la crisi del concetto di causa nelle scienze esatte tra xix e xxsecolo

LA CRISI DEL CONCETTO DI CAUSA NELLE SCIENZE ESATTE
TRA XIX E XX SECOLO
Sommario: 1. Introduzione – 2. Le concezioni del principio di causa-effetto in età moderna – 3. Mach e
la sua concezione del principio di causa-effetto – 4. La meccanica quantistica e il principio di causaeffetto.
1. INTRODUZIONE
Il periodo che va dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi trent’anni del Novecento fu tra i
più fecondi per la fisica ed è paragonabile solo al XVII secolo. La nostra immagine del mondo venne
modificata in maniera radicale grazie soprattutto alla termodinamica, alla teoria della relatività e alla
meccanica quantistica. La termodinamica fu ideata per prima1: tramite il concetto di entropia
l’irreversibilità fu introdotta in maniera quantificabile in fisica, mentre per le equazioni di Lagrange, che
forniscono la forma analitica “standard” della meccanica classica, la direzione del tempo è del tutto
indifferente. Con le teorie della relatività ristretta e generale di Einstein (1905 e 1915 rispettivamente)
alcune delle nostre più consolidate ed intuitive credenze, quali il concetto di simultaneità, l’indipendenza
di massa e lunghezza dalla velocità e di tempo e velocità entrarono in crisi, almeno a un certo livello di
fenomeni. Con la meccanica quantistica, nome sotto il quale viene indicato un complesso insieme di
scoperte2, una molteplicità di nuove concezioni entrò nel mondo della fisica: materia ed energia si
presentano solo in pacchetti discreti detti quanti, gli elettroni all’interno del nucleo possono occupare
solo determinate bande energetiche, i fotoni e le stesse particelle subatomiche presentano proprietà
ondulatorie e corpuscolari, non è possibile determinare con esattezza posizione e quantità di moto di
una particella, secondo una certa statistica le particelle possono superare barriere di potenziale,
situazione questa del tutto “proibita” nella fisica classica. In generale la termodinamica e la meccanica
quantistica sono teorie probabilistiche, anche se si rifanno a due concetti di probabilità piuttosto diversi.
La teoria della relatività e la meccanica quantistica sono precedute da circa mezzo secolo nel quale
furono fatte rilevanti scoperte, soprattutto nell’ambito dell’elettricità e del magnetismo e nel quale
furono proposte notevoli teorie, quali l’ elettromagnetismo di Maxwell, o la meccanica dei vincoli di
Hertz che cercava di eliminare il concetto di forza dalla fisica. Quel che mancava era però una
concezione generale che unificasse in modo convincente una serie di teorie parziali. Molti problemi vi
erano in particolare con nozioni quali quella di etere. Problemi come quelli descritti, possono essere
definiti “fondazionali interni alla fisica” nel senso che muovono da questioni specifiche. Quando in una
disciplina vi è una “crisi dei fondamenti”, accade molto spesso che si mettano in discussione concettibase di tale disciplina anche se hanno un nesso in apparenza labile con i motivi che hanno determinato
la crisi. In realtà però il nesso c’è e nel caso specifico della fisica tale nesso dipende: 1) dal senso di
insoddisfazione che ha sempre accompagnato alcuni fisici nel dover ammettere concetti quali l’azione
immediata a distanza tra due forze nonché la nozione di tempo e spazio assoluto e la definizione stessa
del concetto di massa data da Newton; 2) la “dicotomia” tra ’lapproccio essenzialmente basato sul
concetto di forza e quello fondato sui principi (lavori virtuali, minima azione, minima costrizione,
conservazione dell’energia, ecc.). Nella seconda metà dell’Ottocento vi fu un fisico, Ernst Mach, che
affrontò con grande maturità questa serie di problemi, definibili in senso lato come epistemologici,
concernenti l’immagine fisica del mondo. La rivisitazione critica del concetto di causa fu uno dei cardini
della concezione di Mach, basata non solo su conoscenze fisiche, ma anche su profonde cognizioni di
L’“atto di nascita” della termodinamica può esser fatto risalire al 1850, anno in cui Clausius formulò il cosiddetto secondo
principio della termodinamica, in base al quale è impossibile che il calore passi spontaneamente da un corpo a temperatura t
a uno più caldo a temperatura t + ? t. Approfondendo gli studi sul secondo principio Clausius giunse a distinguere le
trasformazioni reversibili da quelle irreversibili e ad introdurre il fondamentale concetto di entropia.
2 Qui ci occuperemo solo del principio di causa-effetto per come fu modificato dagli aspetti statistici della meccanica
quantistica scoperti nel primo trentennio del XX secolo e di cui il principio di indeterminazione di Heisenberg costituisce la
sintesi essenziale.
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1
psicologia sperimentale e di storia della filosofia. La critica machiana al concetto di causa trascende
quindi l’ambito della fisica e investe la teoria della conoscenza in toto. D’altronde le idee di Mach furono
all’inizio ignorate o osteggiate dai fisici, ma progressivamente acquistarono importanza crescente, tanto
che molti autorevoli fisici, tra quali Einstein, furono influenzati da Mach. È noto che anche la
meccanica quantistica richiede una revisione del concetto classico di causa-effetto, tuttavia tale revisione
investe aspetti in gran parte diversi da quelli su cui aveva appuntato la propria attenzione Mach, né vi è
su questo punto uniformità di vedute tra gli inventori della meccanica quantistica. Lo scopo principale
del presente contributo è quello di mettere in luce la concezione machiana del principio di causa-effetto
e l’ idea che di questo principio hanno avuto i padri della meccanica quantistica. Vedremo così due
approcci critici, ma molto diversi al problema della causalità. Per introdurre il lettore nell’argomento è
però necessario cominciare la trattazione con una sintesi delle concezioni classiche del concetto di causa
e del principio di causa-effetto, nonché con la più classica delle critiche, quella di David Hume e con la
“sintesi” kantiana.
L’articolo avrà pertanto tre paragrafi principali: nel primo esporremo le visioni tardizionali sul
principio di causa-effetto, analizzando sinteticamente in particolare le concezioni di Aristotele, Hobbes,
Leibniz, Hume e Kant poiché questi autori rappresentano momenti molto significativi per il tema che
stiamo trattando. Seguirà un paragrafo su Mach e il principio di causa-effetto e uno sulla meccanica
quantistica.
2. LE CONCEZIONI DEL PRINCIPIO DI CAUSA-EFFETTO IN ETÀ MODERNA
Il principio di causa-effetto è una correlazione tra due fenomeni per cui il secondo, l’effetto, è
prodotto dal primo, la causa. Di questa proposizione si danno essenzialmente due interpretazioni: una
ontologico-oggettivistica e una gnoseologico-soggettivistica. Secondo la prima sono i fenomeni in
quanto tali ad essere legati dal nesso di causalità; vi sarebbe pertanto una forma di necessità in base alla
quale, avvenuto un fatto, ne avviene un altro da questo causato. L’altra interpretazione afferma invece
che il principio di causa-effetto non sussiste necessariamente nel mondo esterno, ma è un postulato
generale inventato dall’uomo come criterio conoscitivo e ordinatore che consente di mettere in
correlazione insiemi di fatti e di orientarci in un universo altrimenti caotico. Per questa seconda
interpretazione si pone il problema di spiegare come un principio di ragione consenta di dar conto dei
fenomeni. In genere si intende il nesso causa-effetto come una corrispondenza biunivoca, cioè un
effetto è prodotto da una sola causa e viceversa una causa produce un solo effetto. Tuttavia questa
ulteriore condizione non è necessaria e può ben darsi che una causa produca una molteplicità di effetti e
che un effetto sia occasionato da una pluralità di cause.
Dal punto di vista storico, il problema della causazione è già presente in ambito scientifico e
filosofico fin dall’epoca dei presocratici; Platone se ne occupa nell’ambito della teoria delle idee, tuttavia
la prima trattazione sistematica della questione è dovuta ad Aristotele che, soprattutto nel secondo libro
della Fisica, pone il problema delle cause in una forma che influenzerà in modo consistente la successiva
speculazione su questo tema. Aristotele distingue quattro tipi di causa: materiale, formale, efficiente,
finale. Dato, per esempio, un tavolo ligneo di forma rettangolare, la causa materiale è il legno, materia di
cui è composto il tavolo, la causa formale è il rettangolo, la causa efficiente è l’artefice del tavolo e la
causa finale è data appunto dal fine per il quale il tavolo è stato costruito. Nella concezione di Aristotele
la causa finale è particolarmente importante, oltre che sul piano metafisico, anche a livello logico: se
infatti non vi fosse un fine ultimo a cui l’universo tende non si potrebbe evitare il regresso all’infinito
delle cause, mentre Aristotele, postulando l’esistenza del Dio motore immobile, a cui il mondo tende,
evita proprio la questione del regresso infinito. In Aristotele, il concetto di causa ha una valenza sia
ontologica che gnoseologica. È in questo senso emblematico l’inizio della Fisica . Leggiamo infatti:
Poiché in ogni campo di ricerca in cui esistono principi o cause o elementi, il sapere e la scienza
derivano dalla conoscenza di questi ultimi - noi, infatti, pensiamo di conoscere ciascuna cosa solo
2
quando ne abbiamo ben compreso le prime cause e i primi principi e, infine, gli elementi -, è evidente
che anche nella scienza della natura si deve cercare di determinare anzitutto ciò che riguarda i principi3.
Nel lungo periodo che va da Aristotele al XVII secolo, non mancarono speculazioni sul
principio di causa-effetto. Alcune di tali concezioni, come quella di Ockham4, sono molto interessanti;
tuttavia sono essenzialmente la fisica moderna e i connessi studi sul funzionamento delle macchine siamo appunto nel tardo Cinquecento - che determinano anche nuove concezioni relative al principio di
causa-effetto. A partire dal XVII secolo i filosofi e gli scienziati mostreranno sempre un notevole
interesse nel comprendere la natura di questo principio. Nella concezioni di autori vissuti nel XVII e nel
XVIII secolo, si ritrovano una molteplicità di profonde interpretazioni del nostro asserto, le quali,
insieme allo sviluppo delle scienze esatte, influenzarono profondamente la concezione di Kant e dei
fisici vissuti tra il Settecento e l’ Ottocento. Questi ultimi a loro volta spinsero “critici”, quali Mach, e
una rivisitazione globale del principio.
Una formulazione chiara è quella espressa da Hobbes, che, nel De corpore, affronta
essenzialmente il principio di causa-effetto in connessione con le cause che generano movimento. Per
Hobbes la causa consiste in un insieme di proprietà di un agente che modificano alcune proprietà di un
paziente. Tale modificazione è l’effetto. Scrive Hobbes:
Perciò, la causa di tutti gli effetti consiste in determinati accidenti degli agenti e del paziente, per
la presenza di tutti i quali si produce un effetto e per la mancanza di uno dei quali non si produce5.
È significativo che Hobbes usi la parola “accidente”: con ciò vuol sottolineare che non esistono
caratteristiche che sono cause in sé ed altre che sono effetti in sé, ma che è solo nelle mutue correlazioni
che ha senso parlare di causa ed effetto. Ed appunto nelle correlazioni, una causa è sempre sufficiente a
produrre un effetto, se non vi sono impedimenti di altro tipo ed indipendenti dalla causa. Scrive
Hobbes:
Una causa intera è sempre sufficiente a produrre il suo effetto, purché si tratti di un effetto del
tutto possibile6.
