47 A EDIZIONE
OMAGGIO
ALL’ARMENIA
27 AGOSTO / 6 SETTEMBRE 2014
CITTÀ DI CASTELLO
C A T A L O G O
1
2
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4
5
6
7
STAFF
Presidente
Giuliano Giubilei
Il Festival delle Nazioni
ringrazia
Direttore artistico
Aldo Sisillo
Anna Maria Bordoni
Per la consulenza amministrativa
Direttore organizzativo
Roberto De Lellis
Raffinerie
Per il progetto grafico
Segreteria artistica
Laura Rebiscini
Exprimo Design
Per il sito internet
Amministrazione
Francesca Martinelli
Erica Andreini
Annalisa Savoca
Per le fotografie
Ufficio stampa ed edizioni
Maria Rosaria Corchia
Promozione
Elena Bruschi
Pubbliche relazioni
e sponsor
Anna Martinelli
Web marketing
e social network
Tiziana Cusmà
Per la gentile concessione
della Chiesa di San Domenico a Città di Castello
Soci fondatori e ordinari
del Festival delle Nazioni
Scuola comunale di musica “G. Puccini”
Coordinamento
corsi di perfezionamento
Chiara Pasqui
F.A.T. Fattoria Autonoma Tabacchi
Biglietteria
Linda Giaccaglia
e inoltre
Marianna Bicchi
Ario Carletti
Astrid Cau
Luca Manescalchi
Martina Manescalchi
Giulia Renzini
Roberto Silvestrini
Martina Zoi
Macchinista
Luca Berettoni
Luci
Giancarlo Ferranti
Alessio Dorelli
Stampa
Cartoedit srl
Città di Castello (PG)
Scarica l'applicazione UmbriaApp
Festival delle Nazioni da iTunes
8
Unione Europea
Repubblica Italiana
Direzione generale spettacolo dal vivo
Provincia di Perugia
Comune di Città di Castello
AMBASCIATA
DELLA REPUBBLICA
D’ARMENIA
IN ITALIA
COMUNE DI ANGHIARI / COMUNE DI CITERNA / COMUNE DI MONTE SANTA MARIA TIBERINA
COMUNE DI SAN GIUSTINO / COMUNE DI SANSEPOLCRO / COMUNE DI UMBERTIDE
CON IL SOSTEGNO DI
FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO
CITTÀ DI CASTELLO
ASSOCIAZIONE PALAZZO VITELLI A SANT’EGIDIO
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PROGRAMMA
Mercoledì 27 agosto ore 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
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Armenian Philharmonic Orchestra
Anush Nikoghosyan violino
Eduard Topchjan direttore
Venerdì 29 agosto ore 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
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NOA in NOA-DOR-FOUR
Noa voce e percussioni
Gil Dor chitarre
Adam Ben-Ezra contrabbasso
Gadi Seri percussioni
musiche di Modest Musorgskij,
Aram Khačaturjan, Nikolaj Rimskij-Korsakov
musiche dall’album Love Medicine
Giovedì 28 agosto ore 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
18
SPIRITO D’ARMENIA
Hespèrion XXI
Viva Biancaluna Biffi viola d’arco
David Mayoral percussioni
Jordi Savall ribeca, viella, viola d’arco e direzione
Aram Movsisyan canto
Georgi Minassyan
e Haïg Sarikouyoumdjian duduk
Gaguik Mouradian kamancha
Sabato 30 agosto ore 21
Citerna
Chiesa di San Michele
Ensemble barocco
della Nuova Orchestra Scarlatti
Cristina Grifone soprano
Tommaso Rossi flauto dolce e traversiere
musiche del fondo musicale del convento
di San Gregorio Armeno di Napoli
Domenica 31 agosto ore 21
Sansepolcro
Auditorium Santa Chiara
musiche tradizionali medioevali, musiche di autori armeni
dal Settecento al Novecento
30
36
POESIA IN SCENA
Ensemble strumentale
dell’Orchestra da camera di Perugia
Pamela Villoresi voce recitante
musiche di Vache Sharafyan e Filippo Fanò
commissionate dal Festival delle Nazioni
in prima esecuzione assoluta
Venerdì 29 agosto ore 18.30
Monte Santa Maria Tiberina
Piazza Castello Bourbon del Monte
Danilo Rossi viola
Giulia Baracani flauto
Vincitrice Premio “Alberto Burri” 2013
Stefano Bezziccheri pianoforte
musiche di Vache Sharafyan in prima esecuzione assoluta,
Dmitrij Šostakovič, Franz Anton Hoffmeister
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22
Lunedì 1 settembre ore 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
40
I Virtuosi Italiani
Alberto Martini primo violino
Federico Mondelci direttore e sassofono
musiche di Vardapet Komitas, Makar Ekmalyan,
Aleksandr Glazunov, Dmitrij Šostakovič, Aram Khačaturjan
Martedì 2 settembre ore 18.30 e 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
44
Giovedì 4 settembre ore 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
MARCO POLO
VOCI DAL SILENZIO
Flavio Albanese narrazione
Ara Malikian violino
Luis Gallo chitarra
Mario Brunello violoncello
Gabriella Caramore voce narrante
musiche di Vache Sharafyan in prima esecuzione assoluta,
Max Reger, Tigran Mansurian
musiche di Niccolò Paganini, Ara Malikian, Luis Gallo,
Antonio Vivaldi, Antonín Dvořák, Aram Khačaturjan
Mercoledì 3 settembre ore 18.30
Morra
Oratorio di San Crescentino
48
Chorale Akn
Centre d'études du chant liturgique arménien, Paris
Aram Kerovpyan direttore
canti liturgici armeni
Mercoledì 3 settembre ore 21
Anghiari
Teatro dei Ricomposti
52
I vincitori del Concorso europeo
per giovani cantanti lirici
del Teatro Lirico Sperimentale
di Spoleto “A. Belli”
Venerdì 5 settembre ore 21
Celalba di San Giustino,
Villa Magherini Graziani
64
Yves Savary violoncello
Pierpaolo Maurizzi pianoforte
musiche di Witold Lutosławski, Claude Debussy,
Karen Khačaturjan, Dmitrij Šostakovič
Sabato 6 settembre ore 21
Città di Castello
Chiesa di San Domenico
68
Orchestra della Toscana
Benedetto Lupo pianoforte
Eduard Topchjan direttore
musiche di Giacomo Puccini, Camille Saint-Saëns, Francesco Cilea,
Sergej Prokof ’ev, Giuseppe Verdi, Ottorino Respighi
Giovedì 4 settembre ore 18.30
Umbertide
Chiesa di San Francesco
60
musiche di Sergej Rachmaninov,
Aram Khačaturjan
56
MEDICO DEL DOLORE
È PER GLI UOMINI IL CANTO
Umbra Lucis
Virginia Pattie Kerovpyan canto armeno
musica curativa dal Trecento al Seicento
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OMAGGIO ALL'ARMENIA
A cento anni dallo scoppio della prima guerra mondiale, il Festival delle Nazioni di Città di Castello
dedicherà il suo progetto culturale a uno dei popoli che ne fu tragico protagonista: il popolo armeno.
L’Armenia è luogo mitico del Cristianesimo: è dentro i
suoi confini che la tradizione biblica colloca il Giardino dell’Eden, ed è da qui che i cristiani guardano con
devozione la cima del padre-Ararat, il monte, oggi al
confine tra Turchia e Iran, sul quale, secondo la narrazione della Genesi si arenò l’Arca di Noè. Primo
popolo convertito al Cristianesimo, gli Armeni hanno difeso la loro identità culturale con fierezza, resistendo, nel corso dei secoli, alle cicliche invasioni che
hanno frantumato il loro territorio in diversi domini.
Questa terra è stata per secoli strada di collegamento tra Oriente e Occidente; e la musica armena ne è la
prova, contenendo stilemi che afferiscono alla cultura occidentale così come a quella del medio Oriente.
Grande importanza ebbe la creazione dell’alfabeto nel 404 d.C. anche sull’evoluzione della musica
con lo sviluppo del genere epico recitato e cantato, dei vipasanner e gusanner. Una tradizione orale profondamente radicata ancora viva e popolare.
Ma la storia dell’Armenia è segnata in modo indelebile
dal genocidio, avvenuto durante la dominazione ottomana, che ebbe il culmine nelle deportazioni del 1915.
Più di un milione di persone persero la vita e in seguito a
questi episodi tantissimi armeni lasciarono la loro terra
per far fiorire comunità in tutti i paesi del mondo, accentuando un fenomeno migratorio che già aveva segnato
la loro storia nel corso dei secoli: se tre milioni è il numero degli abitanti della regione asiatica confinante con
Georgia, Azerbaigian, Iran e Turchia, oggi sono circa sette
milioni gli armeni che abitano fuori dai confini nazionali.
Disgregazione e diaspora non hanno fatto che rafforzare
l’identità armena, un’identità che si è espressa e si esprime
ancora oggi con vigore soprattutto attraverso le arti, la poesia e la musica, e anche con un dialogo aperto e continuo
con la cultura occidentale. L’omaggio del Festival all’Armenia, la “terra delle pietre urlanti” – come è stata definita dal
poeta russo Osip Mandel’štam – è l’occasione per esplorare
le tantissime sfaccettature artistiche di questa affascinante
cultura, dal linguaggio musicale “colto” alla tradizione popolare con i suoi bardi e i suonatori di duduk.
Il duduk e gli altri strumenti tradizionali saranno protagonisti in Spirito d’Armenia, il progetto musicale al confine tra la musica colta e popolare, che Jordi Savall porterà
a Città di Castello con il suo ensemble Hespèrion XXI
e con i musicisti armeni Georgi Minassyan e Haïg Sarikouyoumdjian (duduk) e Gaguik Mouradian (virtuoso
di kamancha). Spazierà da musiche popolari tradizionali risalenti fino al Medioevo, a musicisti del Settecento
come Sayat Nova, da autori dell’Ottocento come Gabriel
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Yeranian o Tigran Tchukhadjian fino a musicisti del Novecento come Gusan Ashot.
Di Aram Khačaturjan, il più conosciuto compositore armeno, sarà eseguito il famoso Concerto per violino e orchestra, in occasione della serata inaugurale che vedrà
ospite l’Armenian Philharmonic Orchestra guidata dal
suo direttore musicale Eduard Topchjan con Anush Nikoghosyan al violino. Questa orchestra fu fondata nel 1932
ed è oggi impegnata nel promuovere il grande repertorio
sinfonico esibendosi regolarmente nella capitale Yerevan
e in tutto il mondo. Il programma del concerto si completerà con due capisaldi della musica russa: Una notte
sul Monte Calvo di Musorgskij e Shéhérazade di RimskijKorsakov a sottolineare il rapporto stretto che lungo l’Otto e il Novecento la cultura musicale armena tenne con
il mondo russo (dopo la prima guerra mondiale divenne
una delle Repubbliche dell’Unione Sovietica, e la maggior parte dei musicisti armeni trovò nel Conservatorio di
Mosca una delle mete privilegiate per la sua formazione).
Khačaturjan sarà protagonista anche del Concerto di chiusura del Festival nel quale l’Orchestra della Toscana eseguirà la Suite Spartacus e il celeberrimo Concerto n. 2 di
Rachmaninov interpretato da Benedetto Lupo.
Il duo violoncello e pianoforte formato da Yves Savary e
Pierpaolo Maurizzi presenterà accanto alla sonata di Karen Khačaturjan (nipote di Aram) l’op. 40 di Šostakovič,
che fu anche insegnante di Karen, comparandola con la
quasi contemporanea Sonata di Debussy.
Mario Brunello tornerà al Festival con un programma di
musiche di Max Reger e Tigran Mansurian e autori anonimi
armeni in un racconto musicale sulle origini del Cristianesimo, condotto assieme a Gabriella Caramore. Faranno parte di questo programma, pensato appositamente da Mario
Brunello per la 47ma edizione del Festival, due nuove composizioni in prima assoluta di Vache Sharafyan. Proprio a
Sharafyan, uno tra i più interessanti compositori contemporanei armeni, il Festival dedicherà un omaggio, presentando
altre due sue composizioni in prima assoluta.
In occasione dei duecento anni della nascita di Adolphe
Sax, l’inventore dell’omonimo strumento, i Virtuosi Italiani diretti da Federico Mondelci eseguiranno il Concerto di Glazunov per sassofono e archi, l’Ottetto nella
versione per orchestra e archi di Šostakovič, nonchè le Sei
melodie di Padre Komitas. Soghomon Gevorki Soghomonyan (questo il nome di Komitas) è considerato uno dei
padri della cultura armena; monaco musicista, ricercatore e studioso della tradizione musicale armena, sfuggì alla
morte durante la grande deportazione ma morì a Parigi in
preda alla pazzia provocata dalla traumatica esperienza e
dalla distruzione di quasi tutta la sua musica.
Il sacro monte Ararat (che dal Trattato di Kars non si trova più in territorio armeno) sarà protagonista dello spettacolo di musica e immagini animate – disegnate dal gio-
© ROLANDO PAOLO GUERZONI
vane e straordinario artista russo Gosha – che il virtuoso
ed eclettico violinista armeno-spagnolo Ara Malikian
creerà per raccontare il viaggio di Marco Polo. Il grande
viaggiatore veneziano salpò per la Cina proprio dal porto di Laiazzo (Cilicia armena) nel 1271. La voce narrante
sarà quella del regista e attore Flavio Albanese.
Ospiteremo poi Noa, la nota cantante israeliana di origini
yemenite, nominata nel 2001 “artista per la pace”, che in
più occasioni è stata coinvolta dalle tematiche del genocidio e della diaspora armena.
L’Ensemble strumentale dell’Orchestra da camera di Perugia presenterà due lavori in prima assoluta commissionati dal Festival sulla poesia italiana e armena. Il primo,
con la musica di Filippo Fanò e il secondo commissionato ancora una volta al compositore armeno Vache Sharafyan. Lo spettacolo con i testi di Alda Merini, Giuliano
Grittini, Movses Khorenatsi e Yeghishe Charents vedrà
protagonista l’attrice Pamela Villoresi con la regia di Cosimo Damiano Damato.
Esploreremo poi il mondo musicale del convento di San
Gregorio Armeno di Napoli; la prima comunità monastica
fu creata da un gruppo di suore basiliane armene in fuga
dalle persecuzioni di Costantino Copronico l’Iconoclasta.
Le suore portarono con sé una reliquia preziosissima, il
cranio di San Gregorio l’Illuminatore, Vescovo della Chiesa armena, che indusse il re Tridate III alla conversione al
Cristianesimo di tutta la nazione nel 301 d.C. Il Convento,
dopo il passaggio alla regola benedettina, divenne poi uno
dei più ricchi e importanti di Napoli. Vi si svolgeva una intensa attività musicale, sia legata alla liturgia sia legata a
concerti di musica profana, che vedeva ingaggiati importanti musicisti e gruppi orchestrali. L'ampio fondo non
ancora catalogato che vi si trova è formato da composizioni dedicate a suore particolarmente versate nel canto o in
altri strumenti, composizioni trascritte da opere famose,
con testo trasformato da profano a sacro, oppure ancora
da composizioni di cui furono autrici le monache stesse.
Vi si trovano manoscritti e copie di autori come Pergolesi,
Gluck, Cimarosa. Un concerto dell’Ensemble barocco della Nuova Orchestra Scarlatti di Napoli darà alcuni esempi
della vita culturale che si svolgeva all’interno del convento.
Nell’isola di San Lazzaro a Venezia, sorge il monastero dei Padri armeni, sede della comunità mechitarista.
Fu creata nel 1717 dal nobile monaco armeno Manug di
Pietro, detto Mechitar (il Consolatore), fuggito da Modone invasa dai Turchi. Da quell’epoca la comunità si è
dedicata alla conservazione e diffusione della cultura
armena, in particolare conserva un importante archivio di musica liturgica tradizionale curato assieme al
Centro Studi e documentazione della cultura armena.
La musica liturgica è considerata la parte più importante della musica armena, ma è comunque legata alla musica profana: il sistema modale che ne costituisce le basi
era comune alle canzoni popolari e ai gusan. La Chorale
Akn, l’istituzione con sede a Parigi guidata da Aram Kerovpyan, è una delle formazioni più note nella esecuzione
e diffusione di questo repertorio. Inoltre, sempre in collaborazione con il Centro Studi di Venezia, sarà organizzato un concerto di Umbra Lucis, che incentrerà il suo programma su autori italiani e armeni attorno alla funzione
taumaturgica della musica.
Come ogni anno il Festival dedicherà significative risorse
al perfezionamento dei giovani musicisti; cinque i corsi
di valenza internazionale, che termineranno con esecuzioni pubbliche dei migliori allievi. Ogni anno un premio
intitolato ad Alberto Burri viene dedicato a una classe di
perfezionamento e assegnato con concorso a uno degli allievi; la vincitrice del Premio “Alberto Burri” della scorsa
edizione, la flautista Giulia Baracani, è inserita nella programmazione della 47ma edizione in assolo e in duo con
il violista Danilo Rossi in un concerto che vedrà la partecipazione anche di Stefano Bezziccheri al pianoforte.
L’attenzione ai giovani interpreti sarà testimoniata inoltre da un concerto affidato ai vincitori del concorso per
cantanti lirici “A. Belli” di Spoleto.
Ma non parleremo solo di musica: iniziative concordate e
realizzate in collaborazione con l’Ambasciata di Armenia
in Italia, e incursioni nel mondo del cinema e della letteratura ci consentiranno di avere un quadro non esaustivo
certamente, ma il più possibile stimolante per conoscere
questa cultura che conserva caratteri antichissimi nella
sua musica tradizionale e che ha nei secoli alimentato
tutte le espressioni artistiche del mondo occidentale.
Aldo Sisillo
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MERCOLEDÌ 27 AGOSTO
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
Armenian Philharmonic Orchestra
Anush Nikoghosyan violino
Eduard Topchjan direttore
Modest Musorgskij Una notte sul Monte Calvo quadro sinfonico
Aram Khačaturjan Concerto in re minore per violino e orchestra
Nikolaj Rimskij-Korsakov Shéhérazade suite sinfonica op. 35
Con il patrocinio dell'Assemblea legislativa della Regione Umbria
e in collaborazione con il Circolo culturale “Luigi Angelini” di Città di Castello
DALL'ALTO IN SENSO ORARIO
ARMENIAN PHILHARMONIC ORCHESTRA / ANUSH NIKOGHOSYAN / EDUARD TOPCHJAN © FOTO MARIANNE UZANKICHYAN
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MUSICA ARMENA, MUSICA RUSSA
di Mauro Mariani
no degli eventi che cambiarono il corso
della musica nel diciannovesimo secolo
fu l’irruzione della Russia sulla scena
musicale: se all’inizio di quel secolo praticamente non esistevano compositori
russi, all’inizio del successivo gli ormai
scomparsi Musorgskij e Ciaikovskij, l’anziano RimskijKorsakov, il giovane Skrjabin e il giovanissimo Stravinskij
catalizzavano l’attenzione sia del pubblico che della critica, in Europa e in America. Lo sviluppo della musica
russa viene normalmente ricondotto nell’ambito delle
scuole nazionali sorte nell’Ottocento, ma in realtà se ne
distingue per alcune particolarità, poiché da una parte
non fu legato alle aspirazioni d’indipendenza nazionale
proprie delle altre principali scuole musicali nazionali –
ceca, norvegese, finlandese, polacca – e quindi non diede
particolare rilievo agli ideali nazionalistici nell’accezione
politica del termine, mentre dall’altra parte puntò più decisamente sulla valorizzazione degli aspetti peculiari della musica tradizionale russa, ricollegandosi sia ai canti e
alle danze popolari sia al canto sacro ortodosso.
Il più geniale compositore russo fu indubbiamente Modest Musorgskij, che rifiutò sempre di darsi una compiuta
formazione tecnica, perché ciò avrebbe inevitabilmente
significato studiare sui trattati tedeschi e francesi, o anche italiani, e rinunciare quindi alla propria specificità
di musicista russo. Libero dalle regole accademiche, fu
costretto a non ricorrere alle formule strandardizzate e a
essere originale, cercando sul pianoforte le sue armonie
“audaci, nuove, grezze ma curiosamente giuste”. Questo
fu imputato a una mancanza di scienza musicale, tanto
che il suo sodale Rimskij-Korsakov pensò di “regolizzare”
la sua musica, preservandone la struttura tematica, ma
aggiungendo o togliendo battute, addolcendo le asprezze armoniche, spianando le irregolarità ritmiche, dando
maggior brillantezza al timbro, ma rendendo in questo
modo convenzionale, anche se indubbiamente seducente, la scrittura “primitiva” di Musorgskij.
Una notte sul Monte Calvo – un poema sinfonico che descrive con toni accesamente fantastici un sabba di streghe
nella notte di San Giovanni – ebbe la prima esecuzione
proprio nella versione di Rimskij, nel 1886 a San Pietroburgo. Ora si è tornati a eseguire di preferenza la versione
originale, che è stata ritrovata solo nel 1968. Musorgskij
vi aveva lavorato per molti anni e ne aveva fatte tre versioni. Per la prima, del 1867, Musorgskij aveva annotato questo brevissimo programma: Assemblea delle streghe, loro
discorsi e chiacchiericci; Corteo di Satana; Messa nera;
Sabba. Rimskij-Korsakov redasse un suo programma,
diverso ma sostanzialmente fedele a Musorgskij, che de-
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scrive più dettagliatamente il contenuto del poema sinfonico: Suoni sotterranei di voci ultraterrene; Apparizione
degli spiriti delle tenebre, seguiti da quello di Čërnobog;
Glorificazione di Čërnobog e celebrazione della messa
nera; Sabba delle streghe; Al culmine dell’orgia la campana di una piccola chiesa di paese si ode in lontananza; Gli
spiriti delle tenebre si disperdono: alba.
Qualche decennio dopo l’entrata della Russia sulla scena
musicale, la caduta dell’impero zarista e la nascita dell’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche segnò un’ulteriore apertura di nuovi immensi territori alla musica
di derivazione europea, perché furono fondati istituti di
educazione musicale, teatri d’opera e orchestre sinfoniche
anche nelle più remote Repubbliche dell’Unione. I compositori di quelle regioni, per avvicinare il nuovo pubblico
alla musica “colta”, fusero l’eredità classica e le tradizioni
musicali locali. Molti di quei compositori sono oggi quasi degli eroi nazionali nei loro paesi, ma degli sconosciuti
in Occidente, mentre meriterebbero di essere considerati
con maggiore attenzione, se non fossimo così eurocentrici. Comunque almeno uno di loro ha raggiunto una solida
fama a livello mondiale: è l’armeno Aram Khačaturjan.
Spinto dal desiderio di comunicare con i vasti strati di
pubblico che si avvicinavano per la prima volta alla musica sinfonica, Khačaturjan si esprime attraverso una
sintassi spontanea e immediata, sovente arricchita da
stilemi tratti dalla musica popolare armena e del vicino
Oriente in genere, inseriti in un tessuto tardo ottocentesco, impreziosito però dalle moderne conquiste in campo
orchestrale, che derivano alla lontana dall’insegnamento
di Rimskij-Korsakov. Il suo Concerto in re minore per
violino e orchestra fu completato nel 1940 e dedicato al
grande violinista russo David Ojstrach, che diede al compositore preziosi consigli per la parte solistica.
L’Allegro con fermezza è nella tradizonale forma-sonata,
trattata però con libertà. Dopo una breve introduzione orchestrale è il violino a introdurre entrambi i temi principali, quindi una breve cadenza solistica segna il passaggio
alla fase di sviluppo dei temi. Un’altra cadenza, più lunga,
che inizia come un duetto tra violino e clarinetto, porta
alla ripresa dei temi principali e il movimento si conclude con una coda basata sul tema iniziale. Nell’Andante
sostenuto fagotto e clarinetto precedono l’entrata del violino col tema principale del movimento, che passa nel suo
sviluppo attraverso sfumature e atmosfere diverse, alternando momenti delicati, dalla scrittura quasi cameristica,
ad altri più drammatici.
È affidato al violino, dopo una vivace fanfara introduttiva,
anche il tema principale del Finale, che prosegue inanel-
MERCOLEDÌ 27 AGOSTO
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
lando una serie di colorati episodi, in cui è ben riconoscibile l’influsso dei canti e delle danze popolari armene.
I musicisti della scuola nazionale russa dell’Ottocento fecero ampio uso dell’orientalismo, per rimarcare la specificità della storia, della cultura e della musica russe rispetto
all’Europa occidentale. Proprio nell’Oriente pittoresco e
meraviglioso Nikolaj Rimskij-Korsakov trovò il terreno ideale per le magie della sua armonia raffinatamente
speziata e della sua orchestrazione dai colori preziosi e
cangianti come una seta orientale. Lo scrigno più ricco di
tali meraviglie sonore è Shéhérazade op. 35, del 1888, trasposizione musicale delle Mille e una notte. Ma, più che
raccontare precisamente alcuni episodi di tale raccolta
di fiabe arabe, questa musica vuole renderne l’atmosfera
complessiva, multicolore e fantastica.
Il primo movimento è intitolato Il mare e la nave di
Sinbad. Le battute iniziali presentano la cupa e severa figura del sultano Schahriar (Largo e maestoso), cui segue
il sinuoso motivo orientaleggiante del violino solo, che
personifica Shéhérazade (Lento). La scena si apre ora
sulla sterminata e maestosa distesa del mare (Allegro non
troppo): Sinbad naviga arditamente sulle onde ora placide ora agitate, mentre risuonano ancora i temi del sultano
e di Shéhérazade. La seconda parte (Lento, Andantino)
rievoca La storia del principe Kalender (il kalender è un
prete maomettano mendicante e nomade). Il motivo di
Shéhérazade, suonato dal violino solo sull’accompagnamento dall’arpa, introduce il tema principale del movimento: è il fagotto che presta la sua voce al kalender. La
scena brilla di colori orientali, ora delicati e raffinati, ora
violenti e barbarici, tra preziosi ceselli dei legni, avvolgenti frasi degli archi, squilli minacciosi degli ottoni. Nella terza parte (Andantino quasi allegretto, Pochissimo più
mosso) Shéhérazade narra la fiaba de Il giovane principe
e la giovane principessa. La suadente e vibrante melodia
dei violini dà voce al principe, alternandosi al delicato e
sensuale motivo del clarinetto, che raffigura la principessa. La voce imperiosa del sultano ci ricorda la sua decisione di uccidere la moglie, ma Shéhérazade riprende la sua
narrazione e col suo tema introduce il quarto movimento,
il più variegato della Suite. Inizia con l’animata e colorata
Festa a Bagdad, ma improvvisamente si volta pagina e ricompare Il mare, su cui la nave di Sinbad è in balia di onde
spaventose e di venti implacabili. In lontananza appare
un altissimo scoglio: la nave è sospinta sempre più velocemente contro la roccia e vi s’infrange col cupo fragore
d’un colpo di tam-tam (Il naufragio). Il violino e l’arpa
fanno riascoltare il tema di Shéhérazade, cui la voce del
sultano s’unisce con accenti finalmente dolci e amorevoli.
