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JOHN POLKINGHORNE
TEORIA DEI QUANTI
TRADUZIONE DI ANDREA MIGLIORI
EDIZIONI
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Ringraziamenti
Indice
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Prefazione
Nuovi sviluppi
Capitolo 4
Le ombre del dubbio
Capitolo 3
Spunta l’alba
Capitolo 2
Crepe nell’edificio classico
Capitolo 1
xi
3
19
47
69
Capitolo 5
Inseparabili
Lezioni e significati
91
97
Appendice matematica
Glossario
Consigli di lettura
Elenco delle illustrazioni
Indice analitico
Capitolo 6
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125
129
131
133
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Prefazione
La scoperta della moderna teoria dei quanti, avvenuta intorno alla metà degli anni Venti, ha provocato forse la più grande rivoluzione nella nostra prospettiva sulla natura del mondo fisico dai tempi di Isaac Newton. Quello che fino ad allora era stato considerato un ambito nel quale avevano luogo
processi chiari e distinti rivelò, nelle sue radici subatomiche,
un comportamento oscuro e capriccioso. Paragonate a un rivolgimento di queste proporzioni, le grandi scoperte della
relatività ristretta e della relatività generale non sembrano essere molto più di un’interessante variazione su temi classici.
In effetti Albert Einstein, che della teoria della relatività fu il
progenitore, trovava la meccanica quantistica moderna così
lontana dalle sue inclinazioni metafisiche da esservisi opposto implacabilmente fino alla fine dei suoi giorni. Non è esagerato affermare che la teoria dei quanti sia stata uno dei più
grandi successi intellettuali del XX secolo, e che la sua scoperta abbia realmente rivoluzionato la nostra comprensione
dei processi fisici.
Stando così le cose, la bellezza delle idee quantistiche non
dovrebbe essere privilegio esclusivo dei fisici teorici. Una formulazione completa della teoria richiede l’utilizzo del suo linguaggio naturale, la matematica, ma molti dei suoi concetti
fondamentali possono essere resi accessibili al lettore comune
che voglia dedicare un po’ d’impegno al racconto di una scoperta stupefacente. Questo piccolo libro è stato scritto pensando a un lettore del genere. La sezione principale del testo è
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assolutamente priva di formule matematiche. Una breve appendice delinea alcuni semplici concetti matematici che chiariranno le idee a chi è in grado di digerire qualche boccone
più pesante (i rimandi alle sezioni dell’appendice compaiono
in grassetto nel corso del libro).
Sono passati più di 75 anni dalle prime scoperte, e da allora l’utilizzo della teoria dei quanti si è rivelato incredibilmente fecondo. Attualmente, la teoria viene applicata con
successo, e con un alto grado di affidabilità, allo studio dei
quark e dei gluoni (i candidati odierni al ruolo di costituenti fondamentali della materia nucleare), nonostante si tratti di
entità almeno 100 milioni di volte più piccole degli atomi il
cui comportamento era stato studiato dai pionieri quantistici. Ciononostante, c’è ancora un paradosso enorme. La citazione che apre questo libro lo esprime con tutta l’esuberanza
che caratterizzava i discorsi di un grande fisico quantistico
della seconda generazione, Richard Feynman, ma una cosa è
certa: anche se sappiamo fare i calcoli, non capiamo la teoria
così a fondo come dovremmo. Nel seguito del nostro racconto vedremo come restino irrisolte alcune cruciali questioni interpretative. La loro soluzione non richiederà solo
un’intuizione fisica, ma anche una decisione metafisica.
Da giovane, ho avuto l’onore di imparare la teoria dei
quanti da Paul Dirac in persona, durante il suo famoso ciclo di
lezioni a Cambridge. Il materiale delle lezioni di Dirac era
molto simile alla trattazione fatta nel suo libro più importante,
I principi della meccanica quantistica, uno dei grandi classici della
letteratura scientifica del XX secolo. Dirac non fu solamente il
più grande fisico teorico che conobbi personalmente: la sua
purezza di spirito e la sua modestia (non enfatizzò mai, neanche minimamente, l’enorme importanza dei suoi contributi ai
fondamenti della disciplina) ne fecero un esempio da seguire
e lo trasformarono in una sorta di santo della scienza. Dedico
questo libro, con umiltà, alla sua memoria.