Con queste parole il filosofo inglese vuole sottolineare un altro principio che non coincide certo
con quello di causa-effetto, ma che ne una condizione fondamentale di applicabilità e di sensatezza, cioè
il principio di continuità - o, sarebbe meglio dire, di regolarità - della natura. Vale a dire: se in certe
condizioni si è verificato un fenomeno al tempo t0, il medesimo fenomeno si verificherà al tempo t1,
successivo a t0, se in t1 si ripresenteranno le stesse condizioni tipiche di t0. Questo principio assicura che
se la causa x ha prodotto l’effetto y, ciò avverrà in qualunque tempo, a parità di condizioni. Per questo
Hobbes dice che “la causa intera è sempre sufficiente a produrre il suo effetto”. “Il suo”, sempre lo
stesso, e non un altro affetto. Da queste premesse segue una forma di necessitarismo che Hobbes
esprime chiaramente con queste parole:
Di qui segue anche che, nello stesso istante in cui la causa diventa intera, è prodotto anche
l’effetto (…). Alla stessa maniera si può dimostrare che tutti gli effetti futuri, quali che siano, avranno
una causa necessaria, e, così, tutto ciò che sarà prodotto o è stato prodotto ha avuto la sua necessità
nelle cose precedenti7.
Ora resta da stabilire di quale tipo di necessità si tratti. Anche in questo caso la risposta di
Hobbes è molto chiara: si tratta di una necessità di tipo meccanico e materiale: Nell’ottavo capitolo del
De corpore, il filosofo inglese aveva infatti stabilito una proposizione che suona:
Aristotele, Fisica, I, 184 a.
Per una succinta esposizione delle critiche di Ockham al principio di causa-effetto, si può consultare Abbagnano, 1961, pp.
118-119.
5 Hobbes, 1655, 1972, p. 171.
6 Ibidem, p. 171.
7 Ibidem, p. 172.
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3
Ciò che è in uno stato di quiete si intende che resta sempre in questo stato, se non c’è un altro
corpo oltre lo stesso, supposto il quale non può restare ulteriormente nello stato di quiete8.
Hobbes, dato questa proposizione e la definizione di causa-effetto, ne conclude che:
La causa del movimento può essere unicamente in un corpo contiguo e mosso9.
In Hobbes il principio di causa-effetto ha quindi tre caratteristiche: 1) oggettività e assoluta
necessità; 2) è legato a una concezione meccanicistica, nel senso che gli “accidenti” della causa
determinano il modo in cui sono modificati gli “accidenti” dell’effetto; 3) è connesso con una visione
materialistica poiché gli effetti sono prodotti per diretto contato del corpo-causa col corpo-effetto.
Sottolineiamo che, sebbene in Hobbes, il meccanicismo sia connesso col materialismo, tale connessione non
è necessaria poiché si può pensare che la causa eserciti i propri effetti in modo meccanico, ma grazie a
una qualche forza e non grazie a un contatto corporeo diretto. Hobbes traccia una linea di pensiero che
sarà tipica di alcuni fisici nei secoli a venire e da cui è esclusa ogni visione teleologica. Pertanto mi è
sembrato opportuno entrare in qualche dettaglio. Nel XVII secolo molti filosofi si erano occupati del
nesso causa-effetto, tra questi ricordiamo Cartesio e Spinoza, tuttavia il pensiero più complesso ed
articolato su questo tema è senz’altro quello di Leibniz e siccome Mach, nella sua critica al concetto di
causa, pone una sostanziale equivalenza tra questa nozione ed il principio leibniziano di ragion
sufficiente o determinante, risultano opportune alcune considerazioni sulla concezione leibniziana.
Come punto di partenza per l’indagine può essere assunto un breve scritto, Le verità prime, pubblicato
per la prima volta dal Couturat10 nel 1902. Qui Leibniz sostiene che tutte le verità possono esser
comprese sotto il nome di identità. Scrive il filosofo tedesco:
Verità prime sono quelle che enunciano la medesima cosa circa se stessa o negano l’opposto del
suo opposto. Ad esempio “A è A”, oppure “A non è non A”. Se è vero che A è B, è falso che A non è
B, o che “A è non B”. Analogamente, “ogni cosa è quale è”. “Ogni cosa è simile od uguale a se stessa”.
“Niente è maggiore (o minore) di se stesso”. Tutte queste affermazioni e le altre di tal genere, quali che
siano i gradi di priorità, possono tuttavia essere comprese sotto lo stesso nome di identità. Tutte le
rimanenti verità si riducono poi alle prime mediante definizioni, ossia attraverso la risoluzione dei
concetti, nella quale consiste la prova a priori, indipendente dall’esperienza11.
Pertanto, almeno da quanto asserito in Le verità prime, segue che anche le verità contingenti sono,
dopo un’attenta analisi dei concetti in esse implicati, riconducibili alle verità implicanti l’ identità. Ma
allora, se ciò è vero, ne consegue che non può sussistere un effeto senza cause perché altrimenti, la
catena che riconduce una verità x al principio di identità, sarebbe spezzata. Si avrebbe cioè che x non è
analizzabile in forma identitaria. Leibniz è del tutto esplicito in proposito. Leggiamo infatti:
(…) nasce subito da qui l’assioma ben noto che nulla è senza ragione, ossia che nessun effetto è
senza causa. Altrimenti, si darebbe una verità che non potrebbe essere provata a priori, ossia che non si
risolverebbe in proposizioni identiche, il che è contro la natura della verità, la quale, esplicitamente o
implicitamente è (sempre) identica12.
In Le verità prime viene anche introdotto il concetto di sostanza individuale o nozione completa.
Poiché tutte le verità sono riconducibili all’identità, questo implica che nella nozione, nel concetto di
ogni individuo sono già compresi tutti i suoi predicati ed i fatti che gli accadranno. All’individuo e in
Ibidem, p. 165.
Ibidem, p. 173.
10 Couturat trovò questo manoscritto di Leibniz nella biblioteca di Hannover. Il manoscritto non aveva titolo. Fu il Couturat
a darglielo e a pubblicarlo nel 1902 sulla Revue de Métaphysique et de Morale.
11 Leibniz, 1686, 1992, p. 182.
12 Ibidem, p. 183.
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generale a tutte le verità di fatto è pertanto inerente una forma di necessità, per quanto diversa da quella
tipica delle verità di ragione. Questa concezione sarà trattata più diffusamente da Leibniz nel Discorso di
metafisica del 1686, opera che si ritiene scritta nello stesso periodo di Le verità prime. Prima però di
affrontare alcune tematiche del Discorso, ancora una nota concernente il denso opuscolo Le verità prime.
Leibniz afferma che ogni sostanza individuale esercita azione e passione fisica su tutte le altre, ma che,
in senso metafisico, non vi è azione o influsso di una sostanza sull’altra. Viene così introdotta la
concezione monadologica. E a questo punto leggiamo una breve proposizione concernente il principio
di causa-effetto che suscita qualche meraviglia:
E quelle che chiamiamo cause sono soltanto, nel rigore metafisico, requisiti concomitanti13.
A mo’ di spiegazione scrive Leibniz:
Ne abbiamo illustrazione dalle stesse esperienze della natura, poiché i corpi si allontanano infatti
dagli altri corpi in forza della propria elasticità, non per forza estranea, benché (sia stato richiesto un
altro corpo) affinché possa agire l’elasticità (che nasce da qualcosa di intrinseco al corpo stesso)14.
La posizione di Leibniz può essere così riassunta; esistono due livelli di realtà e di verità: il piano
fisico e il piano metafisico. Il principio-base è che sia le verità fisiche che quelle metafisiche devono
essere ricondotte a verità analitiche e, in ultima istanza, all’identità. Nel mondo fisico questa
riconduzione avviene tramite il principio di causa-effetto che, pertanto è fondamentale nelle scienze
fisiche. Sul piano metafisico però ogni individuo ha già in sé tutti i suoi predicati (e nel termine predicati
vanno inclusi anhe i fatti che capitano agli individui) passati, presenti e futuri, e questi non sono
vincolati a un rapporto di causa-effetto con altre sostanze individuali, ma sono inerenze in sé di ogni
sostanza. Quindi, sul terreno metafisico, non si può parlare di principio di causa-effetto.
Nel Discorso di metafisica Leibniz specifica quanto visto in Le verità prime. Distingue tra verità
contingenti e necessarie. Queste ultime sono tali che il loro opposto implica contradizione, mentre
quanto alle prime, l’opposto non implica alcuna contraddizione, è cioè logicamente possibile.
Nondimeno, come già visto, le verità contingenti non sono meno certe di quelle necessarie poiché sono
iscritte nella nozione completa di un individuo. Di nuovo Leibniz è chiaro:
Ora noi sosteniamo che ciò che deve accadere ad ogni persona è virtualmente già compreso
nella sua natura o nella sua nozione, come le proprietà della definizione nel cerchio. Certo così la
difficoltà sussiste ancora: per risolverla in modo rigoroso, dirò che ogni connessione o derivazione è di
due tipi, la prima è assolutamente necessaria e di essa il contrario implica contraddizione, e questa
deduzione si verifica nelle verità eterne, quali sono quelle della geometria; l’altra invece non è necessaria
che ex hypothesi e, per così dire, per accidente, ma in se stessa è contingente, perché il suo contrario
non implica contraddizione15.
Si è quindi visto che il principio di causa-effetto attiene al mondo fisico in quanto analizzato
fisicamente. C’è però da chiedersi: a quale tipo di causalità pensava Leinbiz? Hobbes riteneva che gli
unici influssi che un oggetto potesse esercitare su un altro dipendessero dal contatto corporeo. Leibniz
esplicita in diverse parti del Discorso di metafisica che il mondo fisico è retto da precise leggi che sono
state create da Dio e sottolinea che queste leggi agiscono certo meccanicamente, ma non solo per
contatto diretto dei corpi: vi è una forza16 che è responsabile del movimento e che non può essere
ridotta alla mera estensione. Di nuovo Leibniz è chiaro:
Ibidem, p. 186.
Ibidem, p. 186.
15 Leibniz, 1686, 1967, p. 76.
16 Quel che Leibniz chiamava forza oggi viene detta energia cinetico, o meglio equivale al doppio dell’energia cinetica. È
noto che Leibniz polemizzò con i cartesiani poiché questi ritenevano la quantità di moto mv la grandezza dinamica
fondamentale, mentre Leibniz riteneva tale la “forza”, mv2. Si veda su questo argomento il capitolo XVII del Discorso di
metafisica.
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14
5
Ora questa forza è qualcosa di differente dalla grandezza, dalla figura e dal movimento; e da ciò
si può giudicare che tutto ciò che si conosce dei corpi non consiste nella estensione e nelle sue
modificazioni, come sostengono i moderni. Così siamo obbligati a ristabilire quegli esseri o forme che
essi hanno bandite. Ed appare sempre più manifesto che, benché tutti i fenomeni particolari della
natura si possano spiegare, da coloro che sappiano intenderli matematicamente e meccanicamente, i
principi generali della natura corporea e della stessa meccanica sono piuttosto metafisici che geometrici
ed appartengono alle forme o nature indivisibili come cause dei fenomeni, più che alla massa corporea
ed estesa17.
Al di là dell’accentuata vena metafisica di Leibniz, occorre sottolineare che qui viene introdotta
una concezione del principio di causa che troverà, esplicitamente o meno, non pochi sostenitori tra i
fisici: le cause per cui avvengono i fenomeni non sarebbero più da ricercare nel comportamento fattuale
dei corpi e nelle loro interrelazioni, ma in leggi fisiche che rappresentano la struttura ontologica
dell’universo. Per cui i corpi si comportano in un certo modo perché obbediscono a queste leggi. Certo già
Galilei aveva asserito che le leggi del mondo sono scritte in caratteri matematici, ma nel suo caso non è
affatto sicuro che egli pensasse alle leggi della fisica come a qualcosa di dato una volta per tutte e come
a una effettiva struttura matematico-platonica dell’universo18. In Leibniz ciò è invece certo: le cause
ultime del comportamento fisico degli oggetti sono da ricercare nelle leggi della fisica.