ARMENIAN PHILHARMONIC ORCHESTRA
L’Armenian Philharmonic Orchestra è stata fondata nel 1925 come orchestra sinfonica del Conservatorio di Yerevan. L’orchestra è stata diretta, tra gli altri, da Kurt
Masur, Tibor Varga, Varujan Kojian, Christopher Warren-Green e Valery Gergiev,
che ne è stato per cinque anni direttore artistico e direttore principale. Ruolo che
dal 2000 ricopre Eduard Topchjan.
Molti artisti di fama mondiale come Sviatoslav Richter, Mstislav Rostropovič, Renato Bruson, Mischa Maisky, Boris Berezovski, Natalia Gutman, Isabelle Faust,
Pinchas Zukerman, Gidon Kremer, Yuri Bashmet, Montserrat Caballe e Placido
Domingo, come anche musicisti armeni già affermati o emergenti, si sono esibiti
con l’orchestra.
L’APO ha in repertorio opere di compositori armeni e internazionali, ed è impegnata a sostenere l’esecuzione di nuove opere per orchestra in programmi che
siano interessanti sia per i visitatori regolari e gli intenditori, che per i turisti e i
giovani. Un numero eccezionale di compositori – fra tutti Aram Khačaturjan, Dmitrij
Kabalevskij, Krzysztof Penderecki – hanno diretto le loro opere con l’Armenian
Philharmonic Orchestra.
L’APO funge da ambasciatore della musica armena in tutto il mondo e organizza
regolarmente tournée all’estero. L’orchestra ha registrato più di quaranta cd: il più
recente, Rapsodia armena, è stato pubblicato nel 2011 dalla svedese Bis Records.
ANUSH NIKOGHOSYAN
Nata a Yerevan, Anush Nikoghosyan ha studiato in Armenia con Petros Haykazian,
e alla Hochschule für Musik und Theater di Monaco nella classe di Christoph
Poppen. Contemporaneamente si è perfezionata nella capitale armena con Eduard
Topchjan. Dal 2013 studia con Julia Fischer.
Come solista si è esibita con la Deutsche Radio Philharmonie, l’Armenian Philharmonic Orchestra e la National Chamber Orchestra of Armenia, la Kärntner Sinfonieorchester, la Moravian Philharmonic Orchestra, la Kaunas Chamber Orchestra,
la Ural Philharmonic Orchestra, la Deutsche kammerakademie Neuss e altre compagini sotto la guida di Eduard Topchjan, Leos Svarovsky, Christopher WarrenGreen, Pavel Berman, Alexander Treger, Emmanuel Siffert e Markus Bosch.
Ha vinto numerosi premi in diverse competizioni violinistiche internazionali, tra i
quali il primo premio nel 2010 all’austriaco “International Kaerntner Sparkasse
Woerthersee”.
Suona un violino di Giovanni Battista Guadagnini del 1753.
EDUARD TOPCHJAN
Eduard Topchjan ha studiato violino al Conservatorio di Yerevan e direzione d’orchestra con Ohan Durian. Allo studio sono seguite preziose consultazioni con Sir
George Solti, Claudio Abbado e Nello Santi. Topchjan ha debuttato con l’APO nel
2000. Nello stesso anno è stato nominato direttore artistico e direttore principale
dell’orchestra e ha dato il via a una serie di concerti di successo a Yerevan e
all’estero.
In qualità di direttore ospite, Topchjan ha diretto importanti orchestre quali la Royal
Philharmonic Orchestra, la Filarmonica di Cologne, la Frankfurt Opera, l’Orchestra
Filarmonica Nazionale della Russia, la Romanian TV and Radio Orchestra, l’Orchesta Sinfonica Ungherese al Musikverein di Vienna, l’Israel National Radio Symphony Orchestra, la Gulbenkian Symphony Orchestra, la Prague Radio Symphony
Orchestra e la Seoul Philharmonic Orchestra.
Nel 2007 ha fondato lo Yerevan International Music Festival, di cui ancora oggi è
direttore artistico. Nello stesso anno il Ministro della cultura dell’Armenia gli ha
conferito il titolo di “Meritorious Worker of Art”. Nel 2011 ha ottenuto la “State
Gold Medal”. Nel 2012 è stato nominato direttore ospite principale della spagnola
Orchestra Sinfonica Premium di Toledo.
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GIOVEDÌ 28 AGOSTO
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
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Spirito d’Armenia
Hespèrion XXI
Viva Biancaluna Biffi viola d'arco
David Mayoral percussioni
Jordi Savall ribeca, viella, viola d’arco e direzione
Aram Movsisyan canto
Georgi Minassyan e Haïg Sarikouyoumdjian duduk
Gaguik Mouradian kamancha
Anonimo Azat astvatsn & Ter kedzo (Ode alla libertà e supplica per gli armeni)
Canto e danza tradizionali
Sayat Nova Dun en glkhen (Supplica al re prima dell’esilio)
Hov arēk’ Canto rurale tradizionale (Lamento), raccolto da Vardapet Komitas
Improvvisazione al duduk
Sayat Nova Kani vur djan im (Canto d’amore)
Tigran Tchukhadjian O’h intsh anush (Canto d’esilio)
Barde Djivan Ov siroun, siroun (Canto a duplice lettura, in cui l’amata e la patria si confondono)
Improvvisazione al duduk
Al aylukhs (Girotondo: dialogo amoroso) canto tradizionale, raccolto da Komitas
Canti di nozze tradizionali, raccolti da Vardapet Komitas
Vorp Ani karaki vera (Lamento sulla città di Ani) canto tradizionale
Taksim e danza tradizionali
Alagyeaz & Khnki tsar canti rurali tradizionali, raccolti da Vardapet Komitas
Gusan Ashot En sarer (Lamento)
Gabriel Yeranian Hayastan yerkir (Ode alla patria)
Garun a Canto rurale tradizionale, raccolto da Vardapet Komitas
Tigran Tchukhadjian Menk kadj tohmi (Canto di lotta)
JORDI SAVALL © FOTO DAVID IGNASZEWSKI
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SENZA MEMORIA NON C'È FUTURO
di Giovanni D’Alò
enza emozione non c’è Memoria, senza
memoria non c’è Giustizia, senza giustizia non c’è Civiltà e senza civiltà l’essere
umano non ha futuro”. È una massima
di Jordi Savall che forse più di ogni discorso critico spiega il senso di una lunga carriera trascorsa a ricercare, studiare e riportare in
vita i repertori del passato. Una catena logica che collega
la Memoria (con la “m” maiuscola come scrive Savall),
come dovere morale di conoscenza della storia e della sua
salvaguardia, con la prospettiva del futuro che attende
l’Uomo (qui la maiuscola la mettiamo noi).
Savall lo fa da almeno quattro decenni, anzi quest’anno ricorre proprio il quarantennale dell’ensemble Hespèrion
XXI, il gruppo da lui fondato nel 1974 (allora il nome era
Hespèrion XX con riferimento al ventesimo secolo, poi
mutato in quello attuale) e con il quale ha iniziato la sua
attività internazionale diventando uno dei punti di riferimento nel campo dell’esecuzione della musica antica con
osservanza delle prassi esecutive d’epoca con strumenti
originali. Un campo di ricerca che si sviluppava negli anni
in cui il musicista catalano cominciava la sua attività e
che ha letteralmente cambiato la nostra percezione della
musica del Seicento e del Settecento, inclusi i capolavori
di maestri come Bach, Händel e Vivaldi che credevamo
intoccabili. In particolare, Savall ha dato il suo importante contributo alla riscoperta del repertorio legato al suo
strumento, la viola da gamba, e a quello della tradizione
del suo paese d’origine. Come nessun altro, però, Savall
ha ampliato i confini geografici delle sue ricerche, coltivando un’instancabile curiosità verso le altre culture,
inseguendo le tracce musicali di complessi capitoli della
storia, dalla tradizione cristiana a quella musulmana, dalla diaspora degli ebrei sefarditi alla scoperta delle Americhe e ai viaggi in estremo Oriente, disegnando una mappa
in cui popoli spesso divisi da guerre e differenze religiose
risultano invece uniti da influenze reciproche proprio sul
piano dell’espressione musicale.
Rientra in questa visione l’accostamento a una terra
culturalmente feconda come l’Armenia, “una delle più
antiche civiltà cristiane dell’Oriente, sopravvissuta miracolosamente a una storia convulsa e particolarmente
tragica”, come lo stesso Savall riconosce. E aggiunge: “Ciò
nonostante, essa ha saputo conservare attraverso i secoli
l’essenza delle sue particolarità nazionali, come prova soprattutto l’adozione di un proprio alfabeto e come mostra
anche il suo ricco patrimonio architettonico, oggi sparso
anche al di fuori dei suoi territori attuali. Sebbene questo patrimonio tangibile sia una delle testimonianze più
sorprendenti, essa ha custodito anche un ricco patrimo-
“S
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nio intangibile, in campo musicale: un repertorio molto
ampio e vario, ma purtroppo poco conosciuto”.
All’origine del progetto Spirito d’Armenia c’è anche il desiderio personale di Savall di rendere omaggio a sua moglie, il soprano Montserrat Figueras, al suo fianco fin dagli
esordi e prematuramente scomparsa nel 2011. “Montserrat Figueras aveva una profonda simpatia e sentiva una
grande attrazione per gli strumenti armeni, specialmente
per il duduk e il kamancha – scrive il musicista –. Dopo
la sua morte, io stesso ho trovato consolazione nell’ascolto di meravigliosi lamenti suonati da questi strumenti. È
stato dopo questi momenti di così grande emozione che
ho avuto l’idea di dedicare questo progetto alla memoria
di Montserrat Figueras, allo stesso tempo rendendo un
omaggio personale a un popolo che durante la storia ha
tanto sofferto (con una sofferenza che non è ancora pienamente riconosciuta) e che, malgrado tanto dolore, aveva ispirato musiche così piene d’amore, portatrici di pace
e d’armonia”.
Parole che ci riportano ancora una volta alla centralità
di uno strumento come il duduk, un tipo di flauto le cui
prime testimonianze risalgono al IV secolo d.C., e il solo
riconducibile a una tradizione autenticamente armena al
punto da diventare il simbolo di questo popolo. Savall ne
sottolinea le potenzialità espressive assimilabili quelle
della voce umana: “Si può affermare che i duduk caratterizzano la musica armena in modo quasi assoluto. Fin
dall’ascolto dei primi suoni di questi strumenti, che abitualmente si suonano in coppia, il timbro quasi vocale e
la dolcezza delle loro vibrazioni ci trasportano in un universo straordinario, elegiaco e poetico, e ci immergono in
una dimensione intima e profonda”.
Altrettanto delicato è il timbro del kamancha, antichissimo strumento ad arco di origine persiana adottato dalla
tradizione armena, la cui estensione è in gran parte comune a quella del violino.
“Per nostra immensa fortuna, il grande maestro di kamancha Gaguik Mouradian mi aveva offerto, fin dal 2004,
diverse raccolte di musiche armene, tra le quali il favoloso
Thesaurus, il libro d’oro delle canzoni armene pubblicato
nel 1982 a Yerevan dal musicologo Nigoghos Tahmizian”
– prosegue Savall –. Qui ho potuto trovare gli esempi più
belli di questo repertorio, completati dai pezzi per kamancha e da quelli per due duduk che ci hanno proposto
i nostri amici musicisti d’Armenia. Con la collaborazione
di un altro musicista straordinario, che è anche un carissimo amico, il suonatore di duduk Haïg Sarikouyoumdjian,
ho trascorso parecchi mesi di studio e di lavoro quotidiano, decifrando i segreti di queste antiche e bellissime melodie, ascoltando delle vecchie registrazioni e ricercando
GIOVEDÌ 28 AGOSTO
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
le chiavi “segrete” d’accesso allo stile e al carattere di ciascuna di queste musiche”.
Nello specifico, Spirito d’Armenia accosta brani tradizionali e altri riconducibili ad autori ben definiti, che danno
conto di una scuola compositiva nazionale storicamente connotata. Tra questi, il più importante è forse Sayat
Nova (1712-1795), la cui biografia ci racconta che dopo
la morte della moglie divenne monaco e che fu ucciso dai
Persiani durante una funzione religiosa. Di lui rimangono circa duecento composizioni, molte delle quali furono
pubblicate per la prima volta nel 1852 a Mosca. Alla sua
storia nel 1968 il regista Sergej Paražhanov ha dedicato il
film Il colore del melograno, che si avvale peraltro di una
colonna sonora firmata da Tigran Mansurian (compositore armeno contemporaneo presente in altri appuntamenti di questo Festival delle Nazioni).
Altre personalità originali si affermano nell’Ottocento,
come Gabriel Yeranian (1827-1862) e soprattutto Tigran
Tchukhadjian (1837-1898) che, nato a Costantinopoli,
ebbe anche contatti con l’Italia, dove studiò a Milano, forse con Giuseppe Verdi.
Figura geniale fu infine il turco Vardapet Komitas (18691935), pioniere di studi etnomusicologici in territorio armeno e ricercatore di canti popolari, da lui raccolti con
sistematicità, rielaborati e fatti conoscere a un pubblico
sempre più vasto, nello stesso periodo in cui Béla Bartók
compiva studi analoghi nei Balcani. A lui si deve principalmente la riscoperta e la conservazione fino a noi di
un ricchissimo repertorio che affonda le radici in epoca
pre-cristiana e che annovera i tradizionali horovel (canti
di lavoro legati alla vita dei campi), ninne-nanne, canti di
nozze e rituali, canti patriottici, canti accompagnatori di
danze maschili e femminili, e canti d’amore, tra cui uno
divenuto celebre, dedicato alla gru, uccello che nell’immaginario armeno simboleggia la diaspora.
HESPÈRION XXI
Nel 1974, a Basilea, Jordi Savall e Montserrat Figueras, con Lorenzo Alpert e
Hopkinson Smith, fondarono Hespèrion XX, un gruppo di musica antica che intendeva recuperare e diffondere il ricco repertorio musicale anteriore all’Ottocento a
partire da nuove premesse: i criteri storici e gli strumenti originali. Il suo nome,
Hespèrion, significa “originario di Esperia”, che nell’Antica Grecia era la denominazione delle penisole più occidentali d’Europa: quella iberica e quella italiana.
Era anche il nome che riceveva il pianeta Venere quando compariva a Occidente.
Hespèrion XX, a partire dal 2000, ha cambiato il proprio nome in Hespèrion XXI.
Il repertorio di Hespèrion XXI include, tra le varie cose, opere di repertorio sefardita, romanze castigliane, pezzi del secolo d’oro spagnolo e l’Europa delle Nazioni.
Grazie al notevolissimo lavoro dei numerosi musicisti che hanno collaborato con il
gruppo in tutti questi anni, Hespèrion XXI svolge ancora un ruolo chiave nel recupero e nella rivalutazione del patrimonio musicale con una grande ripercussione a
livello mondiale. Ha pubblicato più di sessanta cd, tiene concerti in tutto il mondo e
partecipa abitualmente ai grandi festival internazionali di musica antica.
JORDI SAVALL
Jordi Savall è una delle personalità musicali più polivalenti della sua generazione.
Da più di quarant’anni, fa conoscere al mondo musiche antiche, che studia e interpreta con la sua viola da gamba o come direttore. Le sue attività di concertista,
insegnante, ricercatore e creatore di nuovi progetti, sia musicali che culturali, lo
collocano tra i principali artefici del fenomeno di rinascita della musica storica.
Ha fondato, insieme a Montserrat Figueras, i complessi musicali Hespèrion XXI
(1974), La Capella Reial de Catalunya (1987) e Le Concert des Nations (1989).
Con la sua partecipazione al film di Alain Corneau Tous les Matins du Monde
(Premio César per la migliore colonna sonora), la sua intensa attività concertistica
e discografica, e con la creazione della propria casa discografica Alia vox, fondata
unitamente a Montserrat Figueras nel 1998, Jordi Savall ha dimostrato che la
musica antica non deve necessariamente essere elitaria.
Completati gli studi di violoncello al Conservatorio di Barcellona, nel 1965 ha
iniziato da autodidatta lo studio della viola da gamba e della musica antica nel
gruppo Ars Musicae, e ha perfezionato la sua formazione musicale dal 1968 alla
Schola Cantorum Basilensis in Svizzera, dove fino al 1993 ha collaborato con
masterclass, come fa attualmente, come professore invitato, alla Juilliard School
di New York. Nel corso della sua carriera ha pubblicato più di duecento dischi di
musica medievale, rinascimentale, barocca e del classicismo, con una speciale
attenzione al patrimonio musicale mediterraneo. Tanti i riconoscimenti, tra cui Midem Classical Awards, Icma e Grammy, e il prestigioso Premio “Léonie Sönning”
2012, considerato il premio Nobel per la musica.
ARAM MOVSISYAN
Nato nel 1984 a Yerevan, ha studiato canto tradizionale al Conservatorio della sua
città natale. Nel 2004 è entrato a far parte dell’ensemble vocale e strumentale
di musica popolare di Tatoul Altounian, prendendo parte a diversi concerti e tour.
Ha collaborato con il Centro Studi etnomusicologici “Progetto Van” di Norayr Kartashyan, i cui studi si concentrano sull’eredità musicale dell’Armenia occidentale
storica, interpretando il repertorio come solista durante concerti o conferenze a
Van e Diyarbakir (Turchia) nell’agosto 2012. Dal 2013, è solista dell’Ensemble
nazionale di musica vocale tradizionale dell’Armenia.
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VENERDÌ 29 AGOSTO
MONTE SANTA MARIA TIBERINA
PIAZZA CASTELLO BOURBON DEL MONTE
ORE 18.30
Danilo Rossi viola
Giulia Baracani flauto
Vincitrice del Premio “Alberto Burri” per giovani interpreti 2013
Stefano Bezziccheri pianoforte
Dmitrij Šostakovič Sonata per viola e pianoforte op. 147
Franz Anton Hoffmeister Duetto per viola e flauto op. 13 n. 4
Vache Sharafyan Drawing in air by solo flute PRIMA ESECUZIONE ASSOLUTA
GIULIA BARACANI © FOTO LAURA REBISCINI / DANILO ROSSI E STEFANO BEZZICCHERI © FOTO ANDREINI SAVOCA
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DISEGNANDO NELL'ARIA
di Carlo Vitali
urante le sue conferenze-concerto negli anni Quaranta, il grande violista
William Primrose (1903-1982) così
spiegava ai suoi ascoltatori del West
americano la differenza tra violino e
viola: “La viola è un violino che ha fatto
l’università”. E un altro celebre solista, Hatto Beyerle, era
solito ricordare ai suoi allievi “il colore così triste, a volte
perfino tragico, della sua corda grave”. Eppure c’è ancora chi si attarda nel deplorare la scarsità del repertorio
violistico: Stamitz, Hoffmeister, Berlioz, Dvořák e poi? A
sentir loro, il deserto. Sarà forse un’illusione ottica dovuta alla pigrizia di certi programmisti che amano celebrare soltanto il già celebrato giocando sulla passività di un
pubblico male informato. Al contrario, come ci ricorda il
professore austriaco Franz Zeyringer (Literatur für Viola, Hartberg, Schönwetter, 19852), dalle origini barocche
dello strumento sono circa 750 i brani composti per viola non accompagnata, 1.300 quelli per viola e orchestra,
3.000 quelli per viola e strumento a tastiera.
Un repertorio cui il Novecento ha dato un contributo
imponente: Bela Bartók, Paul Hindemith, William Walton, Walter Piston, Ernest Bloch, John Harbison sono i
primi nomi che vengono alla mente. Naturalmente senza dimenticare Dmitrij Šostakovič, che al contralto del
quartetto d’archi scelse di dedicare il suo ultimo canto, la
Sonata per viola e pianoforte op. 147.
Le drammatiche circostanze che ne accompagnarono la
nascita furono narrate in dettaglio dallo stesso dedicatario del lavoro, il violista Fëdor Družinin, in un articolo
apparso sulla “Literaturnaja Gazeta” nel settembre 1975.
Nel giugno di quell’anno le condizioni di Šostakovič declinarono rapidamente. Gli era stato diagnosticato un
cancro al polmone che esigeva terapie defatiganti. Ai
vecchi disturbi circolatori si aggiunse un ictus che gli
causò la paralisi di un braccio e serie difficoltà di coordinazione motoria. Fra un ricovero e l’altro gli era riuscito
di assistere alla prima, realizzata il 10 maggio dal basso
Evgenij Nesterenko, dei suoi Quattro versi del capitano
Lebjadkin (da Dostoevskij). Sarebbe stata la sua ultima
apparizione pubblica. In viaggio verso la sua dača di
Žukovka per un periodo di riposo, sostò a Repino, sulla costa baltica a nord di Leningrado, per farsi visitare
da una guaritrice da lui chiamata “la strega”. Alla fine di
giugno telefonò a Družinin, il violista di quel Quartetto
Beethoven che aveva realizzato molte sue prime cameristiche, per domandargli se col suo strumento si potessero eseguire le quarte parallele. Gli rivelò che la Sonata
in cantiere sarebbe stata in tre movimenti: “Il primo è
una novella, il secondo uno scherzo, e il finale è un ada-
D
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gio in memoria di Beethoven”. Il 5 luglio, alla vigilia di
un nuovo ricovero, la partitura era finita. Fra alti e bassi
nelle sue condizioni cliniche, il Maestro fece in tempo
a correggerne le bozze di stampa; Družinin e il pianista
Michail Muntjan ne realizzarono la prima esecuzione
privata nell’appartamento moscovita di Šostakovič. Era
il 26 settembre, il suo sessantanovesimo compleanno,
ma il festeggiato non era là: un nuovo infarto lo aveva
stroncato alle 18.30 del 9 agosto. Il primo ottobre seguiva il debutto pubblico alla Sala Glinka di Leningrado.
Scarna ai limiti dell’ascetismo, la Sonata si svolge nei
tre movimenti progettati, che terminano tutti con l’indicazione “morendo”. Il primo (Moderato - Aria) si apre
coi pizzicati della viola; seguono esposizione, sviluppo e
ripresa suddivisi fra i due strumenti con varietà di effetti (glissandi, tremoli sul ponticello e nuovi pizzicati alla
viola; legato sul pianoforte). Nonostante l’impianto bitematico, l’ambiguità tonale rende vago il ricordo della classica forma-sonata. Sardonico, grottesco e virtuosistico lo
Scherzo (Allegretto), dominato da spunti popolareschi di
marcia e di danza che Šostakovič aveva in origine destinato a un’opera teatrale rimasta incompiuta: I giocatori,
da un racconto di Gogol’. L’Adagio finale, sottotitolato
“In memoria del grande Beethoven”, è un cantabile della
viola accompagnato da arpeggi e rintocchi del pianoforte.
Le citazioni dalla Sonata al chiaro di luna potrebbero significare molte cose, ma la lettura più ovvia è una resa di
fronte all’ultima e inevitabile esperienza della vita.
Come editore musicale, Franz Anton Hoffmeister (17541812) lasciò un segno durevole sul panorama di un ramo
d’industria assai fiorente nei paesi di lingua tedesca: l’attuale Edition Peters discende dal “Bureau de musique”
da lui fondato a Lipsia nell’anno 1800. Nella sua attività primaria, condotta fra Lipsia e Vienna, Hoffmeister
si rivelò un ottimo talent-scout assicurandosi le prime
edizioni di capolavori molto in anticipo sui gusti del tempo; basti citare la Sonata Patetica op. 13 di Beethoven e
il Quartetto KV478 di Mozart, che a sua volta gli dedicò
il Quartetto KV499 (Hoffmeister Quartett). Nella composizione, che esercitò con impegno più che dilettantesco, la sua produzione era invece orientata a soddisfare
i gusti di un pubblico medio, magari desideroso di condire con piccanti spezie timbriche le familiari sedute
di Hausmusik; di qui la scelta di strumenti solisti meno
frequentati quali il contrabbasso e la viola, oppure già
fuori moda come la viola d’amore, il flauto d’amore e la
Schalmey, forma arcaica di clarinetto. Non alle proprie
stampe, bensì alla ditta londinese Forster, Hoffmeister
affidò la pubblicazione della sua op. 13: Six Duetts for a
VENERDÌ 29 AGOSTO
MONTE SANTA MARIA TIBERINA
PIAZZA CASTELLO BOURBON DEL MONTE
ORE 18.30
Violin&Tenor, databile intorno al 1800. Nella terminologia inglese, che ancora risentiva di abitudini secentesche,
Tenor stava appunto per viola, mentre l’equipollenza tra
violino e flauto era anch’essa garantita da un uso secolare.
Sono pagine di non eccelso impegno tecnico, improntate
a uno stile di conversazione dove prevale la continua alternanza fra i ruoli di canto e accompagnamento, mentre
le modulazioni si aggirano in un prevedibile cerchio di
tonalità relative e di tonica/dominante. Il numero 4 della
collezione, in si bemolle maggiore, consiste in un Allegro
seguito da un Minuetto nella classica forma esposizionetrio ritornellato-ripresa da capo.
Vache Sharafyan, classe 1966, è un compositore postmoderno fecondo quanto un Kapellmeister barocco, e come
quei suoi predecessori affonda i modi del proprio operare
in un clima che è insieme artigianale, profondamente spirituale e fondato sulla consapevolezza delle radici. Che
nel suo caso sono quelle dell’Armenia, figlia primogenita
di un Cristianesimo capace di elaborare in sedici secoli un
patrimonio letterario, architettonico, liturgico e musicale
di estrema raffinatezza, gettando ponti fra l’Occidente e il
vicino Oriente nei suoi tre grandi filoni: bizantino, arabopersiano e turco. Perfino in un frammento di sette minuti
come la composizione qui offerta in prima mondiale, il
pensoso approccio di Sharafyan si svela fin dal titolo, che
nell’originale inglese recita: Drawing in air by [e non “for”]
solo flute. Deliziosa anfibolia che si potrebbe tradurre con
“disegnare nell’aria” oppure “inspirare aria” “per mezzo
del flauto”, dove una moderna sinergia espressiva, già
praticata dal nostro musicista in duo con l’artista grafico
Kevork Mourad, si sovrappone alla prima fase di un processo essenziale alla vita. Il discorso musicale si articola
anch’esso su due piani, navigando fra notevoli difficoltà
tecniche quanto a fraseggio, metrica, diteggiatura di note
doppie e triple. Alla base sta un recitativo ornato, o meglio
un flusso a saliscendi che – a quanto assicura l’autore – è
governato dalle cadenze della sua lingua nativa. Quell’idioma che il poeta russo Osip Mandel’štam definiva “resistente come stivali di pietra”, e che veicola una musicalità
virile fatta di sibilanti, gutturali, vocali coperte, semivocali aspirate. Nella sezione centrale fiorisce la reminiscenza
di un umile spunto melodico che uno Sharafyan ancora
adolescente usava canticchiare fra sé e sé.
