GIACOMO LEOPARDI
IL POETA DELL’OTTOCENTO
© GSCATULLO
Giacomo Leopardi
L’Autore
“L’anima del Leopardi era nobilissima, delicatissima, quella di una creatura angelica,
straboccante di desiderio d’amore e di amicizia” (Prezzolini)
Biografia1
Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati, un paese oggi in provincia di Macerata, da una famiglia
appartenente alla nobiltà dello Stato Pontificio, primogenito del conte Monaldo e di Adelaide dei marchesi
Antici. Trascorre la sua infanzia nella biblioteca paterna, dove si appassiona degli eroi classici, costituita nel
corso degli anni dal padre Monaldo che riservò in essa grande spazio alla tradizione classica, alla filologia, alla
letteratura e alla filosofia del Settecento. La lettura e lo studio avvicinarono Giacomo alla scrittura, tanto che
in gioventù recitava operette davanti la famiglia e gli ospiti.
Tra il 1809 e il 1816 Leopardi passa sette anni di studio matto e disperatissimo, approfondendo la sua
formazione filologica, letteraria e filosofica. Lo studio aggrava la sua già cagionevole salute: possedeva infatti
due gobbe. La comparazione tra i mondi che la letteratura gli apriva e lo sguardo con cui sapeva affacciarsi
sul mondo, confrontati con l’angustia dello spazio ristretto in cui vive cominciarono a renderlo infelice. Soffre
per la famiglia autoritaria, per la condizione fisica e la mancanza di affetti.
Tra il 1815 e il 1816 l’insoddisfazione lo spinse a concentrarsi ancora di più sullo studio, così da maturare una
vera e propria conversione letteraria, si appassionò al concetto di bello, si dedica a nuovi esperimenti di
traduzioni e a nuove poetiche, come l’idillio Le rimembranze e la cantica Appressamento della morte.
Nel 1817 la corrispondenza con Pietro Giordani lo avvicina alla tradizione classicista ed illuminista
allontanandolo ulteriormente dalle ideologie reazionarie del padre contro il governo della Francia
napoleonica. È in questo periodo che inizia la stesura dello Zibaldone di Pensieri. Nel dicembre del 1817
durante una visita a Recanati della cugina del padre Gertrude Cassi Lazzari sperimentò per la prima volta
l’amore, che espresse nel Diario del primo amore e nell’Elegia prima.
È in questo periodo che aumentano in Leopardi l’insofferenza presso il presente e la società contemporanea
che sentiva come corruttrice e nemica dei valori autentici della natura, giungendo così al pessimismo storico
espresso nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), che considerava la poesia un ritorno
alla vitalità della natura antica. Nello stesso anno scrisse le due canzoni civili All’Italia e Sopra il monumento
di Dante che si preparava in Firenze.
Nel 1819 organizza un primo tentativo di fuga dalla casa familiare scoperto dal padre. Il che lo fece
sprofondare in una cupa disperazione, che accompagnava il distacco dalla religione e l’avvicinamento alla
filosofia materialistica, è la conversione filosofica.
Tra il 1819 e il 1823 continua a lavorare sullo Zibaldone e sulle Canzoni che furono pubblicate a Bologna nel
1824, scrive poi gli idilli raccolti nel volume Versi apparso a Bologna nel 1826. Nel novembre del 1822 riesce
finalmente ad allontanarsi da Recanati, ospite a Roma degli zii Antici fino al maggio del 1823. Il soggiorno a
Roma si rivela l’ennesima delusione: scrive spesso ai familiari, non si emoziona davanti ai monumenti, non si
sente accolto dall’ambiente letterario locale trovando invece più stimolanti i rapporti con gli studiosi
stranieri. Il suo pessimismo da storico diventa cosmico. La partecipazione politica e l’impegno a Roma si
rivelano inutili, dice, poiché la stessa natura sono contrarie alla felicità dell’uomo.
