LA CRISI DEL CONCETTO DI CAUSA NELLE SCIENZE ESATTE TRA XIX E XX SECOLO Sommario: 1. Introduzione – 2. Le concezioni del principio di causa-effetto in età moderna – 3. Mach e la sua concezione del principio di causa-effetto – 4. La meccanica quantistica e il principio di causaeffetto. 1. INTRODUZIONE Il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi trent’anni del Novecento fu tra i più fecondi per la fisica ed è paragonabile solo al XVII secolo. La nostra immagine del mondo venne modificata in maniera radicale grazie soprattutto alla termodinamica, alla teoria della relatività e alla meccanica quantistica. La termodinamica fu ideata per prima1: tramite il concetto di entropia l’irreversibilità fu introdotta in maniera quantificabile in fisica, mentre per le equazioni di Lagrange, che forniscono la forma analitica “standard” della meccanica classica, la direzione del tempo è del tutto indifferente. Con le teorie della relatività ristretta e generale di Einstein (1905 e 1915 rispettivamente) alcune delle nostre più consolidate ed intuitive credenze, quali il concetto di simultaneità, l’indipendenza di massa e lunghezza dalla velocità e di tempo e velocità entrarono in crisi, almeno a un certo livello di fenomeni. Con la meccanica quantistica, nome sotto il quale viene indicato un complesso insieme di scoperte2, una molteplicità di nuove concezioni entrò nel mondo della fisica: materia ed energia si presentano solo in pacchetti discreti detti quanti, gli elettroni all’interno del nucleo possono occupare solo determinate bande energetiche, i fotoni e le stesse particelle subatomiche presentano proprietà ondulatorie e corpuscolari, non è possibile determinare con esattezza posizione e quantità di moto di una particella, secondo una certa statistica le particelle possono superare barriere di potenziale, situazione questa del tutto “proibita” nella fisica classica. In generale la termodinamica e la meccanica quantistica sono teorie probabilistiche, anche se si rifanno a due concetti di probabilità piuttosto diversi. La teoria della relatività e la meccanica quantistica sono precedute da circa mezzo secolo nel quale furono fatte rilevanti scoperte, soprattutto nell’ambito dell’elettricità e del magnetismo e nel quale furono proposte notevoli teorie, quali l’ elettromagnetismo di Maxwell, o la meccanica dei vincoli di Hertz che cercava di eliminare il concetto di forza dalla fisica. Quel che mancava era però una concezione generale che unificasse in modo convincente una serie di teorie parziali. Molti problemi vi erano in particolare con nozioni quali quella di etere. Problemi come quelli descritti, possono essere definiti “fondazionali interni alla fisica” nel senso che muovono da questioni specifiche. Quando in una disciplina vi è una “crisi dei fondamenti”, accade molto spesso che si mettano in discussione concettibase di tale disciplina anche se hanno un nesso in apparenza labile con i motivi che hanno determinato la crisi. In realtà però il nesso c’è e nel caso specifico della fisica tale nesso dipende: 1) dal senso di insoddisfazione che ha sempre accompagnato alcuni fisici nel dover ammettere concetti quali l’azione immediata a distanza tra due forze nonché la nozione di tempo e spazio assoluto e la definizione stessa del concetto di massa data da Newton; 2) la “dicotomia” tra ’lapproccio essenzialmente basato sul concetto di forza e quello fondato sui principi (lavori virtuali, minima azione, minima costrizione, conservazione dell’energia, ecc.). Nella seconda metà dell’Ottocento vi fu un fisico, Ernst Mach, che affrontò con grande maturità questa serie di problemi, definibili in senso lato come epistemologici, concernenti l’immagine fisica del mondo. La rivisitazione critica del concetto di causa fu uno dei cardini della concezione di Mach, basata non solo su conoscenze fisiche, ma anche su profonde cognizioni di L’“atto di nascita” della termodinamica può esser fatto risalire al 1850, anno in cui Clausius formulò il cosiddetto secondo principio della termodinamica, in base al quale è impossibile che il calore passi spontaneamente da un corpo a temperatura t a uno più caldo a temperatura t + ? t. Approfondendo gli studi sul secondo principio Clausius giunse a distinguere le trasformazioni reversibili da quelle irreversibili e ad introdurre il fondamentale concetto di entropia. 2 Qui ci occuperemo solo del principio di causa-effetto per come fu modificato dagli aspetti statistici della meccanica quantistica scoperti nel primo trentennio del XX secolo e di cui il principio di indeterminazione di Heisenberg costituisce la sintesi essenziale. 1 1 psicologia sperimentale e di storia della filosofia. La critica machiana al concetto di causa trascende quindi l’ambito della fisica e investe la teoria della conoscenza in toto. D’altronde le idee di Mach furono all’inizio ignorate o osteggiate dai fisici, ma progressivamente acquistarono importanza crescente, tanto che molti autorevoli fisici, tra quali Einstein, furono influenzati da Mach. È noto che anche la meccanica quantistica richiede una revisione del concetto classico di causa-effetto, tuttavia tale revisione investe aspetti in gran parte diversi da quelli su cui aveva appuntato la propria attenzione Mach, né vi è su questo punto uniformità di vedute tra gli inventori della meccanica quantistica. Lo scopo principale del presente contributo è quello di mettere in luce la concezione machiana del principio di causa-effetto e l’ idea che di questo principio hanno avuto i padri della meccanica quantistica. Vedremo così due approcci critici, ma molto diversi al problema della causalità. Per introdurre il lettore nell’argomento è però necessario cominciare la trattazione con una sintesi delle concezioni classiche del concetto di causa e del principio di causa-effetto, nonché con la più classica delle critiche, quella di David Hume e con la “sintesi” kantiana. L’articolo avrà pertanto tre paragrafi principali: nel primo esporremo le visioni tardizionali sul principio di causa-effetto, analizzando sinteticamente in particolare le concezioni di Aristotele, Hobbes, Leibniz, Hume e Kant poiché questi autori rappresentano momenti molto significativi per il tema che stiamo trattando. Seguirà un paragrafo su Mach e il principio di causa-effetto e uno sulla meccanica quantistica. 2. LE CONCEZIONI DEL PRINCIPIO DI CAUSA-EFFETTO IN ETÀ MODERNA Il principio di causa-effetto è una correlazione tra due fenomeni per cui il secondo, l’effetto, è prodotto dal primo, la causa. Di questa proposizione si danno essenzialmente due interpretazioni: una ontologico-oggettivistica e una gnoseologico-soggettivistica. Secondo la prima sono i fenomeni in quanto tali ad essere legati dal nesso di causalità; vi sarebbe pertanto una forma di necessità in base alla quale, avvenuto un fatto, ne avviene un altro da questo causato. L’altra interpretazione afferma invece che il principio di causa-effetto non sussiste necessariamente nel mondo esterno, ma è un postulato generale inventato dall’uomo come criterio conoscitivo e ordinatore che consente di mettere in correlazione insiemi di fatti e di orientarci in un universo altrimenti caotico. Per questa seconda interpretazione si pone il problema di spiegare come un principio di ragione consenta di dar conto dei fenomeni. In genere si intende il nesso causa-effetto come una corrispondenza biunivoca, cioè un effetto è prodotto da una sola causa e viceversa una causa produce un solo effetto. Tuttavia questa ulteriore condizione non è necessaria e può ben darsi che una causa produca una molteplicità di effetti e che un effetto sia occasionato da una pluralità di cause. Dal punto di vista storico, il problema della causazione è già presente in ambito scientifico e filosofico fin dall’epoca dei presocratici; Platone se ne occupa nell’ambito della teoria delle idee, tuttavia la prima trattazione sistematica della questione è dovuta ad Aristotele che, soprattutto nel secondo libro della Fisica, pone il problema delle cause in una forma che influenzerà in modo consistente la successiva speculazione su questo tema. Aristotele distingue quattro tipi di causa: materiale, formale, efficiente, finale. Dato, per esempio, un tavolo ligneo di forma rettangolare, la causa materiale è il legno, materia di cui è composto il tavolo, la causa formale è il rettangolo, la causa efficiente è l’artefice del tavolo e la causa finale è data appunto dal fine per il quale il tavolo è stato costruito. Nella concezione di Aristotele la causa finale è particolarmente importante, oltre che sul piano metafisico, anche a livello logico: se infatti non vi fosse un fine ultimo a cui l’universo tende non si potrebbe evitare il regresso all’infinito delle cause, mentre Aristotele, postulando l’esistenza del Dio motore immobile, a cui il mondo tende, evita proprio la questione del regresso infinito. In Aristotele, il concetto di causa ha una valenza sia ontologica che gnoseologica. È in questo senso emblematico l’inizio della Fisica . Leggiamo infatti: Poiché in ogni campo di ricerca in cui esistono principi o cause o elementi, il sapere e la scienza derivano dalla conoscenza di questi ultimi - noi, infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa solo 2 quando ne abbiamo ben compreso le prime cause e i primi principi e, infine, gli elementi -, è evidente che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i principi3. Nel lungo periodo che va da Aristotele al XVII secolo, non mancarono speculazioni sul principio di causa-effetto. Alcune di tali concezioni, come quella di Ockham4, sono molto interessanti; tuttavia sono essenzialmente la fisica moderna e i connessi studi sul funzionamento delle macchine siamo appunto nel tardo Cinquecento - che determinano anche nuove concezioni relative al principio di causa-effetto. A partire dal XVII secolo i filosofi e gli scienziati mostreranno sempre un notevole interesse nel comprendere la natura di questo principio. Nella concezioni di autori vissuti nel XVII e nel XVIII secolo, si ritrovano una molteplicità di profonde interpretazioni del nostro asserto, le quali, insieme allo sviluppo delle scienze esatte, influenzarono profondamente la concezione di Kant e dei fisici vissuti tra il Settecento e l’ Ottocento. Questi ultimi a loro volta spinsero “critici”, quali Mach, e una rivisitazione globale del principio. Una formulazione chiara è quella espressa da Hobbes, che, nel De corpore, affronta essenzialmente il principio di causa-effetto in connessione con le cause che generano movimento. Per Hobbes la causa consiste in un insieme di proprietà di un agente che modificano alcune proprietà di un paziente. Tale modificazione è l’effetto. Scrive Hobbes: Perciò, la causa di tutti gli effetti consiste in determinati accidenti degli agenti e del paziente, per la presenza di tutti i quali si produce un effetto e per la mancanza di uno dei quali non si produce5. È significativo che Hobbes usi la parola “accidente”: con ciò vuol sottolineare che non esistono caratteristiche che sono cause in sé ed altre che sono effetti in sé, ma che è solo nelle mutue correlazioni che ha senso parlare di causa ed effetto. Ed appunto nelle correlazioni, una causa è sempre sufficiente a produrre un effetto, se non vi sono impedimenti di altro tipo ed indipendenti dalla causa. Scrive Hobbes: Una causa intera è sempre sufficiente a produrre il suo effetto, purché si tratti di un effetto del tutto possibile6. Con queste parole il filosofo inglese vuole sottolineare un altro principio che non coincide certo con quello di causa-effetto, ma che ne una condizione fondamentale di applicabilità e di sensatezza, cioè il principio di continuità - o, sarebbe meglio dire, di regolarità - della natura. Vale a dire: se in certe condizioni si è verificato un fenomeno al tempo t0, il medesimo fenomeno si verificherà al tempo t1, successivo a t0, se in t1 si ripresenteranno le stesse condizioni tipiche di t0. Questo principio assicura che se la causa x ha prodotto l’effetto y, ciò avverrà in qualunque tempo, a parità di condizioni. Per questo Hobbes dice che “la causa intera è sempre sufficiente a produrre il suo effetto”. “Il suo”, sempre lo stesso, e non un altro affetto. Da queste premesse segue una forma di necessitarismo che Hobbes esprime chiaramente con queste parole: Di qui segue anche che, nello stesso istante in cui la causa diventa intera, è prodotto anche l’effetto (…). Alla stessa maniera si può dimostrare che tutti gli effetti futuri, quali che siano, avranno una causa necessaria, e, così, tutto ciò che sarà prodotto o è stato prodotto ha avuto la sua necessità nelle cose precedenti7. Ora resta da stabilire di quale tipo di necessità si tratti. Anche in questo caso la risposta di Hobbes è molto chiara: si tratta di una necessità di tipo meccanico e materiale: Nell’ottavo capitolo del De corpore, il filosofo inglese aveva infatti stabilito una proposizione che suona: Aristotele, Fisica, I, 184 a. Per una succinta esposizione delle critiche di Ockham al principio di causa-effetto, si può consultare Abbagnano, 1961, pp. 118-119. 