DANILO ROSSI
A soli vent’anni, Danilo Rossi è stato scelto da Riccardo Muti per ricoprire il ruolo
di prima viola solista della Filarmonica della Scala, divenendo la più giovane prima viola nella storia del prestigioso teatro milanese. È regolarmente invitato nei
maggiori festival con Sergio Azzolini, Yuri Baschmet, Mario Brunello, Bruno Canino,
Giuliano Carmignola, Enrico Dindo, Andrea Lucchesini, il Quartetto Arditti. È stato
inoltre per diversi anni membro del Trio d’archi della Scala e del Quartetto della
Scala con cui si è esibito nelle più prestigiose sale internazionali.
Da vent’anni è presente nelle più importanti società concertistiche in duo con il
pianista Stefano Bezziccheri, con il quale ha interpretato tutto il repertorio per viola
e pianoforte.
Artista di vasta e varia esperienza musicale, ha collaborato con jazzisti quali Jim
Hall, Wayne Marshall, Steve LaSpina e Terri Clarke. Ha fondato il Music Train Quintet insieme ai fratelli Nanni, Luciano Zadro e Massimo Moriconi.
Per lui hanno scritto Alessandro Ferrari, Daniele Callegari, Enrico Pesce, Sante
Palumbo e Jim Hall, Carlo Boccadoro, Stefano Nanni, Roberto Molinelli.
Numerose le incisioni discografiche solistiche e da camera per Sony, Fonit-Cetra,
Arcadia.
Tiene corsi di perfezionamento in numerose città, ed è docente di viola al Conservatorio della Svizzera italiana di Lugano.
GIULIA BARACANI
Diplomata al Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze, si è perfezionata all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e all’Istituto superiore di studi musicali VecchiTonelli di Modena. Ha frequentato le masterclass di Barthold Kujiken, Nicola Mazzanti e Paolo Taballione.
Ha preso parte alla Trillo Flute Orchestra di Michele Marasco, suonando all’interno della stagione cameristica dell’ORT. Ha partecipato al World Bach Fest 2012
con Flame Ensemble, per la prima esecuzione assoluta di una composizione di
Andrea Cavallari.
Dal 2011 è primo flauto della 15Orchestra. Ha fatto parte dell’Ensemble cameristico del Teatro Comunale Pavarotti di Modena e collabora stabilmente con gli
Amici della musica di Modena. Ha collaborato anche con l’Ensemble900 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ha partecipato al Ravenna Festival 2013 in
qualità di ottavinista e flautista del Nextime Ensemble diretto da Danilo Grassi. Ha
eseguito concerti da solista con l’Orchestra giovanile di Salisburgo. Ha effettuato
registrazioni per Rtv38, Studio Emme Recording e Sky. È stata premiata alle Borse
di studio Gazzelloni 2012, ed è vincitrice del Premio “Alberto Burri” per giovani
interpreti 2013.
STEFANO BEZZICCHERI
Vincitore in diversi concorsi nazionali e internazionali, Stefano Bezziccheri ha iniziato
precocemente una intensa attività concertistica come solista e in duo pianistico.
Nel 1988 ha iniziato una proficua collaborazione con Danilo Rossi, prima viola
solista dell’Orchestra del Teatro alla Scala, col quale si è creata una intesa musicale straordinaria. A tutt’oggi sono diverse centinaia i recital effettuati in Italia e
all’estero, nei quali viene percorso l’intero repertorio per viola e pianoforte.
Numerose sono le registrazioni, in audio e in video, per Rai1, Rai3 e network privati.
Come solista e in duo pianistico con Pierluigi Di Tella ha realizzato diverse incisioni discografiche; come camerista collabora abitualmente in varie formazioni,
suonando con Francesco Manara, Sonig Khatcherian, Dora Schwarzberg, Mario
Brunello, Enrico Dindo, Alexander Gebert, Alfredo Persichilli, Enrico Bronzi, Luca
Simoncini, Fabrizio Meloni, Corrado Giuffredi, Giuseppe Ettorre, Sergio Azzolini.
Per l’Editore Limen Music si sta concludendo la realizzazione di un progetto audiovideo di sei cd/dvd in duo con Danilo Rossi, che comprende tutto il grande repertorio per viola e pianoforte. Il primo di questi, contenente le due Sonate di Brahms,
è stato presentato al Teatro alla Scala di Milano nel 2010.
Bezziccheri attualmente insegna al Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna.
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S P O N S O R D E L L A S E R ATA
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CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
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NOA
IN NOA-DOR-FOUR
Noa voce e percussioni
Gil Dor chitarre
Adam Ben-Ezra contrabbasso
Gadi Seri percussioni
musiche dall’album Love Medicine
NOA QUARTET
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MUSICA PER LA PACE
di Luca Della Libera
l potere terapeutico della musica e la
sua capacità di modificare e guarire i
nostri stati d’animo appartengono alla
cultura occidentale da almeno duemila
anni. Furono i Greci a individuare per
primi il carattere dei vari modi (o scale) e la loro relazione con differenti stati d’animo e funzioni sociali. Se nel corso dei secoli tale rapporto è stato
oggetto di riflessione da parte di musicisti, compositori,
teorici e filosofi, negli ultimi decenni esso è stato anche
al centro di riflessioni più propriamente scientifiche. Mi
riferisco, ad esempio, alla musicoterapia, una disciplina
sempre più presente in varie realtà istituzionali, per la
quale esiste ormai una ricca bibliografia riguardante la
possibilità d’intervenire attraverso la musica nei confronti di varie forme di disagio psicologico. Se poi pensiamo
alla cultura di tradizione orale, basterebbe citare il caso
del tarantismo, un complesso rito coreutico musicale in
voga nel Sud dell’Italia fino a pochi decenni fa, realizzato per guarire persone sofferenti, nella convinzione che il
male derivasse dal morso velenoso della taranta, animale
simbolico e non zoologicamente identificabile con alcuna
specie esistente. Al di là di questi pochi esempi, il carattere terapeutico della musica è qualcosa che appartiene
anche all’esperienza quotidiana di molti consumatori di
musica, che orientano le proprie scelte verso quei repertori che a loro dire rilassano e comunque evocano situazioni e stati d’animo piacevoli e rilassanti.
I
Tutto questo sembra essere il filo rosso dell’ultima fatica discografica di Noa, che ritorna, a distanza di quattro
anni dall’ultimo disco, con il nuovo progetto discografico e live, Love Medicine, il cui titolo è arrivato in seguito, da alcune riflessioni a proposito dei poteri curativi
della musica e della sua capacità di evocare meditazione,
compassione, accettazione ed emozioni infinite. Il cd è il
frutto della collaborazione di Noa con Gil Dor, da sempre al suo fianco come direttore musicale e chitarrista, e
ben quattro anni di lavorazione. La lunga tournée estiva
di Noa ha toccato i palchi più importanti del nostro Paese
e d’Europa: nei concerti la cantante è accompagnata da
Gil Dor alla chitarra, Adam Ben-Ezra al basso e Gadi Seri
alla batteria, insieme a un quartetto d’archi e a una special
guest d’eccezione: Joaquín Sabina.
Il disco di Noa è stato pubblicato nei giorni più difficili
della crisi tra israeliani e palestinesi, quindi il suo titolo è
diventato enormemente attuale. In una recente intervista
Noa ha dichiarato che “la musica ha la forza di trasformare la nostra vita e le nostre prospettive. È una piccola ma
fondamentale luce. Quando finirà questo brutale spargi28
mento di sangue? Quando smetteremo di ascoltare scuse
patetiche, affogate da accuse e codardia dai nostri decadenti leader di una e dell’altra parte, che non hanno ancora
capito che non hanno alcun diritto di occupare il “trono”
che noi abbiamo costruito per loro se non sono capaci di
salvare le vite dei nostri figli, se non combattono l’odio e la
violenza con le loro mani nude, se non sacrificano le loro
comodità per la sicurezza e il futuro dei popoli che rappresentano, se non ci portano finalmente alla pace. Il mondo
ha un disperato bisogno di una medicina d’amore”.
Con un concerto pressoché tutto in acustico, Noa volge
il suo sguardo in particolare ai sentieri jazzistici, rimanendo sempre ancorata alla sua dimensione di cantante
totale, in grado di rappresentare se stessa sul palco sia
quando si cimenta con le tradizioni musicali yemenite ed
ebraiche sia quando ritorna alle sue origini di cantautrice dalle influenze world. Durante questi anni Noa e il suo
collaboratore di lunga data Gil Dor hanno continuato ad
esibirsi in modo regolare, incontrando molte persone interessanti e partecipando ai più svariati progetti.
In Love Medicine si trovano brani ispirati a una grande
varietà di persone e situazioni affascinanti che Noa e Gil
hanno incontrato e vissuto durante questi quattro anni.
C’è una canzone scritta da Noa per Joaquín Sabina e a
lui ispirata, nella quale Noa e Sabina eseguono un duetto nelle loro due lingue. Ci sono brani dedicati al Brasile
che si ispirano e rendono omaggio a grandi artisti come
João Bosco, Milton Nascimento e Gilberto Gil, del quale Noa ha tradotto in ebraico il celebre brano A paz. Troviamo anche una canzone composta da Pat Metheny per
Noa, e della quale la stessa Noa ha scritto il testo, prima
collaborazione artistica fra i due grandi musicisti dopo
ventiquattro anni di reciproca ammirazione e amicizia.
Metheny ha infatti prodotto il primo album internazionale di Noa nel 1994.
Il nuovo cd prevede anche brani scritti da Noa e Gil Dor
per un musical sulla vita di Papa Giovanni Paolo II, oltre
all’energica Love Your Brother e l’incalzante Little Star.
E ci sono due cover: una del poco noto brano di Bobby
McFerrin intitolato Mere Words che nasce da una collaborazione fra Noa e McFerrin a Tel Aviv, e l’altra è una
versione sincera di Eternal Flame, dedicata al suo caro
amico Billy Steinberg, scrittore del testo di questo classico del pop.
Durante questa drammatica estate Noa ha fatto sentire
la sua voce in favore della pace. La cantante ha recentemente ribadito l'appello alla pace lanciato con una
lettera aperta pubblicata dal “Corriere della Sera” nella
quale ha esortato i moderati a prendere le distanze dagli
VENERDÌ 29 AGOSTO
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
estremisti delle due fazioni per cambiare le regole del
gioco. “Solo il dialogo – ha dichiarato l’artista in una recente intervista - può porre fine a questo conflitto: noi,
israeliani e palestinesi, dobbiamo cooperare, superando
le nostre paure e i nostri sospetti”.
Le dichiarazioni critiche di Noa nei confronti del governo isreaeliano hanno subito avuto conseguenze concrete. Il concerto previsto per il 27 ottobre prossimo
a Milano è stato annullato da parte dell'associazione
Adei-Wizo-Donne Ebree d’Italia. L’agente dell’artista
ha denunciato il boicottaggio a Noa, dovuto alle sue posizioni espresse anche in un’intervista video a un’agenzia di stampa in cui l’artista israeliana dichiarava: "Ho
incontrato Abu Mazen a Ramallah. Credo che il leader
palestinese voglia veramente la pace con Israele, ma
purtroppo non posso dire lo stesso del mio premier”.
Noa crede nell’amore: impararlo, riceverlo, darlo e farlo
sentire, e crede nella strada del dialogo, e nella costituzione di due Stati separati, la Palestina e Israele.
NOA
Noa è una cantante, compositrice e percussionista di origine yemenita, israeliana
e americana che ha ricevuto il dono di una voce angelica e di una presenza sul
palco magnetica. Insieme a Gil Dor, direttore musicale e chitarrista di lunga data,
Noa ha emozionato, affascinato e incantato il pubblico di tutto il mondo.
Il suo infaticabile e coraggioso lavoro per la pace nel suo paese e i suoi numerosi
impegni di volontariato in tutto il mondo sono valsi una lunga lista di titoli e riconoscimenti tra cui quello di “Ambasciatrice di buona volontà della Fao”, “Cavaliere
della Repubblica Italiana”, oltre al “Chrystal Award” ricevuto dal World Economic
Forum a Davos, e il “Dove of Peace” ricevuto da Shimon Peres.
Impegnata e dal raro talento, Noa è stata paragonata a Barbara Streisand, Joan
Baez, Nana Mouskouri, Joni Mitchell e Elis Regina. Il suo talento e la sua integrità
artistica hanno catturato l’attenzione e i cuori di alcuni delle più grandi leggende
della musica dei nostri tempi, tra cui Quincy Jones, Sting e Pat Metheny, che ha
prodotto nel 1994 Noa, il suo primo album internazionale, pubblicato dalla Geffen
Records. Noa ha eseguito la versione originale dell’Ave Maria per Papa Giovanni
Paolo II in Vaticano, è stata l’unica grande artista israeliana che ha accettato di
esibirsi alla storica manifestazione per la pace che seguì l’assassinio di Yitchak
Rabin, ha partecipato alla scrittura e ha registrato una canzone per il film di Roberto Benigni La vita è bella, vincitore dell’Oscar, ha collaborato con una lunga lista
di rinomati artisti di tutto il mondo e ha scritto centinaia di canzoni in inglese e in
ebraico. Ha un seguito fedele in Europa e in Israele, dove è nata e dove vive oggi,
e un crescente pubblico negli Stati Uniti, dove è cresciuta.
GIL DOR
Nato in Israele nel 1952, ha studiato chitarra classica con Menashe Bakish, uno
dei principali virtuosi israeliani della chitarra. Dal 1971 al 1974 è stato arruolato
nell’esercito lavorando come musicista nell’unità dedicata all’intrattenimento. Ha
poi proseguito gli studi negli Stati Uniti, concentrandosi sul jazz al Berklee College
di Boston e sulla teoria classica e composizione al Queens College di NY. Rientrato
in Israele nel 1981, Gil si è affermato come chitarrista, arrangiatore e compositore
esibendosi dal vivo con un repertorio jazz e rock, registrando con i più importanti
artisti israeliani e insegnando improvvisazione e chitarra alla Jerusalem Academy of
Music. Nel 1985 ha cofondato la Rimon School of Jazz and Contemporary Music
a Ramat HaSharon, in Israele. Durante la sua carica di direttore accademico del
Rimon, durata cinque anni, Gil ha scritto diversi corsi avanzati, creato il programma
“computer aided music” e sviluppato un’applicazione speciale per la notazione musicale utilizzando uno dei primi software disponibili. A partire dal 1990 ha iniziato a
collaborare con Achinoam Nini, talentuosa studentessa del Rimon oggi nota a livello
internazionale con Noa, e insieme si sono esibiti nel palchi di tutto il mondo. Gil è per
Noa direttore musicale e artistico, coautore, arrangiatore, produttore e chitarrista.
ADAM BEN-EZRA
Adam Ben-Ezra ha iniziato a suonare il violino a cinque anni e la chitarra a nove e
ha recentemente aggiunto clarinetto, oud e cajon al suo arsenale, principalmente
imparando da autodidatta. A sedici ha incontrato il contrabbasso, e si è innamorato
del suono intenso di questo strumento. Traendo inspirazione da musicisti diversi
come Bach, Sting e Chick Corea, Adam ha deciso di rendere le sue composizioni
attuali e di aggiungere nuovi colori alla sua tavolozza musicale, incorporando elementi del jazz, della musica latina e mediterranea al suo suono. Adam viene invitato a esibirsi in tutto il mondo, in particolare al fianco di Mike Stern e Victor Wooten.
GADI SERI
Gadi Seri è nato nel 1965 a Gerusalemme, e ha iniziato a suonare la batteria e le percussioni nella prima infanzia. A quindici anni suonava già a livello professionale con
il grande cantante e compositore israeliano Matti Caspi, con il quale ha continuato a
esibirsi per molti anni e per varie produzioni. Gadi ha poi studiato alla Rubin Academy
of Music, approfondendo materie come composizione, armonia e storia della musica
oltre che concentrandosi sullo sviluppo delle sue capacità come strumentista. Dal
1984 al 1987 è stato arruolato nell’esercito come batterista della banda militare. Ha
partecipato a centinaia di concerti, spettacoli televisivi, produzioni teatrali e musical
in Israele e a livello internazionale si è esibito con cantanti come Shlomo Gronich,
Shem Tov Levi, David D'Or, Ofra Haza, Amir Ben-Ayun, Shlomo Artsi, Mayumana e
come leader del suo gruppo. Oggi Gadi si esibisce con Noa e con David Broza. In
studio, ha messo il suo suono inimitabile al servizio di quasi tutti i più importanti
artisti di Israele, registrando più di trecento album.
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SABATO 30 AGOSTO
CITERNA
CHIESA DI SAN MICHELE
ORE 21
Ensemble barocco della Nuova Orchestra Scarlatti
Raffaele Tiseo, Giuseppe Carotenuto violini
Gianfranco Borrelli viola
Manuela Albano violoncello
Pierfrancesco Borrelli organo
Cristina Grifone soprano
Tommaso Rossi flauto dolce e traversiere
musiche del fondo musicale del convento di San Gregorio Armeno di Napoli
programma e revisione a cura di Tommaso Rossi
Anonimo Inno per San Gregorio Armeno
Giovan Battista Pergolesi Laetatus sum in his, Gloria Patri, Sicut erat in principio
da Laetatus sum per soprano, archi e basso continuo
Francesco Mancini Concerto in sol minore per flauto dolce, violini, viola e basso continuo
Cristoph Willibald Gluck “Che farò mesta e dolente” da Orfeo
Pasquale Anfossi “Frena quel pianto amaro” da Nitteti
Aniello Sant’Angelo Concerto in sol maggiore per flauto traverso, archi e basso continuo
Leonardo Vinci “Vò solcando un mar crudele” da Artaserse
Si ringraziano il Convento di San Gregorio Armeno di Napoli e la Soprintendenza archivistica
per la Campania
DALL'ALTO IN SENSO ORARIO
ENSEMBLE BAROCCO DELLA NUOVA ORCHESTRA SCARLATTI / CRISTINA GRIFONE / TOMMASO ROSSI
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MUSICHE INEDITE
DA SAN GREGORIO ARMENO
di Annamaria Bonsante
on questo concerto, fortunati navigatori
della musica tra mari distanti, approdiamo (sfiorando un santo armeno) nel
meraviglioso Settecento napoletano, ancora ignoto ai più nel suo appassionato,
esorbitante e drammatico vocabolario
sonoro di stili e generi. Bene ci guidano alla meta, e a sorpresa, non i protagonisti maschili della capitale europea
della musica di quel periodo, bensì l’intuito di “eccellentissime Signore”, nobildonne “tolte al secolo” eppure al passo con gusti e saperi moderni: le “Dame benedettine” del
monastero femminile di clausura di San Gregorio Armeno,
istituzione grandiosa e millenaria, in età preunitaria sede
d’eccellenza per le figlie della più alta nobiltà partenopea1.
Tra provincia e capitale, il Mezzogiorno d’Italia mostra in
antico regime una capillare presenza di vite consacrate e di
ricche istituzioni regolari: tale presenza urbana, che solo di
recente è stata studiata sotto l’aspetto del protagonismo artistico e culturale, attiva una vita musicale che trabocca dai
consumi strettamente liturgici e/o devozionali2.
La raccolta manoscritta di San Gregorio Armeno, mai catalogata, è un notevole assortimento di composizioni d’epoca, preziosa anche per la sua connotazione claustrale:
al contrario delle collezioni d’arte o delle biblioteche appartenute a istituzioni monastiche e sopravvissute, sono
rarissimi gli archivi musicali collegati a comunità regolari
che hanno resistito compatti a dispersioni e soppressioni.
Nell’archivio confluiscono partiture familiari, private, comunitarie, nonché testimoni preziosi provenienti da altri
monasteri della capitale (SS. Severino e Sossio, SS. Marcellino e Festo, S. Potito, per esempio).
L’esclusiva musica d’arte che, con l’allentarsi della clausura, emerge dall’archivio di partiture, comprende originali
o copie di composizioni religiose, strumentali, didattiche, operistiche del Settecento napoletano, molte delle
quali finora ignote. La silloge, più che una soluzione alle
doverose esigenze liturgiche di una comunità regolare,
è un’antologia dei gusti musicali di coloro che animano
il chiostro, nella quale spesso si incoraggia una propensione ludica, del puro piacere di fare musica, in chiesa o
nella clausura. Il rigido paradigma nel quale, spesso senza
volerlo, le nostre gentildonne sono collocate, è, per mezzo delle arti figurative, addolcito, ma un varco ancor più
ampio è possibile: la musica.
Fruizione ed esercizio personale di musica e canto sono
contrassegni di ricchezza e cultura, ma anche di purissimo
divertissement dal sapore di libertà, e questo bene lo sanno
le famiglie delle Benedettine. Religiose, parenti e maestri
selezionano, ripensano, studiano, promuovono, travestono
il repertorio corrente, passando per tutte le forme sacre e
profane, anche grazie alla presenza di singole badesse, reli-
C
32
giose, educande di particolare talento e competenza. Presso questa comunità scontata è l’assunzione stabile od occasionale di musicisti, complessi e maestri esterni, fenomeno, questo, che rientra nel mecenatismo di un’istituzione
così ricca e nella vivacità artistica della capitale. Ma più che
sulle spese musicali (eminenti ma tipiche), per le scritture
di maestri, cantanti, cori, orchestre, organisti – ben fotografate nella contabilità ufficiale che il Tridentino ha reso
necessaria – val la pena di soffermarsi sulla vita musicale
privata o più riservata di queste nobildonne, che ricevono,
selezionano, studiano, eseguono direttamente pagine irte
di difficoltà, per sé, con le consorelle, per i parenti, anche
nel parlatorio o in chiesa, purché «da dentro».
La dimensione del fenomeno, femminile e pertanto più
occulto, si coglie unicamente nell’approccio diretto ai
manoscritti del fondo, in assenza di cronache o note d’archivio che raccontino di queste pratiche musicali e in presenza di divieti precisi verso il canto figurato (elusi tout
court o aggirati).
Le composizioni giungono da varie strade e trovano un
nuovo senso nelle mani delle religiose, che, tra devozione
e teatro, ri-creano e si ricreano. Possedere tante partiture
è già di per sé segno di distinzione, dunque non mancano manoscritti che potrebbero essere stati studiati, o solo
ammirati e custoditi, senza essere eseguiti dalle monache.
Viceversa, censure e adattamenti provano l’esecuzione di
un dato spartito, che, inteso come mero oggetto prezioso
non sarebbe mai stato modificato, bensì solo conservato.
Incontriamo due modalità di travestimento del testo, sia
la classica metamorfosi dal profano al sacro, sia, partendo
dal profano e qui restando, la più sottile sostituzione di alcuni versi. Nella seconda tipologia riscontriamo ingegnose trasformazioni di musica vocale più teatrale che cameristica, interventi sollecitati dal proposito delle virtuose
di cantare a ogni costo pezzi celebri e moderni.
Ad esempio, e li ascoltiamo in questo concerto, i celebri
versi di Ranieri de’ Calzabigi “Che farò senza Euridice?”
che il “Signor Don Cristofaro Gluck” intona per Orfeo
(irricevibili per un chiostro) diventano “Che farò mesta e
dolente?” a uso e consumo del soprano “Eccellentissima
Signorina Donna Maria Anna Filangieri” (l’aria è altresì
trasportata una terza sopra).
Il più delle volte le virtuose monache non mutano una
nota (e questo mostra tutto il loro professionismo) né una
lettera di difficili pagine dell’opera seria o degli oratori
appena andati in scena sui palcoscenici della città: tutto
è ammesso nel loro salotto musicale. L’insana passione
per il palcoscenico accomuna tutti i monasteri del Mezzogiorno più versati nella musica, tra provincia e capitale.
Per rimanere a Napoli, guardiamo alle “Dame Monache”
di Santa Chiara, sede di molti e celebri “sconcerti” e a Li
SABATO 30 AGOSTO
CITERNA
CHIESA DI SAN MICHELE
ORE 21
furbi, intermezzo comico in lingua napoletana composto
per loro da Giacomo Tritto, o a molti altri casi di promozione di spettacoli nei chiostri femminili, testimoniati in
fonti solo librettistiche essendosi smarrita la partitura.
La vocalità virtuosistica appannaggio dei castrati nell’opera seria attira pericolosamente le nostre claustrali,
le quali possiedono due celebri arie metastasiane che
ascoltiamo: “Vo solcando un mar crudele”, aria di Arbace dall’Artaserse di Leonardo Vinci e “Frena quel pianto
amaro” dalla Nitteti di Pasquale Anfossi.
Del leggendario Giovanni Battista Pergolesi esistono
presso il venerabile monastero preziosi testimoni (di
poco successivi agli originali e collegati a “Sua Eccellenza
Caterina Pignatelli”) di pagine tutte oggi accettate come
autentiche del Maestro tranne il mottetto Laetatus sum
che qui ascoltiamo in parte. Si sa della circolazione incontrollata di numerosissimi “falsi” attribuiti al compositore, e dei cospicui tagli che ha subito l’elenco delle sue
creazioni, eppure questa pagina potrebbe essere autentica e ricollocarsi nel suo catalogo. Ciò non solo in virtù di
analisi formali e diplomatiche, ma confortati dal fatto che
essa sarebbe l’unica opera apocrifa all’interno del corpus
pergolesiano omogeneo attestato in San Gregorio, raccolta che tramanda testimoni di composizioni la cui paternità non è dubbia.
L’inno a San Gregorio Armeno è un’interessante pagina
sacra formalmente distante dalla monodia liturgica cristiana per la scelta dell’organico (voce e continuo), ma dal
suono antico, ispirato e spiritualmente raccolto.
Con i concerti scritti a Napoli da Francesco Mancini e
Aniello Sant’Angelo il programma tocca anche il flauto
dolce (diritto), strumento assai apprezzato dalle élites nel
secolo dei Lumi, dunque in linea con i gusti delle religiose
gentildonne. Le fonti sono oggi a Napoli, a Stoccolma: perché la musica viaggia, spesso si perde, spesso resta sepolta,
ma talvolta, per fortuna, ci torna a trovare.
1 Per approfondire la bellezza (materiale e immateriale) di questo
straordinario sito napoletano, rimando alla pubblicazione della Fondazione Valerio per la storia delle donne: San Gregorio Armeno. Storia, architettura, arte e tradizioni, a cura di Nicola Spinosa, Aldo Pinto,
Adriana Valerio, fotografie di Luciano Pedicini, Fridericiana Editrice
Universitaria, Napoli 2013. Lo stesso volume accoglie anche un mio
articolo intitolato Settecento napoletano a San Gregorio Armeno: ricreazioni musicali, unico contributo specialistico finora apparso riguardante il fondo musicale del monastero.