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Rielaborata da https://www.youtube.com/watch?v=CD5VAfXx5is
Compone nel 1823 l’ultima canzone Alla sua Donna e nel 1824 le Operette Morali. Nel 1825 lascia
nuovamente Recanati e si reca a Milano dove lavora per l’editore Stella e redige l’edizione completa delle
opere di Cicerone, inoltre incontra il poeta e drammaturgo Vincenzo Monti. Si sposta poi a Bologna dove
lavora ad un commento a Petrarca e frequenta alcuni personaggi importanti della città come il conte Carlo
Pepoli e la contessa Teresa Carmiani Malvezzi, innamorandosi di quest’ultima senza essere ricambiato.
Tornato a Recanati per un breve periodo, ma nel giugno 1827 riparte per trasferirsi a Firenze. Qui viene
accolto dal gruppo di Antologia, periodico di letteratura e politica, e da Giovan Pietro Vieusseux, fondatore
del famoso gabinetto Vieusseux per la promozione della cultura, nel 1820. In questo ambiente entra in
contatto con molti letterati tra cui Alessandro Manzoni, nel 1828 legge il romanzo I Promessi Sposi. A Firenze
scrive il Dialogo di Plotino e Porfirio.
Nel novembre del 1827 si trasferisce a Pisa dove nel 1828 scrive Il risorgimento e A Silvia, nel giugno dello
stesso anno torna a Firenze dove incontra Vincenzo Gioberti che lo riaccompagna a Recanati. Qui tra il 1828
e il 1830 scrive quattro tra i suoi componimenti più noti: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, il sabato
del villaggio e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Nel 1830 lascia definitivamente Recanati per tornare a Firenze, aiutato economicamente dagli amici che
aveva sul posto, dove vive a stretto contatto con conoscenti. Conobbe la nobildonna Fanny Targioni Tozzetti
di cui si innamora e si trasferisce a casa dello scrittore Antonio Ranieri. Con quest’ultimo soggiorna a Roma
dall’ottobre del 1831 al marzo del 1832, per poi tornare a Firenze sino all’estate del 1833. L’amore per la
Targioni Tozzetti, non ricambiato, gli ispira una serie di componimenti ricordati come Ciclo di Aspasia; alla
delusione amorosa si aggiunge la sofferenza fisica per l’aggravarsi della sua malattia agli occhi.
Nel 1833 Ranieri e Leopardi si trasferiscono a Napoli dove si aggiunge a loro la sorella del primo, Paolina. A
Napoli, complice un clima che sembra più sereno, lavora ai Paralipomeni della Batracomiomachia e alla nuova
edizione dei Canti, pubblicata nel 1835 ma sequestrata l’anno successivo dalla polizia borbonica. Nel 1836
Giacomo, Antonio e Paolina trascorrono lunghi soggiorni a casa dell’avvocato Giuseppe Ferrigni ai piedi del
Vesuvio, tra Torre del Greco e Torre Annunziata, ritrovando una certa serenità. Qui compone La ginestra e Il
tramonto della Luna. Le sue condizioni si aggravano: muore a Napoli il 14 giugno 1837 e viene sepolto nella
chiesetta di San Vitale. Dal 1939 i suoi resti si trovano a Mergellina presso il Parco Virgiliano a Piedigrotta.
Pensiero
Tra l’estate del 1817 e il dicembre 1832 Leopardi raccolse diversi appunti nel così detto Zibaldone dei pensieri,
nome che attribuirà lui stilandone un indice analitico nel 1827 a Firenze. Questo testo, sconosciuto fino al
1898-1900 quando sarà pubblicato in sette volumi, raccoglie i pensieri dell’autore e la loro evoluzione nel
corso degli anni. Quello di Leopardi non è però un pensiero filosofico sistematico ma avanza per problemi,
seguendo lo sviluppo della sua intera opera.