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Capitolo 1
Crepe nell’edificio classico
La prima fioritura della scienza fisica moderna raggiunse il suo
culmine nel 1687, con la pubblicazione dei Principia di Isaac
Newton. Da quel momento la meccanica si affermò come
una disciplina matura, in grado di descrivere il moto delle particelle in maniera precisa e deterministica. La nuova scienza
sembrava essere così completa che, alla fine del XVIII secolo, il
più grande degli eredi di Newton, Pierre Simon Laplace, poté
pronunciare la sua ben nota affermazione: un essere dotato di
una potenza di calcolo illimitata e di una conoscenza completa della posizione di tutte le particelle a un dato istante potrebbe servirsi delle equazioni di Newton per predire il futuro dell’universo e per ricostruirne il passato con altrettanta certezza.
In realtà, nel raggelante meccanicismo di questa pretesa si vide
sempre lo spettro di una irrefrenabile hubris. Innanzitutto, gli
esseri umani non fanno esperienza di sé come automi meccanici. E poi, per quanto indubbiamente impressionanti, i risultati ottenuti da Newton non abbracciavano tutti gli aspetti del
mondo fisico conosciuto a quel tempo: restavano delle questioni irrisolte, che minacciavano la fede nella totale autosufficienza della sintesi newtoniana.Ad esempio, c’era il problema
della vera natura e dell’origine della legge universale della gravità, quella legge dell’inverso del quadrato che lo stesso Newton aveva scoperto ma sulla quale si era astenuto dal formulare
un’ipotesi. Un’altra questione in sospeso riguardava la natura
della luce. Qui Newton si concesse una certa libertà di speculazione, propendendo, nell’Ottica, per l’ipotesi che un fascio di
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luce fosse costituito da un insieme di minuscole particelle; una
teoria corpuscolare che si sposava con la sua tendenza a considerare il mondo fisico in termini atomistici.
La natura della luce
1. Somma di onde: (a) in fase; (b) fuori fase.
(b)
(a)
realizzate da Hans Christian Oersted e da Michael Faraday
dimostrarono che l’elettricità e il magnetismo, due fenomeni
che a prima vista sembravano avere proprietà molto differenti, erano in realtà strettamente legati tra di loro. Il modo di
combinarli in una teoria coerente dell’elettromagnetismo fu
poi trovato da James Clerk Maxwell, un uomo così geniale da
poter essere collocato a buon diritto sullo stesso piano di Isaac
Newton. Le famose equazioni di Maxwell, che costituiscono
ancora il fondamento della teoria dell’elettromagnetismo,
vennero formulate nel 1873 nel suo Trattato sull’elettricità e il
magnetismo, uno dei grandi classici della letteratura scientifica.
Maxwell capì che le equazioni possedevano delle soluzioni di
tipo ondulatorio e che la velocità delle onde era funzione di
costanti fisiche note. Quella velocità, si scoprì, era la ben nota
velocità della luce!
Si dovette aspettare il XIX secolo perché la comprensione della
natura della luce facesse realmente qualche passo avanti. Nel
1801,Thomas Young presentò una prova convincente del fatto
che la luce aveva le proprietà di un moto ondulatorio: si trattava di un’ipotesi formulata più di un secolo prima da un contemporaneo di Newton, l’olandese Christiaan Huygens. Le osservazioni cruciali effettuate da Young si erano concentrate su
quel tipo particolare di effetti chiamati oggi “fenomeni di interferenza”. Un esempio tipico sono le strisce alterne di luce e
di buio che, per ironia della sorte, erano state messe in evidenza
proprio dallo stesso Sir Isaac e sono dette appunto “anelli di
Newton”. Fenomeni del genere sono caratteristici delle onde,
proviamo a capire da dove nascono. La maniera in cui due treni
d’onda si combinano dipende dalla relazione tra le loro oscillazioni: se queste vanno a tempo (sono in fase, come dicono i fisici), allora le creste coincidono con le creste, sommandosi e rafforzandosi massimamente a vicenda e, dove questo accada con
la luce, portando alla formazione di strisce luminose; se, invece,
i due insiemi di onde sono totalmente fuori tempo (fuori fase),
allora le creste coincidono con le valli, annullandosi a vicenda
in maniera distruttiva e dando origine a una striscia di buio. La
comparsa di figure di interferenza formate dall’alternanza di
luce e di buio, dunque, è un segno inconfondibile della presenza di onde. Le osservazioni di Young sembravano aver chiarito
la questione: la luce ha una natura ondulatoria.