5 Hobbes, 1655, 1972, p. 171. 6 Ibidem, p. 171. 7 Ibidem, p. 172. 3 4 3 Ciò che è in uno stato di quiete si intende che resta sempre in questo stato, se non c’è un altro corpo oltre lo stesso, supposto il quale non può restare ulteriormente nello stato di quiete8. Hobbes, dato questa proposizione e la definizione di causa-effetto, ne conclude che: La causa del movimento può essere unicamente in un corpo contiguo e mosso9. In Hobbes il principio di causa-effetto ha quindi tre caratteristiche: 1) oggettività e assoluta necessità; 2) è legato a una concezione meccanicistica, nel senso che gli “accidenti” della causa determinano il modo in cui sono modificati gli “accidenti” dell’effetto; 3) è connesso con una visione materialistica poiché gli effetti sono prodotti per diretto contato del corpo-causa col corpo-effetto. Sottolineiamo che, sebbene in Hobbes, il meccanicismo sia connesso col materialismo, tale connessione non è necessaria poiché si può pensare che la causa eserciti i propri effetti in modo meccanico, ma grazie a una qualche forza e non grazie a un contatto corporeo diretto. Hobbes traccia una linea di pensiero che sarà tipica di alcuni fisici nei secoli a venire e da cui è esclusa ogni visione teleologica. Pertanto mi è sembrato opportuno entrare in qualche dettaglio. Nel XVII secolo molti filosofi si erano occupati del nesso causa-effetto, tra questi ricordiamo Cartesio e Spinoza, tuttavia il pensiero più complesso ed articolato su questo tema è senz’altro quello di Leibniz e siccome Mach, nella sua critica al concetto di causa, pone una sostanziale equivalenza tra questa nozione ed il principio leibniziano di ragion sufficiente o determinante, risultano opportune alcune considerazioni sulla concezione leibniziana. Come punto di partenza per l’indagine può essere assunto un breve scritto, Le verità prime, pubblicato per la prima volta dal Couturat10 nel 1902. Qui Leibniz sostiene che tutte le verità possono esser comprese sotto il nome di identità. Scrive il filosofo tedesco: Verità prime sono quelle che enunciano la medesima cosa circa se stessa o negano l’opposto del suo opposto. Ad esempio “A è A”, oppure “A non è non A”. Se è vero che A è B, è falso che A non è B, o che “A è non B”. Analogamente, “ogni cosa è quale è”. “Ogni cosa è simile od uguale a se stessa”. “Niente è maggiore (o minore) di se stesso”. Tutte queste affermazioni e le altre di tal genere, quali che siano i gradi di priorità, possono tuttavia essere comprese sotto lo stesso nome di identità. Tutte le rimanenti verità si riducono poi alle prime mediante definizioni, ossia attraverso la risoluzione dei concetti, nella quale consiste la prova a priori, indipendente dall’esperienza11. Pertanto, almeno da quanto asserito in Le verità prime, segue che anche le verità contingenti sono, dopo un’attenta analisi dei concetti in esse implicati, riconducibili alle verità implicanti l’ identità. Ma allora, se ciò è vero, ne consegue che non può sussistere un effeto senza cause perché altrimenti, la catena che riconduce una verità x al principio di identità, sarebbe spezzata. Si avrebbe cioè che x non è analizzabile in forma identitaria. Leibniz è del tutto esplicito in proposito. Leggiamo infatti: (…) nasce subito da qui l’assioma ben noto che nulla è senza ragione, ossia che nessun effetto è senza causa. Altrimenti, si darebbe una verità che non potrebbe essere provata a priori, ossia che non si risolverebbe in proposizioni identiche, il che è contro la natura della verità, la quale, esplicitamente o implicitamente è (sempre) identica12. In Le verità prime viene anche introdotto il concetto di sostanza individuale o nozione completa. Poiché tutte le verità sono riconducibili all’identità, questo implica che nella nozione, nel concetto di ogni individuo sono già compresi tutti i suoi predicati ed i fatti che gli accadranno. All’individuo e in Ibidem, p. 165. Ibidem, p. 173. 10 Couturat trovò questo manoscritto di Leibniz nella biblioteca di Hannover. Il manoscritto non aveva titolo. Fu il Couturat a darglielo e a pubblicarlo nel 1902 sulla Revue de Métaphysique et de Morale. 11 Leibniz, 1686, 1992, p. 182. 12 Ibidem, p. 183. 8 9 4 generale a tutte le verità di fatto è pertanto inerente una forma di necessità, per quanto diversa da quella tipica delle verità di ragione. Questa concezione sarà trattata più diffusamente da Leibniz nel Discorso di metafisica del 1686, opera che si ritiene scritta nello stesso periodo di Le verità prime. Prima però di affrontare alcune tematiche del Discorso, ancora una nota concernente il denso opuscolo Le verità prime. Leibniz afferma che ogni sostanza individuale esercita azione e passione fisica su tutte le altre, ma che, in senso metafisico, non vi è azione o influsso di una sostanza sull’altra. Viene così introdotta la concezione monadologica. E a questo punto leggiamo una breve proposizione concernente il principio di causa-effetto che suscita qualche meraviglia: E quelle che chiamiamo cause sono soltanto, nel rigore metafisico, requisiti concomitanti13. A mo’ di spiegazione scrive Leibniz: Ne abbiamo illustrazione dalle stesse esperienze della natura, poiché i corpi si allontanano infatti dagli altri corpi in forza della propria elasticità, non per forza estranea, benché (sia stato richiesto un altro corpo) affinché possa agire l’elasticità (che nasce da qualcosa di intrinseco al corpo stesso)14. La posizione di Leibniz può essere così riassunta; esistono due livelli di realtà e di verità: il piano fisico e il piano metafisico. Il principio-base è che sia le verità fisiche che quelle metafisiche devono essere ricondotte a verità analitiche e, in ultima istanza, all’identità. Nel mondo fisico questa riconduzione avviene tramite il principio di causa-effetto che, pertanto è fondamentale nelle scienze fisiche. Sul piano metafisico però ogni individuo ha già in sé tutti i suoi predicati (e nel termine predicati vanno inclusi anhe i fatti che capitano agli individui) passati, presenti e futuri, e questi non sono vincolati a un rapporto di causa-effetto con altre sostanze individuali, ma sono inerenze in sé di ogni sostanza. Quindi, sul terreno metafisico, non si può parlare di principio di causa-effetto. Nel Discorso di metafisica Leibniz specifica quanto visto in Le verità prime. Distingue tra verità contingenti e necessarie. Queste ultime sono tali che il loro opposto implica contradizione, mentre quanto alle prime, l’opposto non implica alcuna contraddizione, è cioè logicamente possibile. Nondimeno, come già visto, le verità contingenti non sono meno certe di quelle necessarie poiché sono iscritte nella nozione completa di un individuo. Di nuovo Leibniz è chiaro: Ora noi sosteniamo che ciò che deve accadere ad ogni persona è virtualmente già compreso nella sua natura o nella sua nozione, come le proprietà della definizione nel cerchio. Certo così la difficoltà sussiste ancora: per risolverla in modo rigoroso, dirò che ogni connessione o derivazione è di due tipi, la prima è assolutamente necessaria e di essa il contrario implica contraddizione, e questa deduzione si verifica nelle verità eterne, quali sono quelle della geometria; l’altra invece non è necessaria che ex hypothesi e, per così dire, per accidente, ma in se stessa è contingente, perché il suo contrario non implica contraddizione15. Si è quindi visto che il principio di causa-effetto attiene al mondo fisico in quanto analizzato fisicamente. C’è però da chiedersi: a quale tipo di causalità pensava Leinbiz? Hobbes riteneva che gli unici influssi che un oggetto potesse esercitare su un altro dipendessero dal contatto corporeo. Leibniz esplicita in diverse parti del Discorso di metafisica che il mondo fisico è retto da precise leggi che sono state create da Dio e sottolinea che queste leggi agiscono certo meccanicamente, ma non solo per contatto diretto dei corpi: vi è una forza16 che è responsabile del movimento e che non può essere ridotta alla mera estensione. Di nuovo Leibniz è chiaro: Ibidem, p. 186. Ibidem, p. 186. 15 Leibniz, 1686, 1967, p. 76. 16 Quel che Leibniz chiamava forza oggi viene detta energia cinetico, o meglio equivale al doppio dell’energia cinetica. È noto che Leibniz polemizzò con i cartesiani poiché questi ritenevano la quantità di moto mv la grandezza dinamica fondamentale, mentre Leibniz riteneva tale la “forza”, mv2. Si veda su questo argomento il capitolo XVII del Discorso di metafisica. 