Il dogma del cogito e la libertà del silenzio > di Erika Ranfoni* L'uomo esiste. Questo è un dato di fatto indiscutibile. Ciascuno di noi sente di esistere in un luogo e in un tempo. Ciascuno ha dunque la percezione chiara e distinta del proprio sé, ne ha coscienza. L'auto-consapevolezza è un sorta di postulato che domina tutta la nostra esistenza fin dal momento della nascita e nel corso dell'intera vita. Siamo posti e collocati nella grammatica del mondo reale fin dal principio come esseri capaci di leggerne i segreti più profondi perché dotati del fondamentale potere della percezione e del pensiero del proprio sé, potere che si erge come un a priori dogmatico e inconfutabile. L'uomo nasce nel pensiero e attraverso la certezza del proprio sé legge la trama del mondo. Il pensiero, il cogito di tradizione cartesiana costituisce uno dei pilastri della cultura occidentale, inteso come atto fondativo dell'esistenza dell'uomo, che nella capacità di pensar-si riconosce la prova del proprio esser-ci. L'uomo pensa e dunque esiste in quanto è capace di produrre delle idee chiare e distinte. Il pensiero, in questa specifica ottica, è identificato con un'azione peculiare: quella della catalogazione e della classificazione degli eventi, sentimenti, delle azioni e relazioni nella catena della consecutio temporum. Un pensiero evidente, chiaro e distinto è tale se genera prevedibilità, se è ordinato in base a delle categorie e se consente a ciascun individuo di catalogare il suo essere gettato in uno spazio e in un tempo, in una catena di causa ed effetto. Ma possiamo affermare davvero che il pensiero/uomo sia riducibile unicamente a questa categoria del noto? Come non cogliere la grave conseguenza di un tale ragionamento? Questa logica stringente rischia infatti di degenerare in una legge dell'effettiva produttività, in base alla quale nel pensare, comunicare e stabilire relazioni significanti, è degno di senso solo ciò che produce qualcosa di tangibile ed evidente. Il cogito cartesiano, portato alle sue estreme conseguenze, rischia di identificarsi nella crudele legge dell'effettiva produttività, nella crudele concezione dell'uomo come essere degno di tale nome solo se produce qualcosa di catalogabile, classificabile e dunque controllabile. Il pensiero, in questa ottica, coincide con il dogma della certezza e in questa prospettiva il pensiero del sé è elemento sotteso, quasi scontato, all'esistere. L'uomo è già dato a se stesso come pensiero, come evidenza innata e pertanto nessuna domanda può scalfirlo, nessun silenzio può colmarlo. Da questa prima degenerazione deriva un'altra distorsione relativa al concetto di parola, associato a quello di suono. La parola è tale in quanto si sente, perché è possibile ascoltarla. Il suono è in realtà solo l'esito finale della parola stessa. La parola è molto altro. Essa è originariamente un'intenzione e un gesto. Il gesto dello scoprire, del porsi in relazione con l'elemento dell'alterità custodita in ciascun Io e in ciascun Tu. La parola è dunque un processo che ha nel pensiero il suo a priori. Il pensare non può dunque essere identificato solo con la produzione di concetti, esso nasce infatti dalla volontà della conoscenza, che altro non è che volontà di scoperta, gesto originario di ospitalità dell'altro da sé, lo sconosciuto, l'ignoto. Al fine di comprendere il concetto di conoscenza in tutta la sua complessità, è utile soffermarsi sulla riflessione del filosofo Michel Serres, il quale indaga l'originaria etimologia greca della parola episteme (conoscenza), in cui epi significa su, mentre istamai significa stare. Episteme, afferma Serres, indica nella arcaica lingua greca il cippo funerario: la lapide che emerge dalla terra e custodisce il corpo del defunto, la sacralità nascosta. Episteme, intesa come scienza e conoscenza razionale è ciò che sta su, che è chiaro, evidente e distinto solo perché ha qualcosa alla sua base, che non si vede, ossia ha alla sua radice un fondo di indicibilità e inconoscibilità. Questa prospettiva interpretativa sul concetto di conoscenza stravolge totalmente la concezione dogmatica del pensiero e pone in evidenza la centralità di un altro elemento: il silenzio. Il silenzio è infatti l'opposto della mancanza di parola e di pensiero, al contrario ne costituisce l'a priori, è l'indicibile che fonda il dicibile. Il silenzio è, mutuando un'espressione di Heidegger, la fonte dei nomi, ciò che non può essere detto ma senza il quale nulla si può dire. Il silenzio si configura come la genesi stessa della parola, intesa e concepita come volontà di significazione, volontà di accoglienza dell'alterità. Solo nel silenzio, nella presenza pura del proprio sé, quella che è quasi impossibile toccare e vedere, si può fare spazio all'altro. E' unicamente in questo atto di ospitale volontà che vengono alla luce il pensiero e la parola. Il silenzio non è assenza del dire, ma suo atto fondativo necessario e ineliminabile. Il silenzio fonda il