2 Dinko Fabris offre, oltre a centinaia di studi specifici, un’illuminante
sintesi storica e storiografica sulla musica d’arte napoletana tra Sette e Ottocento. Cfr. Dinko Fabris, The collection and dissemination of Neapolitan
music, c.1600-c.1790 in New Approaches to Naples. The power of place, a
cura di Melissa Calaresu e Helen Hills, Ashgate, Farnham 2014.
NUOVA ORCHESTRA SCARLATTI
La Nuova Orchestra Scarlatti è nata a seguito dello scioglimento dell’Orchestra
Scarlatti Rai, debuttando nel 1993 all’Auditorium Rai di Napoli con un concerto
diretto da John Neschling, trasmesso sia da Radio3 che in tv da Rai3. A partire
dal 1994 la NOS è stata presente in Campania con eventi e rassegne periodiche,
tenendo parallelamente numerosi concerti in Italia e all’estero. Tra i più rilevanti
impegni internazionali ricordiamo i due Concerti per la pace a Gerusalemme e a
Ramallah nel 2005, e i concerti a Tianjin e Pechino per l’inaugurazione dell’anno
Italia-Cina nel 2006, trasmessi dalla Cctv cinese.
Ha intessuto collaborazioni con Roberto De Simone e con altri musicisti come
Krzysztof Penderecki, Aldo Ciccolini, Lü Jia, Leopold Hager, Yoram David, Yves
Abel, Laura De Fusco, Roberto Cominati, José Carreras. Ha eseguito prime assolute di Ivan Vandor, Giacomo Manzoni, Ennio Morricone. Ha inciso per la Nhk
giapponese, la Nuova Era, la Stradivarius, e registrato numerosi concerti per la Rai.
La Nuova Orchestra Scarlatti ha sempre annoverato fra i suoi obiettivi la valorizzazione del patrimonio musicale partenopeo, con particolare riferimento al Settecento; ricordiamo l’incisione nel 1994 della prima esecuzione moderna di Amor
vuol sofferenza di Leonardo Leo e l’allestimento dell’opera Nina ossia la pazza
per amore di Paisiello al Leuciana Festival 1999. Ha realizzato, in collaborazione
con Roberto De Simone, la prima esecuzione moderna nel 1999 della cantata di
Cimarosa Il trionfo della fede e il Concerto per Caterina II di Russia, tenutosi nel
2003 al Teatro di Corte dell’Ermitage a San Pietroburgo e a Mosca nel 2005. Ha
inoltre curato a Napoli tra il 1995 e il 2009, in varie formazioni cameristiche, dodici
edizioni del Festival barocco e… Dal 2011, in più occasioni, la Nuova Scarlatti si
presenta con un proprio Ensemble barocco.
CRISTINA GRIFONE
Si è diplomata nel 2008 al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, ma già
dal 2006 ha iniziato a collaborare con numerosi cori e orchestre, a Napoli, in
Francia e in Finlandia. Con la Nuova Orchestra Scarlatti si è esibita da solista in
numerosi concerti al Parco della musica di Roma, all’Auditorium Rai di Napoli e
al Prinzregententheater di Monaco. Specializzata in musica antica, ha preso parte
a stagioni come Pavia Barocca, “Actus Humanus” Danzica e, per l’associazione
“Alessandro Scarlatti”, a concerti nell’ambito del progetto ScarlattiLab, per il quale
ha ottenuto il Premio nazionale delle arti 2011. Nel 2012 ha vinto il Concorso
internazionale di musica sacra “Beata Paola Montaldi” e nel 2013 è stata finalista
al Concorso lirico internazionale “Città di Bologna”. Attualmente collabora con I
Turchini di Antonio Florio, esibendosi in numerosi festival internazionali e incidendo
nel 2013, per la casa discografica Glossa, il disco La Santissima Trinità, oratorio
di Gaetano Veneziano.
TOMMASO ROSSI
Diplomato in flauto traverso al Conservatorio di Napoli, si è perfezionato con Mario
Ancillotti alla Scuola di musica di Fiesole e con Paolo Capirci al Conservatorio di
Latina. Partecipa stabilmente all’attività concertistica e discografica de I Turchini di
Antonio Florio con cui ha inciso per Opus 111, Naïve, Eloquentia, Dynamic, Glossa
e ha suonato in qualità di solista in numerosi festival internazionali. Nel 2010
ha fondato l’Ensemble barocco di Napoli con cui ha registrato un cd di sonate e
cantate di Alessandro Scarlatti per voce di soprano e flauto per l’etichetta Stradivarius e ha realizzato concerti per l’associazione "Alessandro Scarlatti" di Napoli,
il festival Cusiano di musica antica, l’Opera Giocosa di Savona, il Festival barocco
Leonardo Leo. Ha registrato con l’Ensemble Dolce e Tempesta i concerti di Nicola
Fiorenza per flauto dolce e recentemente ha pubblicato per l’etichetta Stradivarius
le dodici Fantasie a flauto solo di Georg Philipp Telemann. Si dedica come interprete e organizzatore da anni anche al repertorio contemporaneo. È uno dei soci
fondatori e presidente dell’associazione Dissonanzen di Napoli. Con L’Ensemble
Dissonanzen ha suonato presso importanti istituzioni musicali italiane e internazionali quali Ravello Festival, Festival Time Zones, Traiettorie di Parma, Ravenna
Festival, Amici della musica di Modena, Giovine orchestra genovese, Guggenheim
Museum di New York, Festival del Cinema italiano di Annecy, Festival di Salisburgo. Con l’Ensemble Dissonanzen ha inciso per Niccolò e con la Mode Records di
New York. È docente di flauto dolce al Conservatorio di Cosenza dove è curatore
scientifico del progetto internazionale di formazione “La Follia”. Laureato in storia
della musica all’Università Federico II di Napoli, suoi contributi sono apparsi sulle
riviste “SuonoSud”, “Meridione” e "Acropoli”.
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DOMENICA 31 AGOSTO E LUNEDÌ 1 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIOSTRO DELLA CHIESA DI SAN DOMENICO
Premio “Alberto Burri”
per giovani interpreti dedicato al corso
di sassofono di Federico Mondelci
Domenica 31 agosto
ore 11
Selezione dei candidati
ore 12.30 Riunione della giuria e proclamazione del vincitore
Lunedì 1 settembre
ore 21
Cerimonia di premiazione
in apertura del concerto dei Virtuosi Italiani
la selezione dei candidati e la riunione della giuria non sono aperte al pubblico
I corsi di formazione e perfezionamento musicali “Luigi Angelini” sono nati nel 1972 come strumento di
promozione professionale e culturale a favore dei giovani musicisti. Il Festival delle Nazioni di Città di Castello ha
dedicato sin dall'inizio una grande attenzione a questa iniziativa pensando a una integrazione programmatica tra gli
eventi musicali principali promossi dalla programmazione annuale e i giovani artisti presenti ai corsi. In questo lungo
periodo hanno partecipato all'iniziativa straordinari talenti come, tra gli altri, Danilo Rossi, Alexander Lonquich e
il Quartetto Fonè. Dal 1993, attraverso una profonda revisione statutaria, i corsi di formazione e perfezionamento
musicali hanno vissuto un'ulteriore fase di radicamento, sostenuti dal Ministro per i Beni artistici e culturali e dalla
Regione Umbria. Altri soggetti pubblici e privati intervengono per sostenere i corsi provvedendo a erogare borse di
studio a favore dei più meritevoli. Negli ultimi venti anni i corsi si sono aperti sempre di più alla partecipazione di
giovani musicisti provenienti dall'intera Europa, contribuendo a facilitare l'integrazione culturale tra i diversi paesi
componenti l'UE, a cominciare da quelli dell'Est che avviavano allora una fase fondamentale della loro storia. I docenti
responsabili dei corsi di formazione e perfezionamento musicali “Luigi Angelini” sono Danilo Rossi (viola), Michele
Marasco (flauto), Federico Mondelci (sassofono), Riccardo Risaliti (pianoforte), Yves Savary e Pierpaolo Maurizzi
(musica da camera). Gli allievi si sottopongono alla valutazione del pubblico che frequenta il Festival con appositi
concerti-saggio che concludono l'attività formativa. È stato offerto sin dall'inizio ai giovani di partecipare liberamente
agli eventi musicali del Festival, attraverso incontri organizzati con grandi solisti, compositori affermati, direttori
d'orchestra e importanti gruppi di musica d'insieme.
Dal 2012, raccogliendo l'eredità del Premio Calpurnia, il Festival delle Nazioni ha istituto il Premio “Alberto
Burri” per giovani interpreti, un riconoscimento destinato al miglior allievo selezionato tra i partecipanti ai corsi
di formazione e perfezionamento musicali. Al vincitore sarà garantita una borsa di studio per la prosecuzione della
propria formazione, nonché la possibilità di essere inserito nella programmazione dell'anno successivo grazie alla
partecipazione a un concerto.
Lo strumento musicale scelto per il Premio “Alberto Burri” 2014 è il sassofono
In collaborazione con Lions Club di Città di Castello
ALBERTO BURRI, ROMA (VIA NERA), 1957
ARCHIVIO FOTOGRAFICO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI
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DOMENICA 31 AGOSTO
SANSEPOLCRO
AUDITORIUM SANTA CHIARA
ORE 21
Poesia in scena
Ensemble strumentale
dell’Orchestra da camera di Perugia
Luca Arcese violino
Andrea Biagini flauto
Simone Frondini oboe
Fabio Battistelli clarinetto
Simone Nocchi pianoforte
Pamela Villoresi voce recitante
a cura di Cosimo Damiano Damato e Giuliano Grittini
testi di Alda Merini, Cosimo Damiano Damato, Giuliano Grittini,
Movses Khorenatsi e Yeghishe Charents
traduzioni di Vache Sharafyan e Benedek Zsigmond
regia di Cosimo Damiano Damato
Filippo Fanò Suite per Alda Merini
commissione del Festival delle Nazioni PRIMA ESECUZIONE ASSOLUTA
Vache Sharafyan Two Translations
commissione del Festival delle Nazioni PRIMA ESECUZIONE ASSOLUTA
DALL'ALTO IN SENSO ORARIO
ENSEMBLE STRUMENTALE DELL'ORCHESTRA DA CAMERA DI PERUGIA / VACHE SHARAFYAN © FOTO MAXIM NOVIKOV
FILIPPO FANÒ © FOTO JOAN GALO
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DUE TRADUZIONI
di Vache Sharafyan
uesto lavoro si basa sulla poesia armena di Yeghishe Charents, autore del
Novecento, e di Movses Khorenatsi lo
storico armeno del V secolo, tradotta in
linguaggio musicale.
Esso presuppone la lettura dei versi di
questi autori prima di ogni movimento e non solo nella
versione originale in armeno, ma anche nelle traduzioni
in inglese e italiano.
La musica qui eredita la forma della poesia di ciascun verso
così come il modo e l’intonazione del linguaggio, l’espressività. L’aspetto più importante è la “traduzione” stessa.
La possibilità di tradurre la stessa “idea” in linguaggi e forme
differenti sembra affascinante e molto reale. È possibile tradurre la Poesia in Architettura o la Musica in un’altra forma,
come ad esempio la Pittura? Come suonerebbero questi
versi se trasmessi attraverso costruzioni architettoniche? In
quale forma di rappresentazione l’“idea” sarebbe più forte?
E se la forma poetica fosse la prima origine di questi versi o
se fossero stati tradotti a partire da qualcos’altro?
Q
Subito viene alla mente uno dei racconti di Borges: Il
sogno di Coleridge, nel quale lo scrittore racconta di
un tempio visto in un sogno e costruito da Kublai Khan
nell’antichità e la descrizione dello stesso tempio in
un sogno in forma poetica e scritta dal poeta inglese
Coleridge molti secoli dopo…
Quando mi è stata commissionata questa composizione
per la prima esecuzione assoluta a Sansepolcro nell’ambito del Festival delle Nazioni, per prima cosa mi sono
ricordato della mia prima visita qui, che risale a qualche
anno fa, e dell’emblematico dipinto della Madonna del
parto di Piero della Francesca.
Ho scelto versi che hanno una leggera relazione e una
ovvia relazione con la gravidanza della Santa Vergine.
In particolare il verso di Yeghishe Charents “Girl like
a lampshade – with the Virgin Mary’s eyes...”, e il verso di Movses Khorenatsi “Light, the Lights mother and
the home of the life-giving Word”. Quest’ultimo sembra
quasi la traduzione dell’immagine di Piero della Francesca, sebbene sia stato scritto qualche secolo prima.
UNA SUITE PER ALDA MERINI
di Mariana Rullo
me piacciono gli anfratti bui delle osterie dormienti, dove la gente culmina
nell’eccesso del canto, a me piacciono le
cose bestemmiate e leggere”.
Come dare voce in musica a una tale
osmosi di sacralità, spiritualità, umanità profonda e “semplicità che si accompagna con l’umiltà”
così tenace e radicata nella poetessa dei navigli?
Filippo Fanò, musicista che ha da sempre coltivato curiosità e interesse per i linguaggi musicali popolari, l’improvvisazione e il jazz, attraverso una intensa ricerca nella
“terra di confine” tra musica colta e popolare, camerismo
classico e stili improvvisati, compone, qui, una suite. Il
maestro crea, per la poetessa che chiede alla musica di accarezzarla e di scorrere sulla sua bianca pietà come acqua
di argilla, una suite reinventata con stili popolari e contemporanei, solitamente insoliti per una ordre, scandita
da sei movimenti.
“A
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Una suite che ci viene offerta come un viaggio nella cultura e nella musica popolare attraversata da stili e approcci
più contemporanei: dal canto religioso rappresentativo
della cultura musicale afroamericana, lo spiritual, alla
“popolarità” della piccola canzonetta portoghese Modinha, particolarmente in uso fra i contadini e la gente comune e cantata di notte nelle contrade delle grandi città.
Dalla musica etnica e colta, con il suo ripetersi incessante
dell’ostinato, al tradizionale ballo di corteggiamento argentino, di campagna, della chacarera, con le sue donne sventolanti la propria gonna improvvisata come un ventaglio al
contrario. E infine dalla danza popolare spagnola, il bolero,
approdando con una milonga, nuovamente in Argentina.
Sei danze, che tentano di riecheggiare l’odore acre di sigaretta avidamente aspirata da Alda Merini, di quella
vestaglia che ti diventa insostituibile, di quella solitudine
da malati, da colpevoli, di quell’amore così teneramente
implorato, di quelle “notti che non accadono mai”.
DOMENICA 31 AGOSTO
SANSEPOLCRO
AUDITORIUM SANTA CHIARA
ORE 21
VACHE SHARAFYAN
Vache Sharafyan è nato nel 1966 a Yerevan. La sua musica è stata commissionata
ed eseguita dai più prestigiosi artisti del panorama internazionale quali Yo-Yo Ma,
Yuri Bashmet, Hilliard Ensemble, Anne Akiko Meyers, Boston Modern Orchestra
Project, per citarne alcuni.
Compositore ufficiale per Silk Road Project Ins. dal 2001, Sharafyan ha composto l’opera King Abgar, il balletto The Another Moon, diverse sinfonie, musica da
camera, musica corale, musica vocale, lavori eseguiti nelle sale più importanti,
come la Carnegie Hall di New York, la Chicago Symphony Hall, l’Amsterdam Concertgebouw, le sale da concerto delle Filarmoniche di Bruxelles, Colonia e Berlino,
alla Vienna Konzerthaus, al Metropolitan Museum of Arts, alla Grand hall del Conservatorio di Mosca, al Theatre du Chatelet di Parigi, e ancora in Armenia, Italia,
Canada, Ucraina, Georgia, Thailandia, Libano, Ungheria, Svizzera, Spagna, Taiwan,
Giappone, Scozia, Irlada, Gran Bretagna, Islanda, Grecia, Cipro, Svezia.
È compositore ospite al Cello Plus Festival 2014 in Michigan.
FILIPPO FANÒ
Filippo Fanò, parallelamente allo studio della musica scritta, ha da sempre coltivato curiosità e interesse verso i linguaggi musicali popolari, l’improvvisazione e il
jazz, approfondendone conoscenza e pratica anche grazie all’incontro con artisti
d’eccellenza come Enrico Pieranunzi e Stefano Bollani, per citarne alcuni. Il suo
ultimo disco, Pagine (Radar Music), testimonia la sua intensa ricerca nella terra
di confine tra musica colta e popolare, camerismo classico e stili improvvisativi.
L’esordio come compositore e arrangiatore avviene nel più divertente dei modi,
grazie alla collaborazione con Egea Small: la prima etichetta discografica italiana
dedicata all’infanzia prodotta e distribuita da Egea Distribution. Da allora (dieci
anni, cinque dischi e due ristampe) ha diretto e scritto per praticamente tutti i
tipi di formazione, soprattutto in ambito teatrale, partecipando come interprete o
curando le musiche di scena di oltre trenta produzioni. Particolarmente rappresentativi i due lavori più recenti: L’infinita speranza di un ritorno con Elisabetta
Vergani per la regia di Maurizio Schmidt, per due stagioni consecutive in cartellone
al Teatro Franco Parenti di Milano e Mack Is Coming Back, prodotto da Théâtre du
Galpon / Studio d’Action Théâtrale di Ginevra per la regia di Gabriel Alvarez con le
musiche di Bruno De Franceschi, distribuito in Italia dal Teatro Stabile di Torino e
Teatro Due di Parma. Vive da qualche anno a Barcellona dove collabora con alcuni
tra i più apprezzati musicisti della scena, come Trio Chorando e Carles López, ma
soprattutto curando la direzione musicale di varie produzioni di teatro musicale.
L’ultima, La Festa Selvatge, è stata nominata come come miglior spettacolo di
teatro musicale al Premis Butaca de Catalunya e come miglior direzione musicale
negli Spanish Broadway Awards. Assieme alle tante musiche di scena ha anche
composto colonne sonore per cortometraggi, documentari e prodotti multimediali,
incidendo per varie etichette di genere.
ORCHESTRA DA CAMERA DI PERUGIA
La nuova Orchestra da camera di Perugia nasce dalla pluriennale esperienza di
giovani musicisti umbri nella diffusione della cultura musicale, soprattutto in relazione alle produzioni musicali rivolte ai giovani delle scuole. La collaborazione fra
strumentisti attivata all’interno del progetto Musica per crescere della Fondazione
Perugia Musica Classica ha portato alla volontà di creare un complesso di archi e
fiati in grado di estendere l’impegno nella diffusione musicale in sede concertistica
e di mettere al servizio degli enti di produzione musicale umbri e italiani una nuova
formazione che può contare su professionalità consolidate dalla collaborazione
con alcune delle migliori orchestre nazionali e da una attività solistica di alto profilo. Il debutto della formazione è avvenuto nel 2013 con il Progetto “Penderecki
80”, presentato alla Sagra Musicale Umbra, al Ravello Festival e all’Emilia Romagna Festival, per celebrare l’ottantesimo anno del compositore polacco Krzysztof
Penderecki, che per l’occasione ha diretto musiche da lui composte.
L’Orchestra mira a una ampia elasticità di organico di archi, fiati e percussioni, tale
da coprire un repertorio che va dal Settecento alla musica contemporanea, con particolare vocazione per il Novecento. Un costante controllo della qualità, legato alla
selezione degli strumentisti e alla loro disciplina di gruppo è l’obiettivo ambizioso di
questa nuova Orchestra, che intende essere punto di riferimento per tutti i giovani
professionisti della Regione e per gli enti di produzione e diffusione musicale.
PAMELA VILLORESI
L’attrice Pamela Villoresi è nata a Prato nel 1957 da padre toscano e madre tedesca.
Recita in cinque lingue: italiano, inglese, tedesco, francese e spagnolo. Ha debuttato
a quattordici debutta come protagonista nel Re Nudo di Schwarz diretta da Paolo
Magelli, a quindici ha iniziato la sua carriera. Ha recitato in più di sessanta spettacoli
di cui cinque con Strehler, e poi con Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Mario Missiroli,
Giancarlo Cobelli e Maurizio Panici, al fianco dei più grandi attori italiani. Si è specializzata nell’interpretazione della poesia (ha in repertorio ventitre recital di poesie)
ed è stata voce recitante in cinque melologhi. Ha commissionato molti nuovi testi
drammaturgici, tutti messi poi in scena e alcuni pubblicati in italiano e inglese. Ha
diretto lei stessa ventotto spettacoli.
Ha lavorato in numerosi film, con grandi maestri come Bellocchio, Fratelli Taviani,
Ferrara, Placido e Sorrentino ne La Grande Bellezza, Premio Oscar 2014.
È stata docente di recitazione e poesia a Prato, Reggio Calabria, Lugano, Guastalla e Orbetello.
È stata nel consiglio d’Amministrazione dell’Accademia d’arte drammatica Silvio
D’Amico, del Met Teatro Stabile della Toscana e del Teatro Argentina Stabile di
Roma. Ha ideato e realizzato, a Prato per l’Ateneo di Firenze, il primo corso universitario Progeas per i mestieri organizzativi e promozionali dello spettacolo.
Ha vinto numerosi premi tra cui due Maschere d’oro, due Grolle d’oro, due premi Ubu, uno alla carriera e uno per la pace insieme a Rugova e al Patriarca di
Gerusalemme, e la Medaglia d’oro del Vaticano tra i cento artisti del mondo che
favoriscono il dialogo con la spiritualità.
COSIMO DAMIANO DAMATO
Pugliese classe ‘73, Cosimo Damiano Damato è regista, sceneggiatore e drammaturgo. Ha collaborato, fra gli altri, con Giancarlo Giannini, Arnoldo Foà, Catherine
Deneuve, Michele Placido, Riccardo Scamarcio, Lucio Dalla, Renzo Arbore, Moni
Ovadia e Carlo delle Piane. Nel 2008 ha diretto il film d’animazione La luna nel
deserto, con la sceneggiatura di Raffaele Nigro. Il film è stato presentato alla 65a
Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e al Festival di Giffoni.
Nel 2009 ha firmato il film documentario Una donna sul palcoscenico con Alda
Merini e la partecipazione di Mariangela Melato, che viene selezionato come
“evento speciale” alle “Giornate degli autori” nell’ambito della 66ª Mostra del
cinema di Venezia. Successivamente ha diretto, sempre dedicato alla Merini, il
monologo teatrale “L’amore è un delirio” con Carlo delle Piane e Marco Poeta.
Nel 2013 ha presentato al Festival del cinema europeo il documentario Oscia. La
bellezza di Tonino Guerra con Tonino Guerra e con Abbas Kiarostami. Lo scorso 24
febbraio ha debuttato nella Sala Umberto di Roma lo spettacolo Freedom. Imparare la libertà con Gherardo Colombo e Tommaso Piotta.
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LUNEDÌ 1 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
I Virtuosi Italiani
Alberto Martini primo violino
Antonio Aiello, Carlo Menozzi, Ilaria Miori, Johanna Ainomae violini primi
Luca Falasca, Vincenzo Quaranta, Vinicio Capriotti, Anne Sophie Freund violini secondi
Flavio Ghilardi, Alessandro Pandolfi, Ciro Chiapponi viole
Zoltan Szabo, Michele Ballarini, Giordano Pegoraro violoncelli
Sante Braia contrabbasso
Federico Mondelci direttore e sassofono
Vardapet Komitas Sei melodie per orchestra d’archi
Makar Ekmalyan Hayr Sourb per sassofono soprano e archi
Aleksandr Glazunov Concerto per sassofono contralto e orchestra d’archi
in mi bemolle maggiore op. 109
Dmitrij Šostakovič Due pezzi (Preludio e Scherzo) per orchestra d’archi op. 11
Aram Khačaturjan Suite per orchestra d’archi (arrangiamento di Ruben Altunian)
In collaborazione con Lions Club di Città di Castello
I VIRTUOSI ITALIANI © FOTO MAKI GALIMBERTI / FEDERICO MONDELCI
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BUON COMPLEANNO SAX!
di Virgilio Celletti
l concerto dei Virtuosi Italiani è una
singolare sintesi delle due attività che
il Festival delle Nazioni svolge da quasi
mezzo secolo a Città di Castello: quella
un po’ riservata ma di alta didattica che
promuove il perfezionamento di giovani
concertisti (a essa si collega un più conosciuto concorso
di interpretazione riguardante ogni anno uno strumento
diverso) e quella concertistica, che è poi il festival vero e
proprio. Federico Mondelci, un sassofonista di fama internazionale ma anche leader di complessi da camera e
direttore d’orchestra, assume in questa occasione il ruolo
di protagonista del concerto in cui si esibirà sia come solista che come direttore, riproponendo un’attività che tutti
apprezzano da più di vent’anni. Mondelci è infatti anche
il fondatore dell’Italian Saxophone Quartet e dell’Italian
Saxophone Orchestra, con cui ha tenuto concerti in tutto il mondo. Ma al tempo stesso gli verrà riconosciuto il
merito di essere stato, nel periodo immediatamente precedente, il maestro di suoi giovani “colleghi” sassofonisti
che cercano di carpirgli il segreto di affascinare il pubblico. Il più talentuoso di loro avrà nel frattempo vinto, nel
concorso collegato al corso, il Premio “Alberto Burri” che
gli verrà assegnato durante una esibizione-premiazione.
E questo concerto assume tra l’altro un significato celebrativo in quanto proprio quest’anno ricorrono i duecento anni dalla nascita di Adolphe Sax, il musicista belga
che (spinto semplicemente, a quanto si legge nella sua
biografia, dall’esigenza di ampliare le cadenze e le sonorità delle bande militari) ha inventato lo strumento al
quale ha dato la forma, un suono suggestivo e inconfondibile e persino il nome. E Mondelci valorizza proprio le
caratteristiche più originali del sassofono, quanto meno
quelle che per prime si sono manifestate. Appartiene infatti alla categoria di interpreti che prescindono da quella
che è diventata un bel giorno, forse la principale ragione
di vita del loro strumento: vale a dire la musica jazz, che
(è bene ricordarlo) ha iniziato il suo percorso più o meno
cento anni dopo la nascita di Adolphe Sax. Insomma il
sassofono ha avuto tutto il tempo di conquistarsi l’interesse di numerosi compositori colti di un intero secolo.
Questo concerto ne è una interessante dimostrazione,
anche se verrà aperto da un brano che non riguarda lo
strumento a fiato, ma rientra nello scopo per cui questa
rassegna è stata fondata e cioè la conoscenza e l’approfondimento della produzione musicale dei paesi europei.