Al quadro qui presentato occorre aggiungere alcune specificazioni: è noto che negli scritti
teoretici più importanti e segnatamente nei Nuovi saggi sull’intelletto umano (1703), Saggi di Teodicea (1710) e
Monadologia (1714), Leibniz attribuì importanza fondamentale al principio di contraddizione per le verità
di ragione. Nei Nuovi saggi sottolineò (coerentemente con quanto espresso in Le verità prime) che le verità
di ragione sono identiche e sono di due tipi: 1) identiche positive; 2) identiche negative. Alla base delle
identiche positive vi è il principio di identità a quelle identiche negative il principio di contraddizione19.
Nei Saggi di Teodicea e nella Monadologia20 parla senz’altro del principio di contraddizione come base delle
verità necessarie. Quanto alle verità contingenti leggiamo nella Teodicea che il loro fondamento è dato
dal:
[…] principio della ragion determinante: che nulla accade senza che vi sia una causa o almeno
una ragione determinante che possa, cioè, servire a rendere ragione a priori perché una cosa è esistente
piuttosto che non esistente e perché è così piuttosto che in un altro modo21.
Nella Monadologia, si legge che:
[Il principio] della ragion sufficiente [è quello] in forza del quale noi giudichiamo che nessun
fatto può ritenersi vero o esistente, né alcuna proposizione esser veritiera, se non v’è una ragione
sufficiente per la quale sia così e non altrimenti22.
Questo non è affatto in contraddizione con quanto asserito in Le verità prime e cioè che tutte le
verità sonoi identiche, ma anzi ne rappresenta il completamento: il principio di contraddizione
garantisce l’identità di tutte le verità nell’ambito della verità necessarie, quello di ragion sufficiente, altra
forme di esprimere in termini generali il principio di causa-effetto, garantisce tale identità nell’ambito
delle verità di fatto o contingenti. Chiaramente il principio di ragion sufficiente è stato introdotto
Leibniz, 1686, 1967, p. 85-86.
Ho affrontato il problema del presunto platonismo di Galilei nel commento che ho posposto alla traduzione del Sidereus
Nuncius. Si veda Galilei, 1610, 2001, pp. 51-88, in particolare pp. 69-79, paragrafo intitolato “Galilei: il suo supposto
platinismo e il metodo sperimentale”.
19 A questo proposito si consulti il secondo capitolo del quarto libro dei Nuovi saggi sull’intelletto umano. In Leibniz, 1703, 1968,
pp. 495-510.
20 Leibniz, 1710, 1967, parte prima, paragrafo 44, p. 484 e Leibniz, 1714, 1989, paragrafo 31, p. 150.
21 Leibniz, 1710, 1967, parte prima, paragrafo 44, p. 484.
22 Leibniz, 1714, 1989, paragrafo 32, p.151.
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perché un fondamento puramente logico, come il principio di identità o di contraddizione, non può
garantire l’esistenza perché un fatto può esser logicamente possibile, cioè non contraddittorio, ma
cionondimeno non accadere.
In conclusione: il principio di causa-effetto si esprime in Leibniz nei termine di ragion
determinante o sufficiente. Si estrinseca nel mondo tramite le leggi fisiche create da Dio, le quali sono la
ragione del perché i fatti avvengono in un certo modo. Sul piano puramente metafisico non vi è nesso
di causa-effetto neppure per le verità contingenti in quanto la nozione completa ha già in sé tutti i suoi
predicati.
La critica più chiara a chi ritiene la causalità un nesso inerente ai fenomeni in sé e per sé è
dovuta a David Hume. Anzitutto, Hume non nega che vi siano discipline in cui ragionamenti di tipo
esistenziale possano essere condotti con mezzi puramente razionali: tali discipline sono l’ aritmetica e
l’algebra23. Il problema nasce quando si parla di esistenza in senso diverso, e precisamente di esistenza
nel tempo e/o nello spazio. In questo caso non vi è un criterio di ragione che possa esser dimostrato
deduttivamente e che implichi la sussistenza necessaria di certe forme di regolarità. Così, ad opinione di
Hume, già la geometria che ha a che fare con l’estensione “(…) non può affatto essere ritenuta una
scienza perfetta e infallibile”24. Ora il principio di causa-effetto serve anzitutto a garantire l’identità e la
permanenza di esistenza degli oggetti. Infatti, non vi è alcuna ragione logica per cui un oggetto che al
tempo t e nella posizione x produce in noi certe sensazioni sia lo stesso che al tempo T e nella posizione
X produce le stesse sensazioni, se tra i tempi t e T non abbiamo avuto alcuna relazione sensoriale con
l’oggetto. Hume argomenta che:
A questa conclusione che va al di là delle impressioni dei sensi, possiamo giungere soltanto
perché ci fondiamo sulla connessione di causa-effetto: altrimenti non potremmo avere la certezza che
l’oggetto è sempre lo stesso e non uno nuovo25.
E ancora:
(…) la causalità è la sola che possa spingerci al di là dei sensi ed informarci dell’esistenza di
oggetti che non vediamo né sentiamo26.
Ma quale è l’origine del principio di causa-effetto? Hume non ha dubbi: tale origine risiede
nell’esperienza e nella nostra capacità di generalizzare e di astrarre da esperienze simili. Non vi è alcuna
necessità per cui l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro: si è constatato che a certi fenomeni
ne seguono altri e questa abitudine ci porta alla illegittima supposizione che esista un nesso necessitante
tra questi fenomeni per cui, avvenuto ’luno - la causa - invariabilmente debba conseguire ’laltro l’effetto -. Per Hume il nesso di causa-effetto è solo una nostra necessità psico-gnoseologica che ci
consente di porre un ordine apparente in un universo altrimenti caotico. Come tale il principio va
considerato ed usato. Anche in questo caso le parole di Hume sono quanto mai chiare. Leggiamo
infatti:
L’idea di causa ed effetto è derivata dall’esperienza, la quale c’informa che certi particolari
oggetti, in tutti i casi passati sono andati costantemente uniti insieme27.
Hume, 1739-1740, 1987, p. 84.
Ibidem, p. 84.
25 Ibidem, p. 87.
26 Ibidem, p. 87.
27 Ibidem, p. 103.
23
24
7
E in seguito:
La ragione non potrà mai convincerci che l’esistenza di un oggetto implichi quella di un altro:
per cui, quando passiamo dall’impressione di un oggetto all’idea o credenza d’un altro, non siamo spinti
a ciò dalla ragione, ma dall’abitudine, ossia da un principio di associazione28.
Pertanto una prova basata sul principio di causa-effetto, per quanto possa essere scevra da
dubbi e incertezze, dato l’altissimo numero di casi in cui un certo fenomeno ha seguito un altro senza
eccezione (come accade per il sorgere quotidiano del Sole o per la mortalità degli esseri umani29), non è
mai accompagnata dal senso di necessità tipico delle dimostrazioni matematiche né indica propriamente
connessioni esistenti nel mondo esterno indipendentemente dalle nostre esperienze.
La critica di Hume al principio di causa-effetto indusse, come noto, Kant a reimpostare la
questione in modo da dare un valore assoluto al principio, ma da liberarlo da quelle critiche a cui è
soggetto nella sua forma realista (sia essa materialista alla Hobbes o “razionalista” alla Leibniz). Il
mondo fenomenico, sostiene Kant, è il solo che l’uomo può conoscere tramite l’intelletto e, quindi,
l’unico di cui possa avere conoscenza scientifica. In questo contesto “assoluto” diviene allora sinonimo
di trascendentale, di oggetto di esperienza possibile a priori. E il prolema kantiano di come siano in
generale possibili giudizi sintetici a priori, equivale a quello della comprensione della struttura
conoscitiva del soggetto trascendentale. Il principio di causa-effetto ha un ruolo fondamentale in questa
struttura. Esso costituisce infatti una delle dodici categorie o concetti puri dell’intelletto, precisamente fa
parte delle categorie della relazione. Nell’“Estetica trascendentale”, tra l’altro Kant ho sottolineato che
gli oggetti di esperienza possibile a priori sono solo quelli che possono avere una collocazione nello
spazio e/o nel tempo. Questi ultimi, in quanto intuizioni pure accolgono le rappresentazioni degli
oggetti, l’immaginazione consente la sintesi delle rappresentazioni, ma la precisa concettualizzazione
della sintesi delle rappresentazioni è possibile solo tramite le categorie, le quali permettono di ordinare i
risultati della sintesi e di concludere così il processo di concettualizzazione30. Il ruolo della categorie è,
quindi, fondamentale e proprio la categoria di causa è quella che, applicata ai dati forniti dalla sensibilità,
consente di determinare le relazioni nel tempo. Essa è cioè la condizione a priori della possibile
unificazione del molteplice nel tempo. Scrive Kant in proposito:
Ma questa unità sintetica [del molteplice nel tempo], come condizione a priori, in cui unifico il
molteplice di una intuizione in generale (…) è la categoria di causa, per la quale io, quando l’applico alla
mia sensibilità, determino rispetto alla sua relazione, tutto ciò che accade nel tempo. L’apprensione
dunque di un tale avvenimento, e insieme l’avvenimento stesso secondo la percezione possibile,
sottostà al concetto di relazione di effetto e causa; così in tutti gli altri casi31.
E nel paragrafo 36 dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura Kant sostiene che il principio di causa
(cioè la legge del nesso dei fenomeni) non deriva certo dall’esperienza, ma anzi noi possiamo avere
l’idea stessa della natura grazie a principi come quello di causa-effetto che sono a fondamento
dell’esperienza stessa32 e, continua Kant
(…) la legalità si fonda sulla connessione necessaria dei fenomeni in una esperienza (…) e
quindi sulle leggi generali dell’intelletto, così certo a principio suona strano, ma è, non di meno, certo,
dire riguardo alle ultime, l’intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad
essa33.
Ibidem, p. 110.
Hume fa questi esempi in Ibidem, p. 140.
30 Kant espone queste concezioni nel primo libro, § 10 dell’Analitica trascendentale. Si veda Kant, 1787, 1987, pp. 111-116.
31 “Analitica trascendentale”, primo libro § 26, Kant 1787, 1987, pp. 150-154, citazione p. 153.
32 Kant, 1783, 1992, pp. 145-147.
33 Ibidem, p. 147.
28
29
8
In questo modo pertanto il principio di causa-effetto recupera la sua valenza assoluta, sia pur
nella forma trascendentale e non in quella “realistico ingenua”, ma di fatto, poiché non ha senso parlare
di un mondo indipendente dal soggetto trascendentale, l’operazione di Kant è quella di un recupero
integrale del principio dopo la critica humeana.
I successi della fisica e la sua giustificazione filosofica data da Kant portarono Laplace ad
affermare nel modo più esplicito l’assolutezza del principio di causa-effetto. Scrive Laplace:
Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore
e la causa di quello che seguirà. Un’intelligenza che, per un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui
la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta
per sottomettere questi dati al calcolo, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi
corpi dell’universo e quelli del più leggero atomo: niente sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il
passato, sarebbe presente ai suoi occhi34.
3. MACH E LA SUA CONCEZIONE DEL PRINCIPIO DI CAUSA-EFFETTO
L’opera di Mach abbraccia un lungo arco di anni se pensiamo che il suo primo lavoro
sistematico può essere considerato La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro, pubblicato nel
1872, ma scritto alcuni anni prima e l’ultimo Le idee-guida della mia teoria della conoscenza scientifica35, 1910.
