Perché la psicologia dell`apprendimento serve così poco

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Perché
Tre
paradigmi
la psicologia
di scrittura
dell’apprendimento
Alberto Oliverio
serve
così poco alla
scuola?
Domenico Parisi*
Gli psicologi sperimentali e gli insegnanti sembrano
ignorare il fatto che gli esseri umani apprendono come è fatta e come funziona la realtà attraverso l’esperienza, cioè in modo attivo, agendo e facendo previsioni su di essa. Oggi le nuove tecnologie digitali permettono di intravedere una scuola in cui gli studenti imparano in questo modo attivo, attraverso l’esperienza (simulata) e non soltanto attraverso il linguaggio.
1. A scuola i ragazzi oggi imparano come imparavano quando la
psicologia dell’apprendimento non esisteva
Se la psicologia come disciplina scientifica non esistesse, la scuola sarebbe diversa da
come è? L’insegnamento avverrebbe in modi diversi da come avviene oggi? Anche se
può dispiacere agli psicologi, la risposta a queste domande sembra essere negativa. Il
modo in cui i ragazzi apprendono oggi a scuola non è molto diverso da come era
quando la psicologia non esisteva. L’insegnante fa le sue lezioni cercando di essere
chiaro, di spiegarsi, di tenere alto l’interesse dei ragazzi, ma la qualità e l’efficacia
delle sue lezioni dipendono più dalle sue qualità personali, dalla sua motivazione a
insegnare, dalla sua esperienza, che da qualunque scienza che gli dica come si insegna e che analizzi e spieghi come i ragazzi apprendono. Lo stesso vale per i libri di
* Domenico Parisi, dirigente di ricerca all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR, insegna Psicologia generale presso la LUMSA a Roma e dirige la rivista «Sistemi Intelligenti». Si occupa di modelli di simulazione di comportamenti individuali e sociali e della loro applicazione all’educazione. Ha pubblicato di recente Mente, I nuovi modelli della Vita Artificiale (Bologna, Il Mulino, 1999), Scuol@it. Come il computer cambierà il modo di studiare dei nostri figli (Milano, Mondadori, 2000) Simulazioni. La realtà rifatta nel computer (Bologna, Il Mulino, 2001) e Simulating the evolution of language, curato insieme a Angelo Cangelosi (Springer,
2002). ([email protected]).
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testo sui quali i ragazzi studiano, scritti da altri insegnanti o da professori universitari, e per gli esercizi, i problemi e le attività che i ragazzi svolgono in classe o a casa. Se si considera il modo in cui i ragazzi apprendono a scuola, il fatto che esista una
scienza dell’apprendimento, una scienza con il compito di scavare nei meccanismi e
nei processi che per ciascuna materia hanno più probabilità di produrre apprendimento, è abbastanza irrilevante.
Questo ovviamente è un bello scacco per la psicologia, la scienza che studia come la mente funziona e come apprende. La scuola è l’istituzione sociale dedicata
all’apprendimento, l’istituzione che ha il compito di far sì che i membri delle nuove generazioni imparino come le passate generazioni hanno analizzato e interpretato la realtà. Un importante campo di ricerca della psicologia è proprio l’apprendimento, il modo in cui la mente acquisisce capacità e conoscenze. Perciò ci si aspetterebbe che con l’avvento della psicologia la scuola insegni ai ragazzi le varie “materie” in modi nuovi, diversi e migliori che nel passato, quando la psicologia ancora
non esisteva. Il fatto che le cose non stiano così, che fondamentalmente le “materie”
scolastiche siano insegnate oggi in modi che sono quelli di sempre e che comunque
non dipendono dai successi o dagli insuccessi di una scienza dell’apprendimento,
sta chiaramente a indicare che la psicologia non è riuscita finora a capire veramente che cosa è l’apprendimento o, quanto meno, a capirlo in modi che riescano ad incidere significativamente su come i ragazzi apprendono a scuola.