Profondamente legato all’illuminismo, e non curante dello sviluppo idealista della filosofia ottocentesca, il
pensiero di Leopardi si sviluppa sostanzialmente come un pessimismo storico per cui alla natura, vitale e
produttrice di illusioni, si oppone il vero, proprio della società moderna; solo gli antichi erano felici perché
potevano illudersi, ai moderni non è più concesso. Intorno al 1819 ha la così detta conversione filosofica e si
avvicina al sensismo, che ritiene l’esperienza sensibile la fonte di ogni conoscenza. Inoltre si avvicina alla
tendenza illuminista del meccanicismo materialistico, per cui l’uomo è materia pensante, parte di una natura
che segue le proprie leggi ed esclude l’esistenza di Dio. Nel 1823 elabora infine il suo pessimismo cosmico per
cui la natura è matrigna e ostile all’uomo, sempre e in ogni tempo, quasi costretto ad abbandonare le illusioni
e approfondire la conoscenza del vero, esso è perennemente infelice.
La teoria del Piacere
L’iniziale esaltazione della natura e delle illusioni si lega in parte al pensiero di Rousseau, e, dopo la
conversione filosofica, si inserisce nella visione sensistica. Leopardi si interroga sul problema della felicità,
per sperare di raggiungere la quale l’uomo ricorre alle illusioni secondo quella che il Recanate chiama “teoria
del piacere”: ogni azione umana tende ad ottenere un piacere infinito, ma tutte le sensazioni saranno sempre
una soddisfazione parziale di questo piacere. Per provare a soddisfarlo si ricorre alle illusioni, capaci di
rappresentare l’infinito, che però si rivelano inevitabilmente tali all’uomo moderno conscio del vero. Ne
consegue uno stato di necessaria frustrazione e dolore, da cui ci si discosta per brevi momenti che sono
inquadrabili essi come “piacere”.
Classicisti e romantici
Attraverso le riviste che giungevano a Recanati, Leopardi seguì lo svolgersi della polemica tra classicisti e
romantici, cercando anche di partecipare attivamente con interventi che però non furono pubblicati. Scrisse
una Lettera ai sigg. compilatori della «Biblioteca italiana», datata 18 luglio 1816, rispondendo ad una lettera
con cui Madame de Staël aveva replicato ad un suo intervento iniziale. Scrisse anche un più ampio Discorso
di un italiano intorno alla poesia romantica, spedito nel marzo 1818 all’editore Stella, in risposta ad un
articolo di Ludovico di Breme pubblicato sullo «Spettatore»: Leopardi difende le posizioni classiciste, infatti
esse sono vicine al «primitivismo classico», lo stesso teorizzato da Rosseau, per cui gli antichi sono più a
contatto con la natura e imitandola possono illudere e dilettare, mentre i moderni hanno perso questa
capacità.
Si è comunque molto dibattuto sull’adesione di Leopardi al classicismo o al romanticismo, da quest’ultimo si
distacca frequentemente e spesso con tono polemico, ma neppure bisogna pensare ad un classicismo che ha
nella ricerca di armonia e di un modello di comportamento la sua anima principale: Leopardi è assolutamente
originale, riprende l’agonismo classicista, ignoto ai romantici italiani, ma se ne distacca dagli schemi.
Opere
Gli idilli e i canti recanatesi
Dopo la conversione filosofica al sensismo del 1819, Leopardi sentì l’esigenza di una nuova letteratura che
rigettasse le convinzioni impostegli dalla sua educazione e, pur mantenendo i valori classici, potesse essere
moderna e rispondere in modo diretto alla situazione e alla sensibilità del presente. Scrive perciò gli idilli,
termine che indicava originariamente un componimento breve e pastorale, non un genere preciso ma una
forma poetica sfumata capace di dar spazio all’immaginazione, che parte dall’osservazione della natura e
passa per i suoi percorsi mentali, e su cui tanto in quel periodo andava riflettendo.
Questi componimenti si possono dividere in Piccoli idilli (1919-1821) e Grandi Idilli, o canti, scritti tra il 1828
e il 1830 durante l’ultimo soggiorno a Recanati, che riprendono i toni della prima raccolta. Tra i più noti
troviamo L’Infinito, che partendo dall’osservazione dell’ermo colle permette al poeta di trascendere lo
spazio-tempo; Alla luna, dove immagina un sentimentale colloquio con la luna; La sera al dì di festa, che vede
il poeta immaginare un dialogo con una donna lontana e ignara di lui.