pensiero e la parola come gesti di relazione e conoscenza. Il silenzio è in realtà forma di radicale ed autentica presenza del pensiero per eccellenza: il pensiero incarnato che ciascun essere umano è. La caduta del dogma del cogito si configura come l'a priori dell'agire di ogni pratica filosofica, di ogni vita filosofica, in quanto non sarebbe possibile concepire la nascita e lo sviluppo di un divenire dialettico e trasformativo di un soggetto limitato dal suo stesso potere e dalla sua cecità di fronte a se medesimo. Ogni filosofia nasce da una scelta, da una decisione fondamentale: sospendere ogni giudizio definitivo, ogni paradigma definitorio, ogni certezza rassicurante. Il gesto filosofico nasce dal coraggio del tacere, dall'audacia del silenzio e dalla profondità del suo spazio indefinito e smisurato. Può apparire un paradosso accostare il concetto del tacere allo stile filosofico da sempre associato al dire. Il termine paradosso è in realtà quello più adeguato a questa associazione semantica dal momento che esso nella sua originaria etimologia greca indica ciò che va oltre la doxa, ossia oltre l'opinione comune. Una riflessione filosofica è sempre fondata sulla messa in atto di questo gesto, ossia sull'andare oltre ogni opinione e ogni luogo comune su cui essa si fonda per decostruirla, per comprenderla e capovolgerla. Ma ogni capovolgimento, ogni audace sconvolgimento del reale non parte sempre dal silenzio muto e devastante dell'incertezza e del dubbio? Ogni metamorfosi non nasce forse dalla coraggiosa e dolorosa libertà del non sapere? «La vita filosofica richiede infatti un cambiamento nel nostro modo d'essere, non è un'azione (mentale-fisica) che si aggiunge alle tante altre nostre azioni quotidiane. Si tratta piuttosto di mutare la nostra stessa presenza. (…) Il filosofico della vita ha il carattere della sospensione, che si concretizza nella vita esaminata, nella interrogazione; investe il campo della presenza attraverso le coordinate del tempo e dello spazio; si sviluppa attraverso il colloquio e può essere reso più ricco attraverso l'esercizio» [1]. Il gesto filosofico per eccellenza è dunque il pensare che nasce da un interrogativo radicale sul pensiero stesso, ossia la domanda di senso che il soggetto pone in relazione alla sua stessa presenza e che richiede come punto di partenza il coraggioso tacere di ogni certezza. L'abbandono di ogni atteggiamento dogmatico è un atto complesso, doloroso, perché comporta la perdita di ogni apparente determinatezza e chiarezza d'essere e di esistere, ogni certa presenza. La caduta di ogni forma di assolutismo ontologico relativo a convinzioni, idee, scelte, valori, è la premessa necessaria, l'incipit originario di una presenza, ossia di un modo d'essere e di pensare che voglia definirsi filosofico. La consapevolezza della a-dogmaticità dell'essenza del pensiero è in realtà la scoperta della vera e autentica natura dell'uomo, del suo essere un inesauribile divenire, un infinito cominciamento così come afferma Hannah Arendt: «E' nella natura del cominciamento che di nuovo possa iniziare senza che possiamo prevederlo in base ad accadimenti precedenti. (...) Il nuovo si verifica sempre contro la tendenza prevalente delle leggi statistiche e della loro probabilità, che a tutti gli effetti pratici e quotidiani corrisponde alla certezza; il nuovo appare sempre alla stregua di un miracolo. Il fatto che l'uomo sia capace di azione significa che da lui ci si può attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» [2]. Pensare, alla luce di quanto detto, e soprattutto pensare filosoficamente significa vedere la realtà con gli occhi della meraviglia propria di ogni nuovo cominciamento, propria dell'unicità che ogni esistenza umana possiede come fondamento del suo poter sempre essere oltre se stessa. [1] Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica, Mimesis, Milano-Udine, 2010, p. 36. [2] Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, 2004, p. 129. * Erika Ranfoni (1978) opera come Docente di Filosofia e come Filosofo pratico nella realizzazione di percorsi di consulenza e formazione per privati ed organizzazioni. Nel 2004 consegue la Laurea magistrale in Filosofia presso l'Università degli studi di Lecce e nel 2007 inizia la sua esperienza professionale come docente di Storia e Filosofia nella scuola secondaria. Appassionata allo studio del pensiero e della mente nel 2011 consegue la Laurea in psicologia presso l'Università Internazionale Uninettuno e nel marzo 2012 l'abilitazione professionale come Dottore in tecniche psicosociali presso l'Università degli studi di Bari. Dal 2010 è curatrice di seminari di formazione e di studio nell'ambito dell' ethics of care e di percorsi di consulenza nell'ambito delle Pratiche filosofiche. Filosofia e nuovi sentieri/ISSN 2282-5711 http://filosofiaenuovisentieri.it/2013/07/13/il-dogma-del-cogito-e-la-liberta-delsilenzio/ © Filosofia e nuovi sentieri 2013. Tutti i diritti riservati