In questo articolo cerchiamo di individuare quali sono le ragioni che spiegano
una tale situazione, e di indicare alcune cose che si potrebbero fare per rendere la
psicologia dell’apprendimento più incisiva come scienza e più utile per gli apprendimenti scolastici. La scuola oggi ha più difficoltà che nel passato a svolgere il suo
compito di trasmettere alle nuove generazioni la “cultura” delle generazioni precedenti, e questo per una serie di motivi che qui ci limitiamo a elencare senza discuterli a fondo. Primo, la scuola oggi si trova a dover lottare con la cultura di massa che
è diventata dominante nella società e che è molto distante dalla cultura di élite che
una volta era dominante e che è quella tradizionalmente trasmessa dalla scuola. Secondo, in passato la scuola si rivolgeva a una minoranza di ragazzi mentre oggi si rivolge a tutti i ragazzi, ed è certamente più difficile produrre apprendimenti in tutti
i ragazzi che in un numero ristretto di ragazzi che o appartenevano alle classi agiate
culturalmente più vicine alla cultura di élite trasmessa dalla scuola o avevano più
predisposizione e motivazione ad apprendere. Terzo, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione che oggi invadono tutta la società tendono a privilegiare i
canali espressivi non verbali mentre la scuola tradizionalmente si fonda sul linguaggio verbale come canale praticamente unico di apprendimento. Quarto, l’evoluzione economica, sociale e culturale della società affida sempre più il ruolo di fonte dei
modelli comportamentali che i ragazzi apprendono ai coetanei e al mercato piuttosto che ai genitori e agli insegnanti, e questo ovviamente mette in difficoltà la scuola, che si trova di fronte a ragazzi che mettono in dubbio di dover imparare solo per58
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ché un adulto pensa che lo debbano fare. Date tutte queste ragioni che rendono più
difficile oggi per la scuola produrre apprendimento nei ragazzi, ci si aspetterebbe
che lo studio scientifico e sistematico da parte della psicologia di come avviene l’apprendimento negli esseri umani potesse fornire un maggiore aiuto alla scuola e indicasse in concreto e in modi effettivamente realizzabili come cambiare il modo in
cui i ragazzi imparano a scuola. Il fatto che questo non avvenga è sconcertante e merita una riflessione.
Noi parleremo della psicologia dell’apprendimento, ma non bisogna dimenticare che oltre alla psicologia esistono anche una pedagogia, una psicopedagogia, una
didattica, anzi tante didattiche per quante sono le materie scolastiche, tutte discipline che avrebbero il compito di suggerire alla scuola come far sì che i ragazzi apprendano a scuola meglio di come fanno. Solo che considerare anche queste altre
discipline non cambia molto le cose e non le migliora. La pedagogia e la didattica oggi sembrano capaci solo di aggiungere formalismi e burocratismi a quello che sappiamo su come avviene l’apprendimento a scuola e su come dovrebbe avvenire. La
situazione perciò non cambia: tanta scienza e tante analisi lasciano l’apprendere a
scuola quello che era quando c’erano meno scienza e meno analisi.
2. Perché la psicologia dell’apprendimento è così inutile per la scuola?
Perché la psicologia dell’apprendimento non riesce ad essere più utile alla scuola? Le
ragioni sono molte, e qui ne esamineremo alcune.
Se si guarda storicamente allo sviluppo della psicologia nel Novecento, ci si accorge che la psicologia si è occupata parecchio di apprendimento nella prima metà del
secolo ma molto meno nella seconda. Nei primi cinquant’anni del Novecento una
importante scuola psicologica come il comportamentismo dava una tale importanza
all’apprendimento che “comportamentismo” era considerato spesso come sinonimo
di “teoria dell’apprendimento” (learning theory). Collegata al comportamentismo
americano, che si occupava di come il comportamento si modifica nel corso dell’apprendimento, si poneva la riflessologia di Pavlov e della sua scuola, famosa per i suoi
studi su quella forma di apprendimento che viene chiamato condizionamento e che
studia come nell’apprendimento cambiano gli stimoli a cui rispondiamo con i nostri
comportamenti. Poi Piaget che, pur in modi molto diversi e più complessi dei comportamentisti, si è occupato molto di apprendimento sotto forma di sviluppo cognitivo, e Vygotsky, importante per l’accento posto sulla dimensione sociale e storico-culturale dell’apprendimento. Invece nella seconda metà del Novecento l’interesse per
l’apprendimento è molto diminuito. Se si guarda oggi a un manuale di psicologia, il
capitolo sull’apprendimento contiene quasi esclusivamente risultati e teorie della prima metà del secolo (vedi, ad esempio, Darley, Glucksberg e Kinchla 1998) mentre i
manuali più recenti (Anolli e Legrenzi 2001) o quelli dedicati ai “processi cognitivi”
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(Benjafield 1995) danno sempre meno spazio all’apprendimento o addirittura non
contengono più un capitolo dedicato all’apprendimento. Perché è accaduta una cosa del genere?
