posizione centrale. Ciò
secondo due livelli - che definirei “operativi” - differenti. a)Ad un primo livello, come Girard stesso
afferma, è la rivelazione evangelica a possedere un fondamentale carattere interpretativodecostruttivo nei confronti della mitologia e del sacro arcaico; b)tuttavia, proprio in ragione del fatto
che il messaggio evangelico è stato mistificato - attraverso una riconduzione al mito, operazione
compiuta, ad esempio, dallo strutturalismo - si rende necessaria una “rinnovata interpretazione
biblica” sulla base di una “decostruzione di secondo grado” che, decostruendo la struttura
metafisica del pensiero moderno, tesa a coprire e ritardare l’effetto desacralizzante del messaggio
evangelico, ne riporti alla luce l’essenza più autentica. In sintesi: se i Vangeli decostruiscono la
religione sacrificale, la teoria mimetico-vittimaria decostruisce l’apparato mistificatorio (e
sacrificale, “satanico”) del pensiero moderno per poter nuovamente accedere al messaggio - già
intrinsecamente interpretativo, ermeneutico - di Cristo.
Senza dubbio, da questa riflessione scaturiscono due concetti di interpretazione e
decostruzione ben diversi da quelli impiegati dal decostruzionismo “classico”, ad esempio da
Derrida. Non ho qui lo spazio e il tempo per soffermarmi a sufficienza sul concetto derridiano di
“decostruzione”, peraltro molto difficile da determinare precisamente; tuttavia, ritengo che la
differenza tra la concezione derridiana e girardiana della decostruzione risieda precisamente in
questo: Girard utilizza la decostruzione come concetto “operativo”, come via d’accesso alla
comprensione di un “fatto”, la rivelazione evangelica, la morte reale del Figlio di Dio, mentre per
Derrida la decostruzione è ciò che resta da fare alla filosofia dopo aver compreso che “la purezza
è impossibile, perché la contaminazione è necessaria” (ossia: non saremo mai dinanzi ad un fatto
en personne, ma potremo soltanto andare in cerca delle sue tracce, o delle tracce delle tracce…).
In questa prospettiva, se la decostruzione imbocca la via derridiana – ma soprattutto della
“seconda” e “terza” generazione di decostruzionisti americani – perde ogni possibilità di pervenire
alla Gegebenheit dei fenomeni (e dunque eminentemente del fenomeno della rivelazione) e non ha
altra chance che il relativismo nichilista contro cui Girard si scaglia da molto tempo; al contrario, se
essa mantiene il suo carattere metodologico, se cioè non rinnega la sua discendenza – ammessa
poco prima della scomparsa persino dallo stesso Derrida12 – dalla riduzione fenomenologica
husserliana, allora può accedere alla rivelazione in quanto “fenomeno” (lo statuto fenomenologico
della rivelazione costituisce un problema ulteriore non trattabile qui) e creare quell’apertura
necessaria alla comprensione autentica del messaggio evangelico. Si tratta qui di un accenno ad
una via di ricerca nuova13 che tenta di saldare insieme, lungo un unico itinerario, la teoria mimetica
e la fenomenologia: una via tutta da percorrere, probabilmente con ma anche oltre Girard stesso,
nel tentativo di comprendere la teoria mimetico-vittimaria nei termini non solo di una
fenomenologia del mimetismo e della rivelazione, ma in quanto sforzo di depurazione critica – in
questo senso decostruttiva - di quello stesso messaggio salvifico. Secondo la nota tesi
heideggeriana, il fenomeno è innanzitutto e perlopiù “coperto”, e va portato alla “visibilità”
fenomenologica: cosa significa allora - in chiave girardiana - decostruire il pensiero moderno se
non portare alla visibilità il messaggio evangelico originario nella sua - per quanto problematica fenomenalità? Scrive Girard: «Nella ricerca della conoscenza, l’ultimo secolo e mezzo è stato
caratterizzato da eccessi che si sono mossi in direzioni antitetiche. Prima ci sono state le scuole di
pensiero positivista, che hanno adorato i fatti sentendosi così facilmente e costantemente a
contatto con essi da dimenticare le interpretazioni. Questo eccesso è stato seguito dalla reazione
opposta, di principio legittima, ma che molto presto ha condotto a eccessi peggiori di quelli che
doveva rettificare. Cerchiamo pertanto di rinunciare a tutte le pseudo-radicalizzazioni, tentando di
fidarci nuovamente della ragione senza idolatrarla. D’ora in poi, cerchiamo di credere sia nei fatti
che nelle interpretazioni».14
Scrive Derrida: «La decostruzione, o quantomeno quella che in un determinato momento è stata chiamata “la
decostruzione”, è un gesto che non sembra opporsi frontalmente a questa logica della fenomenologia husserliana»
(Jacques Derrida, Et cetera (and so on, und so weiter, et ainsi de suite, etc.), trad. it. Roma, Castelvecchi 2006, p. 33).
13 Via di ricerca che deve fare i conti essenzialmente con la compatibilità storica della formazione girardiana con la
fenomenologia: Girard non legge Husserl negli anni della sua formazione francese, ma legge molto Sartre e in parte
Scheler e Heidegger.
14 René Girard, Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, cit., p. 98.
12
L’ipotesi che intendo mettere alla prova è che questa via per pensare insieme “fatti” e
“interpretazioni” sia il metodo fenomenologico – un lavoro ancora tutto da svolgere, ma che val
forse la pena di tentare.
Girard fenomenologo dunque? Può darsi, suo malgrado.
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