Finanza comportamentale

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262,5
229,7
19,1
25.000
1.312,5
1.148,4
95,7
100.000
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Prefazione
I
l crescente interesse mostrato dagli investitori con cui giornalmente
ci confrontiamo e i risultati accademici presentati in numerose
pubblicazioni ci hanno spinto ad affrontare un tema affascinante
come quello della finanza comportamentale.
A differenza della teoria finanziaria tradizionale secondo cui i
mercati finanziari si basano sul concetto di efficienza e assoluta
razionalità, questa disciplina affronta la sfida di interpretare
l’andamento erratico dei mercati e il comportamento soggettivo
degli investitori.
Il lavoro che presentiamo è stato sviluppato con la finalità
di fornire una utile guida agli investitori, nel’ambito di un
ampio progetto di educazione finanziaria. La prima parte
della pubblicazione è pensata quale introduzione propedeutica
alla materia ove vengono ripresi concetti base quali risparmio,
investimento, rapporto rischio/rendimento e asset allocation.
La sezione di approfondimento è invece dedicata all’analisi dei
mercati gestiti da Borsa Italiana ove si concentrano gli scambi della
maggior parte degli strumenti finanziari negoziabili.
Per l’analisi specifica della finanza comportamentale ci siamo
affidati alla preziosa collaborazione di due professori universitari,
tra i massimi esperti nazionali della materia, che hanno affrontato
in maniera semplice ed efficace i concetti base della disciplina.
Di particolare interesse la sezione dedicata alla consulenza
finanziaria che può rappresentare anche secondo un approccio
comportamentale un reale valore aggiunto per indirizzare al meglio
le scelte di investimento dei singoli risparmiatori.
Da non perdere l’appendice della pubblicazione in cui vengono
descritti i 15 classici errori commessi dagli investitori con
indicazione delle possibili soluzioni.
Buona lettura
Marco Berton | Direttore responsabile - Brown Editore
Gabriele Villa | Head of Private Investors London Stock Exchange Group
Società del gruppo
Capitolo 1
Indice
1
PREFAZIONE
1
Risparmio e investimenti
4
a cura di Borsa Italiana e Brown Editore
1.1
Risparmio e investimenti
4
1.2
Rischio e rendimento
5
7
1.4
Il risparmio gestito: fondi comuni di investimento
8
1.5
I mercati gestiti da Borsa Italiana – London Stock Exchange
9
2
Finanza comportamentale
26
a cura del prof.Ugo Rigoni e del prof. Enrico Maria Cervellati
2.1
Introduzione alla disciplina
26
2.2
Gli errori nelle scelte di investimento
27
2.3
Le decisioni d’investimento e i portafogli degli investitori
32
2.4
La correzione delle anomalie nelle scelte di investimento
38
46
2.6
La previdenza integrativa
51
2.7
Il risparmio gestito
56
BIBLIOGRAFIA
59
Soluzioni ai 15 errori classici dell’investitore
62
APPENDICE
Pubblicazione chiusa in redazione il 15/03/2011
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Capitolo 1
Risparmio 1.1
e investimenti
Risparmio e investimenti
sono elementi chiavi per
la crescita economica di una nazione.
La consulenza finanziaria
professionale consente di stabilire
un profilo accurato
delle esigenze, della propensione
al rischio e dell’orizzonte
temporale del singolo investitore
4
RISPARMIO
E INVESTIMENTI
L
a letteratura economica definisce il
risparmio come la quota del reddito
generato da persone, imprese o pubblica amministrazione che non viene indirizzata verso i consumi ma che viene
accantonata per essere spesa in un momento successivo. Lo scopo del risparmio, quindi,
è quello di poter disporre in un secondo momento delle risorse non utilizzate. Il tutto per far
fronte a spese impreviste (risparmio precauzionale),
per garantirsi un reddito futuro oltre a quello offerto
dal sistema pensionistico (risparmio previdenziale),
per lasciare un’eredità o, infine, per effettuare nel futuro un investimento di rilevanti dimensioni quale
ad esempio l’acquisto di un bene durevole (automobili,
casa, etc.).