La spiegazione è che nella seconda metà del Novecento il punto di vista dominante in psicologia è diventato quello del cognitivismo, una scuola psicologica che
interpreta la mente come se fosse un computer, cioè come un sistema fatto di simboli e di regole/procedure per trasformare simboli, e che ha rapidamente messo ai
margini fin dagli anni ’60 del secolo praticamente tutte le scuole psicologiche precedenti. Il cognitivismo non dà molto spazio all’apprendimento, e questo per due ragioni. La prima è che apprendere non è una cosa che i computer sanno fare molto
bene (nonostante che esista un settore di ricerca in intelligenza artificiale chiamato
“machine learning”) e questo significa che anche l’apprendimento umano viene poco studiato dato che il computer non fornisce molti strumenti per analizzarlo. La
seconda ragione per cui il cognitivismo si occupa poco di apprendimento è che sul
cognitivismo hanno avuto una grande influenza le idee di Chomsky sulla natura del
linguaggio. Secondo Chomsky il linguaggio è fondamentalmente innato e non appreso. Nel corso dell’acquisizione del linguaggio da parte del bambino non avviene
molto di interessante e di importante tranne che il maturare di una capacità già tutta specificata nel patrimonio genetico ereditato dal bambino. Questo punto di vista
si è diffuso un po’ in tutta la psicologia ed è stato applicato a tutte le capacità, non
solo al linguaggio, con il risultato che l’apprendimento è diventato un settore di ricerca piuttosto trascurato dalla psicologia negli ultimi decenni. In ogni caso la psicologia oggi non ha da offrire alla scuola, come base per realizzare modalità efficaci
di apprendimento scolastico, molto di più di quello che aveva da offrire cinquant’anni fa.
A parte il cognivitismo e la sua inflenza negativa sulla psicologia dell’apprendimento negli ultimi decenni, la psicologia non ha molto da offrire alla scuola per migliorare l’apprendimento dei ragazzi perché le principali teorie psicologiche dell’apprendimento, che sono quelle già citate dei comportamentisti e della riflessologia
pavloviana, sono teorie sviluppate nello studio degli animali (topi, piccioni, cani,
ecc.), e non degli esseri umani. Ora nessuno nega che le “leggi” dell’apprendimento individuate attraverso questi studi possano avere una validità universale e quindi
si applichino anche agli esseri umani. Tuttavia, se si considera concretamente quello che i ragazzi imparano a scuola e il modo in cui lo imparano, è evidente che vi sono aspetti specifici degli apprendimenti umani che non sono spiegati da leggi scoperte studiando gli animali. Imparare la matematica o la storia o le scienze richiede
attività, abilità, processi mentali che non sono illuminati più di tanto dalle leggi
dell’apprendimento strumentale e del condizionamento pavloviano. Alcuni psicologi si sforzano di scoprire cosa succede realmente e specificamente quando un ragazzo deve imparare la matematica (anzi le differenti parti della matematica) o la
storia o le scienze, ma evidentemente ci riescono poco, soprattutto se si tratta di da60
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re concrete indicazioni su che cosa si dovrebbe fare per rendere questi apprendimenti più efficaci e motivanti per i ragazzi.