La nazione ospite del Festival 2014 è l’Armenia, che da
un punto di vista musicale è degnamente rappresentata innanzitutto da Vardapet Komitas, interprete e
soprattutto ricercatore e studioso della tradizione mu-
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sicale di questo paese vissuto a cavallo di Ottocento e
Novecento. Egli ebbe un’esistenza tormentata: riuscì a
sfuggire alla grande deportazione del 1915, ma venne
arrestato e poi ricoverato in un ospedale di Istanbul in
preda alla pazzia causata sia dallo stress dovuto al genocidio a cui aveva assistito che dalla distruzione quasi
totale della sua musica. Quattro anni dopo fu trasferito
a Parigi dove nel 1935 morì in una clinica psichiatrica.
Fra le sue pagine che è stato possibile mettere in salvo e
che oggi si possono ascoltare in pur rari concerti, le Sei
melodie per orchestra d’archi. Fortemente espressive,
queste pagine si rivelano addirittura preziose per un approfondimento dello stile e della poetica di Komitas che
effettivamente merita una conoscenza maggiore di quella
accreditatagli. E grazie a esse è anche possibile stabilire
un utile confronto con gli altri autori in programma, i russi
Aleksandr Glazunov e Dmitrij Šostakovič, ma soprattutto
Aram Khačaturjan che fra i compositori di origine armena
è, nel Novecento, certamente il più importante. Proprio
come l’Armenia è stata per secoli quasi un collegamento
tra Oriente e Occidente, così la musica armena esprime
questa parentela contenendo elementi che appartengono
sia alla cultura occidentale che a quella del medio Oriente.
La stessa atmosfera si respira nel secondo brano in programma, che è Hayr Sourb di Makar Ekmalyan, un canto a cappella con l’evidente destino di subire mutamenti.
Era all’inizio una melodia antica di origine gregoriana
divenuta poi un brano per strumenti popolari armeni. La
versione che ascolteremo è stata realizzata da Mondelci
per sassofono soprano e archi.
Sempre il sassofono, ma il fratello maggiore, cioè il contralto, è invece il protagonista del Concerto in la minore
op. 109 di Aleksandr Glazunov. Un brano che tradisce
origini inequivocabilmente mitteleuropee, ma che, scritto nei primi anni Trenta del secolo scorso non nasconde
qualche simpatia per le sonorità (si potrebbe quasi dire
per la “voce”, considerate le vibrazioni e le intonazioni quasi umane di questo strumento) che gli interpreti di oltreoceano, i jazzmen appunto, ricavano dal sax.
Glazunov aveva coltivato il proprio interesse alla musica
europea attraverso relazioni con i compositori tedeschi e
francesi e lo stesso percorso aveva compiuto per venire
a conoscenza delle più moderne tecniche compositive e
dei nuovi strumenti musicali a fiato che nei primi decenni del Novecento stavano subendo evoluzioni notevoli.
Tutto questo aveva alla fine prodotto un risultato come il
Concerto per sassofono. Un brano, fra l’altro, la cui natura virtuosistica è dimostrata anche dalla circostanza che
LUNEDÌ 1 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
l’autore lo dedicò a un interprete assai dotato come il sassofonista americano di origine tedesca Sigurd Raschèr.
Pensando alla sua bravura trascendentale, anzi probabilmente rispondendo a una sua richiesta, Glazunov inserì nel brano rapidi e talora repentini cambi di tonalità e
varie altre difficoltà fra cui una serie proibitiva di salti di
ottava con i quali anche Mondelci si dovrà misurare.
È quindi la volta di Preludio e Scherzo per archi, op.
111 di Dmitrij Šostakovič, che in origine era un Ottetto per archi poi trasformato da Rudolf Barshai, il fondatore dell’orchestra da camera di Mosca divenuto
celebre proprio come collaboratore e trascrittore di
Šostakovič, nel dittico che ascolteremo. In esso il Preludio perde l’originaria espressività e diventa un singolare connubio tra le sonorità del primo Schönberg e
i fraseggi del concertismo bachiano, mentre lo Scherzo ci avvicina al dinamismo di Prokof’ev e di Bartók.
Questo omaggio all’Armenia si conclude con una Suite
per orchestra d’archi di Aram Khačaturjan. Compositore
assai noto ed eseguito, egli era armeno d’origine e di spirito anche se nato a Tblisi che è la capitale della Georgia,
in Russia. Questa sua pagina che ascolteremo nell’arrangiamento di un altro armeno, Ruben Altunian, unisce agli
stilemi folcloristici conquiste più attuali in campo timbrico e orchestrale.
FEDERICO MONDELCI
Docente, camerista, solista, Federico Mondelci è da oltre venti anni uno dei maggiori e più apprezzati interpreti del panorama musicale internazionale.
Si è esibito a fianco di orchestre quali la Filarmonica della Scala con Seiji Ozawa,
I Solisti di Mosca con Yuri Bashmet, la Filarmonica di San Pietroburgo e la BBC
Philharmonic sui palcoscenici più famosi del mondo.
A quella di solista affianca una sempre più rilevante carriera nella direzione d’orchestra, dirigendo orchestre e solisti quali Ilya Grubert, Michael Nyman, Kathryn
Stott, Pavel Vernikov, Nelson Goerner, Francesco Manara, Natalia Gutman e Luisa
Castellani. In qualità di solista e direttore si è esibito a fianco dell’Orchestra del
Teatro alla Scala, New Zealand Symphony Orchestra, BBC Philharmonic, Filarmonica di San Pietroburgo, Orchestra da Camera di Mosca, Orchestra Sinfonica di
Bangkok. Nel 2014, in occasione del bicentenario della nascita di Adolphe Sax,
inventore del sassofono, ha ricevuto l’invito dalla Filarmonica di San Pietroburgo
a esibirsi come direttore e solista in un concerto di gala, che ha avuto luogo il 26
giugno 2014, nell’ambito della prestigiosa stagione diretta da Yuri Termirkanov.
I VIRTUOSI ITALIANI
Nata del 1989, I Virtuosi Italiani si esibiscono regolarmente per i più importanti
teatri ed enti musicali italiani. Tra gli impegni recenti si segnalano il concerto per il
Senato della Repubblica teletrasmesso in diretta da Rai1, il Concerto per la vita e
per la pace eseguito a Roma, Betlemme e Gerusalemme e trasmesso in mondovisione, il concerto alla Sala Nervi in Vaticano alla presenza del Papa, la tournée in
Russia, Turchia e Sud America, e il debutto alla Royal Albert Hall di Londra.
Per l’interpretazione, in prima assoluta, dell’integrale di Francesco Antonio Bonporti, I Virtuosi Italiani hanno conseguito il prestigioso premio “Choc de la musique”, il Cinque stelle “Premio Goldberg”, il “Diapason d’or” e il Cinque stelle della
rivista italiana “Musica”.
L’attenzione dei Virtuosi alla ricerca filologica li ha condotti a esibirsi nel repertorio
barocco anche su strumenti originali. Proprio in quest’ambito, nel 2013, sono
usciti due dvd per Unitel Classica con opere di Pergolesi. Nel segno della versatilità, la compagine vanta collaborazioni con artisti quali Franco Battiato, Goran
Bregovic, Uri Caine, Chick Corea, Paolo Fresu, Ludovico Einaudi, Richard Galliano,
Michael Nyman, Antonella Ruggiero e altri.
I Virtuosi sono ideatori e interpreti a Verona, città di residenza, di una stagione concertistica e di una stagione di musica sacra. Dal 2011 l’orchestra è residente con
una stagione concertistica anche nella Chiesa dell’Ospedale della Pietà a Venezia.
L’impostazione artistica vede come figura cardine quella del Konzertmeister-primo
violino Alberto Martini. Direttore principale è Corrado Rovaris. Dal 2011 il violinista
Pavel Berman ricopre il ruolo di solista principale ospite.
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S P O N S O R D E L L A S E R ATA
MARTEDÌ 2 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 18.30 E 21
Marco Polo
Flavio Albanese narrazione
Ara Malikian violino
Luis Gallo chitarra
viaggio musicale di Flavio Albanese, Ara Malikian, Sirvart Churkhmé
testo di Flavio Albanese
disegni animati di Gosha Ljahoveckij
Niccolò Paganini Il Carnevale di Venezia op. 10
Ara Malikian Zouv
Antonio Vivaldi “L’estate” da Le quattro stagioni
Ara Malikian e Luis Gallo Arev
Ciocarlia musica popolare rumena
Antonín Dvořák “Quando mia madre mi insegnava a cantare” da Melodie gitane
Aram Khačaturjan “Danza delle spade” da Gajaneh
Ara Malikian Pisando Flores
Video sequenza e animazione Studio “M.I.R.” Mosca
Irina Margolina, Dmitry Naumov, Alexandr Guriev, Kirill Lunkin
Elaborazioni video e luci Cristina Spelti – Promusic
Produzione ARA MALIKIAN e ATER in coproduzione con la Fondazione Teatro Comunale di Modena
Lo spettacolo delle ore 18.30 avrà luogo in forma itinerante con partenza dalla Chiesa di San Domenico, e
vedrà la partecipazione degli allievi della Scuola comunale di musica “G. Puccini” di Città di Castello.
DALL'ALTO IN SENSO ORARIO
FOTO DI SCENA © FOTO DI ROLANDO PAOLO GUERZONI / FLAVIO ALBANESE ILLUSTRATO DA GOSHA
LUIS GALLO ILLUSTRATO DA GOSHA / ARA MALIKIAN ILLUSTRATO DA GOSHA
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IN VIAGGIO CON MARCO POLO
di Alessandro Taverna
ublai Khan domanda a Marco Polo perché non gli abbia mai parlato di Venezia.
Al sovrano orientale il giovane viaggiatore di stupefacenti città ne ha descritte
tante: il lago sotterraneo su cui sorge la
città di Isaura o le sfere di vetro di cui
è adornato il centro di Fedora o l’immagine capovolta di
Valdrada. Eppure nessuna parola della meravigliosa città
costruita sull’acqua da cui ha preso origine il suo viaggio.
Il Khan lo rimprovera di non aver mai descritto Venezia.
Polo ha pronta la replica:
- Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia.
- Quando ti chiedo d’altre città, voglio sentirti parlare di
quelle. E di Venezia quando ti chiedo di Venezia.
- Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una
prima città che resta implicita. Per me è Venezia.
- Dovresti allora cominciare ogni racconto dei tuoi viaggi dalla partenza, descrivendo Venezia così com’è, tutta
quanta senza omettere nulla di ciò che ricordi di lei.
Conversazione colta nel mezzo del reticolo di descrizioni di cui Italo Calvino si servì per comporre, nel 1972, Le
città invisibili. E tanto vale riaprire ancora una volta il libro per sentire la voce di Marco Polo: “Le immagini della
memoria una volta fissate le parole, si cancellano. Forse
Venezia, ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a
poco”. Difficile da afferrarle Le città invisibili, per la forma che lo scrittore volle far assumere al libro. Cosa è mai?
Forse un atlante di parole con cui fissare una sequenza di
luoghi immaginari che suonano come il rovescio del Milione di Marco Polo.
E cosa mai sarà il Milione di Marco Polo? Fosse solo perché non ne esiste un’unica versione, ma tante varianti, la
materia narrata assurge a mito. Un atlante semmai, perché i racconti del viaggiatore veneziano fanno prendere
forma e sostanza a nuovi mappamondi e carte geografiche
dove collocare i luoghi toccati e descritti dal viaggiatore
veneziano.
“Impossibile distinguere fra realtà e fantasia nei racconti di Marco Polo, ma forse anche inutile, Marco esiste e
ci affascina come un mito, avvicinarsi a lui è come avvicinarsi alla parte più profonda di noi stessi” avverte Flavio Albanese che i testi di Marco Polo li ha ricuciti per un
viaggio nello spazio e nel tempo. “Partendo da Venezia,
saliremo sul Monte Ararat nell’antica Armenia dove secondo la leggenda è giunto Noè alla fine del diluvio universale, attraverseremo villaggi e deserti dell’Asia, ricche
città come Samarcanda, prima di arrivare a Cambaluc
nell’attuale Cina, dove si trova il nipote del terribile Gengis Khan, il grande Kublai Khan. Molte sono le avventure
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che affronteremo ancora fra realtà e immaginazione prima di tornare a Venezia”.
Viaggio lunghissimo. Eppure bastano sessanta minuti
per ripercorrere illusoriamente il viaggio che impegnò
per anni e anni il viaggiatore veneziano. E se le immagini
hanno esercitato da sempre, per il Milione, fortuna eguale
delle parole, per il viaggio consumato in teatro, le tappe
sono segnate da immagini proiettate su un telo, come accadeva, secoli addietro, con le fantasie ottiche del Mondo
Nuovo. E le immagini sono i disegni animati – coloratissimi – di Gosha Ljahoveckij. La musica, infine. A segnare
il tempo saranno Niccolò Paganini, Antonio Vivaldi, Antonín Dvořák, Aram Khačaturjan e Ara Malikian – che le
musiche le suonerà al violino tutte assieme al chitarrista
Luis Gallo. Fa parte a sé Malikian: senza rinnegare le Partite di Bach, il violinista si è abituato ben presto a considerare la musica non tanto come una materia storica – dove
conta quel che è venuto prima o dopo – ma come un concetto spaziale, da distendere in un immaginario atlante –
dove importante è sapere da dove si originano le note, se
a Nord o a Sud.
Con Marco Polo il viaggio musicale tocca anche la
patria d’origine di Malikian e del compositore Aram
Khačaturjan – la terra delle pietre urlanti, come definì
l’Armenia il poeta Osip Mandel’štam: “Ho avuto la fortuna di vedere le nuvole che celebravano sacre funzioni al
dio Ararat. Era il movimento discendente e ascendente
della panna quando è versata in un bicchiere di rubicondo
tè e si disperde in mille tuberi ricciuti”.
Marco Polo ebbe un’altra fortuna accostando il Monte
Ararat, fortuna da visionario: vi riconobbe sulla cima l’Arca di Noé, rimasta incagliata dopo il Diluvio Universale.
Una nave su una montagna. Miraggio incongruo come
potrebbero essere a chi li vede per la prima volta i grattacieli di New York.
Quanto capitò a Antonín Dvořák – che presta una melodia gitana per indicare un tratto della via sull’atlante musicale di questo spettacolo. Invitato a occupare per due
anni il posto di direttore del Conservatorio di New York, il
compositore boemo scoprì una città degna di figurare fra
le città meravigliose descritte dall’autore del Milione: gli
ascensori scalavano già dieci piani e Manhattan era il terreno su cui sorgevano sofisticati parchi di divertimento.
Dvořák si allontanerà volentieri dai mille rumori di New
York, per contemplare le cascate d’acqua del Niagara.
L’acqua, appunto. Da essa muove e finisce il viaggio. A Venezia – dove è trattenuto da secoli uno spicchio di Armenia – l’ acqua è il riflesso della musica. Il suono è condotto
attraverso i canali. La città è un auditorium affondato.
Giungono in superficie le bolle d’aria emesse da strumenti
MARTEDÌ 2 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 18.30 E 21
sprofondati negli abissi. Come un guscio, la città trattiene
la musica e la sua eco. Non sorprende allora che a Venezia il suono resti sospeso oltre il sordo limitare dell’acqua
immota della laguna, nell’aria. Neppure c’è da stupirsi che
Venezia sia sempre stata allagata di musica. Da qui – dove
comincia e dove finisce il viaggio di Marco Polo – il suono
galleggia sull’acqua. Ed è un fenomeno naturale che nella città lagunare si sia investiti dalla musica, tanta musica. Alla corrente si può aggiungere la furia compositiva
di Antonio Vivaldi. Nome tanto a lungo dimenticato fin
dai tempi delle contese settecentesche fra musicisti italiani e stranieri, assente fino a Novecento inoltrato dalle
innumerevoli evocazioni del paesaggio sonoro veneziano. Al Prete Rosso non pensò neppure Niccolò Paganini
evocando il Carnevale di Venezia con il suo archetto. Ma
come dimenticarsene oggi, facendo soltanto il nome della
città da cui Marco Polo cominciò il suo lungo viaggio?
FLAVIO ALBANESE
Attore e regista al Piccolo Teatro di Milano, Flavio Albanese ha studiato alla scuola di teatro diretta da Giorgio Strehler, e si è perfezionato con Ferruccio Soleri,
Jurij Alschitz, Tierry Salmon, Jerzy Grotowski, Thomas Richards, Stéphane Braunschweig. Attualmente dirige con Marinella Anaclerio la Compagnia del Sole.
Dal 1986 a oggi ha realizzato, come attore, regista, curatore di traduzioni e adattamenti, spettacoli da autori quali Omero, Moliere, Goldoni, Platone, Shakespeare,
Goethe, George Orwell, Gianni Rodari, Federico Garcia Lorca, Carlo Collodi, Dostoevskij, Checov.
Dal 1994 insegna recitazione e commedia dell’arte presso accademie nazionali
come la Mimar Sinan Güzel Sanatlar Üniversitesi (in Turchia), Isadac (in Marocco). Dirige e organizza progetti di formazione del pubblico, e ha realizzato scambi
culturali, spettacoli e progetti teatrali anche in Iran, Marocco, Turchia, Nicaragua,
Pakistan, Etiopia, Eritrea, Kenya. Nel 1999 ha partecipato al Festival internazionale
di teatro a Teheran: prima compagnia occidentale invitata al festival di Fadije in
Iran dal 1979. Per il cinema e la televisione ha partecipato a diversi film, fra i quali
La squadra su Rai3, nel ruolo dell’ispettore Edoardo Valle.
ARA MALIKIAN
Ara Malikian è nato in Libano nel 1968 da famiglia armena, e ha iniziato a studiare
violino molto presto assieme al padre. Ha dato il suo primo concerto all’età di
dodici anni e a quattordici ha ottenuto una borsa di studio dal Ministero della cultura tedesco per studiare presso l’Hochschule für Musik und Theater di Hannover.
In seguito ha continuato la sua formazione presso la Guildhall School of Music
and Drama di Londra. La sua ricerca musicale lo ha condotto ad approfondire
la relazione con le sue radici armene e ad assimilare musiche provenienti da
altre culture: dal Medio Oriente (araba e ebrea), dall’Europa centrale (gitana e
klezmer), dall’Argentina (tango) e dalla Spagna (flamenco). Nell’originale rilettura
di Ara Malikian, la forza ritmica di questi diversi stili musicali va mano nella mano
con il virtuosismo e l’espressività della grande tradizione classica europea. Il suo
vasto repertorio include gran parte delle maggiori composizioni per violino. Le sue
doti artistiche sono state riconosciute in prestigiosi concorsi internazionali: ha ottenuto, tra gli altri, i primi premi al “Felix Mendelssohn” (1987, Berlino) e al “Pablo
Sarasate” (1995, Pamplona). Ha inoltre collaborato con diversi autori di musica per
il cinema, per i film Parla con lei di Pedro Almodovar, I lunedì al sole di Fernando
León de Aranoa e El otro barrio di Salvador García Ruiz.
LUÍS GALLO
Luís Gallo ha iniziato a studiare chitarra all’età di sette anni. La sua formazione
spazia dall’ingegneria alla produzione e armonia musicale, fino alla chitarra flamenca, alla quale il musicista si è dedicato al Conservatorio Flamenco Casa Patas
di Madrid, con maestri quali Jose Manuel Montoya e José Jiménez “el Viejín”.
Ha ottenuto una borsa di studio da parte della Sociedad de Intérpretes o Ejecutantes (AIE) che gli ha permesso di frequentare la Scuola di musica creativa di Madrid. Ha preso parte ad alcune trasmissioni radio-televisive, tra le quali la versione
spagnola di XFactor. Si è dedicato anche ad alcune produzioni artistiche rivolte alle
famiglie e ha partecipato a progetti musicali che spaziano dal flamenco al jazz fino
alla musica classica, grazie ai quali si è esibito in tournée in America e in Europa.
GOSHA
Gosha, nome d’arte di Georgij Ljahoveckij, è nato a Kiev nel 1977. Nel 1986 si
è trasferito a Mosca con i suoi genitori. Il 1999 è l’anno della sua prima mostra
personale, che ha avuto luogo alla Karina Shanshieva Gallery, la Casa degli artisti
moscoviti. Da allora le sue opere sono state esposte in vari centri in tutto il mondo,
tra i quali la Solyanka State Gallery di Mosca, il Festival del film d’animazione di
Zagabria nel 2004, il Russian Book Store 21 Art Gallery di New York (2004), la
National Arts Club (2007) e la galleria White Box di Soho (2010). Nel 2006 la
Solyanka State Gallery di Mosca ha ospitato la sua seconda mostra, con i nuovi
cento lavori “Gosha Ljahoveckij Tales”. L’esposizione “Gosha’s Ark” è stata allestita
allo Yaroslavl State Museum nel 2010 e “In love” all’interno del Museo di arte
contemporanea Erarta di San Pietroburgo nel 2013.
Quattro film d’animazione sono stati creati sulla base delle immagini di Gosha: Cat
walk, Gosha’s tales, George Gershwin. The story of the Gershwin family as told by
Izzy Shmulevich, The journey of Marco Polo or, how America was discovered. Le
sue immagini sono anche state utilizzate per il film Four ages of love. I film basati
sui dipinti di Gosha hanno ricevuto numerosi premi e riconoscimenti.
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MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE
MORRA
ORATORIO DI SAN CRESCENTINO
ORE 18.30
Chorale Akn
Centre d’études du chant liturgique arménien, Paris
Aram Kerovpyan direttore
Sharagan Patrum dal Canone di Resurrezione, nel II modo plagale
Suite di Miserere per la Resurrezione, nel II modo autentico
Ode alla Resurrezione di San Nersès Shnorhali
Suite di Sharagan per la Resurrezione, nel IV modo plagale
Suite di Sharagan De Caelis, nel I modo plagale
Suite di Sharagan De Caelis, nel III modo plagale
In collaborazione con Centro Studi e documentazione della cultura armena
CHORALE AKN © FOTO RAPHAËL VAN SITTEREN
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IL CANTO LITURGICO ARMENO
di Aram Kerovpyan e Minas Lourian*
ell’ambito di un festival dedicato all’Armenia e alla sua cultura musicale, non
poteva mancare una serata interamente dedicata alla tradizione del canto
liturgico, nella sua forma originaria
monofonica che ricopre un lunghissimo arco della propria storia musicale fino alla seconda
metà dell’Ottocento. Periodo in cui nascono varie scuole
di musica nazionale, si introducono elementi di insegnamento occidentale e prende forma la polifonia armena.
La tradizione del canto liturgico armeno è antica quanto
la Chiesa armena, fondata all’inizio del Trecento. Com’è
il caso di tutte le Chiese, anche per quella armena il salterio è stato l’elemento principale degli uffici. La salmodia
e i cantici, probabilmente adattati dalle melodie locali,
furono i veicoli essenziali della liturgia lungo i primi secoli del Cristianesimo in Armenia. Si attribuisce generalmente alla creazione dell’alfabeto armeno, avvenuto per
opera di S. Mesrop Mashtots all’inizio del Quattrocento,
lo sviluppo distinto della liturgia armena dalle tradizioni
bizantine e assire. La traduzione della Bibbia e della letteratura patristica segue questo evento. Da allora, l’armeno
classico, il grabar, è la lingua rituale della Chiesa armena.
Il canto liturgico armeno è stato da subito considerato materia d’insegnamento in ambito ecclesiastico; così è stato
anche per secoli in numerose chiese parrocchiali, grazie ai
cantori ordinati, organizzati in seno alle scholae. I legami
musicali tra i monasteri armeni creavano una rete tessuta dalla circolazione del clero armeno, e dalla produzione
dei manoscritti che riflettevano gli sviluppi musicali di
ciascuna epoca, e che erano regolarmente copiati in diverse regioni. L’insegnamento, benché basato spesso su una
notazione neumatica sviluppata, era praticato attraverso
la trasmissione orale. Secondo il sistema tradizionale, l’apprendimento comincia già all’età di cinque anni. Vestiti col
camice del cantore, i bambini più idonei venivano ordinati
cantori laici verso la fine dell’adolescenza.
Il canto liturgico armeno ha intrattenuto strette relazioni con altre tradizioni, soprattutto con il canto liturgico
bizantino e, più tardi, con la musica che si sviluppò sotto
l’egida della corte ottomana. Malgrado tutte queste relazioni, il canto liturgico armeno mantiene tuttora numerose particolarità, sia attraverso le sue melodie-tipo sia per
gli aspetti rilevanti della modalità. Tuttavia, dal punto di
vista della teoria modale, il canto liturgico armeno fa parte della grande famiglia delle musiche del vicino Oriente.
Dimostra somiglianze con esse, soprattutto per la morfologia del suo sistema modale, ma se ne differenzia per
l’uso. Questa pratica caratterizza l’ethos dei suoi modi
musicali che sono raggruppati in un sistema di ochtoechos (Ut tzayn - otto voci - otto modi). Tale sistema si
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definisce nella pratica attraverso i suoi due rami distinti:
liturgico e musicale. L’ochtoechos liturgico si applica al
calendario attraverso la nozione di modo del giorno. Si
tratta di adottare per ogni giorno dell’anno uno degli otto
modi dell’ochtoechos. L’ochtoechos musicale racchiude
il sistema modale applicato a un’importante parte del repertorio dei canti liturgici armeni, i sharagan.
I sharagan costituiscono la sostanza del sistema musicale del canto liturgico armeno. Circa 1380 canti di diverse lunghezze sono raccolte nel Libro dei sharagan, così
come si presenta oggi. I sharagan si distinguono tra tutti
i canti della musica liturgica armena: formano l’unico repertorio in cui appaiono non solo il sistema dell’ochtoechos musicale, ma anche le melodie-tipo tradizionali e il
loro sistema di variazione.
La maggior parte dei sharagan è in prosa, in armeno classico e in un linguaggio codificato, che diminuisce considerevolmente la possibilità di determinare l’epoca di
creazione di ogni canto. In generale, e l’organizzazione
del Libro delle ore lo dimostra, i sharagan erano, nei primi tempi, cantati in alternanza con i salmi e i cantici, e in
seguito, li hanno sostituiti. Le versioni melodiche attualmente conosciute dei sharagan sono trascritte a partire
dalla seconda metà dell’Ottocento.
Ci sono più versioni melodiche dei sharagan provenienti
da diverse scuole musicali; sono trascritte con la notazione musicale armena moderna tra la metà dell’Ottocento
e gli anni Ottanta. Tra le collezioni complete, solo le versioni Mechitarista e Tchilingirian sono trascritte in notazione occidentale.