Dividendo gli attori economici in tre grandi categorie,
famiglie, imprese e pubblica amministrazione, si assume solitamente che solamente le famiglie siano
complessivamente risparmiatrici nette. Imprese private e pubblica amministrazione, invece, non
vengono associate al concetto di risparmio in quanto
solitamente sono soggetti che richiedono al sistema
risorse finanziarie in aggiunta a quelle di cui dispongono. Il risparmio di questi soggetti ha un valore negativo
che deve essere finanziato direttamente dalle famiglie
attraverso la cessione di titoli (azioni e obbligazioni)
oppure indirettamente, ricorrendo al credito bancario.
Le banche, a loro volta, finanziano i propri impieghi
ricorrendo ai depositi delle famiglie. In questo senso
si può dunque parlare di settori in surplus o in deficit
dell’economia.
Senza addentrarsi troppo nei meandri della teoria
economica, si può affermare che il risparmio è un
elemento vitale per incrementare la quantità
di capitale fisso disponibile per le aziende e che
quindi contribuisce in maniera diretta alla crescita economica di una nazione.
Dobbiamo anche precisare che un aumento del risparmio non si traduce necessariamente in un aumento diretto degli investimenti. Se i risparmi vengono infatti
Capitolo 1
messi da parte in maniera infruttuosa anziché essere
depositati presso un intermediario finanziario o investiti nell’acquisto di titoli, non c’è possibilità che tali risparmi vengano impiegati come investimento dalle imprese. In altre parole il risparmio può aumentare senza
che cresca l’investimento, causando paradossalmente
una diminuzione della domanda e quindi contrazione
anziché crescita economica.
Nella finanza personale, il risparmio corrisponde alla conservazione del valore nominale del denaro per utilizzi futuri al fine di creare,
ad esempio, un fondo di emergenza per l’acquisto
di beni durevoli come una casa o un’auto, oppure in
previsione di spese future, nonostante la possibilità
(tutt’altro che remota) che l’inflazione ne eroda il valore reale. Può essere usato per questi scopi un conto
di deposito che paga generalmente un interesse in grado di coprire, totalmente o parzialmente, la perdita di
valore reale.
Il denaro utilizzato per acquistare azioni, depositato in
uno strumento di investimento collettivo (ad esempio
in un fondo comune) o utilizzato in generale per acquistare un titolo rischioso, viene considerato un investimento finanziario.
Questa distinzione è fondamentale perché il rischio
connesso in questa forma di investimento può causare
una perdita in conto capitale se, al momento del realizzo, il valore del titolo è diminuito rispetto al momento
in cui il titolo stesso è stato acquistato.
A diversi livelli di rischio desiderati corrispondono
diversi tassi di rendimento attesi, tanto che, per
alcuni conti di deposito privi di rischio, il tasso d’interesse può risultare insufficiente a coprire la perdita
di valore reale dovuta all’inflazione. Spesso accade che i termini risparmio e investimento vengano
confusi ed utilizzati in maniera intercambiabile. Ad
esempio molti conti di deposito sono etichettati come
“conti di investimento” dalle banche per chiare finalità
di marketing. Per investimento, invece, si deve intendere un impiego delle risorse il cui obiettivo
è l’aumento delle disponibilità in termini reali.
Appare quindi evidente la differenza tra il concetto di
risparmio e quello di investimento, nel quale è necessariamente presente l’elemento di rischio.
1.2
RISCHIO
E RENDIMENTO
IL RISCHIO FINANZIARIO
In campo finanziario, il rischio è l’incertezza legata al valore futuro di un’attività o di uno strumento finanziario o, più in generale, di un qualsiasi
investimento.
Un’attività patrimoniale si definisce rischiosa se il flusso
monetario che produce è almeno in parte casuale, cioè
non è conosciuto in anticipo con certezza. Un titolo azionario è un classico esempio di attività rischiosa: non si può
sapere se il prezzo aumenterà o diminuirà nel tempo, né
se la società che lo ha emesso pagherà periodicamente i
dividendi.