13 14 5 Ora questa forza è qualcosa di differente dalla grandezza, dalla figura e dal movimento; e da ciò si può giudicare che tutto ciò che si conosce dei corpi non consiste nella estensione e nelle sue modificazioni, come sostengono i moderni. Così siamo obbligati a ristabilire quegli esseri o forme che essi hanno bandite. Ed appare sempre più manifesto che, benché tutti i fenomeni particolari della natura si possano spiegare, da coloro che sappiano intenderli matematicamente e meccanicamente, i principi generali della natura corporea e della stessa meccanica sono piuttosto metafisici che geometrici ed appartengono alle forme o nature indivisibili come cause dei fenomeni, più che alla massa corporea ed estesa17. Al di là dell’accentuata vena metafisica di Leibniz, occorre sottolineare che qui viene introdotta una concezione del principio di causa che troverà, esplicitamente o meno, non pochi sostenitori tra i fisici: le cause per cui avvengono i fenomeni non sarebbero più da ricercare nel comportamento fattuale dei corpi e nelle loro interrelazioni, ma in leggi fisiche che rappresentano la struttura ontologica dell’universo. Per cui i corpi si comportano in un certo modo perché obbediscono a queste leggi. Certo già Galilei aveva asserito che le leggi del mondo sono scritte in caratteri matematici, ma nel suo caso non è affatto sicuro che egli pensasse alle leggi della fisica come a qualcosa di dato una volta per tutte e come a una effettiva struttura matematico-platonica dell’universo18. In Leibniz ciò è invece certo: le cause ultime del comportamento fisico degli oggetti sono da ricercare nelle leggi della fisica. Al quadro qui presentato occorre aggiungere alcune specificazioni: è noto che negli scritti teoretici più importanti e segnatamente nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1703), Saggi di Teodicea (1710) e Monadologia (1714), Leibniz attribuì importanza fondamentale al principio di contraddizione per le verità di ragione. Nei Nuovi saggi sottolineò (coerentemente con quanto espresso in Le verità prime) che le verità di ragione sono identiche e sono di due tipi: 1) identiche positive; 2) identiche negative. Alla base delle identiche positive vi è il principio di identità a quelle identiche negative il principio di contraddizione19. Nei Saggi di Teodicea e nella Monadologia20 parla senz’altro del principio di contraddizione come base delle verità necessarie. Quanto alle verità contingenti leggiamo nella Teodicea che il loro fondamento è dato dal: […] principio della ragion determinante: che nulla accade senza che vi sia una causa o almeno una ragione determinante che possa, cioè, servire a rendere ragione a priori perché una cosa è esistente piuttosto che non esistente e perché è così piuttosto che in un altro modo21. Nella Monadologia, si legge che: [Il principio] della ragion sufficiente [è quello] in forza del quale noi giudichiamo che nessun fatto può ritenersi vero o esistente, né alcuna proposizione esser veritiera, se non v’è una ragione sufficiente per la quale sia così e non altrimenti22. Questo non è affatto in contraddizione con quanto asserito in Le verità prime e cioè che tutte le verità sonoi identiche, ma anzi ne rappresenta il completamento: il principio di contraddizione garantisce l’identità di tutte le verità nell’ambito della verità necessarie, quello di ragion sufficiente, altra forme di esprimere in termini generali il principio di causa-effetto, garantisce tale identità nell’ambito delle verità di fatto o contingenti. Chiaramente il principio di ragion sufficiente è stato introdotto Leibniz, 1686, 1967, p. 85-86. Ho affrontato il problema del presunto platonismo di Galilei nel commento che ho posposto alla traduzione del Sidereus Nuncius. Si veda Galilei, 1610, 2001, pp. 51-88, in particolare pp. 69-79, paragrafo intitolato “Galilei: il suo supposto platinismo e il metodo sperimentale”. 19 A questo proposito si consulti il secondo capitolo del quarto libro dei Nuovi saggi sull’intelletto umano. In Leibniz, 1703, 1968, pp. 495-510. 20 Leibniz, 1710, 1967, parte prima, paragrafo 44, p. 484 e Leibniz, 1714, 1989, paragrafo 31, p. 150. 21 Leibniz, 1710, 1967, parte prima, paragrafo 44, p. 484. 22 Leibniz, 1714, 1989, paragrafo 32, p.151. 17 18 6 perché un fondamento puramente logico, come il principio di identità o di contraddizione, non può garantire l’esistenza perché un fatto può esser logicamente possibile, cioè non contraddittorio, ma cionondimeno non accadere. In conclusione: il principio di causa-effetto si esprime in Leibniz nei termine di ragion determinante o sufficiente. Si estrinseca nel mondo tramite le leggi fisiche create da Dio, le quali sono la ragione del perché i fatti avvengono in un certo modo. Sul piano puramente metafisico non vi è nesso di causa-effetto neppure per le verità contingenti in quanto la nozione completa ha già in sé tutti i suoi predicati. La critica più chiara a chi ritiene la causalità un nesso inerente ai fenomeni in sé e per sé è dovuta a David Hume. Anzitutto, Hume non nega che vi siano discipline in cui ragionamenti di tipo esistenziale possano essere condotti con mezzi puramente razionali: tali discipline sono l’ aritmetica e l’algebra23. Il problema nasce quando si parla di esistenza in senso diverso, e precisamente di esistenza nel tempo e/o nello spazio. In questo caso non vi è un criterio di ragione che possa esser dimostrato deduttivamente e che implichi la sussistenza necessaria di certe forme di regolarità. Così, ad opinione di Hume, già la geometria che ha a che fare con l’estensione “(…) non può affatto essere ritenuta una scienza perfetta e infallibile”24. Ora il principio di causa-effetto serve anzitutto a garantire l’identità e la permanenza di esistenza degli oggetti. Infatti, non vi è alcuna ragione logica per cui un oggetto che al tempo t e nella posizione x produce in noi certe sensazioni sia lo stesso che al tempo T e nella posizione X produce le stesse sensazioni, se tra i tempi t e T non abbiamo avuto alcuna relazione sensoriale con l’oggetto. Hume argomenta che: A questa conclusione che va al di là delle impressioni dei sensi, possiamo giungere soltanto perché ci fondiamo sulla connessione di causa-effetto: altrimenti non potremmo avere la certezza che l’oggetto è sempre lo stesso e non uno nuovo25. E ancora: (…) la causalità è la sola che possa spingerci al di là dei sensi ed informarci dell’esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo26. Ma quale è l’origine del principio di causa-effetto? Hume non ha dubbi: tale origine risiede nell’esperienza e nella nostra capacità di generalizzare e di astrarre da esperienze simili. Non vi è alcuna necessità per cui l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro: si è constatato che a certi fenomeni ne seguono altri e questa abitudine ci porta alla illegittima supposizione che esista un nesso necessitante tra questi fenomeni per cui, avvenuto ’luno - la causa - invariabilmente debba conseguire ’laltro l’effetto -. Per Hume il nesso di causa-effetto è solo una nostra necessità psico-gnoseologica che ci consente di porre un ordine apparente in un universo altrimenti caotico. Come tale il principio va considerato ed usato. Anche in questo caso le parole di Hume sono quanto mai chiare. Leggiamo infatti: L’idea di causa ed effetto è derivata dall’esperienza, la quale c’informa che certi particolari oggetti, in tutti i casi passati sono andati costantemente uniti insieme27. Hume, 1739-1740, 1987, p. 84. Ibidem, p. 84. 25 Ibidem, p. 87. 26 Ibidem, p. 87. 27 Ibidem, p. 103. 23 24 7 E in seguito: La ragione non potrà mai convincerci che l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro: per cui, quando passiamo dall’impressione di un oggetto all’idea o credenza d’un altro, non siamo spinti a ciò dalla ragione, ma dall’abitudine, ossia da un principio di associazione28. Pertanto una prova basata sul principio di causa-effetto, per quanto possa essere scevra da dubbi e incertezze, dato l’altissimo numero di casi in cui un certo fenomeno ha seguito un altro senza eccezione (come accade per il sorgere quotidiano del Sole o per la mortalità degli esseri umani29), non è mai accompagnata dal senso di necessità tipico delle dimostrazioni matematiche né indica propriamente connessioni esistenti nel mondo esterno indipendentemente dalle nostre esperienze. La critica di Hume al principio di causa-effetto indusse, come noto, Kant a reimpostare la questione in modo da dare un valore assoluto al principio, ma da liberarlo da quelle critiche a cui è soggetto nella sua forma realista (sia essa materialista alla Hobbes o “razionalista” alla Leibniz). Il mondo fenomenico, sostiene Kant, è il solo che l’uomo può conoscere tramite l’intelletto e, quindi, l’unico di cui possa avere conoscenza scientifica. In questo contesto “assoluto” diviene allora sinonimo di trascendentale, di oggetto di esperienza possibile a priori. E il prolema kantiano di come siano in generale possibili giudizi sintetici a priori, equivale a quello della comprensione della struttura conoscitiva del soggetto trascendentale. Il principio di causa-effetto ha un ruolo fondamentale in questa struttura. Esso costituisce infatti una delle dodici categorie o concetti puri dell’intelletto, precisamente fa parte delle categorie della relazione. Nell’“Estetica trascendentale”, tra l’altro Kant ho sottolineato che gli oggetti di esperienza possibile a priori sono solo quelli che possono avere una collocazione nello spazio e/o nel tempo. Questi ultimi, in quanto intuizioni pure accolgono le rappresentazioni degli oggetti, l’immaginazione consente la sintesi delle rappresentazioni, ma la precisa concettualizzazione della sintesi delle rappresentazioni è possibile solo tramite le categorie, le quali permettono di ordinare i risultati della sintesi e di concludere così il processo di concettualizzazione30. Il ruolo della categorie è, quindi, fondamentale e proprio la categoria di causa è quella che, applicata ai dati forniti dalla sensibilità, consente di determinare le relazioni nel tempo. Essa è cioè la condizione a priori della possibile unificazione del molteplice nel tempo. Scrive Kant in proposito: Ma questa unità sintetica [del molteplice nel tempo], come condizione a priori, in cui unifico il molteplice di una intuizione in generale (…) è la categoria di causa, per la quale io, quando l’applico alla mia sensibilità, determino rispetto alla sua relazione, tutto ciò che accade nel tempo. L’apprensione dunque di un tale avvenimento, e insieme l’avvenimento stesso secondo la percezione possibile, sottostà al concetto di relazione di effetto e causa; così in tutti gli altri casi31. E nel paragrafo 36 dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura Kant sostiene che il principio di causa (cioè la legge del nesso dei fenomeni) non deriva certo dall’esperienza, ma anzi noi possiamo avere l’idea stessa della natura grazie a principi come quello di causa-effetto che sono a fondamento dell’esperienza stessa32 e, continua Kant (…) la legalità si fonda sulla connessione necessaria dei fenomeni in una esperienza (…) e quindi sulle leggi generali dell’intelletto, così certo a principio suona strano, ma è, non di meno, certo, dire riguardo alle ultime, l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad essa33. Ibidem, p. 110. Hume fa questi esempi in Ibidem, p. 140. 30 Kant espone queste concezioni nel primo libro, § 10 dell’Analitica trascendentale. Si veda Kant, 1787, 1987, pp. 111-116. 31 “Analitica trascendentale”, primo libro § 26, Kant 1787, 1987, pp. 150-154, citazione p. 153. 32 Kant, 1783, 1992, pp. 145-147. 33 Ibidem, p. 147. 28 29 8 In questo modo pertanto il principio di causa-effetto recupera la sua valenza assoluta, sia pur nella forma trascendentale e non in quella “realistico ingenua”, ma di fatto, poiché non ha senso parlare di un mondo indipendente dal soggetto trascendentale, l’operazione di Kant è quella di un recupero integrale del principio dopo la critica humeana. I successi della fisica e la sua giustificazione filosofica data da Kant portarono Laplace ad affermare nel modo più esplicito l’assolutezza del principio di causa-effetto. Scrive Laplace: Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e la causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che, per un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta per sottomettere questi dati al calcolo, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e quelli del più leggero atomo: niente sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi34. 