Ma ci sono ragioni più generali e più profonde che spiegano perché la psicologia come si è sviluppata storicamente fino ad oggi non riesce a essere molto utile dal punto
di vista degli apprendimenti scolastici. La prima di queste ragioni è che, se si legge un
manuale di psicologia dell’apprendimento o il capitolo dedicato all’apprendimento in
un manuale di psicologia generale, quasi non ci si accorge di un fatto fondamentale che
caratterizza l’apprendimento negli esseri umani: negli essere umani l’apprendimento è
quasi esclusivamente apprendimento socio-culturale, cioè apprendimento dagli altri e
dagli artefatti tecnologici prodotti dagli altri. Gli altri animali apprendono in generale meno degli esseri umani dato che per loro l’eredità biologica conta di più nel determinare il comportamento dell’individuo che non l’apprendimento; e soprattutto, quello che apprendono lo apprendono interagendo con l’ambiente naturale, non con i loro conspecifici. In realtà le ricerche dimostrano che anche gli animali diversi dall’uomo apprendono molto di più di quanto non si pensi dai loro conspecifici, e in effetti
il riconoscimento che gli esseri umani apprendono per lo più dagli altri e dagli artefatti
tecnologici prodotti dagli altri è spesso, paradossalmente, il risultato di questi studi
sugli animali (vedi Tomasello 1999). In ogni caso i fenomeni dell’apprendere dagli altri e dai loro artefatti tecnologici, cioè in sostanza dalla trasmissione culturale, che sono così centrali per capire come gli esseri umani apprendono, sono tra i fenomeni più
importanti e nello stesso tempo più trascurati dalle diverse discipline che si occupano
degli esseri umani. Né la psicologia né l’antropologia culturale hanno prodotto teorie
dettagliate e esplicite intese a cogliere i meccanismi e i processi della trasmissione dei
comportamenti, delle conoscenze, dei valori da un individuo all’altro, e la varietà di
modi in cui questa trasmissione può realizzarsi (qualche teoria si trova in libri scritti da
biologi e comunque con un taglio interdisciplinare, ma in cui gli psicologi brillano
per la loro assenza. Si veda Cavalli-Sforza e Feldmann 1981; Boyd e Richerson 1985).
Se si pensa che nella scuola l’apprendimento è al 100% culturale, dato che i ragazzi imparano dalle parole dell’insegnante e da quegli artefatti tecnologici che sono i libri
(l’ambiente naturale a scuola semplicemente non c’è), si potrà capire facilmente come
questo “buco” di conoscenza contribuisca parecchio a spiegare perché l’esistenza di
“scienze dell’uomo” non faccia una grande differenza per la scuola, la quale oggi insegna nello stesso modo di sempre.
Un aspetto particolare dell’apprendere dagli altri riguarda gli artefatti tecnologici.
Gli esseri umani imparano interagendo direttamente con altri esseri umani (imitandone il comportamento, ascoltando quello che dicono, obbedendo alle loro “istruzioni”, e così via) oppure, indirettamente, interagendo con gli artefatti tecnologici prodotti da altri esseri umani. L’artefatto tecnologico più ovvio che viene in mente è il libro, che ha un posto centrale nella scuola, ma vi sono molti altri artefatti da cui tradizionalmente gli esseri umani imparano a percepire in un certo modo la realtà, a immaginarla in forme nuove, a reagire ad essa con certi atteggiamenti e sentimenti, a sviPERCHÉ LA PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO SERVE COSÌ POCO ALLA SCUOLA?
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luppare certi valori; ad esempio gli artefatti artistici: quadri, musiche, poesie e romanzi.
Tutto questi artefatti tecnologici tradizionali hanno un certo posto nella scuola ma,
come è noto, il Novecento ha visto un enorme sviluppo delle tecnologie cognitive,
cioè delle tecnologie che aiutano gli esseri umani a comunicare, ad esprimersi, a pensare, ad immaginare: il cinema, la televisione, e oggi il turbinoso sviluppo delle nuove
tecnologie basate sul computer. Queste tecnologie novecentesche sono rimaste fuori
della scuola e nessuno psicologo si è veramente posto il problema di come farcele entrare, proponendo soluzioni effettivamente realizzabili e dimostrabilmente utili. Questo può non essere importante per il cinema e la televisione, che sono tecnologie passive e non sembrano avere molto da offrire alla scuola, ma è molto grave per le nuove
tecnologie basate sul computer, che invece hanno grandi potenzialità dal punto di vista dell’apprendimento. La psicologia dell’apprendimento non si è mai veramente occupata delle nuove tecnologie, nel senso di conoscerle a fondo, dall’interno, di scavare nei modi in cui possono funzionare ai fini dell’apprendimento, e nel proporre in
concreto come usarle per favorire gli apprendimenti nelle diverse materie scolastiche.
Questo spiega in buona misura perché oggi la psicologia dell’apprendimento non serve a molto per gli apprendimenti che avvengono o dovrebbero avvenire a scuola.