Per quanto i titoli azionari siano considerati attività rischiose per eccellenza, in realtà ne esistono molte altre. Nel
“
IL RI
R SCHIO RAPPRESENTA
L’INCERTEZZA SUL VALORE
”
FUTURO DI UN INVESTI
T MENTO
caso dei titoli obbligazionari, la società emittente potrebbe
fallire e non restituire il capitale o non corrispondere gli interessi ai sottoscrittori. Gli stessi titoli di Stato che maturano a 10 o 20 anni sono rischiosi: per quanto sia fortemente
improbabile che il governo di un paese industrializzato
vada in default (cioè non sia in grado di pagare quanto dovuto), il tasso d’inflazione può aumentare inaspettatamente, riducendo il valore reale degli interessi e del capitale
restituito alla scadenza, e dunque il valore del titolo.
Un’attività priva di rischio o risk-free garantisce
un flusso monetario certo. I titoli di Stato a breve termine dei paesi più avanzati (come i Treasury Bill americani o i BOT italiani) sono privi o quasi di rischio. Giungendo a scadenza nel volgere di pochi mesi, il rischio legato a
un aumento inatteso dell’inflazione è esiguo, e si può essere ragionevolmente certi che il governo non mancherà di
corrispondere alla scadenza il capitale e gli interessi. Altri
esempi di attività risk-free sono i depositi bancari a vista e
i certificati di deposito a breve termine.
5
5
LA GESTIONE DEL RISCHIO
IL RENDIMENTO DI UNA ATTIVITÀ FINANZIARIA
Gestire il rischio significa mettere in atto tutti gli accorgimenti necessari a controllare i fattori di incertezza legati a
un’attività e a limitare gli effetti di potenziali eventi avversi.
Nel caso dell’attività di compravendita di strumenti finanziari, la gestione del rischio si basa sulla distinzione fra potenziale di opportunità (upside risk) e potenziale di pericolo
(downside risk).
Dal momento che l’impiego del risparmio ha come obiettivo l’ottenimento del massimo rendimento, la gestione del
rischio di un portafoglio finanziario sarà volta a limitare
il più possibile il verificarsi degli eventi negativi e a minimizzarne il relativo impatto, cercando di non ostacolare il
verificarsi di eventi positivi. In altri termini, la gestione del
rischio finanziario consiste nel minimizzare il downside
risk, senza limitare troppo l’upside risk.
Gli individui acquistano e detengono attività finanziarie
per godere del flusso monetario che producono. Per confrontare due attività, è utile considerare questo flusso in
relazione al valore o al prezzo dell’attività stessa. Il rendimento di un’attività è il flusso monetario totale generato
- inclusi i guadagni o le perdite in conto capitale - espresso
come frazione del suo prezzo. Quando si investono i propri
risparmi in azioni, obbligazioni, immobili o altre attività, di
solito si spera di ottenere un rendimento superiore al tasso
d’inflazione, in modo da compensare con il rendimento la
perdita del potere d’acquisto della moneta. Per questa ragione, i rendimenti sono spesso espressi in termini reali,
ovvero al netto dell’inflazione.
Il rendimento reale di un’attività patrimoniale è pari alla
differenza fra il tasso di rendimento nominale e il tasso
d’inflazione. Dato che la maggior parte delle attività sono
rischiose, un investitore non può sapere in anticipo i rendimenti che otterrà l’anno successivo. Per esempio, il corso di
un titolo azionario può tanto aumentare quanto diminuire.
Il rendimento atteso di un’attività è il valore atteso del suo
rendimento, cioè il rendimento che dovrebbe produrre in
media. In alcuni anni, il rendimento effettivo può essere
molto più elevato di quello atteso, e in altri molto inferiore.
Ma nel lungo periodo, il rendimento medio effettivo dovrebbe essere prossimo al rendimento atteso.
