Egregio dott. Alessandro Spaventa, ho letto con interesse il Suo articolo sulle rimesse come strumento efficace e potente di sussidiarietà orizzontale internazionale. Le sarei grato se volesse condividere alcune osservazioni da economista sul fenomeno del commercio equo e solidale (comes), all'interno del quale opero da quasi un decennio e che comincio ad osservare con occhio molto critico. Il prof. Barbetta dell'Università Cattolica di Milano, in collaborazione con colleghi dell'Università degli studi, ha sviluppato quattro anni fa una ricerca empirica in Italia con una qualche attenzione alla situazione europea e ai casi di un paio di commodities (caffè e banane). Risulta che il valore al dettaglio del comes nell'EU è di 650 milioni di Euro, che corrispondono a circa 250 milioni di acquisti (questa seconda stima è mia) fatti direttamente ai produttori e agli artigiani piccoli e medi in una cinquantina di PVS. Ben poca cosa. Il concetto fondante di prezzo equo stabilito direttamente nell'incontro tra produttore e compratore in maniera relativamente indipendente dalle oscillazioni di mercato è di per sé inesistente in economia, eppure sembra funzionare. Il tema dei lavoratori, in Europa come nei PVS, aprirebbe un'altra questione. Pensa che il consumatore europeo e il produttore e l'artigiano marginalizzati ricevano beneficio da questa pratica commerciale che rivendica una qualche specificità difficilmente afferrabile dalle norme del WTO e dalla legislazione italiana e comunitaria? Gianluca Bozzia (fund raising e cooperazione Chico Mendes onlus socio Ctm altro mercato) Quello del commercio equo e solidale (Comes), benché in forte crescita (37% nel 2005 e 42% nel 2006), rimane ancora un fenomeno effettivamente marginale. I dati pubblicati dalla FLO (Fairtrade Labelling Organizations International), un’associazione internazionale per la definizione di standard sul commercio equo e solidale e la relativa certificazione, indicano per il 2006, ultimo anno disponibile, un fatturato globale di circa 1,6 miliardi di euro. Ancora poca roba rispetto al commercio mondiale che valeva nello stesso 2006 circa 9.150 miliardi di euro dei quali 1.175 solo per prodotti agricoli, tessili e di abbigliamento (dati WTO). I maggiori paesi acquirenti di prodotti Comes sono, come prevedibile, Stati Uniti (31% del totale) e Regno Unito (24,5%), seguiti da Francia (10%), Svizzera (8,4%) e Germania (6,8%). L’Italia è al nono posto con soli 34,5 milioni di euro (2,1% del totale). Stupisce la scarsa incidenza dei Paesi scandinavi (Svezia, Danimarca, Finlandia e Norvegia) che insieme contano solo per il 4,2% del totale. Secondo tale stima il totale per l’Unione Europa (UE) sarebbe di circa 900 milioni di euro, quasi il 40% in più della stima da lei riportata, ma come sempre, quando si ha a che fare con questo tipo di dati, occorrerebbe analizzare meglio cosa viene preso in esame dalle diverse fonti. In ogni caso, appunto, valori assai modesti. Ma non è detto che debbano rimanere tali. Per chiarire il quadro può essere utile un confronto con un mercato che presenta alcune caratteristiche simili a quello del Comes, quello dei prodotti biologici. Nel 2007 il mercato mondiale di prodotti alimentari biologici dovrebbe, secondo le stime di Organic Monitor, una società di consulenza specializzata britannica, aver superato i 27 miliardi di euro. Un importo non trascurabile, frutto di una crescita a ritmi serrati negli ultimi anni, soprattutto nel Nord Europa e nell’Europa continentale, con l’Italia primo Paese produttore della UE. Una quota considerevole di tale crescita è dovuta allo spazio crescente che la grande distribuzione ha attribuito ai prodotti biologici. Un processo che ha permesso di allargare un mercato inizialmente ristretto, elitario e caratterizzato da prezzi elevati, favorendo il ribasso dei prezzi al consumo e una maggiore visibilità presso i consumatori. Un processo che, se sostenuto da una domanda crescente nel tempo, determinerebbe un fenomeno virtuoso che si autoalimenta con la crescita dei consumi che potrebbe favorire un’ulteriore diminuzione dei prezzi, avvicinandoli progressivamente a quelli dei prodotti agricoli e alimentari“tradizionali”, che a sua volta favorirebbe la crescita della domanda. Segnali che tale processo potrebbe prendere piede anche per quanto riguarda il Comes cominciano già ad avvertirsi. Nel Regno Unito la catena di supermercati Sainsbury’s ha deciso di vendere solo banane provenienti da aziende certificate “Fairtrade”; Debenhams, una catena di grandi magazzini, ha deciso di lanciare una collezione di vestiti tessuti solo con cotone certificato “Fairtrade”, mentre Marks&Spencer, un’altra catena, ha deciso di vendere solo ananas provenienti da aziende certificate “Fairtrade”. Insomma, spazi per una crescita del fenomeno ci sono, che questa si realizzi dipende però, come per i prodotti bio, dall’ effettiva industrializzazione del processo, il che implica la diffusione di strutture produttive maggiormente organizzate (anche attraverso l’adozione di strutture a rete, come quelle esistenti nel settore dell’abbigliamento, prima nei distretti italiani e oggi nei paesi dell’Europa orientale e nei Balcani), il coinvolgimento della grande distribuzione organizzata (GDO) e il diffondersi e l’affermarsi di standard di certificazione. Quest’ultimo elemento è tutt’altro che secondario, come dimostra il fenomeno bio. Il realizzarsi, infatti, di scandali diffusi legati a truffe o controlli approssimativi potrebbe tagliare le gambe ad un mercato ancora ridotto e fragile, caratterizzato essenzialmente da motivazioni etiche. E qui veniamo invece alla differenza con il mercato bio che, sul versante dei vantaggi produttoriconsumatori, offre un quadro speculare ed opposto a quello del Comes. Il mercato dei prodotti biologici mira soprattutto a soddisfare un bisogno reale dei consumatori: quello di potersi nutrire di alimenti sani, più saporiti, che non danneggino la salute. Vi è anche una componente etica, di tipo ambientalista, ma riveste un ruolo decisamente secondario. Il Comes, invece, mira a soddisfare i bisogni dei piccoli e piccolissimi produttori e non quelli dei consumatori, la cui domanda, come si è detto, è determinata prevalentemente da motivazioni etiche. La mancanza di ragioni per così dire concrete che guidino il comportamento dei consumatori rende l’intero fenomeno più fragile rispetto a quello dei prodotti biologici che è invece trainato da una motivazione assai più forte, quella della salute personale e quindi dell’interesse personale. Nelle fasi di congiuntura economica negativa, ad esempio, e quindi di taglio dei consumi, la domanda di prodotti Comes rischia di ridursi in misura maggiore e più rapidamente di quella di altri prodotti (maggiore elasticità al reddito direbbero gli economisti). Essa va quindi sostenuta contribuendo al radicamento dei valori e del valore del commercio equo e solidale. Con tutto ciò non voglio certo affermare che il futuro sarà tutto rose e fiori. Anzi. Ma non mi lascerei andare neanche ad un nero pessimismo. Prospettive di crescita ve ne sono, almeno a livello internazionale. Che esse ci siano e divengano realtà anche in Italia, be’, quella è un’altra storia. O meglio…è sempre la stessa. Alessandro Spaventa