3. MACH E LA SUA CONCEZIONE DEL PRINCIPIO DI CAUSA-EFFETTO L’opera di Mach abbraccia un lungo arco di anni se pensiamo che il suo primo lavoro sistematico può essere considerato La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro, pubblicato nel 1872, ma scritto alcuni anni prima e l’ultimo Le idee-guida della mia teoria della conoscenza scientifica35, 1910. In questo lungo periodo si collocano i tre contributi fondamentali di Mach: La meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883), L’analisi delle sensazioni (1886) e Conoscenza ed errore (1905). Il pensiero del fisicofisiologo-filosofo moravo fu sempre estremamente coerente e i suoi tre grandi lavori possono essere considerati come lo sviluppo e l’approfondimento di idee già presenti in forma più o meno esplicità già La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro. L’analisi del principio di causa-effetto si inserisce all’interno di una concezione molto articolata i cui cardini sono: 1) la scienza è basata sull’economia di pensiero; 2) il modo in cui la scienza si è sviluppata non è predefinito, ma dipende da una serie di circostanze storico-sociali. Ne consegue che i principi e le leggi della fisica non hanno niente a che fare con una supposta struttura matematica in sé dell’universo, sono piuttosto tabelle, rubriche, tramite le quali si riassume un insieme di fatti. Scrive Mach: È importante chiarire che un principio è sempre la constatazione di un fatto. Se si trascura questo, si avverte sempre un’insufficienza e si continua a ricercare una fondazione che non è possibile trovare36. E ancora: Se ci fossero immediatamente accessibili tutti i singoli fatti, tutti i singoli fenomeni, non appena desideriamo conoscerli - non sarebbe mai sorta una scienza37. Più nello specifico, il fatto che la meccanica sia stata la branca della fisica che si è sviluppata per prima e i cui risultati sono stati i più cospicui, dipende da motivi storici e contingenti e non implica affatto che la meccanica debba essere assunta come fondamento per gli altri rami della fisica. Proprio l’esame dei rapporti tra meccanica e altri settori della fisica e lo studio concernente l’origine dei principi della fisica è il punto di partenza della speculazione machiana sul nesso di causa-effeto. L’idea di fondo è dimostrare che non solo non esiste il nesso di causa-effetto come proprietà intrinseca ai fenomeni della natura, ma che anche a livello scientifico tale nesso può più utilmente essere sostituito dal concetto di dipendenza funzionale tra fenomeni. Scrive Mach: Laplace formula questa convinzione in Teoria analitica della probabilità (1812). Io ho ripreso la citazione da Abbagnano, 1961, p. 118. 35 La storia e Le idee-guida sono consultabili in Mach, 2005, rispettivamente alle pp. 41-111 e pp. 113-133. 36 Mach, 1883, 2001, p. 101. 37 Mach, 1872, 2005, p. 81. 34 9 Quando parliamo di causa e di effetto, noi mettiamo arbitrariamente in evidenza quegli aspetti, sul cui rapporto poniamo attenzione in vista di un risultato per noi importante. Ma nella natura non vi è né causa né effetto. La natura è qui e ora38. La mentalità di Mach è però molto aperta e non si tratta quindi di “demonizzare” il rapporto causa-effetto. Se per qualche scienziato può esser utile pensare i fenomeni legati dal principio di causalità, questo è del tutto legittimo e non vi è niente da eccepire, purché non si ipostatizzi il principio o si voglia “costringere” anche altri a vedere in esso un postulato insostituibile. Le suguenti parole di Mach mi sembrano chiarificatrici, oltre che del suo pensiero, anche della sua mentalità generale: Ho letto da qualche parte che io condurrei una “lotta accanita” contro il concetto di causa. Le cose non stanno così, perché io non sono un fondatore di religioni. Io ho sostituito, per le mie esigenze e i miei scopi, il conctto di causa con quello di funzione. Se qualcuno trova che in questo non c’è maggiore precisione né liberazione, né chiarimento, rimanga tranquillamente ai vecchi concetti; non ho né la forza né il bisogno di imporre a tutti il mio punto di vista39. Introdotte queste idee generali che servono a fornire almeno alcune delle linee-guida della speculazione machiana, scendiamo più nello specifico, cominciando ad analizzare quanto Mach afferma in La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro. Qui viene sostenuto che: 1) il principio di conservazione del lavoro può esser formulato come principio del perpetuum mobile escluso; 2) tale principio è un caso del principio di ragion sufficiente, il quale a sua volta equivale al principio di causaeffetto; 3) si può fornire un inquadramento più completo e perspicuo alla fisica introducendo il rapporto di dipendenza funzionale. A base del proprio ragionamento Mach pone che: 1) tutti questi principi derivano dall’esperienza; 2) sono utili solo se vengono impiegati da persone che hanno fatto esperienze ed esperimenti su un insieme di fenomeni e che, quindi, hanno “confidenza” con essi ed hanno imparato a separare gli elementi “accidentali” da quelli permanenti e che possono far comprendere alcune invarianti. Altrimenti tali principi sono vuote parole e non hanno alcuna utilità. Il principio di conservazione del lavoro, sostiene Mach, può essere espresso in due forme: 1) tramite il teorema della forze vive, per il quale il lavoro compiuto da una forza conservativa su un corpo che si muove su una traiettoria i cui punti iniziale e finale sono s0 ed s1 equivale alla differenza di energia cinetica del corpo tra s0 ed s1; 2) creare lavoro dal nulla, cioè un perpetuum mobile, è impossibile. È soprattutto in questa seconda forma che Mach considera il principio di conservazione del lavoro. Mach mostra che esso è stato utilizzato esplicitamente almeno già a partire da Stevin, il quale lo ha impiegato per studiare l’equilibrio su un piano inclinato e per dimostrare che una porzione di acqua in una posizione P all’interno di una quantità maggiore di acqua, se non intevengono fattori di disturdo esterni, mantiene la propria posizione. Lo stesso principio equivale all’asserto più volte usato da Galilei secondo il quale un grave, grazie alla velocità raggiunta nella caduta, risale in alto tanto quanto è caduto in basso. Questo principio, applicato al piano inclinato, comporta che, se un corpo scende lungo un piano inclinato, raggiunge esattamente la stessa altezza da cui è partito e che a uguali altezze corrispondono uguali velocità. Galilei fu condotto a formulare il principio di inerzia da queste osservazioni, poiché, da quanto detto, consegue che se un corpo scende lungo un piano inclinato fino all’altezza h e in h ha la velocità v, allora, se il piano da inclinato diviene parallelo alla superficie della terra, il corpo manterrà indefinitamente la velocità v. Nella Meccanica Mach specifica ancor più chiaramente che nel suo lavoro giovanile come il principio dell’altezza di caduta equivalga alla semplice osservazione che i gravi tendono a scendere e non a salire perché. Se salissero si potrebbe costruire un perpetuum mobile. Scrive il fisico austriaco: L’ipotesi che la velocità acquisita dipenda dall’altezza verticale, e non dall’inclinazione della traiettoria, non contiene dunque che il riconoscimento e l’esposizione inconfutabile del fatto che i corpi pesanti tendono a discendere e non a salire. Infatti se supponessimo che un corpo cadendo lungo un 38 39 Mach, 1883, 2001, p. 472. Mach, 1905, 1982, p. 273n. 10 piano inclinato acquisti una velocità, sia pure di poco, maggiore di quella che raggiunge nella caduta verticale, basterebbe farlo passare con la velocità acquisita su un piano inclinato verticale, lungo il quale risalirebbe a un’altezza maggiore di quella da cui è sceso. Se la velocità acquistata sul piano inclinato fosse al contrario minore, si arriverebbe allo stesso risultato rovesciando il processo. Nei due casi si potrebbe, per una successione di piani inclinati convenientemente disposti, forzare un corpo pesante a salire indefinitamente per il suo stesso peso, cosa che è in contraddizione con la nostra conoscenza istintiva della natura dei gravi40. Quindi vi è uno stretto collegamento tra il principio del perpetuum mobile escluso e quello dell’altezza di risalita. I due principi sono infatti basati, il primo sull’osservazione che il moto perpetuo non esiste, il secondo sul fatto che nessuno ha mai visto un grave risalire in virtù del proprio peso. Se cadesse il secondo cadrebbe anche il primo, perché allora sarebbe appunto possibile costruire un perpetuum mobile. Proposizione del tutto analoga a quella dell’altezza di risalita è il principio che, se un sistema è in equilibrio, il suo baricentro è il più basso possibile. Di nuovo, se ciò non fosse vero, si potrebbe costruire un perpetuum mobile41. Huygens sfruttò in maniera mirabile il principio del centro di gravità per determinare il centro di oscillazione del pendolo composto42. Quanto alla meccanica, Mach fornisce altri illuminanti esempi di applicazione del principio del perpetuum mobile escluso o di principi ad esso riconducibili sia in La storia e la radice che nella Meccanica. Ma, per gli scopi di Mach, sono forse ancor più significativi gli esempi di applicazione in domini della fisica diversi dalla meccanica. Qui ne riportiamo uno tratto dalla termologia43: quando viene prodotto lavoro mediante calore si ha passaggio di calore da un corpo più caldo a uno più freddo; viceversa si può far tornere il calore dal corpo più caldo a quello più freddo, fornendo lavoro. Ora - scrive Mach - [Sadi] Carnot trova che, per una determinata prestazione di lavoro, la quantità di calore che fluisce da una determinata temperatura t alla temperatura t1 , non può dipendere dalle proprietà chimiche del corpo utilizzato, ma solo da queste temperature. In caso contrario sarebbe possibile escogitare una combinazione di corpi che produrrebbe senza sosta lavoro dal nulla. Ecco dunque un’importante scoperta che si fonda sul principio del perpetuum mobile escluso. Questa è certo la prima applicazione del principio oltre i confini della meccanica [siamo nel 1824]44. Mach fornisce poi altri esempi di applicazione del principio in settori diversi dalla meccanica. Il fondamentale passaggio successivo per comprendere l’origine del principio di conservazione del lavoro esposto nella forma del perpetuum mobile escluso, consiste nel mostrare che il tentativo di fondare le altre branche della fisica sulla meccanica deriva solo dal fatto che questa si è sviluppata prima e in maniera più approfondita, ma che non vi è alcuna necessità in re per supporre vero questo pregiudizio45. La situazione è quindi la seguente: 1) il principio del perpetuum mobile escluso è stato usato nella stessa meccanica (per esempio da Stevin) prima della formulazione della visione meccanicistica del mondo (tardo XVII-inizio del XVIII secolo); 2) è utilizzato anche in altri settori della fisica; 3) è una questione di circostanze storiche che si sia cercato di fondare questi altri settori sulla meccanica piuttosto che il contrario; quindi, scrive Mach, come introduzione alla parte finale del ragionamento esposto in La storia: Se il principio del perpetuum mobile escluso non si fonda sulla visione meccanicistica, il che deve essere ammesso, essendo la sua correttezza riconosciuta ben prima dello sviluppo della visione Mach, 1883, 2001, p. 157. Mach, 1872, 2005, p. 63. 42 Mach, 1883, 2001, pp. 194 e ss.. 43 Mach, 1872, 2005, pp. 66-67. 44 Ibidem, p. 66. 45 Il rapporto tra la meccanica e le altre parti della fisica è uno dei temi centrali del pensiero machiano, ma non può essere qui affrontato perché richiederebbe, da solo, un intero lavoro. Per una succinta formulazione e soluzione della questione, il lettore può consultare Mach, 1872, 2005, capitolo La fisica meccanicistica, pp. 71-84. Intere sezioni de La Meccanica sono poi dedicate a questo problema. 