Attività diverse hanno rendimenti attesi diversi. Per
esempio, nell’ottobre 2005 il rendimento atteso reale di
un Treasury Bill americano era inferiore all’1%, mentre
quello di un portafoglio di titoli rappresentativi della
borsa di New York (NYSE) era superiore al 9%. Ma se
la differenza di rendimento atteso era così marcata, perché c’erano milioni di persone disposte ad acquistare un
Treasury Bill? Perché la domanda di un’attività non dipende solo dal rendimento atteso, ma anche dal rischio:
le azioni hanno un rendimento atteso più elevato dei
titoli di stato, ma sono anche più rischiose.
Questi dati suggeriscono che quanto maggiore è il rendimento atteso di un’attività, tanto maggiore è il rischio
che comporta.
Se l’investimento è correttamente diversificato, questo
corrisponde al vero. In conseguenza, l’investitore avverso al rischio deve trovare il giusto equilibrio tra rendimento atteso e rischio
“
L’INVESTMENTO HA COME OBIETTIVO
QUELLO
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DISPONIBILITÀ
L
IN TERMINI REAL
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A NETTO QUINDI DELL’INFL
AL
FLAZIONE
”
Gestire professionalmente il rischio di un portafoglio finanziario significa procedere a una sequenza di valutazioni
- relative sia alle singole attività incluse nel portafoglio, sia
ai rapporti di relazione fra queste, sia al portafoglio nel suo
complesso - tale da permettere un’accurata pianificazione
del rischio a cui il portafoglio viene esposto.
Queste analisi consentono di definire una banda di oscillazione ideale del portafoglio - il cosiddetto profilo rischio/
rendimento - e stabilire le azioni da intraprendere nel caso
in cui il suo valore oscilli oltre la soglia prevista.
L’attività di valutazione e analisi dei rischi parte quindi
dalla stima della probabilità e del possibile impatto dei
singoli eventi rischiosi, per giungere alla composizione
di un quadro generale dei fattori d’incertezza a cui il portafoglio è esposto. A conclusione dell’attività di analisi e
valutazione, il rapporto tra le opportunità e i rischi legati
all’investimento dovrà bilanciare le aspettative e le esigenze del risparmiatore.
6
Capitolo 1
IL RENDIMENTO E IL PREMIO AL RISCHIO
Il rendimento di un titolo finanziario viene definito in
questo modo: l’investitore paga un certo prezzo di acquisto, diciamo pari a 100, e alla fine dell’anno valuta
la propria posizione utilizzando il prezzo di mercato
dell’attività, supponiamo pari a 110, tenendo conto
naturalmente dei dividendi o delle cedole percepiti durante l’anno, ad esempio pari a 5. In questo esempio il
valore finale dell’investimento è di 115 (10 di prezzo finale e 5 di dividendo) e deve essere confrontato con un
investimento iniziale di 100.
Il rendimento complessivo è del 15%. Si tratta di un rendimento soddisfacente? Dipende dalle alternative disponibili. Un’alternativa è senz’altro rappresentata dall’investimento in un titolo senza rischio annuale, che offre con
certezza un tasso di interesse.
Supponiamo che il tasso di interesse sia del 5%. Il rendimento del 15% è senz’altro più alto del 5%, ma occorre
tenere presente che l’investimento nel titolo finanziario
comporta una certa dose di rischio. Invece di avere un
prezzo finale di 110, il titolo avrebbe potuto avere un
prezzo finale pari ad 80 che, assieme al dividendo di
5, avrebbe comportato un rendimento complessivo
di -15%. Se l’investimento nel titolo è rischioso, non è
corretto confrontare il rendimento finale del 15% con
il tasso di interesse del 5%, in quanto l’investitore sarà
disposto ad investire in un titolo rischioso anziché in
un titolo senza rischio solo in presenza di una adeguata
remunerazione.
Occorre da una parte tenere conto di tutti gli scenari
possibili del rendimento rischioso, calcolando il rendimento atteso, e dall’altra parte considerare l’alternativa
sommando al tasso di interesse anche la remunerazione
necessaria a compensare il rischio che si corre, definito
premio per il rischio.