Le melodie-tipo dei sharagan sono delle formule melodiche più o meno lunghe che raggruppano diversi canti in
ciascun modo, distribuiti in diversi canoni, creando così
dei gruppi melodici o addirittura delle famiglie modali. Il
legame è così stretto tra la melodia-tipo e il modo, che la
lingua armena le definisce con un unico termine: yeghanak. I modi dell’ochtoechos armeno si caratterizzano
per l’uso di diverse forme e specie di intervalli dei generi
diatonici e cromatici, fondate sul principio del tetracordo
naturale. Ogni modo si distingue anche per la gerarchia
dei suoi gradi, di cui i più essenziali sono il grado di appello, quello della finale intermedia e della finale. L’uso del
bordone è molto diffuso nell’interpretazione tradizionale; è tenuto cantando la vocale «u» sul grado fondamentale che si definisce a seconda dell’intervallo di base e non
necessariamente a seconda degli altri gradi forti.
I lavori del Centro studi del canto liturgico armeno Akn
fondato nel 1998, sono basati su questi stessi princìpi che
emanano dalla tradizione, e sulle ricerche svolte al suo
interno. Il Centro Akn dispone di un insegnamento regolare e promuove dei seminari di canto modale armeno. La
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MORRA
ORATORIO DI SAN CRESCENTINO
ORE 18.30
ricerca e la raccolta di documentazione costituiscono le
attività principali del Centro; per realizzare tale programma, il Centro cerca di stabilire contatti con cantori armeni
eredi di maestri-cantori del vicino Oriente, cercando anche di raccogliere i documenti sul canto liturgico armeno
ancora preservati da individui, trascrizioni manoscritte di
canti liturgici armeni in notazione musicale armena moderna (detta di Hampartzoum).
Mosso dallo stesso spirito e quasi contemporaneamente,
dall’inizio del 1998 la sezione Musica del Centro Studi e documentazione della cultura armena di Venezia
ha intrapreso un lungo lavoro di documentazione audio
dell’intero repertorio liturgico medievale della Chiesa armena, conservato fin dai primi anni del Settecento presso
la Congregazione dei monaci armeni mechitaristi di San
Lazzaro, una delle più suggestive isole della laguna veneziana e culla di una rinascita culturale armena per tutto il
percorso del Sette e Ottocento.
L’iniziativa aveva l’obiettivo di salvaguardare un patrimonio musicale inestimabile, conservato nei secoli grazie
alle varie scritture musicali (da quella neumatica armena
a quella della notazione armena moderna, per arrivare alla
completa trascrizione in notazione occidentale a opera
anche del monaco Ghevont Dayan), ma soprattutto attraverso la trasmissione orale da maestro cantore (tbrabed)
ai cantori (tbir) del noviziato. San Lazzaro è stato anche il
luogo dove tale patrimonio ha subíto meno contaminazioni rispetto agli altri centri monastici armeni. Negli ultimi
dieci-quindici anni, come in molte realtà monastiche, anche a San Lazzaro non veniva più garantita con i vari uffici
la pratica quotidiana del canto liturgico. Il Rev. P. Vertanes
Oulouhodjian (1939-2010), maestro cantore della Congregazione, era l’ultima fonte preziosa e uno dei rarissimi
esperti di tale patrimonio a livello mondiale, nonché un eccezionale interprete mistico. Il lavoro di documentazione
durato tredici anni – dopo il completamento del Sharaknots
(Innario), buona parte del Zhamakirq (Breviario) e gli altri
libri liturgici costituisce l’intero corpus di più di 1500 sharagan e canti liturgici – è prezioso materiale d’archivio e di
studio per le future generazioni e per i musicologi.
Il lungo lavoro di archivio sonoro, che ebbe il patrocinio
Unesco-Roste, si è svolto nel quadro del progetto Fonti
del canto liturgico armeno, elaborato in collaborazione
con il Centro Akn di Parigi. Akn è l’unica compagine armena, completamente autogestita e interamente dedita
allo studio del canto modale e dell’interpretazione del
canto liturgico armeno. Il suo intento è volto soprattutto
alla fedeltà interpretativa ed espressiva del canto sacro
piuttosto che alla ricerca artistico-vocale.
CHORALE AKN
La vocazione della Chorale Akn è quella di ravvivare e sviluppare l’interpretazione del
canto liturgico armeno tradizionale. Le esecuzioni pubbliche del coro rispecchiano la
ricerca diretta dal 1990 da Aram Kerovpyan, che ha portato alla creazione del Centro
di studi del canto liturgico armeno fondato a Parigi nel gennaio del 1998.
La Chorale Akn interpreta i canti della liturgia armena: gli sharagan (inni, tropi),
che formano il corpus più vasto del repertorio tradizionale, la salmodia recitativa e
melismatica, i canti del Libro delle Ore e i canti melismatici facoltativi eseguiti in
gruppo o da un solista. Akn interpreta questo repertorio monofonico e modale nella
sua forma originale e il bordone ne è parte integrante.
Akn è una corale mista, formata da un numero di partecipanti che varia da otto a dodici.
L’interpretazione del coro si sviluppa sulla base della pratica tradizionale dei gruppi
di cantori ordinati dalla Chiesa armena.
Il repertorio eseguito nell'Oratorio San Crescentino di Morra, nell'ambito del Festival
delle Nazioni, fa parte dell’ultima fatica discografica della Chorale AKN (Francia, 2013).
La Chorale AKN è composta da Aret Derderyan, Raffi Derderyan, Jiraϊr Jolakian, Aram
Kerovpyan, Maral Kerovpyan, Shushan Kerovpyan, Vahan Kerovpyan, Virginia Kerovpyan, Minas Lourian, Michel Soudée e Rupen Tachan.
CENTRO STUDI E DOCUMENTAZIONE DELLA CULTURA ARMENA
Il Centro Studi e documentazione della cultura armena, fondato verso la metà degli
anni Sessanta a Milano e trasferitosi a Venezia nel 1991, è un centro di ricerca specializzato nello studio, nel recupero e nella conservazione del patrimonio architettonico
e musicale armeno.
Il Centro promuove iniziative culturali di grande portata attraverso studi comparativi,
convegni, pubblicazioni ed eventi musicali (sezione Oemme Edizioni - Musicam) così
come mostre artistiche, in collaborazione con enti culturali o accademici italiani e internazionali. Il suo impegno verte anche a coltivare un dialogo costruttivo e creativo con
varie istituzioni internazionali e con varie comunità etniche o religiose veneziane e non.
Il direttore del Cento Studi e documentazione della cultura armena è Minas Lourian.
*Note tratte dal progetto archivistico e discografico Fonti del
canto liturgico armeno.
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MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE
ANGHIARI
TEATRO DEI RICOMPOSTI
ORE 21
I vincitori del Concorso europeo
per giovani cantanti lirici
del Teatro Lirico Sperimentale
di Spoleto “A. Belli”
Chiara Isotton soprano (vincitrice 2013)
Chiara Tirotta mezzosoprano (vincitrice 2014)
Marco Rencinai tenore (vincitore 2012)
Alec Roupen Avedissian baritono (vincitore 2013)
Biagio Pizzuti bass-baritone (vincitore 2014)
Francesco Massimi e Yuna Saito pianoforte
Giacomo Puccini “Minnie, dalla mia casa son partito” da La fanciulla del west (Biagio Pizzuti)
Camille Saint-Saëns “Printemps qui commence” da Samson et Dalila (Chiara Tirotta)
Francesco Cilea “Lamento di Federico” da L’Arlesiana (Marco Rencinai)
Francesco Cilea “Io son l’umile ancella” da Adriana Lecouvreur (Chiara Isotton)
Sergej Prokof’ev Aria di Andrej da Guerra e Pace (Alec Roupen Avedissian)
Giuseppe Verdi “Morrò, ma prima in grazia” da Un ballo in maschera (Chiara Isotton)
Ottorino Respighi "La mamma è come il pane caldo" e "Io sono la Madre" da Quattro liriche su parole di
poeti armeni (Chiara Tirotta)
Hov arēk’, Garun a arrangiamento di Vardapet Komitas (Alec Roupen Avedissian)
Giacomo Puccini “Firenze è come un albero fiorito” da Gianni Schicchi (Marco Rencinai)
Giuseppe Verdi “Per me giunto” da Don Carlo (Biagio Pizzuti)
Giacomo Puccini “Sola, perduta, abbandonata” da Manon Lescaut (Chiara Isotton)
Giacomo Puccini “O soave fanciulla” da La bohème (Chiara Isotton, Marco Rencinai)
I VINCITORI DEL CONCORSO 2014 © FOTO RICCARDO SPINELLA
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SARANNO FAMOSI
di Ivana Musiani
i vollero le devastanti incursioni del
1943 (in quell’anno fu anche distrutta la Scala), per far desistere la sede
radiofonica di Torino, città tra le più
bombardate, dal mandare in onda i
famosi concerti vocali sponsorizzati
dall’azienda Martini&Rossi, con vastissimo seguito di affezionati ascoltatori. Tant’è che furono immediatamente
ripresi a liberazione avvenuta, ma di nuovo cancellati
dai palinsesti negli anni Sessanta. Vi partecipavano i più
famosi cantanti, con le arie più popolari del repertorio
belcantistico. Può darne un’idea, nel suo complesso, il
presente programma, che vede protagonisti i vincitori
del Concorso europeo del Teatro Lirico Sperimentale
di Spoleto, e che avrebbe potuto benissimo figurare in
uno dei vecchi concerti Martini&Rossi. E alla possibile
obiezione che là si trattava di nomi famosi e qui di esordienti, si potrebbe obiettare, parafrasando il noto film,
che famosi lo saranno molto presto. Infatti, com’è noto,
l’obiettivo dello Sperimentale “Adriano Belli” è quello di
favorire l’esordio di giovani cantanti: due anni durano i
corsi di preparazione per quelli che hanno superato l’esame di ammissione, dopo di che, sulla scorta delle loro
caratteristiche vocali, viene allestita un’opera ad hoc,
frequentatissima da critici musicali e addetti ai lavori: è
ancora vivo il ricordo di una Sonnambula con una giovanissima Lucia Aliberti, di cui si appropriò Gian Carlo
Menotti per trasferirla di peso come apertura del Festival dei due mondi del 1969. E, a scorrere il lungo elenco
dei diplomati del Lirico, infiniti sono i nomi affermatisi
in tutti i teatri del mondo. Forse è ancora presto parlare
di un revival dei popolarissimi concerti vocali d’un tempo, però questi giovani hanno già alle loro spalle un riuscito exploit tenuto di recente a Montecitorio.
Nella pucciniana opera-western La fanciulla del West,
il personaggio di Rance appare un po’ come la controfigura di Scarpia: questi capo della polizia, l’altro sceriffo,
entrambi spietati nel perseguire la conquista della donna
amata, anzi, della “preda bramata” (parole di Scarpia in
Tosca). La sua unica e celebre aria “Minnie, dalla mia casa
son partito” è un vero e proprio autoritratto che non potrebbe dipingere meglio il carattere brutale di Rance: non
solo a parole, ma ancor più con la musica.
“Printemps qui commence/Portant l’esperance/Aux
coeurs amoureux” è l’aria di seduzione di Dalila, sacerdotessa filistea, nei confronti dell’eroe ebreo Sansone:
troppo carezzevole, troppo insinuante, troppo sensuale
da non nascondere la falsità. Infatti l’intenzione di Dalila è quella di trovare il punto debole nel vincitore del
suo popolo; come si sa, ci riuscirà in pieno. A modo suo,
una patriota, ma sia il libretto che la musica la addita-
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no come una perfida traditrice, e come tale dal pubblico
viene giudicata.
“Il lamento di Federico” e “Io son l’umile ancella” non sono
soltanto le due più celebri arie di Francesco Cilea, ma anche quelle tra le più eseguite di tutto il repertorio, costanti
presenze nei già citati concerti Martini&Rossi. La prima è
compresa nel dramma lirico che consacrò il musicista alla
fama: L’Arlesiana, di ambiente agreste, ma agli antipodi dai
furori rusticani della Cavalleria di Mascagni. Federico sta
per sposare la ragazza del titolo (che nell’opera non comparirà mai), ma il matrimonio va a monte per le rivelazioni
sulla sua onestà. Il mesto lamento di Federico del secondo
atto, “È la solita storia del pastore”, invocazione a un sonno
che allontani per qualche poco le pene dell’amore perduto,
non è che il preludio al suicidio finale.
Nell’Adriana Lecouvreur Cilea ricostruisce con estrema grazia l’epoca in cui si muove l’eroina del titolo, che
fu un’attrice famosa e colta, amica di Voltaire. Il libretto
non si discosta molto da un episodio della sua sfortunata
esistenza. L’aria d’entrata, “Io son l’umile ancella”, è il biglietto da visita che l’accompagnerà per tutta l’opera, biografia in musica di una donna intelligente e appassionata,
devotamente al servizio degli autori che rappresenta sulla
scena. Oggi la si direbbe un’antidiva.
In Guerra e pace di Tolstoj, il maresciallo Kutuzov abbandona Mosca nelle mani dei francesi dopo averla incendiata. Per la sua fedeltà all’autore e alla storia, Prokof'ev – che
aveva tratto dal romanzo un grandioso affresco, conservandone il titolo – fu duramente criticato dalle autorità sovietiche: il soldato russo non volta le spalle al nemico! Ma le
contestazioni non finirono lì: troppi recitativi, poca melodia. Fu così che il musicista, per amore di pace, vi aggiunse
l’aria d’amore del principe Andrej per la giovane Nataša.
Quello che colpisce in questo brano dal Ballo in maschera, ancor prima della musica di Verdi, è il fatto che colei
alla quale è affidata, ritenuta ingiustamente colpevole di
adulterio, si prepari, senza protestare, a morire per mano
del marito offeso nell’onore. E questa dolente rassegnazione traspare anche dal canto, e la grazia che chiede
(“Morrò, ma prima in grazia”), non è d’aver salva la vita,
ma di abbracciare per l’ultima volta il figlioletto.
Le liriche per canto e pianoforte furono compagne di tutto
il percorso compositivo di Respighi. Quasi tutte dedicate alla voce della moglie Elsa, quasi tutte su testi di poeti
italiani, anche occasionali. Tra le poche eccezioni, le Quattro liriche del 1921, su antiche poesie armene raccolte da
Constant Zarian. Tra queste, "La mamma è come il pane
caldo", dolcissimo inno alla famiglia, con affettuose similitudini per tutti i suoi componenti. Colei che invece afferma
"Io sono la Madre" è Maria, che piange con raccolto dolore
il Figlio crocifisso che non rivedrà mai più.
MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE
ANGHIARI
TEATRO DEI RICOMPOSTI
ORE 21
Hov arēk’ è una delicata melodia antica armena, dove un
giovane contadino chiede alle montagne di mandargli un
po’ di frescura per alleviare la pesantezza del suo lavoro:
il titolo significa appunto “fresca brezza”, ed è compreso
nella raccolta di canti popolari curata da Padre Komitas,
il religioso considerato il padre della moderna musicologia armena (1869-1935). Scampato al genocidio del suo
popolo, ne fu tuttavia vittima: la sua ragione non resse
all’orrore e divenne pazzo.
Garun a è una delle più popolari melodie armene: se ne conoscono versioni per voce, quartetto, strumenti, e benché
il suo significato sia primavera, è profondamente intrisa di
malinconia, caratteristica di tutta la musica armena.
Dante colloca Gianni Schicchi all’Inferno. Al contrario,
Puccini lo ha in gran simpatia e proprio per la burla per cui
meritò la severa condanna. Però Dante aveva altre ragioni
per avercela col personaggio: ai suoi occhi faceva parte di
quella schiera di nuovi ricchi, arrivati dal contado, che minacciavano le antiche tradizioni fiorentine. Ma anche qui
Puccini non ci sta col Sommo Vate: “Firenze è come un
albero fiorito”, l’aria di Ranuccio, futuro genero di Gianni
Schicchi, è tutta un peana alla “gente nova” venuta da fuori,
che l’arricchisce con l’arte (“E venga Giotto dal Mugel selvoso”) o con nuove torri e palazzi eretti da quell’Arnolfo della Val d’Elsa, e poi il Medici “mercante coraggioso”. Un’aria
che inneggia alla giovinezza, composta “alla maniera di uno
stornello toscano”, come ebbe ad annotare Puccini.
“Io morrò ma lieto in core” è uno degli inni più alti all’amicizia virile, alla generosità, all’amore di patria, allo sdegno
contro l’oppressione dei popoli: e, per tutto questo, il marchese di Posa, unico sincero amico del figlio di Filippo II,
il Don Carlo verdiano, è nel mirino dell’Inquisizione che
in Spagna tutto governa. Ferito a morte, il suo congedo
dall’amico è quanto di più nobile e commovente sia mai
stato messo in musica.
“Sola, perduta, abbandonata”: dalle “trine morbide” del
secondo atto, Manon sta morendo di sete nel deserto
americano dov’è in fuga con l’innamorato che ha voluto
condividere con lei l’esilio. Lui è andato a cercare soccorsi, lei nel delirio si crede abbandonata in quel luogo
senza scampo, rievoca il passato maledicendo quella sua
bellezza causa prima di tante disgrazie, atterrita dall’idea
della morte vicina. È senz’altro l’aria più tragica di tutto il
repertorio pucciniano.
Prima l’incontro al buio dei due vicini di soffitta, poi, rotto
il ghiaccio, le due arie – tra le più amate dai melomani – in
cui Mimì e Rodolfo si raccontano e infine, soddisfatti di
quel che han saputo l’uno dell’altra, si lanciano in un duetto d’amore, con lui che attacca “O soave fanciulla”, e lei
che gli fa subito eco, con altissimo acuto all’unisono come
esaltata e gioiosa conclusione.
TEATRO LIRICO SPERIMENTALE DI SPOLETO “A. BELLI”
Il Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto nasce nel 1947 per iniziativa dell’avvocato
e musicologo Adriano Belli, con il fine di avviare alla professione dell’arte lirica
quei giovani dotati di particolari qualità artistiche che, compiuti gli studi di canto,
non avevano ancora debuttato. Accogliendo i vincitori del Concorso di canto dello
Sperimentale a Spoleto, e avviandoli a un corso di due anni, l’istituzione umbra
offre loro non solo la possibilità di prepararsi a interpretare vocalmente la musica
lirica, ma anche lo studio del gesto, sotto la guida di prestigiosi registi e direttori
che mettono in scena opere e melologhi nella stagione lirica. Questa costituisce il coronamento della preparazione dei giovani interpreti e si svolge di solito a
settembre-ottobre.
Tra i vincitori del concorso, in oltre sessanta edizioni, si annoverano grandi nomi
della lirica internazionale, tra i quali Franco Corelli, Leo Nucci, Ruggero Raimondi,
Renato Bruson, Mariella Devia e, più recentemente, Roberto De Candia, Sonia
Ganassi, Nicola Ulivieri, Maria Agresta. Lo Sperimentale ha ricevuto nel 1994 il
Premio “Abbiati” della Critica musicale italiana.
Il Teatro Lirico Sperimentale collabora inoltre con alcuni tra i maggiori teatri lirici italiani, tra le quali il Teatro Comunale di Bologna, lo Stadttheater di Klagenfurt, il Teatro dell’Opera di Roma, l’Arena Sferisterio di Macerata, il Teatro Nazionale di Roma.
Negli ultimi anni lo Sperimentale ha allargato il proprio campo d’azione nell’ambito
della didattica e della formazione musicale organizzando corsi per maestri collaboratori, per tecnici e accordatori di pianoforti. Lo Sperimentale organizza inoltre
dal 1993 il Concorso internazionale per nuove opere di teatro musicale da camera
“Orpheus”, dedicato a Luciano Berio, presidente della giuria internazionale sin
dalla prima edizione. L’opera vincitrice viene rappresentata in prima mondiale a
Spoleto nella stagione lirica.
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GIOVEDÌ 4 SETTEMBRE
UMBERTIDE
CHIESA DI SAN FRANCESCO
ORE 18.30
Medico del dolore è per gli uomini il canto
Umbra Lucis
Arianna Lanci soprano
Ugo Giani e Marco Ferrari flauti dolci, zurna e duduk
Fabrizio Lepri viola da gamba e violoncello
Elisabetta Benfenati chitarra barocca
Luca D’Amore chitarrone, colascione e thar
Stefano Lorenzetti cembalo
Massimiliano Dragoni percussioni e dehol
Virginia Pattie Kerovpyan canto armeno
Anonimo Inno armeno del XV secolo
Girolamo Kapsberger Amorino morto dal VI libro di villanelle de Li fiori
Andrea Falconieri Follia dal I libro di Canzone, Fantasie, Capricci…
Henry Purcell The Plaint da Fairy Queen
Anonimo Inno armeno del XIV secolo
Anonimo Vasn mero perkutian
Atanasius Kircher Antidotum tarantulae da Musurgia universalis
Johann Jakob Froberger Plainte faite à Londres pour passer la Melancholie la quelle se joue lentement avec
discrétion dal IV libro di Toccate, ricercari, capricci…
Anonimo Fuggi, fuggi da Laudi spirituali all’uso dell’Oratorio di Chiavenna
Anonimo Paradiso/Inferno da Laudi spirituali all’uso dell’Oratorio di Chiavenna
Anonimo Passacagli della vita da Laudi spirituali all’uso dell’Oratorio di Chiavenna
Andrea Falconieri Soave melodia e Sua Corrente dal I libro di Canzone, Fantasie, Capricci…
Girolamo Kapsberger Tranquillità d'animo dal VI libro di villanelle de Li fiori
Anonimo Due tarantelle
In collaborazione con Centro Studi e documentazione della cultura armena
UMBRA LUCIS
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LA FUNZIONE MAGICO-TERAPEUTICA
DELLA MUSICA
di Stefano Lorenzetti
a musica, da sempre, è stata considerata
un rimedio contro le asprezze dell’esistenza. Il suo effetto benefico si è irradiato sull’umano, come sul naturale,
senza differenze di status, età, genere.
Depositaria di un potere terapeutico
pervasivo, non vi è essere animato, né inanimato che non
ne subisca l’agire armonizzatrice: guerrieri, intellettuali,
fanciulli, animali, financo pietre non possono sottrarsi
al suo influsso che tutto e tutti accomuna in un’ontologia
pre-culturale che è dono archetipico concesso alla terra
immobile e per ciò stesso, nella cosmologia aristotelica,
inesorabilmente muta.
Se la musica degli uomini è capace di riscattare dal silenzio il proprio mondo, l’atto di produrre suono, nella cultura occidentale, è intrinsecamente metaforico, come testimoniano le figure mitiche che l’hanno esercitato: Apollo,
padre di Esculapio, il dio della medicina, che allontana il
male dagli esseri umani; Orfeo che suonando la sua taumaturgica lira ammansisce le fiere, placa i bellicosi e sovverte, addirittura, l’ordine delle cose nell’utopia delusa di
riportare in vita la sua amata; David, che col suono della
sua arpa salva dai tormenti della melanconia re Saul, erigendosi ad archetipo del potere salvifico della musica nel
mondo cristianizzato, un potere che i manuali degli esorcisti ci rivelano essere così pervasivo da riuscire a scacciare persino il demonio.
Armonia, proporzione e concordia sono le parole chiave che certificano il tentativo di tradurre l’esperienza del
suono in linguaggio, causa efficiente e motore generativo
insieme da cui scaturisce l’effetto sensibile della sonorità, la sua dolcezza e soavità infinita, che rende l’animo
fragile e indifeso e allo stesso tempo duttile e disposto ad
accogliere l’esperienza del divino. Suono divino, suono
naturale, suono umano non sono qualitativamente diversi, bensì solo rifrazioni quantitativamente differenziate
di una medesima armonia che può conseguire, sul teatro
del mondo, minore o maggiore trasparenza, maggiore o
minore opacità.
Ed è al di là di ogni possibile narrazione che scaturiscono la suavitas e la dulcedo che dal suono si sprigionano,
costruendo la sonorità come categoria totalizzante che
esprime necessità esistenziale e anelito vitale, in cui ogni
dimensione concettuale, sebbene ardentemente evocata e
pervicacemente perseguita, pare annullarsi nella profondità delle dolcezze anelate dal soggetto, sintagma di una
concezione pre-visiva e pre-semantica della coscienza, che
solo il suono può far emergere sulla superficie sensoriale.
Se la musica è stata concepita, ab origine, come analogia
dell’armonia del mondo che quell’armonia aiuta a com-
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prendere e ad approfondire, forse il maggior contributo
conoscitivo fornito, in tal senso, dalla nostra disciplina è
consistito nel cercare di testimoniare la dialettica tra interno ed esterno, tra ordo razionale e sua manifestazione
sensibile, tra bellezza sensoriale e bellezza interiore: non
solo cercando di rendere il trapasso filosoficamente più
trasparente, ma soprattutto cercando di provarne psicologicamente la verità nell’efficacia dell’atto percettivo.
Il discorso mitico, alimentato dagli stupefacenti effetti
ascritti alla disciplina musicale, si configura come un potente mezzo per descrivere soggiacenti meccanismi psicologici di risposta emozionale alla musica all’interno del
paradigma concettuale della filosofia greca, paradigma
per secoli continuamente riscritto, senza mai venir meno.
Il programma qui proposto traduce in suono, in suono
reale e vitale, proprio tale discorso mirabilmente sintetizzato da una similitudine antichissima e iterata per
secoli: come uno strumento scordato non è capace di
produrre buona musica, altrettanto, un animo "scordato" non è capace di vivere. La similitudine strumento musicale/animo umano ci guida, dunque, attraverso
un’antropologia degli affetti e degli effetti della musica.
Li Fiori di Girolamo Kapsberger, sesto libro di villanelle pubblicato a Roma nel 1632, descrivono un viaggio
immaginario all’interno di un giardino all’italiana, ove,
a ogni angolo, incontriamo uno stato d’animo differente:
Tranquillità d’animo, Refrigerio, Dolore occulto.
Le laudi spirituali all’uso dell’Oratorio di Chiavenna, pubblicate a Milano nel 1657, sono testimonianza della divulgazione delle tematiche della riforma cattolica attraverso
il medium potente di una semplice musica devozionale,
in cui si nascondono, nell’anonimato, composizioni rimaneggiate di grandi compositori del Seicento come Tarquinio Merula e Stefano Landi. Il tema prediletto della fragilità dell’esistenza, della vanitas vanitatum che erode ogni
fasto terreno, esemplarmente rappresentato dai Passacagli della vita, predilige l’impiego di bassi ostinati, quasi
che la ripetitività ossessiva di formule ritmiche e cadenzali costituisse un potente mezzo per la trasmissione del
contenuto moraleggiante dei testi (si veda in particolare
la bidimensionalità Paradiso / Inferno di una delle laudi
che verranno eseguite).