40 41 11 meccanicistica; se inoltre quest’ultima, vacillante e precaria, non può concedere a tale principio alcun fondamento sicuro; se infine è ben probabile che il nostro principio non si fondi su alcun giudizio positivo, poiché è stato esso stesso partecipe della fondazione delle più importanti conoscenze positive - su quale fondamento riposa dunque il principio, e donde trae quella forza persuasiva, con la quale ha in ogni tempo dominato i più grandi scienziati?46 Rispondendo a questa domanda, Mach formula la propria opinione in merito al principio di causa-effetto. Seguiremo dunque in dettaglio l’argomentazione del fisico austriaco. Egli asserisce osservando i fenomeni naturali, ci abituiamo a considerarli gli uni dipendenti dagli altri e che diamo a questa dipendenza il nome di principio di causa-effetto. Finché il nesso di causa-effetto viene definito in forma così generale come dipendenza di fenomeni, non vi è niente da eccepire. Anzi esso è assolutamente necessario alla scienza e, prima ancora che alla scienza, alla costituzione dell’esperienza stessa poiché esprime in termini formalizzabili la continuità e stabilità di certe nostre esperienze, proprietà senza le quali sarebbe per noi impossibile qualunque forma di “orientamento” nel mondo. Mach ritorna più volte su questo punto in diverse parti delle sue opere. Per esempio, in Conoscenza ed errore scrive: Se l’ambiente degli esseri viventi non fosse costituito di parti che rimangono almeno approssimativamente costanti, o non fosse scomponibile in eventi che si ripetono in modo periodico, l’esperienza sarebbe impossibile, l’associazione senza valore47. Il problema è che ogni formulazione del principio di causa-effetto è sempre associata alle nozioni di spazio e di tempo. Ora, ad opinione di Mach (posizione questa decisamente antikantiana), questo è improprio perché, i nostri concetti di spazio e di tempo sono ricavati dai fenomeni e un principio che voglia essere generale non può dipendere da concetti che, a loro volta, dipendono da nessi fenomenici. Mi sembra qui necessaria una precisazione per evitare eventuali fraintendimenti: Mach non pensa certo che noi scopriamo la dipendenza dei fenomeni grazie a leggi metafisiche dell’universo o grazie a nostre strutture trascendentali, ma proprio solo perché la ricaviamo dall’esperienza; tuttavia un principio generale deve valere per tutti i fenomeni, mentre se nella formulazione del nesso causa-effetto introduciamo i concetti di spazio e tempo, esso è, nella migliore delle ipotesi, legato a quelle esperienze che derivano dallo spazio e dal tempo. Tra l’altro spazio e tempo non sono per Mach nessi fenomenici insostituibili. Per esempio, in fisica la posizione dei corpi celesti potrebbe essere determinata in funzione dell’angolo di rotazione terrestre anziché in funzione del tempo. Per cui la corretta formulazione della legge di causalità è quella di nesso tra fenomeni esprimibile in equazioni. Nel 1872 Mach chiamava ancora tale nesso “legge di causalità”. In seguito, e giustamente, abbandonò questo nome perché foriero di fraintendimenti in quanto, appunto, per legge di causalità si intendeva comunemente un nesso legata allo spazio e al tempo, mentre Mach voleva formulare un principio che non dipendesse da questi due concetti. Il concetto machiano di dipendenza funzionale dei fenomeni esprime il fatto che, nella scienza, quel che conta è appunto questa dipendenza (che nella fisica viene espressa con formule matematiche), mentre il principio di causa-effetto è molto indeterminato, vago, e non è traducibile in un linguaggio scientifico e, quindi, non è di aiuto nella scienza. Un esempio chiarirà cosa intende Mach per dipendenza funzionale tra fenomeni: consideriamo l’equazione di stato dei gas pv perfetti T = costante, dove p indica la pressione del gas, v il volume e T la temperatura. Se in una trasformazione la temperatura resta costante e, per esempio, 1) la pressione aumenta, allora il volume diminuisce; 2) se il volume aumenta, la pressione diminuisce. Il nesso di dipendenza funzionale espresso dall’equazione dice quindi qualcosa di ben preciso. Ma qui come si applicherebbe il principio di causaaffetto? È la modificazione della pressione la causa o la modificazione del volume? E come stabilirlo visto che i due fenomeni avvengono in contemporanea? E, anche ammesso che sia possibile stabilirlo, quale mai vantaggio ne trarrebbe la nostra immagine del mondo? Ecco, quindi, che Mach asserisce: 46 47 Mach, 1872, 2005, p. 85. Mach, 1905, 1982, pp. 31-32. 12 Nelle scienze altamente sviluppate l’uso dei concetti di causa ed effetto è sempre più limitato, sempre più raro. Il motivo sta nel fatto che questi concetti indicano solo in modo assai provvisorio ed imperfetto uno stato di cose, che mancano di precisione, come già si è accennato. Appena è possibile caratterizzare gli elementi con grandezze misurabili […] la dipendenza degli elementi si fa rappresentare dal concetto di funzione48. Allora, per tornare al principio del perpetuum mobile escluso, esprimibile anche con l’asserto “non si può creare lavoro dal nulla”, che ha occasionato la speculazione machiana sul nesso di causalità e sulla dipendenza funzionale tra fenomeni, quale interpretazione darne? La risposta viene posta da Mach in questi termini: supponiamo che α , β , γ ,... siano dei fenomeni, legati funzionalmente ai fenomeni x, y, z,… da una serie di equazioni α = f1 ( x, y, z,...) β = f 2 ( x, y, z,...) y = f3 ( x, y, z,...) ....................... In base a questi nessi funzionali segue che: 1) se x,y,z,… sono costanti, lo sono anche α , β , γ ,... ; 2) a variazioni discrete, periodiche o continue di x,y,z,…, corrispondono variazioni dello stesso tipo in α , β , γ ,... Ciò chiaramente implica che se il lavoro è 0 per un sistema S di fenomeni ed S non subisce alcun incremento da fonti esterne, allora anche per il gruppo di fenomeni funzionalmente legati ad S, il lavoro rimarrà nullo49. Quindi, sostiene Mach, il principio del perpetuum mobile escluso non è altro che una forma del principio leibniziano di ragion sufficiente, il quale è un altro modo per esprimere il nesso di causa-effetto. Tuttavia per rendere applicabili ed utili questi principi occorre esprimerli tramite una dipendenza funzionale. Il principio di ragion sufficiente, espresso nella sua forma generale, è in realtà così generico, che non è possibile dargli una forma funzionale utile alla conoscenza. Invece il principio del perpetuum mobile escluso è sì un’espressione di quello di ragion sufficiente, ma la sua forma più specifica consente una trascrivibilità in termini di relazioni funzionali utilizzabili per la scienza. A questo punto allora vale per Mach la pena abbandonare il principio di ragion sufficiente e di causa-effetto anche per tutto l’inutile armamentario metafisico o trascendentale a cui è legato ed attenersi ai nessi di dipendenza funzionale dei fenomeni. Mach vuole in particolare sottolineare che ogni principio generale, se è slegato da una effettiva conoscenza ed esperienza dei fenomeni che si vogliono osservare e studiare, è solo un vuoto precetto che non serve a nulla; esso acquista senso e utilizzabilità solo se si sono già compiuti studi ed esperimenti sui fenomeni. Non vi è nessun principio che possa dispensare dal lavoro. La speculazione machiana che abbiamo esposto non può essere scissa dalla visione antifinalistica, antiteologica ed antimetafisica del fisico moravo: così, a proposito di fenomeni di massimo e di minimo, che molto spesso vengono presentati in una forma più o meno velatamente finalistico-teologica, Mach asserisce che in realtà i principi e le leggi connessi con massimi e minimi esprimono sempre il fatto che, in certe condizioni, non si verifica lavoro. Il vedere in ciò un massimo o Ibidem, p. 272. Tra l’altro l’idea che i nessi funzionali fenomenici siano a fondamento tanto del “fisico” quanto dello “psichico”, derivata anche dagli studi ed esperimenti sulle sensazione e percezioni condotti di Mach, condussero il filosofo austriaco a concludere che non vi è sostanziale differenza tra “fisico” e “psichico” e tra Io e Mondo. Non è qui possibile approfondire questa interessante sezione dell’opera machiana. Rimandiamo a Conoscenza ed errore dove queste idee sono sviluppare con dovizia di particolari. La seguente breve citazione tratta dalla Meccanica è però di per sé sufficiente a inquadrare l’o rdine di idee di Mach: “Penso che una ricerca fisica prudente renderà necessari nuovi studi sulla sensazione. Riconosceremo allora - e cominciamo già a farlo - che la nostra sensazione di fame non è molto diversa della tendenza dell’acido solforico verso lo zinco, e la nostra volontà non è diversa dalla pressione della pietra sul suo supporto.” In Mach, 1883, 2001, pp. 455-456. 49 Mach, 1872, 2005, pp. 95-96. 48 13 un minimo dipende da necessità conoscitive “economiche” che sono solo nostre, non della natura. Mi sembra molto bello ed indicativo il seguente lungo passo: Istintivamente cerchiamo di facilitare a noi stessi la comprensione della natura attribuendolegli intenti economici che sono nostri. Altri fenomeni naturali presentano proprietà di massimo o di minimo per il fatto che in essi sono scomparse le cause di ogni cambiamento. La catenaria ha il centro di gravità più basso possibile per la ragione che solo questa posizione impedisce ogni ulteriore discesa degli anelli della catena. I liquidi sotto l’influenza di forze molecolari presentano una superficie minima perché un equilibrio stabile sussiste solo se le forze molecolari non possono diminuire ulteriormente la superficie. L’essenziale in questi fenomeni non è dunque il massimo o il minimo, ma solo che non si verifica lavoro: e il lavoro è appunto il fattore che determina il mutamento. Invece di celebrare la tendenza economica della natura, è più chiaro, più rigoroso e nello stesso tempo gode di validità più generale, anche se suona meno sublime dire: accade sempre solo ciò che può accadere in presenza delle forze e sotto le condizioni date50. Tra l’altro Mach non esclude che vi sia qualche funzione innata nei fattori che generano la conoscenza; quello a cui si oppone è l’ idea che si pretenda di determinare solo razionalmente tali funzioni, senza uno studio fisiologico relativo ai meccanismi del cervello umano. Devono essere la psicologia sperimentale e la fisiologia a stabilire, se possibile, cosa vi sia di innato e cosa di appreso e se tale divisione sia, in ultima istanza, perspicua. Scrive Mach: Non per decreti filosofici, ma solo con indagini psico-fisiologiche positive si può stabilire cosa è innato51. Questa forma di positivismo portò Mach a criticare paradossalmente quei settori della fisica che più mettevano e metteranno in dubbio, sia pur in forma diversa da quella machiana, il principio di causa-effetto, cioè quelle branche della fisica più strettamente connesse con i concetti di molecola e di atomo. Proprio nella misura in cui non si può aver esperienza positiva né delle molecole né degli atomi, Mach nega validità ontologica a questi concetti: essi possono essere considerati solo come ipotesi di lavoro a cui “non affezionarsi” troppo52. Egli si riferiva soprattutto alla meccanica statistica di Boltzmann. Cosa ha introdotto Mach rispetto al “vecchio” empirismo alla Hume? Un elemento fondamentale è che il filosofo austriaco ritiene che ciò che Hume chiama abitudine non sia affatto una mera acquisizione personale, ma che sia il portato di strutture biologiche dell’essere umano e della ben precisa deriva storica di una civiltà. Appunto la scienza (biologia, fisiologia) e la storia (nel caso di Mach storia della fisica, essendo egli un fisico) possono far comprendere che cosa in realtà sia l’uomo e come si sia evoluta la sua conoscenza. Ciò non è possibile attraverso una pura speculazione razionale. Altro fatto fondamentale è che Mach cerca di giustificare le proprie idee per mezzo di una conoscenza davvero estesa e profonda della fisiologia, psicologia sperimentale e, soprattutto, della fisica. Ciò dà una notevole “concretezza” e chiarezza al suo pensiero, se ne condividano o meno tutte le conseguenze. Inizialmente Mach fu osteggiato e non compreso da molti filosofi e fisici, in seguito, nel periodo 18801920 la sua influenza fu invece profonda e, nonostante che abbia sempre avuto dei “nemici”, tra i quali ricordiamo Planck, egli influenzò notevolmente il pensiero di molto fisici e filosofi, non ultimi Einstein e Wittgenstein. In Italia un grande uomo di scienza che conobbe bene ed apprezzò il lavoro di Mach, anche se non condivise gli aspetti più marcatamente empiristici della sua concezione, fu Enriques. Mach, 1883, 2001, p. 453. Mach, 1905, 1982, p. 274. 