Una seconda ragione di carattere generale che spiega perché la psicologia come si
è sviluppata finora serve a poco ai fini degli apprendimenti scolastici ha a che fare
con i metodi di ricerca. La psicologia è diventata “scienza” alla fine dell’Ottocento
quando ha adottato i metodi quantitativi e sperimentali delle scienze naturali con la
creazione dei primi laboratori sperimentali di psicologia. Ma il metodo degli esperimenti di laboratorio, per quanto ovviamente benemerito nello sviluppo della psicologia del Novecento, ha dei limiti quando viene applicato allo studio del comportamento e dell’attività mentale umana, che non ha quando viene applicato nelle scienze naturali, in fisica, chimica e biologia. Uno dei più importanti di questi limiti è che nel laboratorio sperimentale il “soggetto” da studiare deve essere essenzialmente passivo, comportandosi nei ristretti modi previsti e decisi a priori dallo
sperimentatore. Infatti uno dei vantaggi principali del metodo sperimentale è che,
diversamente da quello che avviene nella realtà fuori del laboratorio, lo sperimentatore in laboratorio ha il pieno controllo dei fenomeni che osserva, potendo così
escludere la maggior parte delle cause che possono determinare questi fenomeni,
concentrandosi su alcune di esse, e manipolando le cause prescelte per osservare sistematicamente le conseguenze delle sue manipolazioni. Ma questo, nel caso che i
fenomeni da studiare siano i comportamenti e le attività cognitive umane (e in qualche misura anche di altri animali un po’ complessi), limita la validità del metodo
sperimentale in quanto è tipico del comportamento e delle attività cognitive umane che l’individuo sia libero di agire in modo da controllare gli stimoli a cui deve rispondere e le condizioni nelle quali deve agire, mentre nel laboratorio sperimentale
questo semplicemente non può avvenire.
È interessante che la scuola tradizionalmente imponga condizioni di passività ai
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ragazzi simili a quelli che lo psicologo impone ai suoi “soggetti” sperimentali in laboratorio. In classe i ragazzi sono fondamentalmente passivi, non fanno nulla o quasi nulla con le mani o le gambe, e il solo modo di comportamento che essi sono in
grado di esprimere, in condizioni spesso molto restrittive non fosse altro che per ragioni di ordine e disciplina, è quello verbale: rispondere alle domande dell’insegnante, prendere appunti, scrivere su un tema, e così via. Il fatto che da questo punto di vista scuola e psicologia camminino sulla stessa lunghezza d’onda non è però
un fatto di cui ci si possa rallegrare perché uno dei più seri problemi che la scuola deve risolvere oggi è come superare il suo completo affidarsi al linguaggio verbale come canale e strumento di apprendimento. Specie in una scuola di massa che si rivolge a tutti i ragazzi, quale che sia la loro cultura di origine, la loro motivazione a
studiare, la loro capacità linguistica, affidarsi quasi totalmente al solo linguaggio come canale di apprendimento, come la scuola fa da sempre, non può non limitare
seriamente quello che i ragazzi apprendono a scuola.
Il fatto che viene ignorato sia dagli psicologi sperimentali che dalla scuola che tradizionalmente si affida interamente al linguaggio come canale di apprendimento è
che gli esseri umani apprendono come è fatta e come funziona la realtà attraverso l’esperienza, cioè in modo attivo, agendo sulla realtà, provocando cambiamenti nella
realtà, facendo previsioni su quali conseguenze avranno le loro azioni sulla realtà, e osservando se le loro previsioni sono corrette. Come pensava Piaget, gli organismi (specie gli esseri umani) non vanno visti come sistemi che rispondono agli stimoli producendo delle reazioni, come succede a un “soggetto” nel laboratorio sperimentale
dello psicologo o a uno studente in classe, ma al contrario come sistemi che stimolano la realtà con le loro azioni e osservano come la realtà reagisce alle loro azioni. Oggi le nuove tecnologie digitali permettono di intravedere una scuola in cui gli studenti imparano in questo modo attivo, attraverso l’esperienza (simulata) piuttosto
che attraverso il linguaggio, ma la psicologia, con il metodo sperimentale che finora
ha rappresentato il suo strumento di ricerca principale e più robusto e che prevede un
ruolo passivo del “soggetto” studiato, non è preparata a questo appuntamento.
3. Che cosa deve fare la psicologia per diventare più utile ai fini dell’apprendimento a scuola?
Abbiamo visto una serie di ragioni per cui la psicologia dell’apprendimento serve
poco alla scuola. Quello che la psicologia deve fare se vuole essere più utile a una
scuola che ha molto bisogno di aiuto e se vuole incidere in concreto sui modi in cui
a scuola vengono insegnate le diverse materie, è semplicemente cercare di eliminare
queste ragioni. Vediamo come.
