Polkinghorne_i-xii 9-10-2007 10:51 Pagina ii JOHN POLKINGHORNE TEORIA DEI QUANTI TRADUZIONE DI ANDREA MIGLIORI EDIZIONI Polkinghorne_i-xii 9-10-2007 10:51 Pagina vi Ringraziamenti Indice ix Prefazione Nuovi sviluppi Capitolo 4 Le ombre del dubbio Capitolo 3 Spunta l’alba Capitolo 2 Crepe nell’edificio classico Capitolo 1 xi 3 19 47 69 Capitolo 5 Inseparabili Lezioni e significati 91 97 Appendice matematica Glossario Consigli di lettura Elenco delle illustrazioni Indice analitico Capitolo 6 111 125 129 131 133 Polkinghorne_i-xii 9-10-2007 10:51 Pagina x Prefazione La scoperta della moderna teoria dei quanti, avvenuta intorno alla metà degli anni Venti, ha provocato forse la più grande rivoluzione nella nostra prospettiva sulla natura del mondo fisico dai tempi di Isaac Newton. Quello che fino ad allora era stato considerato un ambito nel quale avevano luogo processi chiari e distinti rivelò, nelle sue radici subatomiche, un comportamento oscuro e capriccioso. Paragonate a un rivolgimento di queste proporzioni, le grandi scoperte della relatività ristretta e della relatività generale non sembrano essere molto più di un’interessante variazione su temi classici. In effetti Albert Einstein, che della teoria della relatività fu il progenitore, trovava la meccanica quantistica moderna così lontana dalle sue inclinazioni metafisiche da esservisi opposto implacabilmente fino alla fine dei suoi giorni. Non è esagerato affermare che la teoria dei quanti sia stata uno dei più grandi successi intellettuali del XX secolo, e che la sua scoperta abbia realmente rivoluzionato la nostra comprensione dei processi fisici. Stando così le cose, la bellezza delle idee quantistiche non dovrebbe essere privilegio esclusivo dei fisici teorici. Una formulazione completa della teoria richiede l’utilizzo del suo linguaggio naturale, la matematica, ma molti dei suoi concetti fondamentali possono essere resi accessibili al lettore comune che voglia dedicare un po’ d’impegno al racconto di una scoperta stupefacente. Questo piccolo libro è stato scritto pensando a un lettore del genere. La sezione principale del testo è Polkinghorne_i-xii xii 9-10-2007 10:51 Pagina xii Teoria dei quanti assolutamente priva di formule matematiche. Una breve appendice delinea alcuni semplici concetti matematici che chiariranno le idee a chi è in grado di digerire qualche boccone più pesante (i rimandi alle sezioni dell’appendice compaiono in grassetto nel corso del libro). Sono passati più di 75 anni dalle prime scoperte, e da allora l’utilizzo della teoria dei quanti si è rivelato incredibilmente fecondo. Attualmente, la teoria viene applicata con successo, e con un alto grado di affidabilità, allo studio dei quark e dei gluoni (i candidati odierni al ruolo di costituenti fondamentali della materia nucleare), nonostante si tratti di entità almeno 100 milioni di volte più piccole degli atomi il cui comportamento era stato studiato dai pionieri quantistici. Ciononostante, c’è ancora un paradosso enorme. La citazione che apre questo libro lo esprime con tutta l’esuberanza che caratterizzava i discorsi di un grande fisico quantistico della seconda generazione, Richard Feynman, ma una cosa è certa: anche se sappiamo fare i calcoli, non capiamo la teoria così a fondo come dovremmo. Nel seguito del nostro racconto vedremo come restino irrisolte alcune cruciali questioni interpretative. La loro soluzione non richiederà solo un’intuizione fisica, ma anche una decisione metafisica. Da giovane, ho avuto l’onore di imparare la teoria dei quanti da Paul Dirac in persona, durante il suo famoso ciclo di lezioni a Cambridge. Il materiale delle lezioni di Dirac era molto simile alla trattazione fatta nel suo libro più importante, I principi della meccanica quantistica, uno dei grandi classici della letteratura scientifica del XX secolo. Dirac non fu solamente il più grande fisico teorico che conobbi personalmente: la sua purezza di spirito e la sua modestia (non enfatizzò mai, neanche minimamente, l’enorme importanza dei suoi contributi ai fondamenti della disciplina) ne fecero un esempio da seguire e lo trasformarono in una sorta di santo della scienza. Dedico questo libro, con umiltà, alla sua memoria. Polkinghorne_001-134 9-10-2007 Teoria dei quanti 10:54 Pagina 1 Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 2 Capitolo 1 Crepe nell’edificio