Col passare degli anni, la struttura del moto ondulatorio
associato alla luce sembrò chiarirsi. Le importanti scoperte
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Il primo segno di quella che sarebbe stata la rivoluzione
quantistica si ebbe nel 1885, anche se all’epoca non venne riconosciuto come tale. Alla sua origine ci sono le divagazioni
matematiche di un insegnante svizzero di nome Balmer. Costui stava meditando sullo spettro dell’idrogeno, cioè sull’insieme di linee colorate distinte che si osservano quando la
luce prodotta dal gas incandescente viene suddivisa nelle sue
componenti mediante l’attraversamento di un prisma. I vari
colori corrispondono alle diverse frequenze (velocità di oscillazione) delle onde luminose. Giocherellando con i numeri, Balmer scoprì che tali frequenze potevano essere descritte da una formula matematica relativamente semplice
Gli spettri
la velocità della luce lungo due direzioni tra loro perpendicolari. Ci si aspettava che le velocità sarebbero risultate uguali
solo se, nell’istante stesso dell’esperimento, la Terra fosse stata
a riposo rispetto all’etere; si sarebbe potuto escludere un’eventualità del genere ripetendo la misura qualche mese dopo,
quando la direzione della Terra lungo la propria orbita sarebbe
stata diversa. Di fatto, Michelson e Morley non furono in
grado di misurare alcuna differenza di velocità. Per risolvere
il problema ci sarebbe voluta la teoria della relatività ristretta
di Einstein, che fece completamente a meno dell’etere. Quella grande scoperta esula dalla storia di cui ci stiamo occupando, anche se andrebbe detto che la relatività, per quanto sorprendente e ricca di implicazioni, conservò quelle proprietà
di chiarezza e determinismo tipiche della fisica classica. È per
questo che, nella Prefazione, ho affermato che la comprensione della relatività richiese uno sforzo di gran lunga minore rispetto al ripensamento radicale necessario per la teoria
dei quanti.
Questa scoperta è stata considerata il più grande trionfo della
fisica dell’Ottocento. Che la luce fosse composta da onde
elettromagnetiche sembrava essere un fatto stabilito una volta
per tutte, almeno nei limiti del possibile. Maxwell e i suoi
contemporanei vedevano queste onde come oscillazioni in
un mezzo elastico onnipresente, che prese il nome di “etere”.
In un articolo di enciclopedia, Maxwell avrebbe poi affermato che l’etere era l’entità dotata di maggiori conferme di tutta la teoria fisica.
La fisica di Newton e di Maxwell è quella che chiamiamo
fisica classica, e alla fine del XIX secolo era diventata un imponente edificio teorico. Non c’è da sorprendersi se i suoi patriarchi, come Lord Kelvin, erano giunti alla conclusione che
tutti i concetti fisici fondamentali fossero ormai conosciuti e
che tutto ciò che restava da fare fosse chiarirne i dettagli con
maggior precisione. Nell’ultimo quarto di quel secolo, a un
giovane tedesco che voleva avviarsi alla carriera accademica
accadde di essere messo in guardia dall’occuparsi di fisica: sarebbe stato meglio volgere lo sguardo altrove, perché la fisica
era arrivata al capolinea e le cose realmente degne di interesse erano ormai pochissime. Fortunatamente quel giovane, che
si chiamava Max Planck, ignorò l’avvertimento.
In realtà, la splendida facciata della fisica classica mostrava
le prime crepe. Poco dopo il 1880, gli americani Michelson e
Morley avevano effettuato degli esperimenti ingegnosi per
dimostrare il moto della Terra nell’etere. L’idea era che, se la
luce consisteva realmente di onde che si propagavano nell’etere, allora la misura della sua velocità avrebbe dovuto dipendere dal movimento dell’osservatore rispetto all’etere stesso.
Provate a pensare alle onde del mare: la loro velocità apparente, per chi le osservi da una nave, dipende dal fatto che
quest’ultima si muova nella stessa direzione delle onde o in
direzione opposta, risultando minore nel primo caso e maggiore nel secondo. L’esperimento si proponeva di confrontare
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(vedi l’Appendice matematica 1). A quel tempo, la cosa non
venne considerata più di una semplice curiosità.