52 Si veda, per esempio, Mach, 1883, 2001, pp. 478-479. 50 51 14 4. LA MECCANICA QUANTISTICA E IL PRINCIPIO DI CAUSA-EFFETTO La critica di Mach aveva riguardato l’ interpretazione del concetto di causa-effetto, la presunta assolutezza di certe nozioni fondamentali come “spazio” e “tempo”, la rivisitazione di altre, come, per esempio, il concetto di massa. Mach però non giunse mai a proporre una fisica in cui il nesso di causaeffetto, almeno nella sua veste tradizionale, non potesse valere in linea di principio. Con la meccanica quantistica il quadro cambia completamente poiché si tratta di una teoria in cui anche il concetto machiano di nesso funzionale tra fenomeni deve subire una modificazione in quanto gli aspetti probabilistici entrano nella formulazione della meccanica quantistica in maniera intrinseca. Per cui un nesso funzionale non descriverà più una relazione tra due o più fenomeni, ma, dato un fenomeno o meglio, un certo stato quantico determinato da un insieme di parametri, la probabilità che si verifichi un altro stato quantico. Siamo quindi in presenza di un nesso funzionale concernente probabilità di fenomeni e non fenomeni. Un aspetto molto generale della fisica classica, a cui era anche parzialmente connessa la visione tradizionale del nesso di causa-effetto, concerne l’immagine del mondo che ci dà una teoria fisica: un atteggiamento filosofico, tipico di molti fisici ed entro certi limiti comprensibile, è, come già accennato, l’ idea che le leggi della fisica siano uno schema matematico inerente al mondo. L’uomo si limita a scoprire tali leggi. Questo, che indubbiamente è un atteggiamento filosofico, pare suffragato anche a livello psicologico quando una teoria sembra non avere particolari problemi nel descrivere gli eventi che si conoscono. Atteggiamento più prudente è quello di chi sostiene che, pur non esistendo leggi fisiche in sé e per sé, tuttavia un modello globale coerente che sia una rappresentazione del mondo è necessario in ogni scienza. Cioè, data la teoria T, possiamo anche disinteressarci del fatto che le leggi di T ineriscano o meno al mondo, ma almeno devono avere due requisiti fondamentali: 1) spiegare la quasi totalità dei fenomeni di cui si occupa T e tutti i fenomeni giudicati più importanti; 2) presentare una visione coerente del mondo, vale a dire non avere parti T1 e T2 i cui modelli si escludano a vicenda. Ora il secondo requisito sembra mancare alla meccanica quantistica poiché, come vedremo, per alcuni fenomeni è necessario descrivere le particelle subatomiche come corpuscoli, per altri come onde. Inscindibilmente connesso con questo problema è l’aspetto probabilistico della teoria quantistica, per cui la questione del determinismo-indeterminismo non è più solo di carattere gnoseologico, ma concerne la struttura stessa della teoria. Tanto più questa situazione sembra paradossale se si tiene conto che molti dei padri della meccanica quantistica, come Schrödinger, erano realisti convinti ed altri addirittura come Planck ed Einstein erano realisti e deterministi. Il problema della coerenza interna del modello offerto dalla fisica quantistica sarà l’argomento principale di questo paragrafo e la questione del causalismo sarà affrontata all’interno di questo discorso più generale. Prima di affrontare l’ argomento principale, è necessaria un precisazione: nello studio delle strutture fortemente dipendenti dalle condizioni iniziali e costituite da un gran numero di particelle, vi sono sempre state leggi statistiche. La teoria cinetica dei gas e la termodinamica sono esempi classici. Fornisco un semplice esempio: consideriamo un recipiente pieno d’acqua e una sostanza disciolta nell’acqua in modo non uniforme a un certo tempo t. Supponiamo che in t la densità della sostanza nell’acqua sia massima nella parte sinistra del recipiente e diminuisca con continuità andando verso destra. Si assiste al fenomeno detto “diffusione”, cioè progressivamente la densità della sostanza diventa uniforme: le sue molecole si spostano in media dalla zona di densità maggiore a quella di densità minore. Ciò è un effetto puramente statistico poiché non vi è alcuna forza che tende a spingere le molecole verso destra. Ogni molecola si comporta indipendentemente da ogni altra ed ognuna è spinta dalle molecole circostanti di acqua in direzioni imprevedibili e con uguale probabilità verso sinistra o verso destra. Ma consideriamo due straterelli contigui di liquido e un piano interposto tra essi: allora il piano viene attraversato da un numero maggiore di molecole provenienti dalla parte sinistra del recipiente per il semplice fatto che a sinistra vi sono più molecole della sostanza sciolta che non a destra. Ciò provoca la diffusione della sostanza disciolta da sinistra verso destra. Si ha quindi un effetto statistico che ci dice come si comporta il liquido anche se noi non sappiamo nulla delle singole molecole53. Non possiamo determinare il loro movimento perché strettamente connesso a una molteplicità di condizioni iniziali (quali la loro orientazione tra le molecole di acqua) che è quasi impossibile stabilire e una piccola variazione delle 53 Ho ripreso questo esempio da Schrödinger, 1944, 1995, pp. 31-37. 15 quali implica una grande differenza di comportamento. Si può però pensare, almeno a livello puramente teorico, che se conoscessimo le posizioni iniziali di tutte le molecole potremmo determinare con esattezza il moto di ciascuna di esse e che, quindi, l’aspetto statistico del fenomeno sarebbe eliminabile54. Bene, in meccanica quantistica la situazione non è questa, vedremo che ci sono aspetti statistici e probabilistici non eliminabili. La base del problema è la “duplice natura” ondulatoria e corpuscolare dei fotoni e delle particelle subatomiche, quali gli elettroni: Max Planck nel 1900 aveva dimostrato che i problemi derivanti dal principio di equipartizione dell’energia applicato al corpo nero sono risolvibili postulando che la radiazione non sia continua, ma si presenti solo in pacchetti discreti, detti quanti. Tramite l’ipotesi dei quanti Einstein fu poi in grado, cinque anni dopo, di spiegare l’effetto fotoelettrico. D’altra parte nel 1925 de Broglie aveva scoperto che il postulare l’esistenza di onde-pilota associate all’elettrone forniva un quadro unitario e coerente alle formule scoperte da Bohr per la quantizzazione delle orbite elettroniche. Poco tempo dopo un esperimento rivelò che l’elettrone aveva in effetti anche la natura ondulatoria postulata da de Broglie. Nel 1926 Schrödinger dette forma matematica corretta alle intuizione di de Broglie giungendo alla famosa equazione d’onda che è ancor oggi quella fondamentale in meccanica quantistica. Nello stesso periodo Heidenberg formulò il principio di indeterminazione e nel 1927 Schrödinger dimostrò l’equivalenza matematica tra la formulazione di Heisenberg e la propria55. Ora come conciliare la natura corpuscolare e ondulatoria dei fotoni e delle particelle subatomiche? Il problema non è in alcun modo solo una questione filosofica del tipo: questi oggetti sono onde o corpuscoli?, ma riguarda la coerenza fisica del quadro proposto dalla meccanica quantistica. Riferisco il seguente classico esperimento per chiarire il problema: supponiamo di avere una sorgente di luce monocromatica, un muretto con due fenditure e dietro al muretto uno schermo che registra l’impatto dei fotoni. Supponiamo anzitutto che sia aperta una sola fenditura. In questo caso la luce che illumina lo schermo presenterà un fenomeno tipicamente ondulatorio, la diffrazione, per il quale l’illuminazione dello schermo appare quasi tutta concentrata in una banda e il resto dello schermo sembra binaco. Se però si riduce l’ intensità della luce si vede che effettivamente anche la banda illuminata è composta da “punti” luminosi e non è un continuo. In questo caso è, quindi possibile conciliare le proprietà ondulatoria con quelle corpuscolari. Quando però apriamo l’altra fenditura nasce il problema: sullo schermo si assiste a un classico fenomeno ondulatorio, cioè le figure di interferenza, per cui lo schermo presenta fasce senza fotoni e fasce in cui più intensa è la presenza di fotoni. Ma la cosa più singolare è che questa differenza nei comportamenti dei fotoni si presenta se noi spariamo anche un solo fotone alla volta. Mi spiego: se è aperta una sola fessura e spariamo un solo fotone alla volta, la fascia più colorata è quella approssimativamente di di fronte alla fessura, il resto è quasi oscuro. Quando apriamo due fessure e spariamo un fotone alla volta sarebbe lecito attenderci che le fasce colorate fossero quelle davanti alle fessure, ma non è così, ci sono le frange di interferenza: In qualche modo, ogni particella passa al tempo stesso per le due fenditure e interferisce con se stessa! (…) È che ogni singola particella si comporta in modo simile a un’onda; e possibilità diverse accessibili a una particella possono a volte cancellarsi reciprocamente!56 Tuttavia la cosa ancor più difficile da spiegare è che se si mette un rilevatore in una fessura in modo da stabilire se il fotone è passato per essa, le frange di interferenza scompaiono e il rilevatore ci dice esattamente se il fotone è passato o meno per tale fessura. Sembra che il fotone assuma natura completamente corpuscolare e sembra che l’osservazione abbia palesato l’aspetto corpuscolare del In realtà la questione non è affatto semplice perché se, per esempio, la determinazione delle condizioni iniziali implicasse la conoscenza di una infinità di dati, sarebbe impossibile eliminare la descrizione statistica anche in linea di principio. Un’ottima analisi di questi problemi accessibile al lettore che ha conoscenze matematiche di livello medio è in Toraldo di Francia, 1976, capitolo III, pp. 221-314. 55 La bibliografia sulla storia della meccanica quantistica è semplicemente sterminata. Un ottimo testo di carattere semidivulgativo è Gamow, 1966. Acor più discorsivo, ma chiaro e rigoroso nei limiti propostisi dall’autore è Rydnik, 1975. Più tecnico, ma non per specialisti è Cohen-Tannoudji, Spiro 1986, 1988. Decisamente più specialistico è Hund, 1975, 1980. Un testo classico sui primi trent’anni della teoria dei quanti, adottato anche come manuale universitario, è Heisenberg, 1930, 1979. 56 Penrose, 1989, 1998, pp. 302-303. 