classico La prima fioritura della scienza fisica moderna raggiunse il suo culmine nel 1687, con la pubblicazione dei Principia di Isaac Newton. Da quel momento la meccanica si affermò come una disciplina matura, in grado di descrivere il moto delle particelle in maniera precisa e deterministica. La nuova scienza sembrava essere così completa che, alla fine del XVIII secolo, il più grande degli eredi di Newton, Pierre Simon Laplace, poté pronunciare la sua ben nota affermazione: un essere dotato di una potenza di calcolo illimitata e di una conoscenza completa della posizione di tutte le particelle a un dato istante potrebbe servirsi delle equazioni di Newton per predire il futuro dell’universo e per ricostruirne il passato con altrettanta certezza. In realtà, nel raggelante meccanicismo di questa pretesa si vide sempre lo spettro di una irrefrenabile hubris. Innanzitutto, gli esseri umani non fanno esperienza di sé come automi meccanici. E poi, per quanto indubbiamente impressionanti, i risultati ottenuti da Newton non abbracciavano tutti gli aspetti del mondo fisico conosciuto a quel tempo: restavano delle questioni irrisolte, che minacciavano la fede nella totale autosufficienza della sintesi newtoniana.Ad esempio, c’era il problema della vera natura e dell’origine della legge universale della gravità, quella legge dell’inverso del quadrato che lo stesso Newton aveva scoperto ma sulla quale si era astenuto dal formulare un’ipotesi. Un’altra questione in sospeso riguardava la natura della luce. Qui Newton si concesse una certa libertà di speculazione, propendendo, nell’Ottica, per l’ipotesi che un fascio di Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 4 Crepe nell’edificio classico 5 4 Teoria dei quanti luce fosse costituito da un insieme di minuscole particelle; una teoria corpuscolare che si sposava con la sua tendenza a considerare il mondo fisico in termini atomistici. La natura della luce 1. Somma di onde: (a) in fase; (b) fuori fase. (b) (a) realizzate da Hans Christian Oersted e da Michael Faraday dimostrarono che l’elettricità e il magnetismo, due fenomeni che a prima vista sembravano avere proprietà molto differenti, erano in realtà strettamente legati tra di loro. Il modo di combinarli in una teoria coerente dell’elettromagnetismo fu poi trovato da James Clerk Maxwell, un uomo così geniale da poter essere collocato a buon diritto sullo stesso piano di Isaac Newton. Le famose equazioni di Maxwell, che costituiscono ancora il fondamento della teoria dell’elettromagnetismo, vennero formulate nel 1873 nel suo Trattato sull’elettricità e il magnetismo, uno dei grandi classici della letteratura scientifica. Maxwell capì che le equazioni possedevano delle soluzioni di tipo ondulatorio e che la velocità delle onde era funzione di costanti fisiche note. Quella velocità, si scoprì, era la ben nota velocità della luce! Si dovette aspettare il XIX secolo perché la comprensione della natura della luce facesse realmente qualche passo avanti. Nel 1801,Thomas Young presentò una prova convincente del fatto che la luce aveva le proprietà di un moto ondulatorio: si trattava di un’ipotesi formulata più di un secolo prima da un contemporaneo di Newton, l’olandese Christiaan Huygens. Le osservazioni cruciali effettuate da Young si erano concentrate su quel tipo particolare di effetti chiamati oggi “fenomeni di interferenza”. Un esempio tipico sono le strisce alterne di luce e di buio che, per ironia della sorte, erano state messe in evidenza proprio dallo stesso Sir Isaac e sono dette appunto “anelli di Newton”. Fenomeni del genere sono caratteristici delle onde, proviamo a capire da dove nascono. La maniera in cui due treni d’onda si combinano dipende dalla relazione tra le loro oscillazioni: se queste vanno a tempo (sono in fase, come dicono i fisici), allora le creste coincidono con le creste, sommandosi e rafforzandosi massimamente a vicenda e, dove questo accada con la luce, portando alla formazione di strisce luminose; se, invece, i due insiemi di onde sono totalmente fuori tempo (fuori fase), allora le creste coincidono con le valli, annullandosi a vicenda in maniera distruttiva e dando origine a una striscia di buio. La comparsa di figure di interferenza formate dall’alternanza di luce e di buio, dunque, è un segno inconfondibile della presenza di onde. Le osservazioni di Young