In seguito si cercò di interpretare il risultato ottenuto da
Balmer nei termini delle nuove idee sulla struttura dell’atomo. Nel 1897, infatti, J.J.Thomson aveva scoperto che la carica negativa di un atomo era trasportata da particelle minuscole, cui venne dato il nome di “elettroni”. Si suppose che il
corrispettivo di carica positiva, necessario all’equilibrio, fosse
semplicemente distribuito in tutto l’atomo. L’ipotesi venne
battezzata “modello a panettone” (plum pudding model), con gli
elettroni che facevano la parte dell’uvetta e la carica positiva
quella del panettone. Risultò difficilissimo, però, far funzionare il modello in maniera soddisfacente dal punto di vista empirico.Vedremo che la spiegazione reale della stranezza scoperta da Balmer finì per essere trovata facendo ricorso a un
arsenale di concetti molto diverso. Nel frattempo, è probabile
la natura degli atomi sembrasse un argomento troppo oscuro
perché questi problemi potessero diffondere un’effettiva ansia
tra i ricercatori.
La catastrofe ultravioletta
radiativa, risultante dal contributo di molte frequenze diverse.
Pur essendo praticamente impossibile seguire ogni dettaglio di
ciò che capitava in sistemi così complessi, si potevano dedurre
alcuni aspetti importanti del loro comportamento globale,
poiché quest’ultimo deriva da una media approssimata dei
contributi dei tanti stati di moto individuali.Tra tutti gli stati
possibili, l’insieme più probabile domina perché la sua probabilità diventa schiacciante. Basandosi su questo criterio della
massima verosimiglianza, Clerk Maxwell e Ludwig Boltzmann riuscirono a dimostrare che era possibile calcolare in
modo affidabile alcune proprietà macroscopiche del comportamento globale di un sistema complesso, come la pressione di
un gas di cui si conoscano volume e temperatura.
Rayleigh applicò le tecniche della fisica statistica al problema di come si distribuisca l’energia tra le varie frequenze nel
caso della radiazione di corpo nero. Un corpo nero è un corpo che assorbe tutta la radiazione che lo colpisce, per poi riemetterla integralmente. Quella dello spettro della radiazione
in equilibrio con un corpo nero potrebbe sembrare una questione piuttosto esotica, ma in realtà esistono delle ottime approssimazioni di corpi neri, e dunque il problema può essere
analizzato, oltre che da un punto di vista teorico, anche sul
piano sperimentale, ad esempio studiando la radiazione all’interno di un forno allestito in modo particolare. La questione
era semplificata dal fatto che si sapeva che la risposta sarebbe
dipesa solo dalla temperatura del corpo e da nessun altro dettaglio della sua struttura. Rayleigh osservò che l’applicazione
diretta delle ben collaudate idee della fisica statistica portava
a un risultato disastroso: non solo le previsioni erano in disaccordo con lo spettro misurato, ma addirittura non avevano
alcun senso. Stando ai calcoli effettuati, infatti, alle frequenze
più alte si sarebbe dovuta concentrare una quantità infinita di
energia: una conclusione imbarazzante, che venne battezzata appunto “catastrofe ultravioletta”. Il carattere catastrofico
Molto più inquietante e stimolante era un altro problema, che
era stato portato alla luce nel 1900 da Lord Rayleigh e che
venne battezzato “catastrofe ultravioletta”. Alla sua origine vi
era l’applicazione dei concetti legati a un’altra grande scoperta
del XIX secolo: la fisica statistica. Qui gli scienziati stavano cercando di comprendere il comportamento di sistemi molto
complicati, nei quali i dettagli del movimento dei componenti potevano essere estremamente variabili. Come esempio di
un sistema del genere potremmo prendere un gas formato da
un gran numero di molecole diverse, ognuna con un suo stato
di moto specifico. Un altro esempio potrebbe essere l’energia
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Il passo successivo fu compiuto da un uomo che, lavorando
come impiegato tecnico di terza classe all’ufficio brevetti di
Berna, aveva un po’ di tempo libero a disposizione: il suo
nome era Albert Einstein. Nel 1905, che fu per lui un vero e
proprio annus mirabilis, Einstein fece tre scoperte fondamentali. Una di queste si rivelerà essere una nuova puntata della
nostra storia. Einstein aveva riflettuto sulle caratteristiche bizzarre che emergevano dallo studio dell’effetto fotoelettrico
L’effetto fotoelettrico
mittente della radiazione non era stato notato prima: una fila
di puntini ravvicinati sembra una linea continua.