In questo lungo periodo si collocano i tre contributi fondamentali di Mach: La meccanica nel suo sviluppo
storico-critico (1883), L’analisi delle sensazioni (1886) e Conoscenza ed errore (1905). Il pensiero del fisicofisiologo-filosofo moravo fu sempre estremamente coerente e i suoi tre grandi lavori possono essere
considerati come lo sviluppo e l’approfondimento di idee già presenti in forma più o meno esplicità già
La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro. L’analisi del principio di causa-effetto si inserisce
all’interno di una concezione molto articolata i cui cardini sono: 1) la scienza è basata sull’economia di
pensiero; 2) il modo in cui la scienza si è sviluppata non è predefinito, ma dipende da una serie di
circostanze storico-sociali. Ne consegue che i principi e le leggi della fisica non hanno niente a che fare
con una supposta struttura matematica in sé dell’universo, sono piuttosto tabelle, rubriche, tramite le
quali si riassume un insieme di fatti. Scrive Mach:
È importante chiarire che un principio è sempre la constatazione di un fatto. Se si trascura
questo, si avverte sempre un’insufficienza e si continua a ricercare una fondazione che non è possibile
trovare36.
E ancora:
Se ci fossero immediatamente accessibili tutti i singoli fatti, tutti i singoli fenomeni, non appena
desideriamo conoscerli - non sarebbe mai sorta una scienza37.
Più nello specifico, il fatto che la meccanica sia stata la branca della fisica che si è sviluppata per
prima e i cui risultati sono stati i più cospicui, dipende da motivi storici e contingenti e non implica
affatto che la meccanica debba essere assunta come fondamento per gli altri rami della fisica. Proprio
l’esame dei rapporti tra meccanica e altri settori della fisica e lo studio concernente l’origine dei principi
della fisica è il punto di partenza della speculazione machiana sul nesso di causa-effeto. L’idea di fondo
è dimostrare che non solo non esiste il nesso di causa-effetto come proprietà intrinseca ai fenomeni
della natura, ma che anche a livello scientifico tale nesso può più utilmente essere sostituito dal concetto
di dipendenza funzionale tra fenomeni. Scrive Mach:
Laplace formula questa convinzione in Teoria analitica della probabilità (1812). Io ho ripreso la citazione da Abbagnano,
1961, p. 118.
35 La storia e Le idee-guida sono consultabili in Mach, 2005, rispettivamente alle pp. 41-111 e pp. 113-133.
36 Mach, 1883, 2001, p. 101.
37 Mach, 1872, 2005, p. 81.
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9
Quando parliamo di causa e di effetto, noi mettiamo arbitrariamente in evidenza quegli aspetti,
sul cui rapporto poniamo attenzione in vista di un risultato per noi importante. Ma nella natura non vi è
né causa né effetto. La natura è qui e ora38.
La mentalità di Mach è però molto aperta e non si tratta quindi di “demonizzare” il rapporto
causa-effetto. Se per qualche scienziato può esser utile pensare i fenomeni legati dal principio di
causalità, questo è del tutto legittimo e non vi è niente da eccepire, purché non si ipostatizzi il principio
o si voglia “costringere” anche altri a vedere in esso un postulato insostituibile. Le suguenti parole di
Mach mi sembrano chiarificatrici, oltre che del suo pensiero, anche della sua mentalità generale:
Ho letto da qualche parte che io condurrei una “lotta accanita” contro il concetto di causa. Le
cose non stanno così, perché io non sono un fondatore di religioni. Io ho sostituito, per le mie esigenze
e i miei scopi, il conctto di causa con quello di funzione. Se qualcuno trova che in questo non c’è
maggiore precisione né liberazione, né chiarimento, rimanga tranquillamente ai vecchi concetti; non ho
né la forza né il bisogno di imporre a tutti il mio punto di vista39.
Introdotte queste idee generali che servono a fornire almeno alcune delle linee-guida della
speculazione machiana, scendiamo più nello specifico, cominciando ad analizzare quanto Mach afferma
in La storia e la radice del principio di conservazione del lavoro. Qui viene sostenuto che: 1) il principio di
conservazione del lavoro può esser formulato come principio del perpetuum mobile escluso; 2) tale
principio è un caso del principio di ragion sufficiente, il quale a sua volta equivale al principio di causaeffetto; 3) si può fornire un inquadramento più completo e perspicuo alla fisica introducendo il
rapporto di dipendenza funzionale. A base del proprio ragionamento Mach pone che: 1) tutti questi
principi derivano dall’esperienza; 2) sono utili solo se vengono impiegati da persone che hanno fatto
esperienze ed esperimenti su un insieme di fenomeni e che, quindi, hanno “confidenza” con essi ed
hanno imparato a separare gli elementi “accidentali” da quelli permanenti e che possono far
comprendere alcune invarianti. Altrimenti tali principi sono vuote parole e non hanno alcuna utilità.
Il principio di conservazione del lavoro, sostiene Mach, può essere espresso in due forme: 1)
tramite il teorema della forze vive, per il quale il lavoro compiuto da una forza conservativa su un corpo
che si muove su una traiettoria i cui punti iniziale e finale sono s0 ed s1 equivale alla differenza di energia
cinetica del corpo tra s0 ed s1; 2) creare lavoro dal nulla, cioè un perpetuum mobile, è impossibile. È
soprattutto in questa seconda forma che Mach considera il principio di conservazione del lavoro. Mach
mostra che esso è stato utilizzato esplicitamente almeno già a partire da Stevin, il quale lo ha impiegato
per studiare l’equilibrio su un piano inclinato e per dimostrare che una porzione di acqua in una
posizione P all’interno di una quantità maggiore di acqua, se non intevengono fattori di disturdo esterni,
mantiene la propria posizione. Lo stesso principio equivale all’asserto più volte usato da Galilei secondo
il quale un grave, grazie alla velocità raggiunta nella caduta, risale in alto tanto quanto è caduto in basso.
Questo principio, applicato al piano inclinato, comporta che, se un corpo scende lungo un piano
inclinato, raggiunge esattamente la stessa altezza da cui è partito e che a uguali altezze corrispondono
uguali velocità. Galilei fu condotto a formulare il principio di inerzia da queste osservazioni, poiché, da
quanto detto, consegue che se un corpo scende lungo un piano inclinato fino all’altezza h e in h ha la
velocità v, allora, se il piano da inclinato diviene parallelo alla superficie della terra, il corpo manterrà
indefinitamente la velocità v. Nella Meccanica Mach specifica ancor più chiaramente che nel suo lavoro
giovanile come il principio dell’altezza di caduta equivalga alla semplice osservazione che i gravi
tendono a scendere e non a salire perché. Se salissero si potrebbe costruire un perpetuum mobile. Scrive il
fisico austriaco:
L’ipotesi che la velocità acquisita dipenda dall’altezza verticale, e non dall’inclinazione della
traiettoria, non contiene dunque che il riconoscimento e l’esposizione inconfutabile del fatto che i corpi
pesanti tendono a discendere e non a salire. Infatti se supponessimo che un corpo cadendo lungo un
38
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Mach, 1883, 2001, p. 472.
Mach, 1905, 1982, p. 273n.
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piano inclinato acquisti una velocità, sia pure di poco, maggiore di quella che raggiunge nella caduta
verticale, basterebbe farlo passare con la velocità acquisita su un piano inclinato verticale, lungo il quale
risalirebbe a un’altezza maggiore di quella da cui è sceso. Se la velocità acquistata sul piano inclinato
fosse al contrario minore, si arriverebbe allo stesso risultato rovesciando il processo. Nei due casi si
potrebbe, per una successione di piani inclinati convenientemente disposti, forzare un corpo pesante a
salire indefinitamente per il suo stesso peso, cosa che è in contraddizione con la nostra conoscenza
istintiva della natura dei gravi40.
Quindi vi è uno stretto collegamento tra il principio del perpetuum mobile escluso e quello
dell’altezza di risalita. I due principi sono infatti basati, il primo sull’osservazione che il moto perpetuo
non esiste, il secondo sul fatto che nessuno ha mai visto un grave risalire in virtù del proprio peso. Se
cadesse il secondo cadrebbe anche il primo, perché allora sarebbe appunto possibile costruire un
perpetuum mobile. Proposizione del tutto analoga a quella dell’altezza di risalita è il principio che, se un
sistema è in equilibrio, il suo baricentro è il più basso possibile. Di nuovo, se ciò non fosse vero, si
potrebbe costruire un perpetuum mobile41. Huygens sfruttò in maniera mirabile il principio del centro di
gravità per determinare il centro di oscillazione del pendolo composto42. Quanto alla meccanica, Mach
fornisce altri illuminanti esempi di applicazione del principio del perpetuum mobile escluso o di principi ad
esso riconducibili sia in La storia e la radice che nella Meccanica. Ma, per gli scopi di Mach, sono forse
ancor più significativi gli esempi di applicazione in domini della fisica diversi dalla meccanica. Qui ne
riportiamo uno tratto dalla termologia43: quando viene prodotto lavoro mediante calore si ha passaggio
di calore da un corpo più caldo a uno più freddo; viceversa si può far tornere il calore dal corpo più
caldo a quello più freddo, fornendo lavoro.
Ora - scrive Mach - [Sadi] Carnot trova che, per una determinata prestazione di lavoro, la
quantità di calore che fluisce da una determinata temperatura t alla temperatura t1 , non può dipendere
dalle proprietà chimiche del corpo utilizzato, ma solo da queste temperature. In caso contrario sarebbe
possibile escogitare una combinazione di corpi che produrrebbe senza sosta lavoro dal nulla. Ecco
dunque un’importante scoperta che si fonda sul principio del perpetuum mobile escluso. Questa è certo
la prima applicazione del principio oltre i confini della meccanica [siamo nel 1824]44.
Mach fornisce poi altri esempi di applicazione del principio in settori diversi dalla meccanica. Il
fondamentale passaggio successivo per comprendere l’origine del principio di conservazione del lavoro
esposto nella forma del perpetuum mobile escluso, consiste nel mostrare che il tentativo di fondare le altre
branche della fisica sulla meccanica deriva solo dal fatto che questa si è sviluppata prima e in maniera
più approfondita, ma che non vi è alcuna necessità in re per supporre vero questo pregiudizio45. La
situazione è quindi la seguente: 1) il principio del perpetuum mobile escluso è stato usato nella stessa
meccanica (per esempio da Stevin) prima della formulazione della visione meccanicistica del mondo
(tardo XVII-inizio del XVIII secolo); 2) è utilizzato anche in altri settori della fisica; 3) è una questione
di circostanze storiche che si sia cercato di fondare questi altri settori sulla meccanica piuttosto che il
contrario; quindi, scrive Mach, come introduzione alla parte finale del ragionamento esposto in La
storia:
Se il principio del perpetuum mobile escluso non si fonda sulla visione meccanicistica, il che
deve essere ammesso, essendo la sua correttezza riconosciuta ben prima dello sviluppo della visione
Mach, 1883, 2001, p. 157.
Mach, 1872, 2005, p. 63.
42 Mach, 1883, 2001, pp. 194 e ss..
43 Mach, 1872, 2005, pp. 66-67.
44 Ibidem, p. 66.
45 Il rapporto tra la meccanica e le altre parti della fisica è uno dei temi centrali del pensiero machiano, ma non può essere
qui affrontato perché richiederebbe, da solo, un intero lavoro. Per una succinta formulazione e soluzione della questione, il
lettore può consultare Mach, 1872, 2005, capitolo La fisica meccanicistica, pp. 71-84. Intere sezioni de La Meccanica sono poi
dedicate a questo problema.