L’Antidotum Tarantulae, brano contenuto nella Musurgia
Universalis (1650) di Atanasius Kircher, testimonia, più
di ogni altro, l’integrazione tra pensiero scientifico e musicale. Un’integrazione, in questo caso, nutrita dall’utopia
di sanare la patologia del tarantismo: particolare forma
d’isteria che si credeva potesse essere sconfitta dall’iterazione incantatoria dell’affascinante melodia consegnataci
dal gesuita tedesco. Brani dalla natura e funzione consi-
GIOVEDÌ 4 SETTEMBRE
UMBERTIDE
CHIESA DI SAN FRANCESCO
ORE 18.30
mili sono rappresentati dal gruppo di due tarantelle di
autore anonimo, databili intorno al Settecento.
Seppur in un contesto non esplicitamente terapeutico,
la funzione taumaturgica dell’iterazione di una medesima formula armonica si coglie appieno nella straniante
Follia di Andrea Falconieri e nello struggente Pianto di
Henry Purcell, tratto dal Fairy Queen, sorta di lamento, su
testo tratto dal Sogno di una notte di mezza estate di Willian Shakespeare per esorcizzare, in un canto straziante
ma risanatore, l’abbandono dell’amato.
L’efficace funzione della musica come antidoto della malinconia, sorta di angoscia universale senza oggetto, la cogliamo appieno in questi due splendidi brani accomunati,
pur nelle loro diversità, dall’esplorazione della potenza
della musica nell’oggettivazione del dolore, al fine di renderlo comprensibile e accettabile agli uomini: La Plainte
faite à Londres pour passer la Melancholie di Johann Jakob Froberger, in cui movenze erratiche e stranianti restituiscono l’alternarsi di gioia e dolore, luce e ombra che
costellano la vita, e la serena e insieme struggente Soave
Melodia di Andrea Falconieri.
Infine, i tre brani di musica armena del Trecento a carattere curativo, testimoniano della profonda integrazione
della musica di quella cultura con la quotidianità della
vita sociale, con le consuetudini della vita religiosa e con
l’efficacia risanatrice di una dimensione rituale che si è
tramandata oralmente per secoli. Ideale contrappunto
alla musica colta occidentale, costituiscono un ribaltamento di prospettiva, una metanoia inattesa che entra
all’interno della tradizione europea, per mostrarne l’antichissimo radicamento antropologico, e, al tempo stesso,
l’universalità della funzione magico-terapeutica della
musica, del suo costituirsi, nel tempo e nello spazio, a organo privilegiato del governo dell’anima.
UMBRA LUCIS
Dopo molti anni di militanza, i promotori di questa avventura sentono l’urgenza
di tornare allo spirito delle origini del movimento di ricerca sulla musica antica,
rimettendo al centro dell’esperienza performativa le suggestioni del suono, la sua
fecondità sensoriale. La centralità del suono, infatti, è paradigma ideale e reale di
una riscoperta degli strumenti e delle tecniche storiche, come dei luoghi storici:
spazi che nutrono i sensi nobili della vista e dell’udito in un’esperienza percettiva
di totalizzante bellezza.
Coerentemente con l’identità di coloro che hanno fondato il gruppo (Ugo Giani, Fabrizio Lepri, Stefano Lorenzetti), la progettualità generale dell’ensemble si costruisce sul costante colloquio tra le più avanzate acquisizioni della musicologia storica
e le sperimentazioni della prassi esecutiva senza alcun interesse antiquario, bensì
con la missione di rendere la musica sempre più viva e “parlante” all’orizzonte
dell’oggi. Per questo, la commistione di generi e repertori diversi dal mondo, dalla
musica etnica alla musica contemporanea, è perseguito non nella prospettiva di
una inerte giustapposizione, ma di una rivelatrice intersezione di saperi e di mondi
percettivi: è il passato che parla al presente e il presente che guarda al passato.
Il gruppo è attualmente impegnato nella realizzazione di un progetto, multimediale
e interdisciplinare, sulle musiche di battaglia, antiche e contemporanee, in collaborazione con la rete due della Radio della Svizzera italiana, che prevede la realizzazione di un cd e di un documentario; nell’incisione discografica dell’integrale
de Li Fiori di Girolamo Kapsberger; nell’integrale delle sonate in trio di J. S. Bach;
infine, per il quinto centenario della nascita di Cipriano De Rore, nella realizzazione
di uno spettacolo fra antico e contemporaneo al Teatro Olimpico di Vicenza.
VIRGINIA PATTIE KEROVPYAN
Virginia Pattie Kerovpyan è nata a Washington, dove ha studiato e si è esibita
con ensemble di musica antica e corali, sia in qualità di corista che di solista.
Una volta trasferita in Francia, ha continuato la sua formazione all’École normale
supérieure de musique di Parigi e al Conservatorio della città. Ha partecipato a
concerti e incisioni con diversi gruppi di musica rinascimentale e barocca. Solista
degli ensemble Akn e Kotchnak, Virginia Kerovpyan lavora sul sistema modale e
sulla tecnica vocale del canto armeno dal 1981. La sua ricerca l’ha condotta, nel
corso degli anni, alla scoperta di una emissione vocale e un fraseggio capaci di
esprimere la musicalità intrinseca alla musica armena, sia quella della canzone
armena classica utilizzata nei canti liturgici, sia quella dei canti popolari e dei
trovatori. La sua interpretazione mette in luce tutte le caratteristiche del canto
armeno e permette di scoprire l’essenza di questa musica.
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S P O N S O R D E L L A S E R ATA
GIOVEDÌ 4 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
Voci dal silenzio
Mario Brunello violoncello
Gabriella Caramore voce recitante
Max Reger Suite n. 2 in re minore op. 131c per violoncello
Tigran Mansurian Capriccio per violoncello
Vache Sharafyan Cello breath per violoncello PRIMA ESECUZIONE ASSOLUTA
Vache Sharafyan Cello dance per viloncello PRIMA ESECUZIONE ASSOLUTA
Anonimo Canti armeni per violoncello (trascrizione di Mario Brunello)
PROGETTO PER IL FESTIVAL DELLE NAZIONI
In collaborazione con Rotary Club Città di Castello
MARIO BRUNELLO
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IL RESPIRO DEL VIOLONCELLO
di Luca Del Fra
omposta in tempo di guerra, tra il 1914 e il
1915, l’opus 131 di Max Reger è un polittico di quattro diverse opere, che esplorano
le possibilità degli strumenti ad arco assolo – violino (op. 131a), viola (b) e violoncello (c) –, e in un caso a due violini (d).
Nella vicenda artistica di questo compositore, direttore
d’orchestra, pianista e organista, nato nel 1873 e scomparso
all’età di 43 anni, la musica da camera rappresenta un capitolo importante e particolare: allievo di Hugo Riemann,
Reger aderiva convintamente a una tradizione musicale
che da Bach passava per Beethoven e arrivava a Brahms.
Le sue composizioni mostrano le strutture dei classici arricchite però da una armonia cromatica vicina a quella di
Liszt e di Wagner, a cui va aggiunta una spessa tessitura
polifonica di ascendenza bachiana. Una accumulazione di
elementi vissuta da Reger non in senso corrosivo o dialettico, ma in chiave ecumenica, di conciliazione degli opposti che, in una linea comune con Mahler, Strauss, Pfitzner,
sembrava dover condurre all’opus magnum, la grandiosa
sinfonia che tuttavia Reger non ha mai scritto, lasciando le
sue opere più famose nel campo liturgico e in particolare
nel corale protestante, lui che era cattolico.
Per un musicista che vantava queste ascendenze, il suo
maggior contributo alla musica assoluta arriva dunque
dalle opere da camera, e il fatto che Reger mostrasse lo
stesso interesse per la musica assolo per archi di Bach
non può essere una sorpresa.
Così l’op. 131c di Reger è senz’altro un pezzo originale, ma
chiunque sia familiare con le sei Suite per violoncello solo
di Bach, non potrà che sentirsi a casa. La seconda Suite, in
la minore, è divisa in quattro parti, articolata sulla logica
del contrasto tra tempi lenti più introspettivi e veloci più
gioiosi. Il Präludium, in tempo Largo, si snoda su una linea eloquente e declamatoria per fiorire in uno stile più
ricco a due voci. La Gavotta successiva è probabilmente
il brano più incantevole e ammaliziato della Suite nel suo
echeggiare l’eleganza della danza antica, ma il cuore pulsante della composizione è nel successivo Largo. Si tratta
di una lunga e sontuosa meditazione, con un afflato melodico notturno e affascinante, che insiste sulla nota mi,
mentre la conclusiva Giga viaggia su un ritmo leggero e
staccato intercalato da brevi sezioni di bicordi.
Tigran Mansurian, nato in Libano classe 1939, è considerato uno dei maggiori compositori armeni della generazione successiva a Khačaturjan e Terterian. Analogamente a questi due, anche Mansurian non è nato nella sua
terra ma ci è arrivato da bambino, un segno di quella che è
stata la diaspora armena nel secolo scorso.
Peculiare è il suo spassionato interesse e la conoscenza
dei linguaggi delle avanguardie del Novecento, che giunge
C
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a Pierre Boulez e alla musica seriale e post-seriale. Altrettanto particolare è il rapporto con il folclore armeno,
scoperto e studiato tardi ma divenuto fonte di ispirazione a partire dalla fine degli anni Settanta. Tuttavia nella
sua musica è difficile trovare un uso di elementi popolari
sfrontato come nel caso di Khačaturjan, l’elemento folclorico piuttosto si annida in profondità, nei legami interiori dell’universo sonoro di Mansurian.
Cosa rara nel mondo musicale, è anche la sincera ammirazione di questo compositore erudito e curioso per altri
musicisti, tanto da spingerlo a dedicare le sue partiture a
Šostakovič, Schnittke, Stravinskij, Penderecki.
Il Capriccio per violoncello solo è stato scritto per la violoncellista Karine Georgian, cui oltre a Mansurian hanno
dedicato partiture Schnittke, Pärt e così via. Composto
nel 1981, questo pezzo combina con rara maestria e sapienza una lucida oggettività formale, il cromatismo bachiano che rimanda alle Suite per violoncello e la vigorosa espressività melodica dove naturalmente si nasconde
la cifra più personale di Mansurian.
Forse è emblematico che il compositore armeno Vache
Sharafyan sia apparso in Italia per la prima volta grazie a
un violoncellista, Yo-Yo Ma e al suo “Silk Road Project”, a
dimostrazione di una attenzione per uno strumento come
il violoncello cui ha dedicato numerose partiture. Il “Silk
Road Project” radunava assieme musicisti di tradizioni
diverse e lontane, raccolti lungo quella che era la antica
via della seta. Negli anni Novanta quel progetto era stato
considerato uno dei più riusciti del cosiddetto crossover,
genere allora molto in voga. Quasi vent’anni dopo quando il crossover sembra tramontato, la musica di Sharafyan
continua la sua strada, anche perché questo compositore
ha mostrato una tecnica raffinata, alle prese con generi
assai lontani tra loro che dalla musica sinfonica e corale
arrivano a squisite partiture da camera. È intrigante come
Sharafyan, nato nel 1966, sappia ibridare la modalità con
i modi maggiore e minore, come faccia sorgere una armonia tonale da nebulosi cluster sonori, e come agglutini melodie e temi attraverso una peculiare tecnica compositiva.
Dedicata al violoncellista armeno Suren Bagratuni, Cello
breath è un esempio della cifra di Sharafyan, pur con i limiti
imposti dallo strumento solo. Il pezzo si apre su quello che
ha tutta la parvenza di un'esposizione, dove è presentato un
tema. In realtà ascoltiamo il formarsi del tema, il suo autogenerarsi intorno a pochi intervalli: in questo modo l’ascoltatore percepisce non solo il materiale della composizione, i
suoi nuclei tematici, ma anche il modo con cui questo materiale sarà trattato. A questa prima parte, conclusa da un breve arpeggio e una nota lunga, segue infatti un'elaborazione
di quanto proposto all’inizio. Tuttavia il termine “sviluppo”
tanto caro alla tradizione occidentale, qui appare non del
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CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
tutto calzante. Più che a processi di sviluppo e variazione,
assistiamo infatti a un progressivo accrescimento che richiama il moltiplicarsi dei cristalli. Spesso i nuclei tematici
di base vengono articolati attraverso abbellimenti non privi
di un gusto orientale nei mordenti e nelle acciaccature. Il
tutto potrebbe rivelarsi dispersivo e divagatorio, un effetto
evitato grazie all’economia dei mezzi usati: è come se la materia musicale volesse bruciare l’energia che ha in se stessa,
allo stesso modo di come il respiro (breath) brucia l’ossigeno, per giungere al finale in diminuendo, aperto anche questo da una serie di arpeggi.
Il recentissimo Cello dance dedicato a Mario Brunello
mostra invece altre caratteristiche dell’estro compositivo
di Sharafyan, e in particolare una architettura musicale
circolare a più livelli. Con il suo iniziale incedere danzante il brano richiama le Suite del barocco, un momento
della storia della musica verso cui Sharafyan ha mostrato
un interesse non episodico: basti considerare i titoli di altre sue partiture come Burlesca, Concerto Grosso, Cantata, solo per citarne alcuni.
Proprio al barocco sembra ispirata la peculiare architettura
del brano, che si apre con l’esposizione di un tema, che chiameremo A, semplice e giocato sugli intervalli di un accordo,
ma presentato in tempo di sette ottavi. In realtà gli ottavi
sono inizialmente scanditi quattro più tre: dopo due volte
tuttavia il tempo viene girato (tre più quattro) e con esso
anche il tema compie una giravolta. L’intera esposizione,
ritornellata, dà subito la sensazione di un andamento circolare: segue un secondo episodio, B, basato su veloci arpeggi,
punteggiato al suo centro da un diversivo, d1. Torna il tema
A, abbellito e leggermente variato, cui fa seguito un terzo
episodio, C, ancora una volta basato su rapidi arpeggi ma
giocato sulla dinamica che dal pianissimo va in crescendo,
e anche questo punteggiato da un diversivo accordale, d2, di
grande fascino. Conclude la composizione il tema A: quindi
schematizzata la partitura si presenta come A, B+d1, A’, C+
d2, A’’. Uno schema evidentemente circolare, dove ancora
una volta l’episodio iniziale, A, sembra contenere il germoglio dell’intero brano che tuttavia stavolta viene articolato
con un sincero gusto per il divertissement musicale.
Nella parte finale del programma Mario Brunello farà un
omaggio musicale all’Armenia, coinvolgendo nell’esecuzione anche il pubblico, con una serie di musiche popolari
trascritte da lui stesso per violoncello. Si tratta di Hovern
enkan, una canzone di ringraziamento per la cessazione
delle tempeste di vento, di Tchatchané, il cui titolo è una
onomatopea che richiama il ritmo di questa danza popolare, di Kali yerg, schietta canzone contadina, e infine di Havun-havun, il nome di un mitico uccello che compare sulla
terra per radunare i suoi simili e portarli in paradiso, come
sogna di fare ogni musicista attraverso l’arte dei suoni.
MARIO BRUNELLO
Nel 1986 è stato il primo artista italiano a vincere il Concorso Ciaikovskij di Mosca
che lo ha proiettato sulla scena internazionale. È invitato dalle più prestigiose orchestre, tra le quali London Philharmonic, Munich Philharmonic, Philadelphia Orchestra, Mahler Chamber Orchestra, Orchestre Philharmonique de Radio-France,
Kioi Sinfonietta, NHK Symphony di Tokyo, Filarmonica della Scala, Accademia di
Santa Cecilia; lavora con direttori quali Valery Gergiev, Sir Antonio Pappano, Yuri
Temirkanov, Manfred Honeck, Riccardo Chailly, Vladimir Jurowskij, Ton Koopman,
John Axelrod, Riccardo Muti, Daniele Gatti, Myung-Whun Chung, Seiji Ozawa.
Brunello si presenta sempre più di frequente nella doppia veste di direttore e
solista dal 1994, quando fondò l’Orchestra d’archi Italiana, con la quale ha una
intensa attività sia in Italia che all’estero. Riserva ampio spazio a progetti che coinvolgono forme d’arte e saperi diversi, integrandoli con il repertorio tradizionale. Ha
interagito con Uri Caine, Paolo Fresu, Marco Paolini, Gianmaria Testa, Margherita
Hack, Moni Ovadia e Vinicio Capossela.
L’ampia discografia include opere di Vivaldi, Bach, Beethoven, Brahms, Schubert,
Franck, Haydn, Chopin, Janáček e Sollima. Deutsche Grammophon ha pubblicato
il Triplo Concerto di Beethoven diretto da Claudio Abbado e Egea Records ha dedicato all’artista la collana “Brunello Series” composta da cinque cd, tra i quali le
Suite di Bach, che hanno vinto il Premio della Critica 2010.
Tra i principali impegni della stagione 2013-14 spiccano i concerti con l’Orchestra
di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano e successivamente da Manfred Honeck, una tournée con la Kremerata Baltica come direttore e solista, un tour negli
Stati Uniti con la Venice Baroque Orchestra, il ritorno a Mosca con i Virtuosi di
Mosca e a San Pietroburgo con Valery Gergiev e l’Orchestra del Mariinsky, concerti
a Vienna e Bolzano con l’Hugo Wolf Quartet, concerti con le orchestre di Verona,
Cagliari e Genova nel doppio ruolo di solista e direttore. Per l’anniversario verdiano
ha ideato con Marco Paolini lo spettacolo Verdi, narrar cantando, presentato in
molte città italiane dopo il debutto al Teatro Regio di Torino.
Suona il prezioso violoncello Maggini dei primi del Seicento appartenuto a Franco
Rossi.
GABRIELLA CARAMORE
Nata a Venezia, Gabriella Caramore è saggista, autrice di radio-documentari e
di testi radiofonici. Cura e conduce il programma di cultura religiosa “Uomini e
profeti” su Radio3.
Ha insegnato Religioni e comunicazione all’Università La Sapienza di Roma. Dirige
una collana di testi di spiritualità per la casa editrice Morcelliana.
Tra le sue pubblicazioni: La fatica della luce, confini del religioso (Morcelliana,
2008); Nessuno ha mai visto Dio (Morcelliana, 2012); Come un bambino. Saggio
sulla vita piccola (Morcelliana, 2013); Le domande dell’uomo con Maurizio Ciampa
(La Scuola, 2013) e Pazienza. Parole controtempo (Il Mulino, 2014).
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VENERDÌ 5 SETTEMBRE
CELALBA DI SAN GIUSTINO
VILLA MAGHERINI GRAZIANI
ORE 21
Yves Savary violoncello
Pierpaolo Maurizzi pianoforte
Witold Lutosławski Grave. Metamorphoses per violoncello e pianoforte
Claude Debussy Sonata n. 1 in re minore per violoncello e pianoforte L144
Karen Khačaturjan Sonata per violoncello e pianoforte
Dmitrij Šostakovič Sonata in re minore per violoncello e pianoforte op. 40
PIERPAOLO MAURIZZI E YVES SAVARY
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INTRECCI MUSICALI
di Enrico Girardi
rave. Metamorphoses è un breve pezzo che Witold Lutosławski (Varsavia,
1913 – ivi, 1994) compose nel 1981
in memoria del celebre musicologo
polacco Stefan Jarocinski. Fu eseguito a Varsavia nell’aprile di quell’anno dal violoncellista Roman Jablonski e dalla pianista
Krystyna Borucinska: prima esecuzione pubblica di una
lunga serie di cui questa composizione ha goduto e continua a godere, tanto da potersi ormai considerare un
“classico” della letteratura cameristica moderna, come
un classico della letteratura sinfonica moderna è il sontuoso Concerto per violoncello e orchestra che il compositore polacco aveva composto nel 1970.
L’idea compositiva che sorregge il brano è tanto semplice
quanto efficace. Privo di melodia, esso muove da un breve
motivo di tre note esposte nel registro grave che, nel continuo scambio concertante tra i due strumenti, prende a
svilupparsi salendo di registro e densità contrappuntistica
fino all’approdo nelle zone più acute della tessitura. Nella
sua semplicità, anche armonica (viene adombrata ma mai
dichiarata una base tonale), il brano assume un’intensità
espressiva man mano più partecipata e appassionata.
G
È un Debussy provato quello che nel 1915 dà vita alla Sonata in re minore per violoncello e pianoforte: nella salute per l’insorgere del tumore che l’avrebbe condotto alla
morte tre anni dopo; nel morale, per la piega che andavano prendendo le vicende belliche, con tanti francesi – lamenta – "che si fanno eroicamente massacrare". Reagisce
però alla depressione che lo aveva tormentato per circa
un anno, ritirandosi a Pourville, un paesino in riva al mare
dove trascorre le vacanze estive trovando un profondo conforto spirituale e una rinnovata energia creativa.
Decide perciò di progettare un ciclo di sei Sonate per
strumenti diversi (sei come il numero di composizioni
che in epoca barocca e preclassica venivano pubblicate
in un’unica raccolta) che, in polemica con la cultura tardoromantica, fossero prive di motivazioni extramusicali
e che – l’influenza di un certo nazionalismo è innegabile a
tal proposito – recuperassero la purezza della tradizione
francese di Rameau e Couperin.
Di queste sei Sonate ne verranno alla luce la metà. Nel
1915 Debussy compone a spron battuto la Sonata per violoncello e pianoforte e la Sonata per flauto, viola e arpa; a
causa dell’aggravarsi della malattia, la Sonata per violino
e pianoforte verrà completata soltanto nel 1917, mentre le
altre tre rimarranno soltanto nella sua mente.
Nessuno di tali tormenti, tuttavia, le Sonate in questione
sembrano rivelare. Se un dolore le attraversa, è un dolore di
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tipo metafisico, un dolore come sublimato da una profonda
sincerità e dall’affermazione di un’incrollabile fede nell’arte e nella bellezza. Piuttosto, assai nascosto, emerge nella
Sonata per violoncello e pianoforte un velo sottile d’ironia.
Lo si ravvisa ad esempio nell’accordo di “terza piccarda”
(improvvisa conclusione in modo maggiore di un brano in
minore, tipico della tradizione barocca) che chiude l’iniziale Prologue, che aveva preso la mosse da un’introduzione
in stile bachiano, dall’esposizione di un languido tema di
violoncello sopra semplici accordi del pianoforte e da una
serie di episodi secondari tra l’ornamentale e il virtuosistico. Seguono poi una sorprendente Sérénade, tutta strappi e
improvvise interruzioni, con un tema vagamente spagnoleggiante che fatica a farsi largo tra il pizzicato del violoncello e lo staccato del pianoforte. Una melodia di stampo
modale annuncia poi il terzo e ultimo tempo. Un ritmo apparente di habanera, l’uso chitarristico dello strumento ad
arco, la sensualità e la malinconia del tono: tali ingredienti
fanno di tal Finale una sorta di ulteriore serenata notturna,
non priva d’accenti tra l’umoristico e il grottesco.
Nipote del più noto compositore Aram e figlio di Suren,
un direttore di teatro, Karen Surenovič Khačaturian (Mosca, 1920 – ivi, 2011) è un compositore formatosi al Conservatorio della sua città sotto la guida di due alfieri della
musica sovietica come Šostakovič e Mjaskovskij: una guida solida ma anche estremamente rigida, se è vero che il
Conservatorio moscovita era divenuto il principale centro
di irradiazione di quella cultura popolare, autocelebrativa e formalistica che sta alla base dei principi estetici del
Realismo socialista. Privo della debordante personalità
che occorreva per fare i conti con tali dettami senza rinunciare alla propria originalità, Khačaturian junior si
trovò dunque ad allinearsi allo spirito del tempo (e del
luogo). E il suo catalogo, fatto di generi classici (Opere,
Balletti, Oratori, Sinfonie, Concerti, Quartetti, Trii, Sonate ecc.) riflette in pieno tale sua “disciplina”. Ciò non
significa tuttavia che la sua musica sia necessariamente
epigonale. In particolare, godono di vita autonoma e discreta circolazioni le sue opere da camera, come in particolare la giovanile Sonata per violino (1947), che ebbe in
David Ojstrach e Jascha Heifetz due celeberrimi alfieri,
e la Sonata per violoncello eseguita nella presente occasione che, composta nel 1966, fu tenuta a battesimo da
Mstislav Rostropovič il 10 gennaio 1967.
Trattasi di una composizione che si esegue senza soluzione di continuità ma che è chiaramente suddivisa al suo
interno nei canonici quattro tempi. Il primo, in tempo
Adagio, è un recitativo affidato al canto del violoncello.
Il successivo Allegretto è nella forma barocca dell’inven-
VENERDÌ 5 SETTEMBRE
CELALBA DI SAN GIUSTINO
VILLA MAGHERINI GRAZIANI
ORE 21
zione: un inseguimento tra il violoncello e il pianoforte
incentrato su un soggetto assai caratterizzato sul piano
ritmico. Il secondo blocco della composizione è costituito da un’aria in tempo Andante, dove emergono le doti di
cantabilità dello strumento ad arco, e da una funambolica
toccata (ancora una forma barocca) in tempo Allegro con
fuoco, dove i due strumenti ricamano una serie di rapide
figure ornamentali sopra un’incessante linea di basso.
Positivo, affermativo nel carattere, dal punto di vista armonico il brano poggia su alcune “polarità”, che lo fanno
sembrare più tonale di quanto in realtà non sia.
La Sonata per violoncello e pianoforte in re minore op. 40
di Dmitrij Šostakovič la compose tra il marzo e il settembre
del 1934 per l’amico violoncellista Viktor Kubazki, che ne
fu il primo esecutore, insieme con l’autore, la sera di Natale
di quello stesso anno a Leningrado. Salutata da un lusinghiero successo in patria, l’opera fu presto avversata in Occidente dalle voci più significative della critica, che ravvisarono in essa, e in particolare nella sua linearità armonica
e formale, un grado eccessivo di compiacenza ai dettami
estetici del regime sovietico, quel regime che proprio in
quegli anni prese ad avversare il musicista autore dell’opera “scabrosa” Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk.
Šostakovič non gradì tali critiche e anzi tenne sempre in
alta considerazione tale propria creatura, tanto che, molti
anni dopo, nel 1975, anno della sua scomparsa, la scelse
come pezzo d’apertura nel programma di un concerto celebrativo che si sarebbe tenuto nella stagione della Filarmonica di Leningrado.
L’impianto formale della Sonata è classico. Il pezzo è cioè
strutturato in quattro movimenti: un Allegro non troppo
bitematico in apertura, uno Scherzo in tempo Allegro, un
Largo in forma di tema con cinque variazioni e un Allegro
conclusivo in forma di rondò a sette periodi ABACADA,
con un ritornello che si alterna a episodi contrastanti.
All’interno di tale scheletro, in tutto e per tutto somigliante a quello di una Sonata di Beethoven, si trovano però,
solo in forma più semplificata, vocaboli sonori così propri dello stile šostakoviano: l’altezza deformata rispetto
al quadro tonale, il ribattuto, la figura ritmica sghemba,
il tema cantabile nel quale riecheggiano punte di un pathos persino doloroso, l’“economia” di mezzi nel profilare
i percorsi armonici, una quale certa generosità tematica,
l’attitudine allo sviluppo dei motivi. Un altro aspetto che
risulta ben chiaro in questa Sonata è infine l’unità, se è
vero che il materiale del terzo tempo viene direttamente
dal primo, mentre quello del Finale viene dal secondo, secondo un gioco di intrecci rivelatore dell’attitudine anche
speculativa del compositore sovietico.