Una conseguenza immediata di questa ipotesi ardita era
che la radiazione ad alta frequenza potesse essere emessa o assorbita solamente in eventi in cui fosse presente un singolo
quanto di energia significativamente elevata. Un simile dazio
energetico implicava che tali eventi ad alta frequenza fossero
fortemente limitati rispetto alle previsioni della fisica classica.
L’aver addomesticato le alte frequenze, quindi, non solo permetteva di sbarazzarsi della catastrofe ultravioletta, ma produceva anche una formula in perfetto accordo con il risultato
sperimentale.
Era chiaro che Planck aveva scoperto qualcosa di estremamente significativo. In un primo momento, però, né lui né altri furono sicuri su quale fosse, esattamente, questo significato.
In che misura i quanti andavano presi sul serio? Erano una caratteristica persistente della radiazione, o semplicemente un
aspetto delle modalità di interazione di quest’ultima con un
corpo nero? Dopo tutto, le gocce che escono da un rubinetto
formano una sequenza di quanti acquei, che però si fondono
col resto dell’acqua e perdono la loro identità individuale non
appena cadono nel lavandino.
della conclusione è abbastanza chiaro, e “ultravioletto” è un
altro modo per dire “alte frequenze”. Il disastro nasceva dal
fatto che, per la fisica statistica classica, ogni grado di libertà
del sistema (in questo caso, ogni singolo modo in cui può
oscillare la radiazione) riceve la stessa quantità prefissata di
energia, una quantità che dipende solo dalla temperatura.All’aumentare della frequenza aumenta il numero dei modi di
oscillazione corrispondenti, col risultato che le frequenze più
alte, dove si accumulano quantità illimitate di energia, divergono. Un problema del genere era qualcosa di più di uno
sgradevole difetto sulla splendida facciata della fisica classica.
Si trattava piuttosto di uno squarcio nell’edificio.
Ma nel giro di un anno, Max Planck, che ormai era diventato professore di fisica a Berlino, avrebbe trovato un modo
stupefacente per risolvere il dilemma. A suo figlio disse che
pensava di aver fatto una scoperta di importanza pari a quelle
di Newton. Sarebbe potuta sembrare un’affermazione pretenziosa, ma Planck stava semplicemente dicendo la pura verità.
Secondo la fisica classica, la radiazione avrebbe dovuto entrare e uscire ininterrottamente dal corpo nero, più o meno
come l’acqua entra ed esce da una spugna. Nel mondo della
fisica classica, fatto di cambiamenti graduali, sembrava che
non potessero esserci altre ipotesi plausibili. Planck, invece,
fece una proposta che andava nella direzione contraria, ipotizzando che la radiazione fosse emessa o assorbita in maniera
discreta, sotto forma di pacchetti di energia definita. Più precisamente, secondo Planck, il contenuto di energia di uno di
questi quanti (così erano stati battezzati i pacchetti) avrebbe
dovuto essere proporzionale alla frequenza della radiazione.
La costante di proporzionalità venne identificata come una
delle costanti universali della natura; oggi ci è nota come costante di Planck e viene indicata con il simbolo h. Il valore di
h è piccolissimo, se paragonato agli ordini di grandezza tipici
dell’esperienza di tutti i giorni. Ecco perché il carattere inter-
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liberati. Un aumento dell’intensità non era in grado di modificare l’energia trasferita in una singola collisione. Prendendo
sul serio l’esistenza dei quanti di luce (che in seguito furono
battezzati “fotoni”) si riusciva a spiegare il mistero dell’effetto
fotoelettrico. Il giovane Einstein aveva fatto una scoperta fondamentale, che infatti finì per valergli il premio Nobel. Probabilmente l’Accademia svedese ritenne che le altre due
grandi scoperte fatte da Einstein nel 1905 – la relatività ristretta e una dimostrazione convincente dell’esistenza reale
delle molecole – fossero ancora troppo speculative per poter
essere ricompensate nello stesso modo!