40
41
11
meccanicistica; se inoltre quest’ultima, vacillante e precaria, non può concedere a tale principio alcun
fondamento sicuro; se infine è ben probabile che il nostro principio non si fondi su alcun giudizio
positivo, poiché è stato esso stesso partecipe della fondazione delle più importanti conoscenze positive
- su quale fondamento riposa dunque il principio, e donde trae quella forza persuasiva, con la quale ha
in ogni tempo dominato i più grandi scienziati?46
Rispondendo a questa domanda, Mach formula la propria opinione in merito al principio di
causa-effetto. Seguiremo dunque in dettaglio l’argomentazione del fisico austriaco. Egli asserisce
osservando i fenomeni naturali, ci abituiamo a considerarli gli uni dipendenti dagli altri e che diamo a
questa dipendenza il nome di principio di causa-effetto. Finché il nesso di causa-effetto viene definito in
forma così generale come dipendenza di fenomeni, non vi è niente da eccepire. Anzi esso è
assolutamente necessario alla scienza e, prima ancora che alla scienza, alla costituzione dell’esperienza
stessa poiché esprime in termini formalizzabili la continuità e stabilità di certe nostre esperienze,
proprietà senza le quali sarebbe per noi impossibile qualunque forma di “orientamento” nel mondo.
Mach ritorna più volte su questo punto in diverse parti delle sue opere. Per esempio, in Conoscenza ed
errore scrive:
Se l’ambiente degli esseri viventi non fosse costituito di parti che rimangono almeno
approssimativamente costanti, o non fosse scomponibile in eventi che si ripetono in modo periodico,
l’esperienza sarebbe impossibile, l’associazione senza valore47.
Il problema è che ogni formulazione del principio di causa-effetto è sempre associata alle
nozioni di spazio e di tempo. Ora, ad opinione di Mach (posizione questa decisamente antikantiana),
questo è improprio perché, i nostri concetti di spazio e di tempo sono ricavati dai fenomeni e un
principio che voglia essere generale non può dipendere da concetti che, a loro volta, dipendono da nessi
fenomenici. Mi sembra qui necessaria una precisazione per evitare eventuali fraintendimenti: Mach non
pensa certo che noi scopriamo la dipendenza dei fenomeni grazie a leggi metafisiche dell’universo o
grazie a nostre strutture trascendentali, ma proprio solo perché la ricaviamo dall’esperienza; tuttavia un
principio generale deve valere per tutti i fenomeni, mentre se nella formulazione del nesso causa-effetto
introduciamo i concetti di spazio e tempo, esso è, nella migliore delle ipotesi, legato a quelle esperienze
che derivano dallo spazio e dal tempo. Tra l’altro spazio e tempo non sono per Mach nessi fenomenici
insostituibili. Per esempio, in fisica la posizione dei corpi celesti potrebbe essere determinata in
funzione dell’angolo di rotazione terrestre anziché in funzione del tempo. Per cui la corretta
formulazione della legge di causalità è quella di nesso tra fenomeni esprimibile in equazioni. Nel 1872
Mach chiamava ancora tale nesso “legge di causalità”. In seguito, e giustamente, abbandonò questo
nome perché foriero di fraintendimenti in quanto, appunto, per legge di causalità si intendeva
comunemente un nesso legata allo spazio e al tempo, mentre Mach voleva formulare un principio che
non dipendesse da questi due concetti. Il concetto machiano di dipendenza funzionale dei fenomeni
esprime il fatto che, nella scienza, quel che conta è appunto questa dipendenza (che nella fisica viene
espressa con formule matematiche), mentre il principio di causa-effetto è molto indeterminato, vago, e
non è traducibile in un linguaggio scientifico e, quindi, non è di aiuto nella scienza. Un esempio chiarirà
cosa intende Mach per dipendenza funzionale tra fenomeni: consideriamo l’equazione di stato dei gas
pv
perfetti T = costante, dove p indica la pressione del gas, v il volume e T la temperatura. Se in una
trasformazione la temperatura resta costante e, per esempio, 1) la pressione aumenta, allora il volume
diminuisce; 2) se il volume aumenta, la pressione diminuisce. Il nesso di dipendenza funzionale espresso
dall’equazione dice quindi qualcosa di ben preciso. Ma qui come si applicherebbe il principio di causaaffetto? È la modificazione della pressione la causa o la modificazione del volume? E come stabilirlo
visto che i due fenomeni avvengono in contemporanea? E, anche ammesso che sia possibile stabilirlo,
quale mai vantaggio ne trarrebbe la nostra immagine del mondo? Ecco, quindi, che Mach asserisce:
46
47
Mach, 1872, 2005, p. 85.
Mach, 1905, 1982, pp. 31-32.
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Nelle scienze altamente sviluppate l’uso dei concetti di causa ed effetto è sempre più limitato,
sempre più raro. Il motivo sta nel fatto che questi concetti indicano solo in modo assai provvisorio ed
imperfetto uno stato di cose, che mancano di precisione, come già si è accennato. Appena è possibile
caratterizzare gli elementi con grandezze misurabili […] la dipendenza degli elementi si fa rappresentare
dal concetto di funzione48.
Allora, per tornare al principio del perpetuum mobile escluso, esprimibile anche con l’asserto “non
si può creare lavoro dal nulla”, che ha occasionato la speculazione machiana sul nesso di causalità e sulla
dipendenza funzionale tra fenomeni, quale interpretazione darne? La risposta viene posta da Mach in
questi termini: supponiamo che α , β , γ ,... siano dei fenomeni, legati funzionalmente ai fenomeni x, y,
z,… da una serie di equazioni
α = f1 ( x, y, z,...)
β = f 2 ( x, y, z,...)
y = f3 ( x, y, z,...)
.......................
In base a questi nessi funzionali segue che: 1) se x,y,z,… sono costanti, lo sono anche α , β , γ ,... ;
2) a variazioni discrete, periodiche o continue di x,y,z,…, corrispondono variazioni dello stesso tipo in
α , β , γ ,... Ciò chiaramente implica che se il lavoro è 0 per un sistema S di fenomeni ed S non subisce
alcun incremento da fonti esterne, allora anche per il gruppo di fenomeni funzionalmente legati ad S, il
lavoro rimarrà nullo49. Quindi, sostiene Mach, il principio del perpetuum mobile escluso non è altro che
una forma del principio leibniziano di ragion sufficiente, il quale è un altro modo per esprimere il nesso
di causa-effetto. Tuttavia per rendere applicabili ed utili questi principi occorre esprimerli tramite una
dipendenza funzionale. Il principio di ragion sufficiente, espresso nella sua forma generale, è in realtà
così generico, che non è possibile dargli una forma funzionale utile alla conoscenza. Invece il principio
del perpetuum mobile escluso è sì un’espressione di quello di ragion sufficiente, ma la sua forma più
specifica consente una trascrivibilità in termini di relazioni funzionali utilizzabili per la scienza. A questo
punto allora vale per Mach la pena abbandonare il principio di ragion sufficiente e di causa-effetto
anche per tutto l’inutile armamentario metafisico o trascendentale a cui è legato ed attenersi ai nessi di
dipendenza funzionale dei fenomeni. Mach vuole in particolare sottolineare che ogni principio generale,
se è slegato da una effettiva conoscenza ed esperienza dei fenomeni che si vogliono osservare e
studiare, è solo un vuoto precetto che non serve a nulla; esso acquista senso e utilizzabilità solo se si
sono già compiuti studi ed esperimenti sui fenomeni. Non vi è nessun principio che possa dispensare
dal lavoro. La speculazione machiana che abbiamo esposto non può essere scissa dalla visione
antifinalistica, antiteologica ed antimetafisica del fisico moravo: così, a proposito di fenomeni di
massimo e di minimo, che molto spesso vengono presentati in una forma più o meno velatamente
finalistico-teologica, Mach asserisce che in realtà i principi e le leggi connessi con massimi e minimi
esprimono sempre il fatto che, in certe condizioni, non si verifica lavoro. Il vedere in ciò un massimo o
Ibidem, p. 272. Tra l’altro l’idea che i nessi funzionali fenomenici siano a fondamento tanto del “fisico” quanto dello
“psichico”, derivata anche dagli studi ed esperimenti sulle sensazione e percezioni condotti di Mach, condussero il filosofo
austriaco a concludere che non vi è sostanziale differenza tra “fisico” e “psichico” e tra Io e Mondo. Non è qui possibile
approfondire questa interessante sezione dell’opera machiana. Rimandiamo a Conoscenza ed errore dove queste idee sono
sviluppare con dovizia di particolari. La seguente breve citazione tratta dalla Meccanica è però di per sé sufficiente a
inquadrare l’o rdine di idee di Mach: “Penso che una ricerca fisica prudente renderà necessari nuovi studi sulla sensazione.
Riconosceremo allora - e cominciamo già a farlo - che la nostra sensazione di fame non è molto diversa della tendenza
dell’acido solforico verso lo zinco, e la nostra volontà non è diversa dalla pressione della pietra sul suo supporto.” In Mach,
1883, 2001, pp. 455-456.
49 Mach, 1872, 2005, pp. 95-96.
48
13
un minimo dipende da necessità conoscitive “economiche” che sono solo nostre, non della natura. Mi
sembra molto bello ed indicativo il seguente lungo passo:
Istintivamente cerchiamo di facilitare a noi stessi la comprensione della natura attribuendolegli
intenti economici che sono nostri. Altri fenomeni naturali presentano proprietà di massimo o di
minimo per il fatto che in essi sono scomparse le cause di ogni cambiamento. La catenaria ha il centro
di gravità più basso possibile per la ragione che solo questa posizione impedisce ogni ulteriore discesa
degli anelli della catena. I liquidi sotto l’influenza di forze molecolari presentano una superficie minima
perché un equilibrio stabile sussiste solo se le forze molecolari non possono diminuire ulteriormente la
superficie. L’essenziale in questi fenomeni non è dunque il massimo o il minimo, ma solo che non si
verifica lavoro: e il lavoro è appunto il fattore che determina il mutamento. Invece di celebrare la
tendenza economica della natura, è più chiaro, più rigoroso e nello stesso tempo gode di validità più
generale, anche se suona meno sublime dire: accade sempre solo ciò che può accadere in presenza delle
forze e sotto le condizioni date50.
Tra l’altro Mach non esclude che vi sia qualche funzione innata nei fattori che generano la
conoscenza; quello a cui si oppone è l’ idea che si pretenda di determinare solo razionalmente tali
funzioni, senza uno studio fisiologico relativo ai meccanismi del cervello umano. Devono essere la
psicologia sperimentale e la fisiologia a stabilire, se possibile, cosa vi sia di innato e cosa di appreso e se
tale divisione sia, in ultima istanza, perspicua. Scrive Mach:
Non per decreti filosofici, ma solo con indagini psico-fisiologiche positive si può stabilire cosa è
innato51.
Questa forma di positivismo portò Mach a criticare paradossalmente quei settori della fisica che
più mettevano e metteranno in dubbio, sia pur in forma diversa da quella machiana, il principio di
causa-effetto, cioè quelle branche della fisica più strettamente connesse con i concetti di molecola e di
atomo. Proprio nella misura in cui non si può aver esperienza positiva né delle molecole né degli atomi,
Mach nega validità ontologica a questi concetti: essi possono essere considerati solo come ipotesi di
lavoro a cui “non affezionarsi” troppo52. Egli si riferiva soprattutto alla meccanica statistica di
Boltzmann.
Cosa ha introdotto Mach rispetto al “vecchio” empirismo alla Hume? Un elemento
fondamentale è che il filosofo austriaco ritiene che ciò che Hume chiama abitudine non sia affatto una
mera acquisizione personale, ma che sia il portato di strutture biologiche dell’essere umano e della ben
precisa deriva storica di una civiltà. Appunto la scienza (biologia, fisiologia) e la storia (nel caso di Mach
storia della fisica, essendo egli un fisico) possono far comprendere che cosa in realtà sia l’uomo e come
si sia evoluta la sua conoscenza. Ciò non è possibile attraverso una pura speculazione razionale. Altro
fatto fondamentale è che Mach cerca di giustificare le proprie idee per mezzo di una conoscenza
davvero estesa e profonda della fisiologia, psicologia sperimentale e, soprattutto, della fisica. Ciò dà una
notevole “concretezza” e chiarezza al suo pensiero, se ne condividano o meno tutte le conseguenze.