Il cognitivismo ha rappresentato per molti aspetti un passo avanti in psicologia,
soprattutto perché ha permesso alla psicologia di superare il divieto comportamenPERCHÉ LA PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO SERVE COSÌ POCO ALLA SCUOLA?
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tista di studiare e fare ipotesi su quello che succede dentro l’organismo quando arriva uno stimolo e l’organismo risponde con un comportamento. Tuttavia, il cognitivismo sembra avere ormai esaurito la sua spinta propulsiva, soprattutto perché con
il tempo è diventato sempre più chiaro che l’analogia tra la mente umana e il computer, su cui si basa il cognitivismo, è limitativa e per molti aspetti sviante. Non si
può pensare che un essere umano, tranne casi particolari, funzioni sulla base di simboli e rappresentazioni simboliche simili a quelle di un computer, o seguendo regole e procedure come fa un computer. La dimostrazione di quanto sia inadeguata l’analogia “mente uguale computer” viene proprio dall’apprendimento. Come abbiamo visto, una delle ragioni per cui il cognitivismo che ha dominato la ricerca in psicologia negli ultimi decenni si è occupato poco dell’apprendimento è che il computer è un sistema che non è portato di suo ad apprendere, ma piuttosto ad essere
programmato. Una delle cose che la mente umana, a differenza del computer, fa
spontaneamente e sa fare meglio, è apprendere, e ciò dovrebbe scoraggiare dall’affidarsi all’analogia “mente uguale computer”.
D’altro canto, negli ultimi 10-20 anni in psicologia è emerso un nuovo paradigma teorico e metodologico che condivide con il cognitivismo il rifiuto del divieto
comportamentista di occuparsi di quello che succede dentro la testa, ma interpreta
quello che succede dentro la testa non in analogia a quello che succede dentro a un
computer ma in base a quello che esiste fisicamente dentro la testa: il cervello. Si
tratta del paradigma teorico delle reti neurali o connessioniste, che sono modelli del
comportamento e delle attività cognitive direttamente ispirati alle caratteristiche fisiche e al modo di funzionare del sistema nervoso. Se per il cognitivismo la “mente”
si può e si deve studiare ignorando il cervello, così come il software del computer viene studiato e costruito dagli informatici ignorando l’hardware del computer studiato e costruito dai fisici elettronici, per le reti neurali questo non è possibile. Il modo migliore di studiare la mente è considerarla come un cervello. Anche dal punto
di vista del metodo il paradigma delle reti neurali è diverso dal cognitivismo. I cognitivisti costruiscono modelli ispirati al computer ma poi li mettono alla prova con
i tradizionali esperimenti psicologici in laboratorio. Le reti neurali sono invece modelli simulativi, cioè modelli espressi come programmi di computer. Se il computer
non è più una fonte di ispirazione (analogia) per capire come funziona la mente, esso resta lo strumento pratico che serve a fare girare le simulazioni. Una volta realizzata, una simulazione diventa un laboratorio sperimentale virtuale in cui il ricercatore osserva i fenomeni in condizioni controllate, manipola queste condizioni e osserva le conseguenze delle sue manipolazioni (Parisi 2001).
Non entreremo qui nel merito dei modelli a rete neurale, per i quali rimandiamo
a Floreano (1995) e a Parisi (1999). Quello che è importante osservare è che per i
modelli a rete neurale, diversamente dai modelli cognitivisti, l’apprendimento ha
un ruolo centrale. Una rete neurale sa fare un certa cosa, esibisce un certo comportamento, non perché è stata programmata in un certo modo, ma perché ha appre64
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so a fare quella cosa, a esibire quel comportamento, sulla base di una lunga esperienza di apprendimento entro le condizioni fissate dal ricercatore. Ci si deve quindi augurare che con il progressivo diffondersi dei modelli a rete neurale si riattivi
l’interesse degli psicologi per l’apprendimento.