54 16 fotone. Ma come è possibile che un’osservazione modifichi la natura di una particella? Questa situazione paradossale è perfettamente descritta dalla funzione d’onda ψ di Schrödinger che rappresenta lo stato quantico di una particella. La funzione d’onda è una funzione a variabili complesse e fornisce non la probabilità, ma l’ampiezza di probabilità che si verifichi un evento. In senso intuitivo, anche se parecchio inesatto, ψ fornisce la probabilità di una probabilità. Ora, se ci interessa sapere quale è la probabilità che un fotone raggiunga un punto x dello schermo, si può dimostrare che essa è data dal 2 modulo al quadrato ψ (x) della funzione d’onda ψ (x ) . Ma è possibile provare che questo è vero solo nel caso in cui su una fenditura è posto il rilevatore. Per cui a livello puramente quantistico, senza presenza di osservatore, le singole vie “(…) hanno solo ampiezze di probabilità, non probabilità.”57. Non solo i risultati ottenuti attraverso l’ equazione e la funzione d’onda coincidono sul piano matematico con il principio di indeterminazione, ma si accordano anche sul fatto che la presenza di un osservatore è decisiva nel modificare lo stato di una particella. Ricordiamo che Heisenberg sottolineò che, se vogliamo studiare il comportamento di un elettronone in un atomo, dobbiamo in qualche modo “illuminarlo” e questa illuminazione sarà tanto più precisa quanto più piccola sarà la lunghezza d’onda della luce incidente sull’elettrone. L’ideale è quindi usare fotoni di raggi γ . Il problema è però che i raggi γ sono così penetranti che modificano la posizione e la velocità dell’elettrone. Quindi, usando raggi “non troppo potenti” avremo un’immagine sbiadita sulla posizione e quantità di moto del nostro elettrone, usando raggi più penetranti modifichiamo posizione e quantità di moto. In ambo i casi si ha una indeterminazione del prodotto della posizione per la quantità di moto che è coerente con quanto prescritto teoricamente dal principio di indeterminazione58. Siamo quindi in questa paradossale situazione: la meccanica quantistica è in grado di spiegare i fenomeni atomici tramite il suo apparato matematico, ma non fornisce un’immagine coerente del mondo perché in effetti non spiega se gli enti di cui si occupa siano onde o corpuscoli e eventualmente quali siano le relazioni tra la “duplice natura” delle particelle. Tutti i “padri” della meccanica quantistica si posero questi problemi e ne dettero interpretazioni molto diverse. Essenzialmente si tratta di due interpretazioni: 1) complementarista-non determinista; 2) realista-determinista. La prima è dovuta alla cosiddetta “scuola di Copenaghen” e fu sostenuta da fisici quali Bohr, Heisenberg, Dirac, Born, Rosenfeld. L’idea-base mi sembra sia la seguente e premetto che presenterò all’inizio questa idea in una forma molto diretta, tale da sembrare forse davvero semplicistica, ma che, a mia opinione, coglie i motivi fondamentali dell’interpretazione di Copenaghen: 1) la meccanica quantistica non è per il momento strutturata in una teoria coerente nel senso che non presenta effettivamente un’immagine univoca del mondo, in questo senso dovrà esser migliorata; 2) tuttavia le ipotesi che stanno alla base della meccanica quantistica risolvono la quasi totalità dei problemi di cui la disciplina si occupa; accettiamo per il momento queste ipotesi senza preoccuparci troppo della coerenza globale del modello; 3) qualunque futuro modello che abbia anche solo qualche parentela con la meccanica quantistica sarà sempre intrinsecamente probabilistico. Per esso non ha neppure senso parlare di causa-effetto. L’idea cardine dell’interpretazione di Copenaghen è dovuta a Niels Bohr ed è il concetto di complementarità. Heisenberg, che fu uno dei maggiori sostenitori di questo concetto, si esprime in questi termini: Bohr considerò le due immagini - quella corpuscolare e quella ondulatoria - come due descrizioni complementari della stessa realtà. Ognuna delle due descrizioni può essere solo parzialmente vera e sono necessarie delle limitazioni all’uso della teoria corpuscolare così come di quella ondulatoria, in quanto né l’una né l’altra possono evitare delle contraddizioni. Se si tien conto di questi limiti che possono essere espressi per mezzo di relazioni d’incertezza, le contraddizioni scompaiono59. Ibidem, p. 312. Heisenberg, 1958, 1966, pp. 59-62. 59 Ibidem, p. 55. 57 58 17 E prosegue: Naturalmente le due concezioni si escludono a vicenda stesso tempo un corpuscolo (…) e un’onda (…). Ma l’una Servendoci di entrambe le raffigurazioni, passando dall’una otteniamo infine la giusta impressione dello strano genere esperimenti atomici60. poiché una cosa non può essere nello può essere il complemento dell’altra. all’altra per ritornare poi alla prima, di realtà che si nasconde dietro gli In Questioni di principio della fisica moderna, scritto risalente al 1935 e ripubblicato nel 1959 nel volume Mutamenti nella basi della scienza, Heisenberg era stato ancor più chiaro. Leggiamo infatti: Sembra dunque che la scienza possa percorere solo una via: utilizzare dapprima senza riserve, per la descrizione di quanto osserva, i concetti così come essi si offrono, e procedere poi di volta in volta alla revisione solo sotto la costrizione dell’esperienza. Chiedere che la chiarificazione dei concetti venga intrapresa fin dal principio, equivarrebbe a chiedere che ’lintero sviluppo della scienza venga predeterminato mediante un’analisi logica. (…) dobbiamo quindi acconciarci a vedere anche nelle discipline fisiche esattamente elaborate dal lato matematico nulla più che tentativi eseguiti a tastoni per orientarci nella moltitudine dei fenomeni61. Ciò che Heisenberg afferma è chiaro: accettiamo provvisoriamente la concezione complementarista di Bohr poiché la meccanica quantistica è scevra da contraddizioni matematiche e le sue previsioni trovano riscontro negli esperimenti. I suoi concetti sono quindi utili e devono essere usati anche se non vi è un modello univoco. Ora, si è visto che uno dei concetti fondamentali in meccanica quantistica è quello di probabilità. Ma con che tipo di probabilità si ha a che fare esattamente? Per rispondere a questa domanda, occorre sottolineare che la funzione d’onda obbedisce a un’equazione di moto (l’equazione di Schrödinger) proprio come avveniva nella fisica classica. Quindi l’ampiezza di probabilità per una posizione x della particella è perfettamente determinata nel corso del tempo. Tuttavia l’ampiezza di probabilità è un’astrazione che in quanto tale non ci dice quale sia la probabilità di trovare la particella nello spazio-tempo. Come si è visto occorre fare delle osservazioni che però spezzano la continuità della funzione, modificando il sistema, si tratti dell’esperimento delle due fendititure o del microscopio a raggi γ 62. Ecco allora la seguente interessante interpretazione della funzione d’onda o di probabilità: Essa contiene delle affermazioni sulle possibilità o meglio sulle tendenze (“potentia” nella filosofia aristotelica), e queste affermazioni sono completamente oggettive, non dipendono da nessun osservatore; e contiene affermazioni sulla nostra conoscenza del sistema, che sono naturalmente soggettive in quanto possono essere diverse per osservatori diversi63. Al di là del richiamo ad Aristotele che pare un po’ ingenuo e forzato, quel che scrive Heisenberg è del massimo interesse: la funzione fornisce informazioni sulla tendenza del sistema, non direttamente sulle probabilità di trovare una singola particella in un punto x o di determinare dei limiti per la sua quantità di moto, ma su ciò che io ho chiamato un po’ impropriamente probabilità di probabilità. Una tendenza generale appunto. Se con l’osservazione possiamo poi dalla “tendenza” alla probabilità vera e propria, spezziamo la continuità della nostra funzione. Il che implica tra l’altro che tra due osservazioni è impossibile stabilire il cammino di una particella. E questo ha profonde ricadute sul concetto stesso di realtà poiché Ibidem, p. 63. Heisenberg, 1959, 1960, p. 60. 62 Heisenberg, 1958, 1966, p. 63. 63 Ibidem, p. 67. 60 61 18 L’osservazione stessa cambia la funzione di probabilità in modo discontinuo; essa sceglie fra tutti gli eventi possibili quello che realmente ha avuto luogo. (…). Perciò il passaggio dal “possibile” al “reale” ha luogo durante l’atto d’osservazione64. Ma questo “reale” non è certo il reale della fisica classica, bensì un reale in cui il ruolo essenziale è svolto dal principio di indeterminazione in base al quale, dato uno stato presente, caratterizzato per esempio dal fatto che la quantità di moto65 di una particella è compresa tra due limiti, è possibile determinare i limiti in cui tale quantità di moto sarà compresa nel futuro, ma non quale essa sarà esattamente. In un contesto del genere non ha neppure senso parlare di causa e di effetto per il semplice fatto che non si può neppure in linea di principio isolare l’una o l’altro. Si ha a che fare con probabilità di eventi, non con certezza di eventi. Questo risulta molto bene dal fatto che il principio di indeterminazione è espresso da una disequazione e non da una equazione, per cui anche il concetto di nesso funzionale di Mach deve essere esteso nel caso della meccanica quantistica dalle equazioni e sistemi di equazioni alle disequazioni e sistemi di disequazioni. Con la meccanica quantistica, almeno nella interpretazione di Copenaghen, il determinismo classico viene eliminato dalla fisica anche se questo non implica affatto la non conoscibilità o l’imprevedibilità degli eventi. Quindi anche quando si parla di indeterminismo della fisica quantistica, il riferimento è relativo, cioè indeterminismo rispetto ai canoni della fisica classica, ma in realtà ’lapparato matematico della meccanica quantistica permette previsioni molto precise, nei limiti di quel che interessa determinare. È noto che non tutti i fisici accettarono l’ interpretazione di Copenaghen. Tra essi Einstein tentò di mostrare che la meccanica quantistica era contraddittoria, ma la risposta di Bohr alle sue obiezioni lo convinse che così non era. Egli tuttavia non accettò mai il carattere indeterministico della disciplina e la giudicò come uno stadio momentaneo verso un superiore punto di vista deterministico. Tra gli altri sono stati presentati due famosi paradossi, il paradosso di Einstein-Podol’skij-Rosen e il “gatto di Schrödinger”66. Non è qui possibile neppure accennare ad essi; è opportuno tuttavia ricordare che entrambi sono basati sull’influenza che l’osservatore ha sui fenomeni quantistici. I due paradossi non sono facilmente superabili, ma nell’interpretazione di Copenaghen si evita che generino antinomie postulando che: 1) l’ osservatore è inseparabile dallo strumento con cui interagisce; 2) lo strumento e l’osservatore devono sempre esser descritti in termini di fisica classica, mentre il fenomeno studiato deve esserlo in termini quantistici. Tra coloro che non dettero un’interpretazione indeterminista della meccanica quantistica, analizzeremo due pensatori i cui contributi alla fisica furono della massima importanza: Max Planck ed Erwin Schrödinger. La posizione di Max Planck, su cui per lo più ci concentreremo, è particolare: aspetti probabilistici erano apparsi nella quantomeccanica ben prima delle scoperte che abbiamo descritto (1925-1927). E Planck, a cominciare dal periodo attorno al 1910 fino alla morte, sopraggiunta nel 1947, si interessò sempre anche del problema determinismo-indeterminismo, fino a giungere ad un riformulazione del principio di causalità. In un saggio del 1923 Planck si esprime chiaramente: la causalità non è una necessità logica inerente ai fenomeni, ma è una condizione trascendentale senza cui non può esistere scienza. Scrive Planck in proposito: Non si può infatti costringere nessuno con motivi puramente logici ad ammettere un rapporto causale. (…). Il nesso causale, ripeto, è di natura non logica, ma trascandentale67. Ibidem, pp. 68-69. È bene ricordare che il principio di indeterminazione non riguarda solo posizione e quantità di moto di una particella, ma coinvolge altre grandezze fondamentali quali l’energia e il tempo asserendo che il prodotto dell’ideterminazione dell’energia per l’intervallo di tempo in cui osserviamo il sistema per computare tale energia è maggiore della costante di Planck. In simboli ∆E ⋅ ∆ t ≥ h . 