L’analisi quantistica dell’effetto fotoelettrico costituì una
grande vittoria per la fisica, anche se fu subito chiaro che si
trattava di una vittoria di Pirro.Adesso tutta la comunità fisica
si trovava ad affrontare una crisi gravissima: come riconciliare
con le nuove idee tutte le grandi intuizioni del XIX secolo
sulla natura ondulatoria della luce? Dopo tutto, un’onda è
qualcosa di diffuso, oscillante, mentre un quanto è come una
particella, una sorta di piccola pallottola. Come poteva essere
vero? Per un bel po’ i fisici dovettero convivere con lo scomodo paradosso della natura onda/particella della luce. Cercare di negare le scoperte di Young e Maxwell o quelle di
Planck e Einstein non avrebbe fatto fare passi avanti. Per
quanto possibile, bisognava restare aggrappati alla realtà sperimentale, anche se non si riusciva a trovarvi un senso.A quanto pare, furono in molti a servirsi della tattica decisamente
vigliacca di guardare da un’altra parte. Vedremo in seguito,
tuttavia, che la storia ebbe un lieto fine.
Nel frattempo l’attenzione si era spostata dalla luce agli atomi. Nel 1911, a Manchester, Ernest Rutherford cominciò a
L’atomo nucleare
(vedi Appendice matematica 2), quel fenomeno per cui un
fascio di luce può staccare alcuni elettroni da un metallo. I
metalli contengono elettroni in grado di muoversi al loro interno (il loro flusso è all’origine della corrente elettrica), ma
che non hanno energia sufficiente per sfuggire in maniera irreversibile al metallo. Che ci fosse un effetto fotoelettrico
non era affatto sorprendente: la radiazione trasferisce energia
agli elettroni intrappolati nel metallo e, se l’energia acquisita
è sufficiente, un elettrone può sottrarsi alle forze che lo tengono prigioniero. Da un punto di visto classico, gli elettroni
verrebbero eccitati dall’“ingrossarsi” delle onde luminose, e
alcuni di questi potrebbero essere perturbati abbastanza da
venire espulsi dal metallo. In un’ottica del genere, ci si aspetterebbe che l’entità dell’effetto dipenda dall’intensità del fascio, visto che è quest’ultima a determinarne il contenuto di
energia, e non dalla frequenza della luce incidente. Gli esperimenti, invece, mostravano esattamente il comportamento
opposto: al di sotto di una certa frequenza critica, per quanto
potesse essere intenso il fascio, non veniva emesso alcun elettrone; al di sopra di quella frequenza, anche un fascio debole
poteva scalzare qualche elettrone.
Einstein capì che questo comportamento bizzarro diventava immediatamente comprensibile se si considerava il fascio
luminoso come un flusso di quanti persistenti. Un elettrone,
allora, veniva scalzato quando uno di questi quanti lo colpiva
e gli cedeva tutta la sua energia. Secondo Planck, la quantità
di energia del quanto era direttamente proporzionale alla sua
frequenza. Allora, se la frequenza era troppo bassa, l’energia
trasferita nelle collisioni non era adeguata a liberare l’elettrone. D’altro canto, se l’energia superava un certo valore critico, quella acquistata dall’elettrone diventava sufficiente per
consentirgli di allontanarsi. L’intensità del fascio determinava
semplicemente il numero di quanti contenuti nel fascio, vale
a dire il numero di elettroni coinvolti nelle collisioni e quindi
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Come nel caso di Planck e della catastrofe ultravioletta, però,
c’era un fisico teorico pronto a venire in aiuto e a strappare il
successo dalle fauci del fallimento con un’ipotesi coraggiosa
e radicalmente nuova. Questa volta toccò a un giovane danese, Niels Bohr, che come Rutherford lavorava a Manchester.
Nel 1913 Bohr fece una proposta rivoluzionaria (vedi Appendice matematica 3): Planck aveva sostituito l’idea classica di
un processo nel quale l’energia entra ed esce senza soluzione
di continuità da un corpo nero con quella di un processo intermittente, in cui l’energia è emessa o assorbita sotto forma
di quanti. In termini matematici, ciò voleva dire che una
quantità come l’energia scambiata, che fino ad allora si era
pensato potesse avere un valore qualsiasi, andava considerata
ormai capace di assumere solo una serie di valori ben definiti
(1, 2, 3, … pacchetti scambiati). I matematici direbbero che il
continuo era stato rimpiazzato dal discreto. Bohr intuì che
poteva trattarsi di una tendenza generale della nuova fisica
che lentamente stava vedendo la luce, e così applicò agli atomi principi simili a quelli che Planck aveva applicato alla radiazione. Un fisico classico avrebbe ipotizzato che gli elettro-
L’atomo di Bohr
diazione, e quindi ad avvicinarsi rapidamente al nucleo. Una
conclusione del genere è a dir poco disastrosa, poiché implica
che gli atomi siano instabili: i loro elettroni seguirebbero delle traiettorie a spirale fino a collassare sul nucleo. Nel corso di
un tale processo di decadimento, inoltre, verrebbe emesso
uno spettro continuo di energia, che non ha nulla a che vedere con le frequenze spettrali ben distinte della formula di
Balmer. Dopo il 1911, il grande edificio della fisica classica
non presentava più solo qualche crepa: sembrava che fosse stato investito da un terremoto.