Anche l’altra ragione per cui il cognitivismo tende a ignorare l’apprendimento, e
cioè il fatto che le capacità cognitive tendono ad essere interpretate dai cognitivisti,
sulla scorta delle teorie linguistiche di Chomsky, come fondamentalmente innate e
quindi tali da svilupparsi senza un ruolo veramente significativo dell’esperienza e
dell’apprendimento, viene ridimensionata nelle nuove teorie connessioniste. È giusto cercare di determinare quali sono le basi genetiche delle capacità linguistiche
umane, che certamente sono importanti, ma non lo si può fare nel modo puramente
deduttivo e a priori tipico di Chomsky e del cognitivismo in genere, e in particolare di quella che oggi viene chiamata la “psicologia evoluzionistica” (Parisi in corso di
pubblicazione). Non solo tutto fa pensare che l’esperienza e l’apprendimento siano
per lo meno altrettanto importanti delle basi genetiche nello sviluppo delle capacità
umane, ma soprattutto è necessario che le ipotesi sulle basi genetiche di questa o
quell’altra capacità, di questo o quell’altro comportamento, e sulle condizioni evolutive che ne sono la causa lontana, siano formulate in modo dettagliato e soprattutto tale da poter essere messe in qualche modo alla prova, non soltanto con argomenti verbali ma con dimostrazioni sperimentali.
Questa è la direzione in cui si muove la Vita Artificiale, un’area di ricerca in cui
rientrano le reti neurali (Parisi 2000a). La Vita Artificiale studia non soltanto, usando i modelli a rete neurale, il sistema nervoso e il modo in cui il sistema nervoso apprende capacità e comportamenti, ma studia anche i processi di evoluzione biologica in popolazioni di organismi che danno come risultato le basi genetiche che contribuiscono a determinare come il singolo individuo si sviluppa e si comporta. In
questo modo le ipotesi sulle basi genetiche del comportamento possono diventare
esplicite, possono essere studiate le complesse interazioni tra basi genetiche e condizioni di esperienza (Elman, Bates, Johnson, Karmiloff-Smith, Parisi e Plunkett
1996), e tutto questo può avvenire nelle condizioni e con le manipolazioni sperimentali rese possibili dalle simulazioni.
Ma l’adozione delle rete neurali e dei modelli della Vita Artificiale non risolve
certo il problema della limitata rilevanza della psicologia dell’apprendimento per la
scuola. Le reti neurali sono modelli molto semplificati dell’apprendimento e appartengono ancora oggi alla ricerca “di base” piuttosto che a una ricerca applicata a problemi e a condizioni concrete, come richiederebbe una psicologia dell’apprendimento utile alla scuola. Quello che è necessario è che, superando la scarsa propensione della psicologia cognitivista a studiare l’apprendimento, gli psicologi si rimettano a studiare nel dettaglio e nelle loro caratteristiche specifiche, e che variano da
materia scolastica a materia scolastica, e cosa chiediamo veramente agli studenti di
fare e di imparare quando li teniamo per ore in classe. Quello che i comportamenPERCHÉ LA PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO SERVE COSÌ POCO ALLA SCUOLA?
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tisti hanno scoperto sull’apprendimento in generale sulla base dei loro esperimenti
con gli animali può essere utile ma non è sufficiente. Sia il cognitivismo che le reti
neurali possono offrire suggerimenti e idee utili ma il grosso del lavoro è ancora da
fare.
Quella che vogliamo suggerire è una strada che gli psicologi dell’apprendimento
dovrebbero seguire se vogliono essere utili alla scuola, una strada che oggi è resa possibile e anzi richiesta dalle nuove tecnologie digitali. Invece di studiare in astratto, o
magari in condizioni sperimentali necessariamente artificiose, i processi mentali coinvolti nell’apprendimento delle diverse materie scolastiche, gli psicologi dovrebbero diventare membri di équipes che hanno il compito di costruire effettivi sistemi basati
sulle nuove tecnologie digitali (multimedialità, ipertesti, Internet, simulazioni) e realizzare concretamente applicazioni che producano dimostrabilmente risultati interessanti in termini di apprendimento nel campo della matematica, della storia, delle
scienze, e delle altre materie scolastiche. Come si è detto, le nuove tecnologie digitali
hanno grandissime potenzialità dal punto di vista dell’apprendimento, ma il problema è riuscire a individuare e a realizzare queste potenzialità. Tra le loro potenzialità
più importanti da sfruttare ci sono la loro interattività e il loro non fare affidamento
sul linguaggio come canale di apprendimento. Chiudiamo questo articolo con qualche commento su queste due caratteristiche delle nuove tecnologie digitali.