Inizialmente Mach fu osteggiato e non compreso da molti filosofi e fisici, in seguito, nel periodo 18801920 la sua influenza fu invece profonda e, nonostante che abbia sempre avuto dei “nemici”, tra i quali
ricordiamo Planck, egli influenzò notevolmente il pensiero di molto fisici e filosofi, non ultimi Einstein
e Wittgenstein. In Italia un grande uomo di scienza che conobbe bene ed apprezzò il lavoro di Mach,
anche se non condivise gli aspetti più marcatamente empiristici della sua concezione, fu Enriques.
Mach, 1883, 2001, p. 453.
Mach, 1905, 1982, p. 274.
52 Si veda, per esempio, Mach, 1883, 2001, pp. 478-479.
50
51
14
4. LA MECCANICA QUANTISTICA E IL PRINCIPIO DI CAUSA-EFFETTO
La critica di Mach aveva riguardato l’ interpretazione del concetto di causa-effetto, la presunta
assolutezza di certe nozioni fondamentali come “spazio” e “tempo”, la rivisitazione di altre, come, per
esempio, il concetto di massa. Mach però non giunse mai a proporre una fisica in cui il nesso di causaeffetto, almeno nella sua veste tradizionale, non potesse valere in linea di principio. Con la meccanica
quantistica il quadro cambia completamente poiché si tratta di una teoria in cui anche il concetto
machiano di nesso funzionale tra fenomeni deve subire una modificazione in quanto gli aspetti
probabilistici entrano nella formulazione della meccanica quantistica in maniera intrinseca. Per cui un
nesso funzionale non descriverà più una relazione tra due o più fenomeni, ma, dato un fenomeno o
meglio, un certo stato quantico determinato da un insieme di parametri, la probabilità che si verifichi un
altro stato quantico. Siamo quindi in presenza di un nesso funzionale concernente probabilità di
fenomeni e non fenomeni. Un aspetto molto generale della fisica classica, a cui era anche parzialmente
connessa la visione tradizionale del nesso di causa-effetto, concerne l’immagine del mondo che ci dà
una teoria fisica: un atteggiamento filosofico, tipico di molti fisici ed entro certi limiti comprensibile, è,
come già accennato, l’ idea che le leggi della fisica siano uno schema matematico inerente al mondo.
L’uomo si limita a scoprire tali leggi. Questo, che indubbiamente è un atteggiamento filosofico, pare
suffragato anche a livello psicologico quando una teoria sembra non avere particolari problemi nel
descrivere gli eventi che si conoscono. Atteggiamento più prudente è quello di chi sostiene che, pur non
esistendo leggi fisiche in sé e per sé, tuttavia un modello globale coerente che sia una rappresentazione
del mondo è necessario in ogni scienza. Cioè, data la teoria T, possiamo anche disinteressarci del fatto
che le leggi di T ineriscano o meno al mondo, ma almeno devono avere due requisiti fondamentali: 1)
spiegare la quasi totalità dei fenomeni di cui si occupa T e tutti i fenomeni giudicati più importanti; 2)
presentare una visione coerente del mondo, vale a dire non avere parti T1 e T2 i cui modelli si escludano
a vicenda. Ora il secondo requisito sembra mancare alla meccanica quantistica poiché, come vedremo,
per alcuni fenomeni è necessario descrivere le particelle subatomiche come corpuscoli, per altri come
onde. Inscindibilmente connesso con questo problema è l’aspetto probabilistico della teoria quantistica,
per cui la questione del determinismo-indeterminismo non è più solo di carattere gnoseologico, ma
concerne la struttura stessa della teoria. Tanto più questa situazione sembra paradossale se si tiene
conto che molti dei padri della meccanica quantistica, come Schrödinger, erano realisti convinti ed altri
addirittura come Planck ed Einstein erano realisti e deterministi. Il problema della coerenza interna del
modello offerto dalla fisica quantistica sarà l’argomento principale di questo paragrafo e la questione del
causalismo sarà affrontata all’interno di questo discorso più generale. Prima di affrontare l’ argomento
principale, è necessaria un precisazione: nello studio delle strutture fortemente dipendenti dalle
condizioni iniziali e costituite da un gran numero di particelle, vi sono sempre state leggi statistiche. La
teoria cinetica dei gas e la termodinamica sono esempi classici. Fornisco un semplice esempio:
consideriamo un recipiente pieno d’acqua e una sostanza disciolta nell’acqua in modo non uniforme a
un certo tempo t. Supponiamo che in t la densità della sostanza nell’acqua sia massima nella parte
sinistra del recipiente e diminuisca con continuità andando verso destra. Si assiste al fenomeno detto
“diffusione”, cioè progressivamente la densità della sostanza diventa uniforme: le sue molecole si
spostano in media dalla zona di densità maggiore a quella di densità minore. Ciò è un effetto puramente
statistico poiché non vi è alcuna forza che tende a spingere le molecole verso destra. Ogni molecola si
comporta indipendentemente da ogni altra ed ognuna è spinta dalle molecole circostanti di acqua in
direzioni imprevedibili e con uguale probabilità verso sinistra o verso destra. Ma consideriamo due
straterelli contigui di liquido e un piano interposto tra essi: allora il piano viene attraversato da un
numero maggiore di molecole provenienti dalla parte sinistra del recipiente per il semplice fatto che a
sinistra vi sono più molecole della sostanza sciolta che non a destra. Ciò provoca la diffusione della
sostanza disciolta da sinistra verso destra. Si ha quindi un effetto statistico che ci dice come si comporta
il liquido anche se noi non sappiamo nulla delle singole molecole53. Non possiamo determinare il loro
movimento perché strettamente connesso a una molteplicità di condizioni iniziali (quali la loro
orientazione tra le molecole di acqua) che è quasi impossibile stabilire e una piccola variazione delle
53
Ho ripreso questo esempio da Schrödinger, 1944, 1995, pp. 31-37.
15
quali implica una grande differenza di comportamento. Si può però pensare, almeno a livello puramente
teorico, che se conoscessimo le posizioni iniziali di tutte le molecole potremmo determinare con
esattezza il moto di ciascuna di esse e che, quindi, l’aspetto statistico del fenomeno sarebbe
eliminabile54. Bene, in meccanica quantistica la situazione non è questa, vedremo che ci sono aspetti
statistici e probabilistici non eliminabili. La base del problema è la “duplice natura” ondulatoria e
corpuscolare dei fotoni e delle particelle subatomiche, quali gli elettroni: Max Planck nel 1900 aveva
dimostrato che i problemi derivanti dal principio di equipartizione dell’energia applicato al corpo nero
sono risolvibili postulando che la radiazione non sia continua, ma si presenti solo in pacchetti discreti,
detti quanti. Tramite l’ipotesi dei quanti Einstein fu poi in grado, cinque anni dopo, di spiegare l’effetto
fotoelettrico. D’altra parte nel 1925 de Broglie aveva scoperto che il postulare l’esistenza di onde-pilota
associate all’elettrone forniva un quadro unitario e coerente alle formule scoperte da Bohr per la
quantizzazione delle orbite elettroniche. Poco tempo dopo un esperimento rivelò che l’elettrone aveva
in effetti anche la natura ondulatoria postulata da de Broglie. Nel 1926 Schrödinger dette forma
matematica corretta alle intuizione di de Broglie giungendo alla famosa equazione d’onda che è ancor
oggi quella fondamentale in meccanica quantistica. Nello stesso periodo Heidenberg formulò il
principio di indeterminazione e nel 1927 Schrödinger dimostrò l’equivalenza matematica tra la
formulazione di Heisenberg e la propria55. Ora come conciliare la natura corpuscolare e ondulatoria dei
fotoni e delle particelle subatomiche? Il problema non è in alcun modo solo una questione filosofica del
tipo: questi oggetti sono onde o corpuscoli?, ma riguarda la coerenza fisica del quadro proposto dalla
meccanica quantistica. Riferisco il seguente classico esperimento per chiarire il problema: supponiamo
di avere una sorgente di luce monocromatica, un muretto con due fenditure e dietro al muretto uno
schermo che registra l’impatto dei fotoni. Supponiamo anzitutto che sia aperta una sola fenditura. In
questo caso la luce che illumina lo schermo presenterà un fenomeno tipicamente ondulatorio, la
diffrazione, per il quale l’illuminazione dello schermo appare quasi tutta concentrata in una banda e il
resto dello schermo sembra binaco. Se però si riduce l’ intensità della luce si vede che effettivamente
anche la banda illuminata è composta da “punti” luminosi e non è un continuo. In questo caso è, quindi
possibile conciliare le proprietà ondulatoria con quelle corpuscolari. Quando però apriamo l’altra
fenditura nasce il problema: sullo schermo si assiste a un classico fenomeno ondulatorio, cioè le figure
di interferenza, per cui lo schermo presenta fasce senza fotoni e fasce in cui più intensa è la presenza di
fotoni. Ma la cosa più singolare è che questa differenza nei comportamenti dei fotoni si presenta se noi
spariamo anche un solo fotone alla volta. Mi spiego: se è aperta una sola fessura e spariamo un solo
fotone alla volta, la fascia più colorata è quella approssimativamente di di fronte alla fessura, il resto è
quasi oscuro. Quando apriamo due fessure e spariamo un fotone alla volta sarebbe lecito attenderci che
le fasce colorate fossero quelle davanti alle fessure, ma non è così, ci sono le frange di interferenza:
In qualche modo, ogni particella passa al tempo stesso per le due fenditure e interferisce con se
stessa! (…) È che ogni singola particella si comporta in modo simile a un’onda; e possibilità diverse
accessibili a una particella possono a volte cancellarsi reciprocamente!56
Tuttavia la cosa ancor più difficile da spiegare è che se si mette un rilevatore in una fessura in
modo da stabilire se il fotone è passato per essa, le frange di interferenza scompaiono e il rilevatore ci
dice esattamente se il fotone è passato o meno per tale fessura. Sembra che il fotone assuma natura
completamente corpuscolare e sembra che l’osservazione abbia palesato l’aspetto corpuscolare del
In realtà la questione non è affatto semplice perché se, per esempio, la determinazione delle condizioni iniziali implicasse
la conoscenza di una infinità di dati, sarebbe impossibile eliminare la descrizione statistica anche in linea di principio.
Un’ottima analisi di questi problemi accessibile al lettore che ha conoscenze matematiche di livello medio è in Toraldo di
Francia, 1976, capitolo III, pp. 221-314.
55 La bibliografia sulla storia della meccanica quantistica è semplicemente sterminata. Un ottimo testo di carattere
semidivulgativo è Gamow, 1966. Acor più discorsivo, ma chiaro e rigoroso nei limiti propostisi dall’autore è Rydnik, 1975.
Più tecnico, ma non per specialisti è Cohen-Tannoudji, Spiro 1986, 1988. Decisamente più specialistico è Hund, 1975, 1980.
Un testo classico sui primi trent’anni della teoria dei quanti, adottato anche come manuale universitario, è Heisenberg, 1930,
1979.