sembravano aver chiarito la questione: la luce ha una natura ondulatoria. Col passare degli anni, la struttura del moto ondulatorio associato alla luce sembrò chiarirsi. Le importanti scoperte Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 6 7 Crepe nell’edificio classico Teoria dei quanti 6 Il primo segno di quella che sarebbe stata la rivoluzione quantistica si ebbe nel 1885, anche se all’epoca non venne riconosciuto come tale. Alla sua origine ci sono le divagazioni matematiche di un insegnante svizzero di nome Balmer. Costui stava meditando sullo spettro dell’idrogeno, cioè sull’insieme di linee colorate distinte che si osservano quando la luce prodotta dal gas incandescente viene suddivisa nelle sue componenti mediante l’attraversamento di un prisma. I vari colori corrispondono alle diverse frequenze (velocità di oscillazione) delle onde luminose. Giocherellando con i numeri, Balmer scoprì che tali frequenze potevano essere descritte da una formula matematica relativamente semplice Gli spettri la velocità della luce lungo due direzioni tra loro perpendicolari. Ci si aspettava che le velocità sarebbero risultate uguali solo se, nell’istante stesso dell’esperimento, la Terra fosse stata a riposo rispetto all’etere; si sarebbe potuto escludere un’eventualità del genere ripetendo la misura qualche mese dopo, quando la direzione della Terra lungo la propria orbita sarebbe stata diversa. Di fatto, Michelson e Morley non furono in grado di misurare alcuna differenza di velocità. Per risolvere il problema ci sarebbe voluta la teoria della relatività ristretta di Einstein, che fece completamente a meno dell’etere. Quella grande scoperta esula dalla storia di cui ci stiamo occupando, anche se andrebbe detto che la relatività, per quanto sorprendente e ricca di implicazioni, conservò quelle proprietà di chiarezza e determinismo tipiche della fisica classica. È per questo che, nella Prefazione, ho affermato che la comprensione della relatività richiese uno sforzo di gran lunga minore rispetto al ripensamento radicale necessario per la teoria dei quanti. Questa scoperta è stata considerata il più grande trionfo della fisica dell’Ottocento. Che la luce fosse composta da onde elettromagnetiche sembrava essere un fatto stabilito una volta per tutte, almeno nei limiti del possibile. Maxwell e i suoi contemporanei vedevano queste onde come oscillazioni in un mezzo elastico onnipresente, che prese il nome di “etere”. In un articolo di enciclopedia, Maxwell avrebbe poi affermato che l’etere era l’entità dotata di maggiori conferme di tutta la teoria fisica. La fisica di Newton e di Maxwell è quella che chiamiamo fisica classica, e alla fine del XIX secolo era diventata un imponente edificio teorico. Non c’è da sorprendersi se i suoi patriarchi, come Lord Kelvin, erano giunti alla conclusione che tutti i concetti fisici fondamentali fossero ormai conosciuti e che tutto ciò che restava da fare fosse chiarirne i dettagli con maggior precisione. Nell’ultimo quarto di quel secolo, a un giovane tedesco che voleva avviarsi alla carriera accademica accadde di essere messo in guardia dall’occuparsi di fisica: sarebbe stato meglio volgere lo sguardo altrove, perché la fisica era arrivata al capolinea e le cose realmente degne di interesse erano ormai pochissime. Fortunatamente quel giovane, che si chiamava Max Planck, ignorò l’avvertimento. In realtà, la splendida facciata della fisica classica mostrava le prime crepe. Poco dopo il 1880, gli americani Michelson e Morley avevano effettuato degli esperimenti ingegnosi per dimostrare il moto della Terra nell’etere. L’idea era che, se la luce consisteva realmente di onde che si propagavano nell’etere, allora la misura della sua velocità avrebbe dovuto dipendere dal movimento dell’osservatore rispetto all’etere stesso. Provate a pensare alle onde del mare: la loro velocità apparente, per chi le osservi da una nave, dipende dal fatto che quest’ultima si muova nella stessa direzione delle onde o in direzione opposta, risultando minore nel primo caso e maggiore nel secondo. L’esperimento si proponeva di confrontare Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 8 Crepe nell’edificio classico 9 8 Teoria dei quanti (vedi l’Appendice matematica 1). A quel tempo, la cosa non venne considerata più di una semplice curiosità. In seguito si cercò di interpretare il