66 Per il paradosso di Einstein-Podol’skij-Rosen e il gatto di Schrödinger si può consultare Toraldo di Francia, 1976, pp. 394404 e Penrose, 1989, 1998, pp. 360-368 e 374-378 rispettivamente. 67 Planck, Causalità e libero arbitrio, 1920, in Planck, 1993, p. 142. 64 65 19 D’altronde Il pensiero scientifico aspira alla causalità, è anzi la stessa cosa che il pensiero causale, e la meta finale di ogni scienza deve essere di condurre fino alle sue ultime conseguenze il punto di vista causale68. Planck aderisce quindi senz’altro alla posizione di Kant, ovviamente però ne compie una rivisitazione tenendo conto dei più recenti risultati della matematica e della fisica; per cui il nesso di causa-effetto rimane una forma fondamentale del nostro intelletto, tuttavia occorre dare un contenuto a questa forma che sia, in un certo senso, più esteso di quello che gli dette Kant. Solo in questo modo è possibile far rientrare anche le leggi statistiche all’interno del concetto di causalità e dare loro un aspetto deterministico, sia pur in un senso più debole rispetto a quello tradizionale. In uno scritto del 1932 Planck è del tutto esplicito. Leggiamo infatti: Oggi non è più lecito limitarsi ad annoverare la legge di causalità fra le categorie, come ha fatto Kant, quale espressione della validità di leggi inderogabili che governano tutto ciò che avviene, quale forma di intuizione senza cui non siamo in grado di raccogliere esperienze. Infatti il principio di Kant, che certe categorie costituiscono a priori il fondamento di ogni nostra esperienza, anche se destinato a rimanere intangibile per tutti i tempi, non dice nulla circa il significato speciale delle singole categorie (…)69. Quindi occorre ridefinire il “significato speciale delle singole categorie”. In realtà Planck aveva cercato una tale ridefinizione a partire almeno dal 1914 nel contributo Leggi dinamiche e leggi statistiche ove aveva anzitutto sottolineato che il concetto di probabilità usato in fisica fornisce comunque informazioni precise su un sistema, sia pure appunto a livello statistico, ma soprattutto, e qui è la vera radice deterministica del pensiero di Planck, le leggi statistiche hanno senso solo se posano su regolarità di tipo assolutamente deterministico, anche se, al momento, noi non conosciamo tali regolarità. Scrive Planck: (…) si capisce che in fisica il calcolo esatto delle probabilità sia possibile solamente se per le azioni più elementari, e cioè nel finissimo microcosmo, si riconoscono come valide leggi esclusivamente dinamiche [cioè deterministiche in senso classico]. Benché queste si sottraggano singolarmente all’osservazione per mezzo dei nostri sensi, tuttavia la presupposizione della loro assoluta invariabilità è la base indispensabile di ogni nostra costruzione statistica70. È come se Planck ammettesse due forme trascendentali distinte: una forma che ci fa vedere gli aspetti statistici del mondo ed una che ci mostra quelli deterministici in senso classico. Entrambe le forme sono necessarie a un certo livello di conosenza. Però, in ultima istanza, è la seconda forma che fonda la prima. Nello scritto del 1932 Planck approfondisce e specifica questa posizione e definisce un evento come causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza71. Ora, continua Planck, in fisica ci sono eventi che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, si possono prevedere solo in modo statistico. Sono allora possibili due atteggiamenti: o si rinuncia al vincolo causale oppure si esige a priori la rigidità di tale vincolo e lo si riformula parzialmente. Planck rifiuta il primo atteggiamento e, sposando la tesi della rigidità del nesso causa-effetto, giunge a pensare che debba essere riformulato e precisato il concetto di “evento” e tematizza la separazione tra nostra immagine del mondo e mondo per come effettivamente è. Ovviamente la linea di attacco del ragionamento di Planck non può che partire dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Per “salvare” il principio di causaeffetto, il fisico tedesco asserisce che l’interpretazione indeterministica del principio di Heisenberg non è accettabile poiché concerne la nostra immagine del mondo, per cui, partendo dal presupposto che nel Ibidem, p. 148. Planck, La causalità della natura, 1932, in Planck, 1993, p. 265. 70 Planck, 1914, in Planck, 1993, p. 90. 71 Planck, 1932, in Planck, 1993, p. 268. 68 69 20 concetto di evento siano comprese posizione e quantità di moto, concludiamo che, esistendo una relazione di indeterminazione tra queste due grandezze, non è più valido il principio di causa-effetto. Ma, afferma Planck, è un nostro pregiudizio che nell’evento abbiano valore contemporaneamente la velocità (o la quantità di moto) e la posizione, cioè che il concetto di traiettoria sia applicabile al mondo della microfisica. Non occorre abbandonare il nesso di causa-effetto, ma la nozione di traiettoria applicata alle particelle, che per Planck concerne la nostra immagine del mondo e non il mondo. Leggiamo Planck: Per uscire dalla difficoltà è infatti assai più plausibile ammettere che la questione del valore contemporaneo delle coordinate e della velocità del punto materiale, come quella della traiettoria di un fotone di determinato colore, non abbia alcun senso fisico. È una via di uscita che in casi consimili ha già reso eccellenti servigi. L’impossibilità di risolvere una questione senza senso non può naturalmente esser posta a carico della legge causale come tale, ma soltanto delle premesse che hanno condotto ad impostare la questione: nel nostro caso a carico delle premesse su cui è costruita l’immagine fisica del mondo 72. Pertanto, prosegue Planck, in uno scritto del 1938, il principio di indeterminazione ha solo un valore “negativo”, ci dice che cosa è impossibile, che cosa non può far parte di un evento. Da questa conoscenza importante, ma “negativa”, occorre strutturare una conoscenza positiva, che tenga conto del principio di Heisenberg solo come limitazione al concetto di evento e che sia del tutto deterministica. Ovviamente Planck riconosce che al momento tale conoscenza non esiste. Leggiamo di nuovo Planck poiché la sue parole sono davvero chiare: L’elettrone non si trova dunque in nessun posto o, se si preferisce, si trova con la stessa probabilità in tutti i posti. Pertanto la domanda sul percorso di un elettrone è d’ora in avanti illusoria, e sarebbe privo di senso pretendere su ciò una risposta determinata. Così, mentre il principio di indeterminazione rinuncia all’ipotesi della meccanica classica e cerca di costringerci ad accettare l’indeterminismo, di fatto pone le premesse alla possibilità di una teoria deterministica e apre la porta, chiusa dall’indeterminismo di principio, verso nuove specie di conoscenza. Ma il principio di indeterminazione da solo non è sufficiente per costruire una teoria completa del determinismo. Poiché esso è espresso tramite una disuguaglianza, esso costituisce in un certo senso solo la cornice per l’accoglimento di un altro principio più determinato73. Ora esisteva nella fisica quantistica qualche legge o funzione il cui andamento è del tutto deterministico e di cui si potesse pensare poter rappresentare il fondamento per una microfisica appunto deterministica? Sì, una tale funzione esisteva ed è la funzione d’onda ψ di Schrödinger, la quale dà l’ampiezza di probabilità che un evento accada, ma che come funzione è determinata per tutti i luoghi e per tutti i tempi74. Allora la realtà deterministica sottostante all’apparenza fenomenica indeterministica sarebbe data proprio dai campi di onde di cui parla la funzione d’onda. Le particelle con i loro aspetti indeterministici sarebbero solo epifenomeni di questa realtà deterministica più profonda di cui però, è bene sottolinearlo, conosciamo ben poco. In uno scritto davvero notevole risalente al 1952 e tratto da una sua conferenza, Erwin Schrödinger concludeva: (…) se non altro è lecito immaginare quei corpuscoli come enti più o meno transitori nell’ambito del campo d’onde, ma tali che la loro forma e molteplicità strutturale, nel senso più ampio della parola, siano determinate dalle leggi ondulatorie in modo tanto preciso, chiaro e persistente, che molte cose avvengono come se avessimo a che fare con enti corporei duraturi. La massa e carica delle Ibidem, p. 279. Planck, 1938, Determinismo o indeterminismo, in Planck, 1993, p. 347. 74 Planck, 1932, in Planck, 1993, p. 280. 72 73 21 particelle, che possono così essere indicate esattamente, devono essere compresi tra gli elementi di forma determinati dalle leggi ondulatorie75. E in risposta ad obiezioni di Max Born proposte nella discussione susseguente alla conferenza, Schrödinger replicava: C’è un altro concetto, quello di complementarità, che Niels Bohr e i suoi discepoli diffondono e di cui tutti fanno uso. Devo confessare che non lo comprendo. Per me si tratta d’un’evasione. Non d’un’evasione volontaria. Infatti si finisce per ammettere il fatto che abbiamo due teorie, due immagini della materia che non si accordano, di modo che qualche volta dobbiamo far uso dell’una, qualche volta dell’altra76. Con questo mi sembra che lo posizioni siano sufficientemente chiarite. Per altro, in forma un po’ modificata e raffinata dai succesivi sviluppi della meccanica quantistica, la posizione di Schrödinger, viene oggi, nella sostanza, riproposta da Penrose il quale scrive: Sto adottando l’opinione che la realtà fisica della posizione della particella sia, in effetti il suo stato quantico ψ 77. La realtà della particella sarebbe, quindi, rappresentata dalla funzione d’onda. L’interpretazione indeterministica della meccanica quantistica ha le seguenti difficoltà: 1) non fornisce un’immagine univoca del mondo, ma permane la dualità onde-particelle, questo è vero che si accetti o meno in modo esplicito il principio di complementarità. Si ha, quindi, a ben vedere, in forma diversa una riproposizione non risolta del dualismo; 2) è difficile accettare non solo che l’osservazione modifichi un evento, ma che, in certe circostanze, sembri determinarlo. L’interpretazione detereministico-realista ha molte difficoltà: 1) anche qui permane il problema del dualismo non risolto e, questa volta quasi nella forma tradizionale di fenomeno-noumeno. Specialmente Planck, quando distingue tra immagine del mondo e realtà, sembra riferirsi a questa come a qualcosa del tutto indipendente dall’uomo, un noumeno, appunto. In verità qualcosa che pare inattingibile; 2) la meccanica quantistica non ha avuto alcuna evoluzione in senso deterministico. Questo naturalmente non significa che non possa averla, ma certo l’asserire che esiste una teoria deterministica di cui non conosciamo praticamente nulla e che sarà la base di una attuale teoria nella sostanza indeterministica, appare un escamotage un po’ troppo facile. Paolo Bussotti Dottore di ricerca in storia della scienza Ricercatore fondazione Humboldt 2003-2005 [email protected] BIBLIOGRAFIA Abbagnano, N., 1961, Dizionario di filosofia, Torino, UTET. Aristotele, Fisica, in Opere, terzo volume, pp. 1-238, Bari, Laterza, 1973. Cohen-Tannoudji, G.-Spiro, M., 1986, La materia-spazio-tempo, Milano, Jaca Book, 1988. Galilei, G., 1610, Sidereus Nuncius, traduzione e commento di Paolo Bussotti. Editori: Comune di Livorno, Pacini, Pisa, 2001. Gamow, G., 1966, Trent’anni che sconvolsero la fisica , Bologna, Zanichelli, 1966. 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