studiare insieme ai suoi giovani collaboratori il comportamento di alcuni minuscoli “proiettili” dotati di carica positiva, le particelle α, quando colpivano una sottile lamina d’oro.
Molte particelle α l’attraversavano quasi indisturbate ma, con
grande stupore degli sperimentatori, alcune di esse subivano
deviazioni importanti. In seguito Rutherford disse che la cosa
era altrettanto stupefacente di un proiettile di artiglieria navale da 15 pollici che rimbalzi contro un fazzoletto di carta. Il
modello atomico “a panettone” non era assolutamente in grado di spiegare un fenomeno del genere, le particelle α avrebbero dovuto passarci in mezzo come una pallottola in una
torta. Rutherford capì rapidamente che c’era solo una soluzione possibile: la carica positiva degli atomi d’oro che respingeva le particelle α, anch’esse positive, non poteva essere distribuita come in un panettone, ma doveva essere tutta confinata nel centro dell’atomo; solo un incontro ravvicinato con
una carica così concentrata avrebbe potuto far deviare una
particella α in maniera considerevole. Rispolverando un vecchio testo di meccanica, ricordo dei suoi giorni da studente
in Nuova Zelanda, Rutherford – che era un fisico sperimentale eccezionale, ma non un grande matematico – riuscì a mostrare che l’idea di un atomo con una carica positiva centrale
intorno alla quale orbitavano gli elettroni negativi spiegava
perfettamente il comportamento osservato. Il modello “a panettone” lasciò immediatamente il posto al modello atomico
“a sistema solare”. Rutherford e i suoi colleghi avevano scoperto il nucleo atomico.
Si trattava di un grande successo, ma anche in questo caso
sembrò trattarsi, a prima vista, di una vittoria di Pirro. In effetti, la scoperta del nucleo sprofondò la fisica classica in una
crisi ancora più profonda: se gli elettroni di un atomo girano
intorno al nucleo, la direzione del loro moto cambia in continuazione; secondo l’elettromagnetismo classico, questo li porterebbe a emettere parte della loro energia sotto forma di ra-
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Nel 1923, il fisico americano Arthur Compton analizzò la
diffusione (scattering) dei raggi X (radiazione elettromagnetica
ad alta frequenza) da parte della materia, e scoprì che la frequenza della radiazione diffusa era diversa da quella iniziale.
Era una cosa incomprensibile da un punto di vista ondulatorio: secondo quest’ultimo, infatti, il processo di diffusione era
dovuto agli elettroni degli atomi che assorbivano energia
dalle onde incidenti e la riemettevano senza che ciò implicasse una variazione di frequenza. Se si pensava in termini di
fotoni, invece, il risultato poteva essere spiegato agevolmente: quello che capitava era una collisione del tipo “palla da biliardo” tra un elettrone e un fotone, con il fotone che cedeva
all’elettrone una parte della propria energia. Stando alla teo-
La diffusione di Compton
molti versi, era ancora fisica classica. In realtà il lavoro d’avanguardia di Bohr era, essenzialmente, una riparazione, un
rammendo all’edificio sconquassato della fisica classica. I tentativi di estendere ulteriormente questi concetti si scontrarono ben presto con difficoltà sperimentali e contraddizioni
logiche. La “vecchia teoria dei quanti”, come venne battezzato l’insieme di quegli sforzi, era una combinazione goffa e
instabile delle idee classiche di Newton e Maxwell con le
prescrizioni quantistiche di Planck e Einstein. L’opera di
Bohr rappresentava un passo cruciale nello sviluppo storico
della fisica quantistica, ma non era altro che una tappa del
cammino verso la “nuova teoria dei quanti”, una descrizione totalmente unificata e coerente di tutte queste idee bizzarre. Prima di raggiungerla, si sarebbe dovuto scoprire un
altro fenomeno, che avrebbe sottolineato ancora di più la necessità imprescindibile di fare una volta per tutte i conti con
il pensiero quantistico.