risultato ottenuto da Balmer nei termini delle nuove idee sulla struttura dell’atomo. Nel 1897, infatti, J.J.Thomson aveva scoperto che la carica negativa di un atomo era trasportata da particelle minuscole, cui venne dato il nome di “elettroni”. Si suppose che il corrispettivo di carica positiva, necessario all’equilibrio, fosse semplicemente distribuito in tutto l’atomo. L’ipotesi venne battezzata “modello a panettone” (plum pudding model), con gli elettroni che facevano la parte dell’uvetta e la carica positiva quella del panettone. Risultò difficilissimo, però, far funzionare il modello in maniera soddisfacente dal punto di vista empirico.Vedremo che la spiegazione reale della stranezza scoperta da Balmer finì per essere trovata facendo ricorso a un arsenale di concetti molto diverso. Nel frattempo, è probabile la natura degli atomi sembrasse un argomento troppo oscuro perché questi problemi potessero diffondere un’effettiva ansia tra i ricercatori. La catastrofe ultravioletta radiativa, risultante dal contributo di molte frequenze diverse. Pur essendo praticamente impossibile seguire ogni dettaglio di ciò che capitava in sistemi così complessi, si potevano dedurre alcuni aspetti importanti del loro comportamento globale, poiché quest’ultimo deriva da una media approssimata dei contributi dei tanti stati di moto individuali.Tra tutti gli stati possibili, l’insieme più probabile domina perché la sua probabilità diventa schiacciante. Basandosi su questo criterio della massima verosimiglianza, Clerk Maxwell e Ludwig Boltzmann riuscirono a dimostrare che era possibile calcolare in modo affidabile alcune proprietà macroscopiche del comportamento globale di un sistema complesso, come la pressione di un gas di cui si conoscano volume e temperatura. Rayleigh applicò le tecniche della fisica statistica al problema di come si distribuisca l’energia tra le varie frequenze nel caso della radiazione di corpo nero. Un corpo nero è un corpo che assorbe tutta la radiazione che lo colpisce, per poi riemetterla integralmente. Quella dello spettro della radiazione in equilibrio con un corpo nero potrebbe sembrare una questione piuttosto esotica, ma in realtà esistono delle ottime approssimazioni di corpi neri, e dunque il problema può essere analizzato, oltre che da un punto di vista teorico, anche sul piano sperimentale, ad esempio studiando la radiazione all’interno di un forno allestito in modo particolare. La questione era semplificata dal fatto che si sapeva che la risposta sarebbe dipesa solo dalla temperatura del corpo e da nessun altro dettaglio della sua struttura. Rayleigh osservò che l’applicazione diretta delle ben collaudate idee della fisica statistica portava a un risultato disastroso: non solo le previsioni erano in disaccordo con lo spettro misurato, ma addirittura non avevano alcun senso. Stando ai calcoli effettuati, infatti, alle frequenze più alte si sarebbe dovuta concentrare una quantità infinita di energia: una conclusione imbarazzante, che venne battezzata appunto “catastrofe ultravioletta”. Il carattere catastrofico Molto più inquietante e stimolante era un altro problema, che era stato portato alla luce nel 1900 da Lord Rayleigh e che venne battezzato “catastrofe ultravioletta”. Alla sua origine vi era l’applicazione dei concetti legati a un’altra grande scoperta del XIX secolo: la fisica statistica. Qui gli scienziati stavano cercando di comprendere il comportamento di sistemi molto complicati, nei quali i dettagli del movimento dei componenti potevano essere estremamente variabili. Come esempio di un sistema del genere potremmo prendere un gas formato da un gran numero di molecole diverse, ognuna con un suo stato di moto specifico. Un altro esempio potrebbe essere l’energia Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 10 11 Crepe nell’edificio classico Teoria dei quanti 10 Il passo successivo fu compiuto da un uomo che, lavorando come impiegato tecnico di terza classe all’ufficio brevetti di Berna, aveva un po’ di tempo libero a disposizione: il suo nome era Albert Einstein. Nel 1905, che fu per lui un vero e proprio annus mirabilis, Einstein fece tre scoperte fondamentali. Una di queste si rivelerà essere una nuova puntata della nostra storia. Einstein aveva riflettuto sulle caratteristiche bizzarre che emergevano dallo studio dell’effetto fotoelettrico L’effetto