56 Penrose, 1989, 1998, pp. 302-303.
54
16
fotone. Ma come è possibile che un’osservazione modifichi la natura di una particella? Questa
situazione paradossale è perfettamente descritta dalla funzione d’onda ψ di Schrödinger che
rappresenta lo stato quantico di una particella. La funzione d’onda è una funzione a variabili complesse
e fornisce non la probabilità, ma l’ampiezza di probabilità che si verifichi un evento. In senso intuitivo,
anche se parecchio inesatto, ψ fornisce la probabilità di una probabilità. Ora, se ci interessa sapere quale
è la probabilità che un fotone raggiunga un punto x dello schermo, si può dimostrare che essa è data dal
2
modulo al quadrato ψ (x) della funzione d’onda ψ (x ) . Ma è possibile provare che questo è vero solo
nel caso in cui su una fenditura è posto il rilevatore. Per cui a livello puramente quantistico, senza presenza di
osservatore, le singole vie “(…) hanno solo ampiezze di probabilità, non probabilità.”57. Non solo i
risultati ottenuti attraverso l’ equazione e la funzione d’onda coincidono sul piano matematico con il
principio di indeterminazione, ma si accordano anche sul fatto che la presenza di un osservatore è
decisiva nel modificare lo stato di una particella. Ricordiamo che Heisenberg sottolineò che, se
vogliamo studiare il comportamento di un elettronone in un atomo, dobbiamo in qualche modo
“illuminarlo” e questa illuminazione sarà tanto più precisa quanto più piccola sarà la lunghezza d’onda
della luce incidente sull’elettrone. L’ideale è quindi usare fotoni di raggi γ . Il problema è però che i
raggi γ sono così penetranti che modificano la posizione e la velocità dell’elettrone. Quindi, usando
raggi “non troppo potenti” avremo un’immagine sbiadita sulla posizione e quantità di moto del nostro
elettrone, usando raggi più penetranti modifichiamo posizione e quantità di moto. In ambo i casi si ha
una indeterminazione del prodotto della posizione per la quantità di moto che è coerente con quanto
prescritto teoricamente dal principio di indeterminazione58. Siamo quindi in questa paradossale
situazione: la meccanica quantistica è in grado di spiegare i fenomeni atomici tramite il suo apparato
matematico, ma non fornisce un’immagine coerente del mondo perché in effetti non spiega se gli enti di
cui si occupa siano onde o corpuscoli e eventualmente quali siano le relazioni tra la “duplice natura”
delle particelle. Tutti i “padri” della meccanica quantistica si posero questi problemi e ne dettero
interpretazioni molto diverse. Essenzialmente si tratta di due interpretazioni: 1) complementarista-non
determinista; 2) realista-determinista.
La prima è dovuta alla cosiddetta “scuola di Copenaghen” e fu sostenuta da fisici quali Bohr,
Heisenberg, Dirac, Born, Rosenfeld. L’idea-base mi sembra sia la seguente e premetto che presenterò
all’inizio questa idea in una forma molto diretta, tale da sembrare forse davvero semplicistica, ma che, a
mia opinione, coglie i motivi fondamentali dell’interpretazione di Copenaghen: 1) la meccanica
quantistica non è per il momento strutturata in una teoria coerente nel senso che non presenta
effettivamente un’immagine univoca del mondo, in questo senso dovrà esser migliorata; 2) tuttavia le
ipotesi che stanno alla base della meccanica quantistica risolvono la quasi totalità dei problemi di cui la
disciplina si occupa; accettiamo per il momento queste ipotesi senza preoccuparci troppo della coerenza
globale del modello; 3) qualunque futuro modello che abbia anche solo qualche parentela con la
meccanica quantistica sarà sempre intrinsecamente probabilistico. Per esso non ha neppure senso
parlare di causa-effetto.
L’idea cardine dell’interpretazione di Copenaghen è dovuta a Niels Bohr ed è il concetto di
complementarità. Heisenberg, che fu uno dei maggiori sostenitori di questo concetto, si esprime in
questi termini:
Bohr considerò le due immagini - quella corpuscolare e quella ondulatoria - come due
descrizioni complementari della stessa realtà. Ognuna delle due descrizioni può essere solo parzialmente
vera e sono necessarie delle limitazioni all’uso della teoria corpuscolare così come di quella ondulatoria,
in quanto né l’una né l’altra possono evitare delle contraddizioni. Se si tien conto di questi limiti che
possono essere espressi per mezzo di relazioni d’incertezza, le contraddizioni scompaiono59.
Ibidem, p. 312.
Heisenberg, 1958, 1966, pp. 59-62.
59 Ibidem, p. 55.
57
58
17
E prosegue:
Naturalmente le due concezioni si escludono a vicenda
stesso tempo un corpuscolo (…) e un’onda (…). Ma l’una
Servendoci di entrambe le raffigurazioni, passando dall’una
otteniamo infine la giusta impressione dello strano genere
esperimenti atomici60.
poiché una cosa non può essere nello
può essere il complemento dell’altra.
all’altra per ritornare poi alla prima,
di realtà che si nasconde dietro gli
In Questioni di principio della fisica moderna, scritto risalente al 1935 e ripubblicato nel 1959 nel
volume Mutamenti nella basi della scienza, Heisenberg era stato ancor più chiaro. Leggiamo infatti:
Sembra dunque che la scienza possa percorere solo una via: utilizzare dapprima senza riserve,
per la descrizione di quanto osserva, i concetti così come essi si offrono, e procedere poi di volta in
volta alla revisione solo sotto la costrizione dell’esperienza. Chiedere che la chiarificazione dei concetti
venga intrapresa fin dal principio, equivarrebbe a chiedere che ’lintero sviluppo della scienza venga
predeterminato mediante un’analisi logica. (…) dobbiamo quindi acconciarci a vedere anche nelle
discipline fisiche esattamente elaborate dal lato matematico nulla più che tentativi eseguiti a tastoni per
orientarci nella moltitudine dei fenomeni61.
Ciò che Heisenberg afferma è chiaro: accettiamo provvisoriamente la concezione
complementarista di Bohr poiché la meccanica quantistica è scevra da contraddizioni matematiche e le
sue previsioni trovano riscontro negli esperimenti. I suoi concetti sono quindi utili e devono essere usati
anche se non vi è un modello univoco. Ora, si è visto che uno dei concetti fondamentali in meccanica
quantistica è quello di probabilità. Ma con che tipo di probabilità si ha a che fare esattamente? Per
rispondere a questa domanda, occorre sottolineare che la funzione d’onda obbedisce a un’equazione di
moto (l’equazione di Schrödinger) proprio come avveniva nella fisica classica. Quindi l’ampiezza di
probabilità per una posizione x della particella è perfettamente determinata nel corso del tempo.
Tuttavia l’ampiezza di probabilità è un’astrazione che in quanto tale non ci dice quale sia la probabilità
di trovare la particella nello spazio-tempo. Come si è visto occorre fare delle osservazioni che però
spezzano la continuità della funzione, modificando il sistema, si tratti dell’esperimento delle due
fendititure o del microscopio a raggi γ 62.
Ecco allora la seguente interessante interpretazione della funzione d’onda o di probabilità:
Essa contiene delle affermazioni sulle possibilità o meglio sulle tendenze (“potentia” nella
filosofia aristotelica), e queste affermazioni sono completamente oggettive, non dipendono da nessun
osservatore; e contiene affermazioni sulla nostra conoscenza del sistema, che sono naturalmente
soggettive in quanto possono essere diverse per osservatori diversi63.
Al di là del richiamo ad Aristotele che pare un po’ ingenuo e forzato, quel che scrive Heisenberg
è del massimo interesse: la funzione fornisce informazioni sulla tendenza del sistema, non direttamente
sulle probabilità di trovare una singola particella in un punto x o di determinare dei limiti per la sua
quantità di moto, ma su ciò che io ho chiamato un po’ impropriamente probabilità di probabilità. Una
tendenza generale appunto. Se con l’osservazione possiamo poi dalla “tendenza” alla probabilità vera e
propria, spezziamo la continuità della nostra funzione. Il che implica tra l’altro che tra due osservazioni
è impossibile stabilire il cammino di una particella. E questo ha profonde ricadute sul concetto stesso di
realtà poiché
Ibidem, p. 63.
Heisenberg, 1959, 1960, p. 60.
62 Heisenberg, 1958, 1966, p. 63.
63 Ibidem, p. 67.
60
61
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L’osservazione stessa cambia la funzione di probabilità in modo discontinuo; essa sceglie fra
tutti gli eventi possibili quello che realmente ha avuto luogo. (…). Perciò il passaggio dal “possibile” al
“reale” ha luogo durante l’atto d’osservazione64.
Ma questo “reale” non è certo il reale della fisica classica, bensì un reale in cui il ruolo essenziale
è svolto dal principio di indeterminazione in base al quale, dato uno stato presente, caratterizzato per
esempio dal fatto che la quantità di moto65 di una particella è compresa tra due limiti, è possibile
determinare i limiti in cui tale quantità di moto sarà compresa nel futuro, ma non quale essa sarà
esattamente. In un contesto del genere non ha neppure senso parlare di causa e di effetto per il semplice
fatto che non si può neppure in linea di principio isolare l’una o l’altro. Si ha a che fare con probabilità
di eventi, non con certezza di eventi. Questo risulta molto bene dal fatto che il principio di
indeterminazione è espresso da una disequazione e non da una equazione, per cui anche il concetto di
nesso funzionale di Mach deve essere esteso nel caso della meccanica quantistica dalle equazioni e
sistemi di equazioni alle disequazioni e sistemi di disequazioni. Con la meccanica quantistica, almeno
nella interpretazione di Copenaghen, il determinismo classico viene eliminato dalla fisica anche se
questo non implica affatto la non conoscibilità o l’imprevedibilità degli eventi. Quindi anche quando si
parla di indeterminismo della fisica quantistica, il riferimento è relativo, cioè indeterminismo rispetto ai
canoni della fisica classica, ma in realtà ’lapparato matematico della meccanica quantistica permette
previsioni molto precise, nei limiti di quel che interessa determinare.
È noto che non tutti i fisici accettarono l’ interpretazione di Copenaghen. Tra essi Einstein
tentò di mostrare che la meccanica quantistica era contraddittoria, ma la risposta di Bohr alle sue
obiezioni lo convinse che così non era. Egli tuttavia non accettò mai il carattere indeterministico della
disciplina e la giudicò come uno stadio momentaneo verso un superiore punto di vista deterministico.
Tra gli altri sono stati presentati due famosi paradossi, il paradosso di Einstein-Podol’skij-Rosen e il
“gatto di Schrödinger”66. Non è qui possibile neppure accennare ad essi; è opportuno tuttavia ricordare
che entrambi sono basati sull’influenza che l’osservatore ha sui fenomeni quantistici. I due paradossi
non sono facilmente superabili, ma nell’interpretazione di Copenaghen si evita che generino antinomie
postulando che: 1) l’ osservatore è inseparabile dallo strumento con cui interagisce; 2) lo strumento e
l’osservatore devono sempre esser descritti in termini di fisica classica, mentre il fenomeno studiato
deve esserlo in termini quantistici.
Tra coloro che non dettero un’interpretazione indeterminista della meccanica quantistica,
analizzeremo due pensatori i cui contributi alla fisica furono della massima importanza: Max Planck ed
Erwin Schrödinger.
La posizione di Max Planck, su cui per lo più ci concentreremo, è particolare: aspetti
probabilistici erano apparsi nella quantomeccanica ben prima delle scoperte che abbiamo descritto
(1925-1927). E Planck, a cominciare dal periodo attorno al 1910 fino alla morte, sopraggiunta nel 1947,
si interessò sempre anche del problema determinismo-indeterminismo, fino a giungere ad un
riformulazione del principio di causalità. In un saggio del 1923 Planck si esprime chiaramente: la
causalità non è una necessità logica inerente ai fenomeni, ma è una condizione trascendentale senza cui
non può esistere scienza. Scrive Planck in proposito:
Non si può infatti costringere nessuno con motivi puramente logici ad ammettere un rapporto
causale. (…). Il nesso causale, ripeto, è di natura non logica, ma trascandentale67.