Interattività significa che l’informazione che di momento in momento arriva allo studente è strettamente dipendente da quello che lo studente fa. Anche la navigazione di un ipertesto o su Internet è interattività, ma le nuove tecnologie permettono di andare molto al di là di questo tipo primitivo di interattività in cui l’utente
decide solo quale informazione gli arriva subito dopo ma poi interagisce in modo
tradizionale con tale informazione (tipicamente legge un breve testo e guarda una figura o una animazione). L’interattività più promettente dal punto di vista dell’apprendimento è quella in cui il computer incorpora un modello di qualche aspetto,
meccanismo, processo della realtà e l’utente interagisce con tale modello nello stesso modo in cui interagisce con la realtà, cioè compiendo azioni sul modello (sulla
realtà) e osservando le conseguenze delle sue azioni sul modello (sulla realtà).
I ragazzi a scuola hanno difficoltà, per ragioni cognitive o per ragioni di scarsa
motivazione, a imparare la matematica (aritmetica e geometria), l’italiano in quanto comprensione dettagliata di un testo, la storia, le scienze. Per tutte queste materie non è difficile pensare a usi del computer in cui si realizzino le condizioni di interattività che abbiamo visto. L’importante è: a) rendersi conto che il computer offre possibilità di fornire all’utente una varietà di tipi di informazione, di ricevere
azioni dell’utente, di reagire a queste azioni, in modi neppure lontanamente immaginabili con gli artefatti tecnologici tradizionali (ad esempio un libro, compreso un
libro di esercizi), e b) riuscire a sfruttare queste possibilità. Accanto al grafico, al programmatore, al realizzatore di interfacce, il compito dello psicologo è quello di immaginare, analizzare, progettare e realizzare quello che dovrebbe accadere nella in66
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terazione tra lo studente e il computer in modo che questa interazione produca gli
apprendimenti desiderati.
L’altra grande potenzialità offerta dalle nuove tecnologie digitali ai fini dell’apprendimento è quella che consiste nell’aggiungere un importante canale del vedere e
del fare al predominante e praticamente esclusivo canale del linguaggio come strumento di apprendimento. Molti dei problemi di apprendimento e di motivazione
dei ragazzi oggi derivano da questo affidarsi esclusivamente al linguaggio che caratterizza la scuola tradizionale, i suoi strumenti didattici, la formazione degli insegnanti,
la stessa “cultura” della scuola. Il problema è complesso e l’abbiamo discusso altrove
(Parisi 2000b). Anche se chi è cresciuto nella cultura tradizionale ha difficoltà ad ammetterlo, il linguaggio ha dei limiti come strumento di apprendimento, sia nella scuola in generale perché può dar luogo a apprendimenti e a comprensioni puramente
verbali e meccaniche, sia soprattutto in una scuola che, come quella di oggi, si rivolge a tutti i ragazzi, con diverse capacità linguistiche e diverse motivazioni ad apprendere. D’altro canto, una delle caratteristiche delle nuove tecnologie digitali è che queste tecnologie amplificano di molto le possibilità dei canali non verbali del vedere e
del fare rispetto alle tecnologie del passato, e perciò non ha più senso affidarsi unicamente al linguaggio come accadeva in passato perché allora il linguaggio era l’unico
strumento di apprendimento sufficientemente flessibile e usabile. Il compito degli
psicologi è indicare in concreto, con esempi, realizzando specifiche applicazioni, come sfruttare queste possibilità ai fini dell’apprendimento.
D’altro canto non si deve pensare che il linguaggio e il vedere e il fare siano necessariamente in contrasto tra loro. Lo scenario è quello di una interazione a tre: lo studente, la simulazione (essenzialmente non verbale) e l’insegnante. Lo studente impara e capisce interagendo con la simulazione, che è qualcosa di essenzialmente non verbale, ma l’insegnante ha il compito di introdurre le espressioni e le formulazioni verbali che permettono allo studente di trasportare quello che impara sul piano di quella conoscenza e comprensione riflessa e comunicabile che è possibile solo con il linguaggio. I vantaggi di questo sistema integrato sono altrettanto importanti per le capacità linguistiche degli studenti che per i contenuti che essi vanno imparando. Il linguaggio emerge, nella specie e nell’individuo, perché è integrato con l’esperienza del
vedere e del fare. Solo a scuola pretendiamo che le capacità linguistiche crescano da sole, lontano dal vedere e dal fare. Le nuove tecnologie permettono di superare questo
limite. Con le nuove tecnologie i concetti astratti possono venir acquisiti nell’ambito
di una esperienza che, per quanto simulata, è una esperienza del vedere e del fare.
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PERCHÉ LA PSICOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO SERVE COSÌ POCO ALLA SCUOLA?
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DOMENICO PARISI