fotoelettrico mittente della radiazione non era stato notato prima: una fila di puntini ravvicinati sembra una linea continua. Una conseguenza immediata di questa ipotesi ardita era che la radiazione ad alta frequenza potesse essere emessa o assorbita solamente in eventi in cui fosse presente un singolo quanto di energia significativamente elevata. Un simile dazio energetico implicava che tali eventi ad alta frequenza fossero fortemente limitati rispetto alle previsioni della fisica classica. L’aver addomesticato le alte frequenze, quindi, non solo permetteva di sbarazzarsi della catastrofe ultravioletta, ma produceva anche una formula in perfetto accordo con il risultato sperimentale. Era chiaro che Planck aveva scoperto qualcosa di estremamente significativo. In un primo momento, però, né lui né altri furono sicuri su quale fosse, esattamente, questo significato. In che misura i quanti andavano presi sul serio? Erano una caratteristica persistente della radiazione, o semplicemente un aspetto delle modalità di interazione di quest’ultima con un corpo nero? Dopo tutto, le gocce che escono da un rubinetto formano una sequenza di quanti acquei, che però si fondono col resto dell’acqua e perdono la loro identità individuale non appena cadono nel lavandino. della conclusione è abbastanza chiaro, e “ultravioletto” è un altro modo per dire “alte frequenze”. Il disastro nasceva dal fatto che, per la fisica statistica classica, ogni grado di libertà del sistema (in questo caso, ogni singolo modo in cui può oscillare la radiazione) riceve la stessa quantità prefissata di energia, una quantità che dipende solo dalla temperatura.All’aumentare della frequenza aumenta il numero dei modi di oscillazione corrispondenti, col risultato che le frequenze più alte, dove si accumulano quantità illimitate di energia, divergono. Un problema del genere era qualcosa di più di uno sgradevole difetto sulla splendida facciata della fisica classica. Si trattava piuttosto di uno squarcio nell’edificio. Ma nel giro di un anno, Max Planck, che ormai era diventato professore di fisica a Berlino, avrebbe trovato un modo stupefacente per risolvere il dilemma. A suo figlio disse che pensava di aver fatto una scoperta di importanza pari a quelle di Newton. Sarebbe potuta sembrare un’affermazione pretenziosa, ma Planck stava semplicemente dicendo la pura verità. Secondo la fisica classica, la radiazione avrebbe dovuto entrare e uscire ininterrottamente dal corpo nero, più o meno come l’acqua entra ed esce da una spugna. Nel mondo della fisica classica, fatto di cambiamenti graduali, sembrava che non potessero esserci altre ipotesi plausibili. Planck, invece, fece una proposta che andava nella direzione contraria, ipotizzando che la radiazione fosse emessa o assorbita in maniera discreta, sotto forma di pacchetti di energia definita. Più precisamente, secondo Planck, il contenuto di energia di uno di questi quanti (così erano stati battezzati i pacchetti) avrebbe dovuto essere proporzionale alla frequenza della radiazione. La costante di proporzionalità venne identificata come una delle costanti universali della natura; oggi ci è nota come costante di Planck e viene indicata con il simbolo h. Il valore di h è piccolissimo, se paragonato agli ordini di grandezza tipici dell’esperienza di tutti i giorni. Ecco perché il carattere inter- Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 12 13 Crepe nell’edificio classico Teoria dei quanti 12 liberati. Un aumento dell’intensità non era in grado di modificare l’energia trasferita in una singola collisione. Prendendo sul serio l’esistenza dei quanti di luce (che in seguito furono battezzati “fotoni”) si riusciva a spiegare il mistero dell’effetto fotoelettrico. Il giovane Einstein aveva fatto una scoperta fondamentale, che infatti finì per valergli il premio Nobel. Probabilmente l’Accademia svedese ritenne che le altre due grandi scoperte fatte da Einstein nel 1905 – la relatività ristretta e una dimostrazione convincente dell’esistenza reale delle molecole – fossero ancora troppo speculative per poter essere ricompensate nello stesso modo! L’analisi quantistica dell’effetto fotoelettrico costituì una grande vittoria per la fisica, anche se fu subito chiaro che si trattava di una vittoria di Pirro.Adesso tutta la comunità fisica si trovava ad affrontare una crisi gravissima: come riconciliare con le nuove idee tutte le grandi intuizioni del XIX secolo sulla natura ondulatoria della luce? Dopo tutto, un’onda è qualcosa di diffuso, oscillante, mentre un quanto è come una particella, una sorta di piccola pallottola. Come poteva essere vero? Per un bel po’ i fisici dovettero convivere con lo scomodo paradosso della natura onda/particella della luce. Cercare di negare le scoperte di Young e Maxwell o quelle di Planck e Einstein non avrebbe fatto fare passi avanti. Per quanto possibile, bisognava restare aggrappati alla realtà sperimentale, anche se non si riusciva a trovarvi un senso.A quanto pare, furono in molti a servirsi della tattica decisamente vigliacca di guardare da un’altra parte. Vedremo in seguito, tuttavia, che la storia ebbe un lieto fine. Nel frattempo l’attenzione si era spostata dalla luce agli atomi. Nel 1911, a Manchester, Ernest Rutherford cominciò a L’atomo nucleare (vedi Appendice matematica 2), quel fenomeno per cui un fascio di luce può staccare alcuni elettroni da un metallo. I metalli contengono elettroni in grado di muoversi al loro interno (il loro flusso è all’origine della corrente elettrica), ma che non hanno energia sufficiente per sfuggire in maniera irreversibile al metallo. Che ci fosse un effetto fotoelettrico non era affatto sorprendente: la radiazione trasferisce energia agli elettroni intrappolati nel metallo e, se l’energia acquisita è sufficiente, un elettrone può sottrarsi alle forze che lo tengono prigioniero. Da un punto di visto classico, gli elettroni verrebbero eccitati dall’“ingrossarsi” delle onde luminose, e alcuni di questi potrebbero essere perturbati abbastanza da venire espulsi dal metallo. In un’ottica del genere, ci si aspetterebbe che l’entità dell’effetto dipenda dall’intensità del fascio, visto che è quest’ultima a determinarne il contenuto di energia, e non dalla frequenza della luce incidente. Gli esperimenti, invece, mostravano esattamente il comportamento opposto: al di sotto di una certa frequenza critica, per quanto potesse essere intenso il fascio, non veniva emesso alcun elettrone; al di sopra di quella frequenza, anche un fascio debole poteva scalzare qualche elettrone. Einstein capì che questo comportamento bizzarro diventava immediatamente comprensibile se si considerava il fascio luminoso come un flusso di quanti persistenti. Un elettrone, allora, veniva scalzato quando uno di questi quanti lo colpiva e gli cedeva tutta la sua energia. Secondo Planck, la quantità di energia del quanto era direttamente proporzionale alla sua frequenza. Allora, se la frequenza era troppo bassa, l’energia trasferita nelle collisioni non era adeguata a liberare l’elettrone. D’altro canto, se l’energia superava un certo valore critico, quella acquistata dall’elettrone diventava sufficiente per consentirgli di allontanarsi. L’intensità del fascio determinava semplicemente il numero di quanti contenuti nel fascio, vale a dire il numero di elettroni coinvolti nelle collisioni e quindi Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 14 15 Crepe nell’edificio classico Teoria dei quanti 14 Come nel caso di Planck e della catastrofe ultravioletta, però, c’era un fisico teorico pronto a venire in aiuto e a strappare il successo dalle fauci del fallimento con un’ipotesi coraggiosa e radicalmente nuova. Questa volta toccò a un giovane danese, Niels Bohr, che come Rutherford lavorava a Manchester. Nel 1913 Bohr fece una proposta rivoluzionaria (vedi Appendice matematica 3): Planck aveva sostituito l’idea classica di un processo nel quale l’energia entra ed esce senza soluzione di continuità da un corpo nero con quella di un processo intermittente, in cui l’energia è emessa o assorbita sotto forma di quanti. In termini matematici, ciò voleva dire che una quantità come l’energia scambiata, che fino ad allora si era pensato potesse avere un valore qualsiasi, andava considerata ormai capace di assumere solo una serie di valori ben definiti (1, 2, 3, … pacchetti scambiati). I matematici direbbero che il continuo era stato rimpiazzato dal discreto. Bohr intuì che poteva trattarsi di una tendenza generale della nuova fisica che lentamente stava vedendo la luce, e così applicò agli atomi principi simili a quelli che Planck aveva applicato alla radiazione. Un fisico classico avrebbe ipotizzato che gli elettro- L’atomo di Bohr