Ibidem, pp. 68-69.
È bene ricordare che il principio di indeterminazione non riguarda solo posizione e quantità di moto di una particella, ma
coinvolge altre grandezze fondamentali quali l’energia e il tempo asserendo che il prodotto dell’ideterminazione dell’energia
per l’intervallo di tempo in cui osserviamo il sistema per computare tale energia è maggiore della costante di Planck. In
simboli ∆E ⋅ ∆ t ≥ h .
66 Per il paradosso di Einstein-Podol’skij-Rosen e il gatto di Schrödinger si può consultare Toraldo di Francia, 1976, pp. 394404 e Penrose, 1989, 1998, pp. 360-368 e 374-378 rispettivamente.
67 Planck, Causalità e libero arbitrio, 1920, in Planck, 1993, p. 142.
64
65
19
D’altronde
Il pensiero scientifico aspira alla causalità, è anzi la stessa cosa che il pensiero causale, e la meta
finale di ogni scienza deve essere di condurre fino alle sue ultime conseguenze il punto di vista causale68.
Planck aderisce quindi senz’altro alla posizione di Kant, ovviamente però ne compie una
rivisitazione tenendo conto dei più recenti risultati della matematica e della fisica; per cui il nesso di
causa-effetto rimane una forma fondamentale del nostro intelletto, tuttavia occorre dare un contenuto a
questa forma che sia, in un certo senso, più esteso di quello che gli dette Kant. Solo in questo modo è
possibile far rientrare anche le leggi statistiche all’interno del concetto di causalità e dare loro un aspetto
deterministico, sia pur in un senso più debole rispetto a quello tradizionale. In uno scritto del 1932
Planck è del tutto esplicito. Leggiamo infatti:
Oggi non è più lecito limitarsi ad annoverare la legge di causalità fra le categorie, come ha fatto
Kant, quale espressione della validità di leggi inderogabili che governano tutto ciò che avviene, quale
forma di intuizione senza cui non siamo in grado di raccogliere esperienze. Infatti il principio di Kant,
che certe categorie costituiscono a priori il fondamento di ogni nostra esperienza, anche se destinato a
rimanere intangibile per tutti i tempi, non dice nulla circa il significato speciale delle singole categorie
(…)69.
Quindi occorre ridefinire il “significato speciale delle singole categorie”. In realtà Planck aveva
cercato una tale ridefinizione a partire almeno dal 1914 nel contributo Leggi dinamiche e leggi statistiche ove
aveva anzitutto sottolineato che il concetto di probabilità usato in fisica fornisce comunque
informazioni precise su un sistema, sia pure appunto a livello statistico, ma soprattutto, e qui è la vera
radice deterministica del pensiero di Planck, le leggi statistiche hanno senso solo se posano su regolarità
di tipo assolutamente deterministico, anche se, al momento, noi non conosciamo tali regolarità. Scrive
Planck:
(…) si capisce che in fisica il calcolo esatto delle probabilità sia possibile solamente se per le
azioni più elementari, e cioè nel finissimo microcosmo, si riconoscono come valide leggi esclusivamente
dinamiche [cioè deterministiche in senso classico]. Benché queste si sottraggano singolarmente
all’osservazione per mezzo dei nostri sensi, tuttavia la presupposizione della loro assoluta invariabilità è
la base indispensabile di ogni nostra costruzione statistica70.
È come se Planck ammettesse due forme trascendentali distinte: una forma che ci fa vedere gli
aspetti statistici del mondo ed una che ci mostra quelli deterministici in senso classico. Entrambe le
forme sono necessarie a un certo livello di conosenza. Però, in ultima istanza, è la seconda forma che
fonda la prima. Nello scritto del 1932 Planck approfondisce e specifica questa posizione e definisce un
evento come causalmente determinato quando può essere previsto con sicurezza71. Ora, continua
Planck, in fisica ci sono eventi che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, si possono prevedere
solo in modo statistico. Sono allora possibili due atteggiamenti: o si rinuncia al vincolo causale oppure si
esige a priori la rigidità di tale vincolo e lo si riformula parzialmente. Planck rifiuta il primo
atteggiamento e, sposando la tesi della rigidità del nesso causa-effetto, giunge a pensare che debba
essere riformulato e precisato il concetto di “evento” e tematizza la separazione tra nostra immagine del
mondo e mondo per come effettivamente è. Ovviamente la linea di attacco del ragionamento di Planck
non può che partire dal principio di indeterminazione di Heisenberg. Per “salvare” il principio di causaeffetto, il fisico tedesco asserisce che l’interpretazione indeterministica del principio di Heisenberg non
è accettabile poiché concerne la nostra immagine del mondo, per cui, partendo dal presupposto che nel
Ibidem, p. 148.
Planck, La causalità della natura, 1932, in Planck, 1993, p. 265.
70 Planck, 1914, in Planck, 1993, p. 90.
71 Planck, 1932, in Planck, 1993, p. 268.
68
69
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concetto di evento siano comprese posizione e quantità di moto, concludiamo che, esistendo una
relazione di indeterminazione tra queste due grandezze, non è più valido il principio di causa-effetto.
Ma, afferma Planck, è un nostro pregiudizio che nell’evento abbiano valore contemporaneamente la
velocità (o la quantità di moto) e la posizione, cioè che il concetto di traiettoria sia applicabile al mondo
della microfisica. Non occorre abbandonare il nesso di causa-effetto, ma la nozione di traiettoria
applicata alle particelle, che per Planck concerne la nostra immagine del mondo e non il mondo.
Leggiamo Planck:
Per uscire dalla difficoltà è infatti assai più plausibile ammettere che la questione del valore
contemporaneo delle coordinate e della velocità del punto materiale, come quella della traiettoria di un
fotone di determinato colore, non abbia alcun senso fisico. È una via di uscita che in casi consimili ha
già reso eccellenti servigi. L’impossibilità di risolvere una questione senza senso non può naturalmente
esser posta a carico della legge causale come tale, ma soltanto delle premesse che hanno condotto ad
impostare la questione: nel nostro caso a carico delle premesse su cui è costruita l’immagine fisica del
mondo 72.
Pertanto, prosegue Planck, in uno scritto del 1938, il principio di indeterminazione ha solo un
valore “negativo”, ci dice che cosa è impossibile, che cosa non può far parte di un evento. Da questa
conoscenza importante, ma “negativa”, occorre strutturare una conoscenza positiva, che tenga conto
del principio di Heisenberg solo come limitazione al concetto di evento e che sia del tutto
deterministica. Ovviamente Planck riconosce che al momento tale conoscenza non esiste. Leggiamo di
nuovo Planck poiché la sue parole sono davvero chiare:
L’elettrone non si trova dunque in nessun posto o, se si preferisce, si trova con la stessa
probabilità in tutti i posti. Pertanto la domanda sul percorso di un elettrone è d’ora in avanti illusoria, e
sarebbe privo di senso pretendere su ciò una risposta determinata. Così, mentre il principio di
indeterminazione rinuncia all’ipotesi della meccanica classica e cerca di costringerci ad accettare
l’indeterminismo, di fatto pone le premesse alla possibilità di una teoria deterministica e apre la porta,
chiusa dall’indeterminismo di principio, verso nuove specie di conoscenza. Ma il principio di
indeterminazione da solo non è sufficiente per costruire una teoria completa del determinismo. Poiché
esso è espresso tramite una disuguaglianza, esso costituisce in un certo senso solo la cornice per
l’accoglimento di un altro principio più determinato73.
Ora esisteva nella fisica quantistica qualche legge o funzione il cui andamento è del tutto
deterministico e di cui si potesse pensare poter rappresentare il fondamento per una microfisica
appunto deterministica? Sì, una tale funzione esisteva ed è la funzione d’onda ψ di Schrödinger, la
quale dà l’ampiezza di probabilità che un evento accada, ma che come funzione è determinata per tutti i
luoghi e per tutti i tempi74. Allora la realtà deterministica sottostante all’apparenza fenomenica
indeterministica sarebbe data proprio dai campi di onde di cui parla la funzione d’onda. Le particelle
con i loro aspetti indeterministici sarebbero solo epifenomeni di questa realtà deterministica più
profonda di cui però, è bene sottolinearlo, conosciamo ben poco. In uno scritto davvero notevole
risalente al 1952 e tratto da una sua conferenza, Erwin Schrödinger concludeva:
(…) se non altro è lecito immaginare quei corpuscoli come enti più o meno transitori
nell’ambito del campo d’onde, ma tali che la loro forma e molteplicità strutturale, nel senso più ampio
della parola, siano determinate dalle leggi ondulatorie in modo tanto preciso, chiaro e persistente, che
molte cose avvengono come se avessimo a che fare con enti corporei duraturi. La massa e carica delle
Ibidem, p. 279.
Planck, 1938, Determinismo o indeterminismo, in Planck, 1993, p. 347.
74 Planck, 1932, in Planck, 1993, p. 280.
72
73
21
particelle, che possono così essere indicate esattamente, devono essere compresi tra gli elementi di
forma determinati dalle leggi ondulatorie75.
E in risposta ad obiezioni di Max Born proposte nella discussione susseguente alla conferenza,
Schrödinger replicava:
C’è un altro concetto, quello di complementarità, che Niels Bohr e i suoi discepoli diffondono e
di cui tutti fanno uso. Devo confessare che non lo comprendo. Per me si tratta d’un’evasione. Non
d’un’evasione volontaria. Infatti si finisce per ammettere il fatto che abbiamo due teorie, due immagini
della materia che non si accordano, di modo che qualche volta dobbiamo far uso dell’una, qualche volta
dell’altra76.
Con questo mi sembra che lo posizioni siano sufficientemente chiarite. Per altro, in forma un
po’ modificata e raffinata dai succesivi sviluppi della meccanica quantistica, la posizione di Schrödinger,
viene oggi, nella sostanza, riproposta da Penrose il quale scrive:
Sto adottando l’opinione che la realtà fisica della posizione della particella sia, in effetti il suo
stato quantico ψ 77.
La realtà della particella sarebbe, quindi, rappresentata dalla funzione d’onda.
L’interpretazione indeterministica della meccanica quantistica ha le seguenti difficoltà: 1) non
fornisce un’immagine univoca del mondo, ma permane la dualità onde-particelle, questo è vero che si
accetti o meno in modo esplicito il principio di complementarità. Si ha, quindi, a ben vedere, in forma
diversa una riproposizione non risolta del dualismo; 2) è difficile accettare non solo che l’osservazione
modifichi un evento, ma che, in certe circostanze, sembri determinarlo.
L’interpretazione detereministico-realista ha molte difficoltà: 1) anche qui permane il problema
del dualismo non risolto e, questa volta quasi nella forma tradizionale di fenomeno-noumeno.
Specialmente Planck, quando distingue tra immagine del mondo e realtà, sembra riferirsi a questa come
a qualcosa del tutto indipendente dall’uomo, un noumeno, appunto. In verità qualcosa che pare
inattingibile; 2) la meccanica quantistica non ha avuto alcuna evoluzione in senso deterministico.
Questo naturalmente non significa che non possa averla, ma certo l’asserire che esiste una teoria
deterministica di cui non conosciamo praticamente nulla e che sarà la base di una attuale teoria nella
sostanza indeterministica, appare un escamotage un po’ troppo facile.
Paolo Bussotti
Dottore di ricerca in storia della scienza
Ricercatore fondazione Humboldt 2003-2005
[email protected]
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Ibidem, p. 61.
77 Penrose, 1989, 1998, p. 313.
75
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