ni che si muovevano intorno a un nucleo potessero seguire
orbite di raggio arbitrario; Bohr propose di sostituire quest’idea di continuità con quella, discreta, che i raggi potessero assumere solamente una serie di valori distinti e numerabili
(primo, secondo, terzo, …). Inoltre, servendosi di una formula che faceva ricorso alla costante di Planck, h, Bohr suggerì
un sistema ben preciso per determinare questi ipotetici raggi
(la sua proposta era legata al momento angolare dell’elettrone, una misura del moto rotatorio di quest’ultimo che si
esprime nelle stesse unità fisiche di h).
Le ipotesi di Bohr avevano due conseguenze. La prima, decisamente auspicabile, era il recupero della stabilità atomica.
Una volta che un elettrone si trovava nello stato corrispondente al raggio minimo consentito (che coincideva con lo stato di minima energia), non poteva andare da nessun’altra parte
e quindi non poteva perdere altra energia. L’elettrone avrebbe
potuto raggiungere tale livello minimo perdendo energia nella transizione da uno stato di raggio maggiore. Bohr ipotizzò
che in tal caso l’energia in eccesso sarebbe stata emessa sotto
forma di un solo fotone. I calcoli mostrarono che questa idea
conduceva direttamente alla seconda conseguenza dell’ipotesi
di Bohr: la predizione della formula di Balmer per le linee
spettrali. Dopo quasi trent’anni, quella misteriosa prescrizione
numerica smetteva di apparire come una stranezza inesplicabile per diventare una proprietà intelligibile della nuova teoria
atomica. La nitidezza delle linee spettrali fu interpretata come
un riflesso del carattere discreto che cominciava a essere riconosciuto come tratto distintivo del pensiero quantistico. La
traiettoria a spirale che ci si sarebbe dovuti aspettare sulla base
della fisica classica era stata sostituita da un salto quantico, una
transizione discontinua da un’orbita con un raggio consentito
a un’altra con un raggio consentito inferiore.
L’atomo di Bohr fu un grande trionfo.Tuttavia la sua nascita era stata ispirata da una rielaborazione di quella che, per
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Teoria dei quanti
ria di Planck, una variazione di energia equivaleva a una variazione di frequenza, e Compton riuscì così a dare una spiegazione quantitativa delle proprie osservazioni, fornendo la
prova più convincente del carattere corpuscolare della radiazione elettromagnetica.
Le perplessità sollevate dalla serie di scoperte che abbiamo
discusso in questo capitolo non vennero ignorate a lungo.
Due anni dopo i risultati di Compton si arrivò a una svolta
teorica sostanziale e duratura. Era l’alba della nuova teoria
dei quanti.
Capitolo 2
Spunta l’alba
Gli anni che seguirono la proposta rivoluzionaria di Max
Planck furono un periodo di confusione e incertezza per la
comunità dei fisici. La luce era fatta di onde; la luce era fatta
di particelle. Modelli carichi di promesse, come l’atomo di
Bohr, tenevano in vita la speranza che una nuova teoria fisica
non fosse lontana, ma l’applicazione imperfetta di questi rattoppi quantistici alle macerie della fisica classica dimostrava
che, per avere una descrizione coerente, sarebbero state necessarie delle idee nuove. Quando finalmente spuntò la luce,
accadde all’improvviso come in un’alba tropicale.
La moderna teoria quantistica fu pronta a spiccare il volo
tra il 1925 e il 1926. Nella memoria collettiva dei fisici teorici quegli anni mirabiles restano importantissimi e ancora
sono guardati con soggezione, nonostante quell’epoca eroica
non appartenga più ai ricordi personali dei vivi. Ogni volta
che qualche sommovimento coinvolge gli aspetti fondamentali della fisica teorica contemporanea, può capitare di
sentir dire: «Ho la sensazione che questa volta sarà proprio
come nel 1925». Un’affermazione che contiene una nota di
malinconia. Come disse Wordsworth a proposito della Rivoluzione francese: «Beatitudine fu in quell’alba essere vivi; ma
essere giovani fu davvero il paradiso!». In effetti, anche se
negli ultimi 75 anni sono stati fatti molti progressi importanti, non si è più resa necessaria una revisione radicale dei
principi fisici come quella che accompagnò la nascita della
teoria dei quanti.