diazione, e quindi ad avvicinarsi rapidamente al nucleo. Una conclusione del genere è a dir poco disastrosa, poiché implica che gli atomi siano instabili: i loro elettroni seguirebbero delle traiettorie a spirale fino a collassare sul nucleo. Nel corso di un tale processo di decadimento, inoltre, verrebbe emesso uno spettro continuo di energia, che non ha nulla a che vedere con le frequenze spettrali ben distinte della formula di Balmer. Dopo il 1911, il grande edificio della fisica classica non presentava più solo qualche crepa: sembrava che fosse stato investito da un terremoto. studiare insieme ai suoi giovani collaboratori il comportamento di alcuni minuscoli “proiettili” dotati di carica positiva, le particelle α, quando colpivano una sottile lamina d’oro. Molte particelle α l’attraversavano quasi indisturbate ma, con grande stupore degli sperimentatori, alcune di esse subivano deviazioni importanti. In seguito Rutherford disse che la cosa era altrettanto stupefacente di un proiettile di artiglieria navale da 15 pollici che rimbalzi contro un fazzoletto di carta. Il modello atomico “a panettone” non era assolutamente in grado di spiegare un fenomeno del genere, le particelle α avrebbero dovuto passarci in mezzo come una pallottola in una torta. Rutherford capì rapidamente che c’era solo una soluzione possibile: la carica positiva degli atomi d’oro che respingeva le particelle α, anch’esse positive, non poteva essere distribuita come in un panettone, ma doveva essere tutta confinata nel centro dell’atomo; solo un incontro ravvicinato con una carica così concentrata avrebbe potuto far deviare una particella α in maniera considerevole. Rispolverando un vecchio testo di meccanica, ricordo dei suoi giorni da studente in Nuova Zelanda, Rutherford – che era un fisico sperimentale eccezionale, ma non un grande matematico – riuscì a mostrare che l’idea di un atomo con una carica positiva centrale intorno alla quale orbitavano gli elettroni negativi spiegava perfettamente il comportamento osservato. Il modello “a panettone” lasciò immediatamente il posto al modello atomico “a sistema solare”. Rutherford e i suoi colleghi avevano scoperto il nucleo atomico. Si trattava di un grande successo, ma anche in questo caso sembrò trattarsi, a prima vista, di una vittoria di Pirro. In effetti, la scoperta del nucleo sprofondò la fisica classica in una crisi ancora più profonda: se gli elettroni di un atomo girano intorno al nucleo, la direzione del loro moto cambia in continuazione; secondo l’elettromagnetismo classico, questo li porterebbe a emettere parte della loro energia sotto forma di ra- Polkinghorne_001-134 9-10-2007 10:54 Pagina 16 17 Crepe nell’edificio classico Teoria dei quanti 16 Nel 1923, il fisico americano Arthur Compton analizzò la diffusione (scattering) dei raggi X (radiazione elettromagnetica ad alta frequenza) da parte della materia, e scoprì che la frequenza della radiazione diffusa era diversa da quella iniziale. Era una cosa incomprensibile da un punto di vista ondulatorio: secondo quest’ultimo, infatti, il processo di diffusione era dovuto agli elettroni degli atomi che assorbivano energia dalle onde incidenti e la riemettevano senza che ciò implicasse una variazione di frequenza. Se si pensava in termini di fotoni, invece, il risultato poteva essere spiegato agevolmente: quello che capitava era una collisione del tipo “palla da biliardo” tra un elettrone e un fotone, con il fotone che cedeva all’elettrone una parte della propria energia. Stando alla teo- La diffusione di Compton molti versi, era ancora fisica classica. In realtà il lavoro d’avanguardia di Bohr era, essenzialmente, una riparazione, un rammendo all’edificio sconquassato della fisica classica. I tentativi di estendere ulteriormente questi concetti si scontrarono ben presto con difficoltà sperimentali e contraddizioni logiche. La “vecchia teoria dei quanti”, come venne battezzato l’insieme di quegli sforzi, era una combinazione goffa e instabile delle idee classiche di Newton e Maxwell con le prescrizioni quantistiche di Planck e Einstein. L’opera di Bohr rappresentava un passo cruciale nello sviluppo storico della fisica quantistica, ma non era altro che una tappa del cammino verso la “nuova teoria dei quanti”, una descrizione totalmente unificata e coerente di tutte queste idee bizzarre. Prima di raggiungerla, si