Tra i Grandi Idilli citiamo sicuramente Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui Leopardi è
palesemente giunto a quel suo pessimismo cosmico, affidato ad un pastore errante dell’Asia i quali, aveva
letto su una rivista francese, passano la notte seduti su pietre «a guardare la luna e a improvvisare parole
piuttosto tristi su arie che lo sono altrettanto». Il pastore immagina di dialogare con la luna e si chiede il senso
dell’esistenza, ma ne resta solo un tedio, un momento di noia tra dolore e desiderio; si chiede allora se gli
animali stiano meglio, se siano più felici degli uomini, ma giunge alla conclusione dell’infelicità universale: «è
funesto a chi nasce il dì natale».
Le operette morali
Fin dal 1819-1820 Leopardi desiderava scrivere dei «dialoghi satirici alla maniera di Luciano», in una prosa
aggressiva e paradossale, oscillante tra filosofia e mito. Questo desiderio di concretizza con l’affermarsi del
suo pessimismo materialista, nel corso del 1824, quando inizia a scrivere le Operette morali. Modello, come
già detto, fu Luciano, ma anche i dialoghi di Platone, da cui riprende lo stile mitico per narrare verità
sull’uomo, nel caso di Leopardi sull’infelicità. Riprende tra l’altro la teoria del piacere, già esposta nello
Zibaldone, per sottolineare con più forza l’infelicità dell’uomo, estraneo alla Natura e ai margini di un
Universo che crede di dominare, Leopardi accusa la civiltà di essere inconsistente ed anticipa il tema
dell’analisi critica della civiltà sua contemporanea.
Il libro delle Operette morali ha una compattezza e un’organicità, ha di fondo il tema dell’addio e della
condanna delle illusioni della vita, nonostante ciò grande variabilità offrono le singole opere che lo
compongono. Il punto più alto dell’opera è raggiunto nel Dialogo della Natura e di un Islandese in cui un
islandese, che aveva sempre rifugiato la vita comune con gli uomini, si ritrova ugualmente schiacciato da una
natura disinteressata della condizione umana.
Scrive ancora due operette tra il 1832 e il 1834, tra cui il Dialogo di Tristano e di un amico, energica difesa
delle Operette e del suo pessimismo, che Leopardi porta avanti per bocca di Tristano, che ironicamente si
finge appassionato dei suoi tempi contemporanei ma che rivela in realtà essere legato al vero, a combattere
l’inganno degli uomini che portano avanti verso loro stessi sin dagli antichi, anelando la morte come unica
soluzione a questo pessimismo.
Altre opere
Tra le altre opere citiamo il ritorno di Leopardi alla poesia, scrivendo dei componimenti legati alla
frequentazione di Fanny Targioni Tozzetti: è il ciclo di Aspasia, dal nome della donna dell’ultimo
componimento, che provoca nel poeta il desiderio dell’amore e della fisicità, disilluso però nel breve A se
stesso in cui dichiara di liberarsi dall’ultima definitiva illusione.
Fondamentale poi l’ampia canzone La ginestra, o il fiore del deserto, scritta nella primavera del 1836, a Torre
del Greco, e pubblicata per la prima volta dal Ranieri nell’edizione postuma dei Canti (1845). Questo
componimento, che vuole essere un messaggio di Leopardi ai posteri, racchiude forse tutto il sistema di
pensiero leopardiano. Egli paragona l’umanità ad una ginestra, il bel fiore che cresce sulle pendici del Vesuvio,
che una natura matrigna spazza via con un attimo di eruzione.
Nel componimento si susseguono immagini tenebrose, legate al secolo suo contemporaneo, e contrapposte
alla luce dell’Illuminismo. L’umanità, sembra voler dire Leopardi, deve prendere coscienza della realtà e tutta
ribellarsi contro la natura, senza lottare però, formando una civiltà solidale e nuova. Come la ginestra che si
piega sotto la lava del vulcano, non crede di essere il centro del mondo, né ha mai esaltato la natura, questa
la sola razionalità possibile all’uomo per Leopardi, attraverso l’immagine di un fiore classico, segno della
ragione e della bellezza.
Realizzato da Paolo Franchi, 5°BC (A.S. 2015/2016), il 17/06/16.
AMDG.