YVES SAVARY
Yves Savary da quasi trent’anni ricopre il ruolo di primo violoncello solista alla
Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera. Come solista vanta la collaborazione
di direttori come Wolfgang Sawallisch, Zubin Mehta, Kent Nagano e oggi Kirill
Petrenko. Come docente ha tenuto masterclass in Germania, Italia, Giappone e
Corea. Come solista e camerista è regolarmente ospite al Musikverein di Vienna,
alla Gewandhaus di Lipsia, alla Philharmonie di Berlino, alla Tonhalle di Zurigo, a
Londra, Madrid, San Pietroburgo, nel Nord e Sud America, in Brasile, in Corea e
Giappone. Viene invitato nei maggiori festival quali il Casals Festival di Puerto Rico,
la Schubertiade di New York, il Menuhin Festival di Gstaad, il Festival di Salisburgo,
il Festival di Bad Kissingen. La sua attività discografica lo vede protagonista per la
Claves, la Koch, l’Orfeo, la Farao. Ha inciso con Ingolf Turban, L’Ensemble Wien, i
violoncellisti della Filarmonica di Colonia, il Beethoven Trio di Vienna. Una significativa collaborazione con Witold Lutosławski ha segnato l’inizio del suo interesse
per la musica contemporanea. Yves Savary ha tenuto in prima esecuzione assoluta
opere di Mauricio Sotelo, Arnaldo De Felice, Isabel Mundry e Jörg Widmann.
PIERPAOLO MAURIZZI
Fondatore del Trio Brahms e dello Überbrettl Ensemble, deve la sua formazione
musicale a Lydia Projetti, Piero Guarino e Dario De Rosa. Fertili sono stati poi
gli incontri con Pierre Fournier, Franco Gulli e Detlef Kraus. Dall’affermazione al
Consorso “Johannes Brahms” di Amburgo nel 1983 ha dedicato la sua vita musicale alla musica da camera. Si è esibito in Europa, Stati Uniti, Canada, Messico e
America del Sud, invitato nei festival più importanti. Come solista ha suonato sotto
la direzione di Umberto Benedetti Michelangeli, Mika Eichenholz, Piero Guarino,
Peter Hirsch, Giorgio Magnanensi, Karl Martin, Fabiano Monica ed Emilio Pomarico. Ha inciso per le case discografiche Bongiovanni di Bologna e Sonoton di
Monaco. Ha tenuto in prima esecuzione composizioni di Alberto Caprioli, Arnaldo
De Felice, Adriano Guarnieri, Giorgio Magnanensi, Andrea Molino, Luca Mosca,
Claudio Scannavini e Hadrian Tabechki. Dal 1986 è docente di musica da camera
al Conservatorio Arrigo Boito di Parma. Nell’ambito della sua attività didattica ha
fondato e dirige l’Ensemble di musica da camera del Conservatorio. Alle esecuzioni di questo gruppo hanno partecipato più di centocinquanta giovani musicisti.
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S P O N S O R D E L L A S E R ATA
SABATO 6 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
Orchestra della Toscana
Benedetto Lupo pianoforte
Eduard Topchjan direttore
Sergej Rachmaninov Concerto n. 2 in do minore per pianoforte e orchestra op. 18
Aram Khačaturjan Estratti da Spartacus:
Entrata dei mercanti, Danza di una cortigiana romana (Suite n. 2)
Variazioni di Aegina e Bacchanalia (Suite n. 1)
Adagio di Spartacus e Phrygia (Suite n. 2)
Danza delle schiave greche (Suite n. 3)
Morte del gladiatore (Suite n. 4)
Danza di Gaditanae, Vittoria di Spartacus (Suite n. 1)
DALL'ALTO IN SENSO ORARIO
BENEDETTO LUPO / ORCHESTRA DELLA TOSCANA © FOTO MARCO BORRELLI
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IPNOSI E LIBERTÀ
di Piero Rattalino
e vicende biografiche che precedono la
composizione del Concerto n. 2 in do
minore op. 18 di Rachmaninov sono
abbastanza note ma si intrecciano così
strettamente con la composizione che
sarà bene richiamarle qui. Rachmaninov, diplomatosi in modo brillantissimo in pianoforte e
in composizione nel conservatorio di Mosca, non ebbe
difficoltà nell’intraprendere la carriera e ottenne in particolare un caldo apprezzamento di Ciaikovskij per il poema sinfonico Le Rocher op. 7. Era fin troppo ovvio che un
compositore giovane e molto ambizioso si sentisse a quel
punto spinto a misurarsi con il genere di più prestigiose
tradizioni, la sinfonia. La composizione della Sinfonia
n. 1 op. 13, iniziata nel gennaio del 1895, tenne occupato Rachmaninov per circa due anni. La prima esecuzione fu fissata a San Pietroburgo ed ebbe luogo il 15 marzo
1897 sotto la direzione di Alexandr Glazunov, che dopo la
morte di Ciaikovskij ne aveva preso la successione come
sinfonista e che era addirittura detto “il Brahms russo”.
Glazunov, sembra, provò fiaccamente e diresse svogliatamente la Sinfonia di Rachmaninov e le reazioni della
critica furono non solo negative ma distruttrici. Rachmaninov cadde in uno stato di depressione e di sconforto così
profondo da diventare incapace di comporre. E... cercò
conforto nella vodka. Passarono più di due anni prima che
egli si rivolgesse a uno psichiatra, il dottor Nicolai Dahl,
che con l’ipnosi curava gli alcoolizzati. Da gennaio ad
aprile del 1900 il dottor Dahl ipnotizzò ogni giorno il suo
paziente, e durante l’ipnosi gli ripeté fra l’altro che avrebbe ripreso a comporre, a comporre un concerto, e che la
vena creativa sarebbe rifluita con facilità. E Rachmaninov
guarì. E riprese a comporre. A Varazze, dove andò con il
suo amico, il basso Fiodor Scialiapin che preparava l’esordio alla Scala con un istruttore italiano, compose il secondo e il terzo movimento del Concerto n. 2, che eseguì a
Mosca il 2 dicembre. Il primo movimento fu composto a
Mosca, dove la prima esecuzione ebbe luogo il 27 ottobre
1901. Eseguito da Rachmaninov, da Alexander Siloti e
da Vassily Sapelnikov in vari paesi d’Europa, il Concerto divenne popolare in brevissimo tempo, fu ripreso da
pianisti non russi come il giovane Wilhelm Backhaus e,
sebbene non stimato dalla maggioranza della critica per
un tempo molto lungo, ottenne costantemente l’apprezzamento del pubblico, tanto da essere sfruttato come colonna sonora in alcuni film, fra cui Breve incontro (1945,
rifatto nel 1974 con Sophia Loren e Richard Burton) e
Quando la moglie è in vacanza (1955, di Billy Wilder, con
Marylin Monroe).
Il fatto che il secondo e il terzo movimento nascessero
per primi non è senza significato. A questo proposito c’è
L
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un piccolo mistero che non è però possibile chiarire. All’inizio del terzo movimento riappare, in un clima baldanzoso ed eroico, l’inizio del primo movimento, che era di
carattere del tutto opposto. Si ignora se quel tema, o motto, fosse già presente nella stesura del 1900 o se sia stato
inserito nel 1901, dopo la composizione del primo movimento. A parte ciò, come dicevo, il fatto che Rachmaninov
non abbia cominciato a lavorare il Concerto dal primo
movimento ha un significato. Il secondo movimento, nella lontana tonalità di mi maggiore, è un grande notturno,
è come un sublime sogno (in stato di ipnosi?) di pace interiore, che termina con la visione beatificante del cielo
stellato. Il finale simboleggia invece il momento della lotta che si conclude con l’apoteosi del secondo tema, il tema
“femminile” per definizione. Questo è in verità un topos
del concerto romantico e postromantico e io non voglio
spingere troppo oltre il rapporto fra arte e vita. Ma non
posso fare a meno di osservare che, dopo aver smesso di
bere e dopo aver riconquistato con il Concerto la fiducia
in se stesso, Rachmaninov mise anche la testa a partito
sposando nel 1902 la cugina Nathalie Satin.
Se leghiamo il secondo e il terzo movimento alla cura del
dottor Dahl e alla vittoria di Rachmaninov su se stesso è
evidente che il primo movimento rappresenta il periodo
di incertezze e di tormenti che precedette la cura e la guarigione. Il primo movimento inizia con una brevissima introduzione, la celebre serie di accordi cupi che richiamano irresistibilmente alla memoria le campane di morte. E
il primo tema appassionato e tragico, esposto dagli archi,
deve emergere su un vorticoso disegno del pianoforte che
evoca i marosi: un naufrago tra i flutti che lo sommergono.
L’elemento che simboleggia l’acqua compare anche nel secondo tema. Ma l’acqua è un simbolo polivalente, di morte
e di vita. E il secondo tema, cantabile, è la vita o la speranza
di vita. Fra questi due opposti si dipana il primo movimento, in forma tipica ma con episodi che suggeriscono uno sviluppo drammaturgico preciso. Rachmaninov che racconta
se stesso? Come punto di partenza sicuramente sì. Come
punto d’arrivo – e perciò, credo, il Concerto si mantiene
in ottima salute più di cent’anni dopo essere nato –, come
punto d’arrivo, dicevo, c’è secondo me un mito profondo
dell’umanità, il mito del ritorno di Ulisse, dal naufragio della zattera dopo la partenza dall’isola di Calipso all’approdo
nell’isola dei Feaci, al ritorno a Itaca e alla strage dei Proci.
Nato nel 1903 in Georgia da genitori armeni, Aram
Khačaturjan cominciò a comporre quand’era sui vent’anni ma solo a ventisei si mise a studiare seriamente composizione e si diplomò nel 1934, a trentuno anni. Egli si
formò dunque quando la nuova cultura sovietica, ormai
consolidata e indirizzata ideologicamente, aveva posto
SABATO 6 SETTEMBRE
CITTÀ DI CASTELLO
CHIESA DI SAN DOMENICO
ORE 21
severamente il “freno” agli sperimentalismi che avevano
caratterizzato il periodo immediatamente susseguente
la Rivoluzione d’Ottobre. Khačaturjan non dovette virare dall’avanguardismo al tradizionalismo, al contrario di
Šostakovič, di lui più giovane ma enfant prodige della composizione. E l’attacco che Šostakovič subì nel 1936 a causa dell’opera Una lady Machbeth del distretto di Mcensk e
del balletto Il chiaro fiume consigliò a Khačaturjan di non
scostarsi dallo stile della Sinfonia n. 1 con la quale aveva
ottenuto il diploma. Bene inserito nella organizzazione
della vita musicale sovietica, il Nostro ottenne nel 1941
un grande successo con il balletto Gajaneh, che contiene
la Danza delle spade.
Khačaturjan fu accusato nel 1948 di formalismo da una Risoluzione del Partito che insieme con lui condannò Prokof’ev,
Šostakovič e altri, ma fu ben presto riabilitato e nel 1951 fece
parte della delegazione sovietica che venne in Italia (c’erano
anche Ojstrach e Gilels, che per la prima volta suonavano al
di là della Cortina di Ferro). In Italia Khačaturjan ebbe l’idea di comporre un balletto ispirato alla storia romanzata
del gladiatore frigio Spartaco e del perfido generale Licinio
Crasso (impersonati rispettivamente da Kirk Douglas e da
Laurence Olivier in un celeberrimo film di Kubrick). Composto fra il 1953 e il 1956, Spartak (o Spartacus, come è d’uso
dire in Occidente) andò in scena nel Teatro Kirov di Leningrado, con la coreografia di Leonid Jakobson, il 27 dicembre
1956. Nel 1959 ottenne il massimo riconoscimento sovietico, il Premio Lenin.
Il balletto ebbe la sua prima esecuzione a Mosca, nel Teatro Bolshoi, nel 1958, con una nuova coreografia di Igor
Moiseev. Ma la sua fama e il suo inserimento nei repertori delle maggiori compagnie di danza furono dovuti alla
esecuzione al Bolshoi del 1968, con la coreografia di Yuri
Grigorovic. Il balletto è articolato in ben quattro atti e nove
quadri. La storia è funzionale a una ideologia libertaria, la
musica è funzionale alla danza. Ma la particolarità che ha
reso famosissimo questo balletto è l’esigenza di richiedere
un corpo di ballo maschile di straordinarie doti atletiche.
Dalla musica del balletto Khačaturjan trasse ben quattro
suite sinfoniche e tre quadri sinfonici. Nessuno di questi brani è diventato popolare, con la parziale eccezione
dell’Adagio, passo a due di Spartaco e della moglie Frigia.
I temi mischiano elementi popolari o colti-popolareschi,
strutture discorsive della musica occidentale, brillantissima orchestrazione nella tradizione di Rimskij-Korsakov e
di Ciaikovskij. Si tratta, se vogliamo, di un prodotto di altissimo artigianato artistico, più che di arte. Ma anche questa distinzione, cara agli esteti del Novecento, sembra oggi
obsoleta di fronte alla vitalità della musica di Khačaturjan
che sessant’anni dopo essere stata composta continua a
soddisfare una larga massa di ascoltatori.
ORCHESTRA DELLA TOSCANA
Fondata nel 1980, l’ORT ha sede al Teatro Verdi di Firenze e oggi è considerata
una tra le migliori orchestre in Italia. E formata da quarantacinque musicisti, tutti
professionisti eccellenti che sono stati applauditi nei più importanti teatri italiani
come il Teatro alla Scala, l’Auditorium del Lingotto di Torino, l’Accademia di Santa
Cecilia di Roma, e nelle più importanti sale europee e d’oltreoceano, dall’Auditorio
Nacional de Musica di Madrid alla Carnegie Hall di New York. La sua storia artistica
è segnata dalla presenza di musicisti illustri, primo fra tutti Luciano Berio.
Collabora con personalità come Salvatore Accardo, Martha Argerich, Rudolf
Barshai, Yuri Bashmet, Frans Brüggen, Myung-Whun Chung, Gianluigi Gelmetti,
Daniel Harding, Eliahu Inbal, Yo-Yo Ma e Uto Ughi. Interprete duttile di un ampio
repertorio, che dalla musica barocca arriva fino ai compositori contemporanei,
l’Orchestra ha da sempre riservato ampio spazio alla ricerca musicale al di là
delle barriere fra i diversi generi, sperimentando possibilità inedite di fare musica
e verificando le relazioni fra scrittura e improvvisazione. Accanto ai grandi capolavori sinfonico-corali, interpretati con egregi musicisti di fama internazionale, si
aggiungono i Lieder di Mahler, le pagine corali di Brahms, parte del sinfonismo
dell’Ottocento, con una posizione di privilegio per Rossini, e l’incontro con la musica di Franco Battiato, Stefano Bollani, Richard Galliano, Heiner Goebbels, Butch
Morris, Enrico Rava, Ryuichi Sakamoto. Una precisa vocazione per il Novecento
storico, insieme a una singolare sensibilità per la musica d’oggi, caratterizzano la
formazione toscana nel panorama musicale italiano. Il festival “Play It! La musica
fORTe dell’Italia” è il manifesto più eloquente dell’impegno dell’orchestra verso
la contemporaneità. Incide per Emi, Ricordi, Agora e Vdm Records. Presidente
dell’ORT è Claudio Martini, direttore Artistico Giorgio Battistelli, direttore principale
Daniel Kawka, e direttore ospite principale Daniele Rustioni.
BENEDETTO LUPO
Benedetto Lupo ha debuttato a tredici anni con il primo Concerto di Beethoven,
imponendosi subito dopo in numerosi concorsi internazionali. Ha suonato più volte
al Lincoln Center di New York, alla Salle Pleyel a Parigi, alla Philharmonie a Berlino,
al Palais des Beaux Arts di Bruxelles. Tra le orchestre con le quali si è esibito,
ricordiamo almeno la Chicago Symphony, la Gewandhaus di Lipsia, gli Stuttgarter
Philharmoniker, l’Orchestre du Capitole de Toulouse, la Bruckner Orchester Linz.
Tra i direttori con cui ha collaborato più spesso vi sono Yves Abel, John Axelrod,
Piero Bellugi, Umberto Benedetti Michelangeli, Vladimir Jurowski, Kent Nagano,
Daniel Oren, George Pehlivanian, Zoltán Peskó, Michel Plasson, Antoni Wit.
Pianista dal vasto repertorio, Benedetto Lupo ha al suo attivo anche un’importante
attività cameristica e didattica. Ha inciso per Teldec, Bmg, Vai, Nuova era e Arts.
Nel 2005, l’incisione del Concerto Soirée di Nino Rota per Harmonia Mundi ha
ottenuto cinque premi internazionali, tra i quali il “Diapason d’or”.
EDUARD TOPCHJAN
Eduard Topchjan ha studiato violino al Conservatorio di Yerevan e direzione d’orchestra con Ohan Durian. Allo studio sono seguite preziose consultazioni con Sir George
Solti, Claudio Abbado e Nello Santi. Topchjan ha debuttato con l’APO nel 2000. Nello
stesso anno è stato nominato direttore artistico e direttore principale dell’orchestra e
ha dato il via a una serie di concerti di successo a Yerevan e all’estero.
In qualità di direttore ospite, Topchjan ha diretto importanti orchestre quali la Royal
Philharmonic Orchestra, la Filarmonica di Cologne, la Frankfurt Opera, l’Orchestra
Filarmonica Nazionale della Russia, la Romanian TV and Radio Orchestra, l’Orchesta Sinfonica Ungherese al Musikverein di Vienna, l’Israel National Radio Symphony Orchestra, la Gulbenkian Symphony Orchestra, la Prague Radio Symphony
Orchestra e la Seoul Philharmonic Orchestra.
Nel 2007 ha fondato lo Yerevan International Music Festival, di cui ancora oggi è
direttore artistico. Nello stesso anno il Ministro della cultura dell’Armenia gli ha
conferito il titolo di “Meritorious Worker of Art”. Nel 2011 ha ottenuto la “State
Gold Medal”. Nel 2012 è stato nominato direttore ospite principale della spagnola
Orchestra Sinfonica Premium di Toledo.
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FESTIVAL@CHIOSTRO
Dal 28 agosto al 6 settembre al Chiostro di San Domenico è attivo un lounge bar a cura di Agorà Café. Il
Chiostro ospita incontri culturali, iniziative musicali e mostre per vivere il Festival oltre i concerti. Dalle
sei di sera all’una di notte. All’interno del Chiostro, nella sala dedicata ai convegni e ai concerti -saggio, sarà
possibile visitare la mostra Il fiume che canta, un omaggio all’Armenia realizzato da sei pittori di Città di
Castello: Elio Mariucci, Fabio Mariacci, Andrea Lensi, Gino Meoni, Giampaolo Tomassetti, Luca Baldelli.
GIOVEDÌ 28 AGOSTO
VENERDÌ 5 SETTEMBRE
18.30
18.30
Concerto degli allievi della classe di viola di Danilo Rossi
22.30
Il volo della colomba immagini, film, racconti e suggestioni per
un’idea di Armenia, a cura di Ivan Teobaldelli e Alberto Fabi
I lavori di restauro delle lunette del Chiostro di San Domenico
conferenza con l’On. Anna Ascani, Fabio De Chirico,
Francesco Scoppola, Michele Bettarelli e Francesca Mavilla,
in collaborazione con il Comune di Città di Castello
22.30
SABATO 30 AGOSTO
Festa finale
18.30
Concerto degli allievi della classe di flauto di Michele Marasco
SABATO 6 SETTEMBRE
Dj set Agorà
18.30
21
DOMENICA 31 AGOSTO
Concerto degli allievi della classe di pianoforte di Riccardo
Risaliti
18.30
Concerto degli allievi della classe di sax di Federico Mondelci
21
Dj set Agorà
LUNEDÌ 1 SETTEMBRE
ALTRI EVENTI
17.30
Casearmoniche viaggio a piedi oltre i portoni del centro storico
di Città di Castello a cura di Libera Associazione Architetti
nell’Alto Tevere, con degustazioni enogastronomiche e
sorprese musicali, in collaborazione con l’Associazione Palazzo
Vitelli a Sant’Egidio
MARTEDÌ 26 AGOSTO
MARTEDÌ 2 SETTEMBRE
DAL 23 AGOSTO AL 16 NOVEMBRE
21
Ingresso ridotto - esibendo la Festivalcard o il biglietto del
Festival - alla mostra Segno, forma, gesto opere della collezione
della Galleria Civica di Modena, presso la Pinacoteca
Comunale di Città di Castello a cura di Atlante servizi culturali
Ripresa e trasmissione in streaming di Marco Polo
22.30
In viaggio con Marco Polo a cura dei Tifernauti
MERCOLEDÌ 3 SETTEMBRE
18.30
Per un pianoforte povero percorso sonoro dalla Hilaritas alla
contemplazione con Stefano Ragni relatore al pianoforte
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L’Umbria dei formaggi degustazione guidata su prenotazione, a
cura della Camera di Commercio di Perugia
21
Backstage Festival una mostra e una serata dedicate
all’immagine, a cura del Centro Fotografico Tifernate,
in collaborazione con il Comune di Città di Castello e il
Consorzio Pro-Centro
22.30
In viaggio verso l’Armenia concerto della Filarmonica “G.
Puccini” di Città di Castello
GIOVEDÌ 4 SETTEMBRE
18.30
Concerto degli allievi della classe di musica da camera di
Pierpaolo Maurizzi e Yves Savary
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Stefano Giogli presenta uno slide show con i progetti fotografici
di Silvia Camporesi (Journey to Armenia) e Antonella Monzoni
(Ferita Armena)
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21
Piazza Classica anteprima del Festival in piazza Matteotti,
piazza Fanti e piazza Gabriotti, in collaborazione con il
Comune di Città di Castello ed Estate in Città
DAL 23 AGOSTO AL 7 SETTEMBRE
Pensieri comuni esposizione di Laura Tofani e Francesco
Fantini negli spazi espositivi de La Rotonda, in via della
Rotonda a Città di Castello. Aperta tutti i giorni, ingresso libero
Si ringraziano
Associazione culturale Studio Danza Giubilei, Associazione
Danza Classica Moderna Diamante Renzini, Associazione
culturale Academy Ballet di Sara Papa e Fabio Coltrioli
per Piazza Classica, Filarmonica “G. Puccini”, Centro
Formazione e Spettacolo Tedamis A.S.D., Ardouin Du Rac e
Silvia Bastianelli della Scuola di danza e musica Novamusica
per lo spot tv, Lorenzo Lombardi di Whiterose Pictures per
la consulenza alla regia dello spot tv, Centro Fotografico
Tifernate, Stefano Giogli, Silvia Camporesi e Antonella
Monzoni, Libera Associazione Architetti nell’Alto Tevere
CHIOSTRO DI SAN DOMENICO © PASQUALE SGARAVIZZI
CORSI DI FORMAZIONE
E PERFEZIONAMENTO MUSICALI
“LUIGI ANGELINI”
42a edizione, Città di Castello, dal 24 agosto al 7 settembre 2014
Città di Castello, Chiostro della Chiesa di San Domenico ore 18.30
Giovedì 28 agosto
Concerto degli allievi del corso
di viola di Danilo Rossi
Sabato 30 agosto
Concerto degli allievi del corso
di flauto di Michele Marasco
Domenica 31 agosto
Concerto degli allievi del corso
di sassofono di Federico Mondelci
Giovedì 4 settembre
Concerto degli allievi del corso
di musica da camera
di Pierpaolo Maurizzi e Yves Savary
Sabato 6 settembre
Concerto degli allievi del corso
di pianoforte di Riccardo Risaliti
Si ringraziano per il significativo contributo al sostegno dei corsi di perfezionamento musicale
Regione Umbria – Formazione e Lavoro
Comune di Città di Castello
Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri
Lions Club di Città di Castello
Rotary Club di Città di Castello
Circolo culturale “Luigi Angelini” di Città di Castello
SoGePu
Claudio Tomassucci
Anna Casilli
Azienda agricola "Il palazzone"
Centro di formazione professionale Scuola operaia “G.O. Bufalini”
Scuola comunale di musica “G. Puccini”
I° Circolo didattico “San Filippo”
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ASSOCIAZIONE
Soci Fondatori
Comune di Città di Castello
Regione dell'Umbria
Provincia di Perugia
Comune di Sansepolcro
Comunità Montana Alta Umbria
Soci Ordinari Pubblici
Comune di San Giustino
Soci Ordinari
Godioli&Bellanti S.p.A.
Sitrex S.r.l.
Associazione Amici
del Festival delle Nazioni
Lions Club di Città di Castello
Circolo culturale “Luigi Angelini”
Ines Agostinucci
Jutta Assmann
Anna Casilli
Stefano Maria Castellani
Francesca Cini
Anna Comello Biesta
Paolo Dondina
Fabrizio Fabbri
Paolo Fiori
Pietro Garinei
Otto Grolig
Berit Jensen
Pier Giorgio Lignani
Giovanni Andrea Lignani Marchesani
Giorgio Moscatelli
Emilia Nardi
Lorenzo Onofri
Massimo Ortalli
Giuseppina Paganucci
Riccardo Pettinelli
Mario Renzacci
Laura Scopigni
Eugenio Sticht
Maria Grazia Vaccherecci Lelli
Paola Zampini
Gianni Zotta Baylo
Consiglio di Amministrazione
Presidente
Giuliano Giubilei
Vicepresidente
Massimo Ortalli
Consiglieri
Patrizia Cesaroni
Fabrizio Fabbri
Otto Grolig
Maria Grazia Mignini
Venanzio Nocchi
Sindaci Revisori
Marco Magnanelli
Nora Giorni
Daniela Moni
Il Festival delle Nazioni
ringrazia per la collaborazione i
rappresentanti dei Soci Fondatori
Giuliano Giubilei
Francesca Carlini
Anna Maria Pacciarini
Venanzio Nocchi
Patrizia Cesaroni
Marcello Marini
Maurizio Perugini
Giorgio Porcellini
Paola Baschetti
Andrea Marzà
Maria Grazia Mignini
75
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78
CITTA’ DI CASTELLO (PG)
Via P. della Francesca
Tel. 075.8555229
Email: [email protected]
MAIN SPONSOR
SPONSOR
SPONSOR TECNICI
PIANOFORTI DAL SUONO INIMITABILE
Marco Polo
www.fabbrini.it
83
84
85
86
87
CORSO CAVOUR CITTÀ DI CASTELLO (PG)
TEL. +39 075 8522823/ [email protected]
WWW.FESTIVALNAZIONI.COM