sarebbe dovuto scoprire un altro fenomeno, che avrebbe sottolineato ancora di più la necessità imprescindibile di fare una volta per tutte i conti con il pensiero quantistico. ni che si muovevano intorno a un nucleo potessero seguire orbite di raggio arbitrario; Bohr propose di sostituire quest’idea di continuità con quella, discreta, che i raggi potessero assumere solamente una serie di valori distinti e numerabili (primo, secondo, terzo, …). Inoltre, servendosi di una formula che faceva ricorso alla costante di Planck, h, Bohr suggerì un sistema ben preciso per determinare questi ipotetici raggi (la sua proposta era legata al momento angolare dell’elettrone, una misura del moto rotatorio di quest’ultimo che si esprime nelle stesse unità fisiche di h). Le ipotesi di Bohr avevano due conseguenze. La prima, decisamente auspicabile, era il recupero della stabilità atomica. Una volta che un elettrone si trovava nello stato corrispondente al raggio minimo consentito (che coincideva con lo stato di minima energia), non poteva andare da nessun’altra parte e quindi non poteva perdere altra energia. L’elettrone avrebbe potuto raggiungere tale livello minimo perdendo energia nella transizione da uno stato di raggio maggiore. Bohr ipotizzò che in tal caso l’energia in eccesso sarebbe stata emessa sotto forma di un solo fotone. I calcoli mostrarono che questa idea conduceva direttamente alla seconda conseguenza dell’ipotesi di Bohr: la predizione della formula di Balmer per le linee spettrali. Dopo quasi trent’anni, quella misteriosa prescrizione numerica smetteva di apparire come una stranezza inesplicabile per diventare una proprietà intelligibile della nuova teoria atomica. La nitidezza delle linee spettrali fu interpretata come un riflesso del carattere discreto che cominciava a essere riconosciuto come tratto distintivo del pensiero quantistico. La traiettoria a spirale che ci si sarebbe dovuti aspettare sulla base della fisica classica era stata sostituita da un salto quantico, una transizione discontinua da un’orbita con un raggio consentito a un’altra con un raggio consentito inferiore. L’atomo di Bohr fu un grande trionfo.Tuttavia la sua nascita era stata ispirata da una rielaborazione di quella che, per Polkinghorne_001-134 18 9-10-2007 10:54 Pagina 18 Teoria dei quanti ria di Planck, una variazione di energia equivaleva a una variazione di frequenza, e Compton riuscì così a dare una spiegazione quantitativa delle proprie osservazioni, fornendo la prova più convincente del carattere corpuscolare della radiazione elettromagnetica. Le perplessità sollevate dalla serie di scoperte che abbiamo discusso in questo capitolo non vennero ignorate a lungo. Due anni dopo i risultati di Compton si arrivò a una svolta teorica sostanziale e duratura. Era l’alba della nuova teoria dei quanti. Capitolo 2 Spunta l’alba Gli anni che seguirono la proposta rivoluzionaria di Max Planck furono un periodo di confusione e incertezza per la comunità dei fisici. La luce era fatta di onde; la luce era fatta di particelle. Modelli carichi di promesse, come l’atomo di Bohr, tenevano in vita la speranza che una nuova teoria fisica non fosse lontana, ma l’applicazione imperfetta di questi rattoppi quantistici alle macerie della fisica classica dimostrava che, per avere una descrizione coerente, sarebbero state necessarie delle idee nuove. Quando finalmente spuntò la luce, accadde all’improvviso come in un’alba tropicale. La moderna teoria quantistica fu pronta a spiccare il volo tra il 1925 e il 1926. Nella memoria collettiva dei fisici teorici quegli anni mirabiles restano importantissimi e ancora sono guardati con soggezione, nonostante quell’epoca eroica non appartenga più ai ricordi personali dei vivi. Ogni volta che qualche sommovimento coinvolge gli aspetti fondamentali della fisica teorica contemporanea, può capitare di sentir dire: «Ho la sensazione che questa volta sarà proprio come nel 1925». Un’affermazione che contiene una nota di malinconia. Come disse Wordsworth a proposito della Rivoluzione francese: «Beatitudine fu in quell’alba essere vivi; ma essere giovani fu davvero il paradiso!». In effetti, anche se negli ultimi 75 anni sono stati fatti molti progressi importanti, non si è più resa necessaria una revisione radicale dei principi fisici come quella che accompagnò la nascita della teoria dei quanti.