Se ad esempio ci sono solo due scenari possibili di rendimento del titolo rischioso, +15% e -15%, e se la probabilità
del primo scenario è del 90% mentre quella del secondo
scenario è del 10%, si ottiene un rendimento atteso pari a
nove decimi di +15% e ad un decimo di -15%, per ottenere
un risultato finale di +12%. Se il premio per il rischio è
ad esempio del 5%, allora il rendimento atteso del 12% si
confronta favorevolmente con la somma del tasso di interesse e del premio per il rischio, pari a 10%.
1.3
ASSET ALLOCATION: L’IMPORTANZA
DELLA DIVERSIFICAZIONE
Quella dell’asset allocation è la scelta strategica fondamentale in una decisione di portafoglio, sia nel caso ci
si affidi a un gestore professionale, sia se si decide di
gestire direttamente il proprio portafoglio. E lo è per la
semplice ragione che, oltre a definire il profilo rischiorendimento del portafoglio, l’asset allocation influenza
più di ogni altra decisione la variabilità della performance del portafoglio.
Le classi di attività che si prendono in considerazione
nella definizione di una asset allocation sono liquidità,
obbligazioni e azioni.
Data la diversa esposizione al rischio e il diverso potenziale di rendimento che caratterizza ogni classe di attività, la composizione di queste tre classi di attività finanziarie in un portafoglio è in grado di soddisfare, data la
sua propensione al rischio, gli obiettivi di risparmio di
qualsiasi individuo.
Purtroppo, non esiste una soluzione standardizzata per la determinazione della asset allocation
ideale per un singolo individuo. In generale, però l’esposizione di un portafoglio ai mercati azionari sarà tanto
“
L’INCERTEZZA SULL
U LE SCELTE
L
DI ASSET ALL
A LOCATION
CONSIGL
GLIANO
O DI AFFIDARSI
AD UN PROFESSIONISTA DEL
SETTORE FINANZIARIO
O
”
maggiore quanto più alte sono la propensione al rischio
dell’investitore e il suo orizzonte temporale.
Questo perché i mercati azionari garantiscono storicamente un più elevato rendimento come premio per il rischio che comportano, ma allo stesso
tempo sono più volatili nel breve periodo. Per esempio,
chi avesse investito in un portafoglio con una elevata
componente azionaria negli anni 1990, avrebbe dovuto
affrontare ingenti perdite nel biennio 2000-2001.
77
Solo oggi il mercato sta recuperando le posizioni perse,
ma quello stesso shock potrebbe non avere lo stesso peso
(in termini di rendimento) nel 2010 e, ancor più, nel
2020, quando non sarebbe considerato altrimenti che
come un piccolo incidente di percorso.
Al contrario, la componente di liquidità del portafoglio
garantisce una certa “sicurezza” nel caso si debba realizzare rapidamente una parte dell’investimento. Ma,
d’altra parte, quanto maggiore è la componente di liquidità del portafoglio, tanto minore è il suo rendimento
potenziale complessivo, dato che a livelli bassi di rischio
corrispondono livelli altrettanto bassi di rendimento.
La difficoltà di compiere una scelta razionale riguardo
all’asset allocation, suggerisce a molti di affidarsi alla
consulenza di una società finanziaria, in grado
di stabilire un profilo accurato delle esigenze,
della propensione al rischio e dell’orizzonte temporale. Esistono anche software che possono aiutare il
singolo risparmiatore a definire un’asset allocation adatta a soddisfare i propri bisogni e le proprie aspettative.
Molti di questi sono accessibili gratuitamente su internet.
In ogni caso, è vivamente consigliabile il ricorso ad un
supporto professionale nel definire una scelta così
importante.
1.4
IL RISPARMIO GESTITO:
FONDI COMUNI DI INVESTIMENTO
Il risparmio gestito può essere definito come la quota di risparmio personale affidata dal singolo ad uno o più gestori professionali che, nell’ambito di un mandato ricevuto, provvedono ad amministrare le risorse loro conferite.
Con l’espressione risparmio gestito si fa dunque riferimento alle attività di gestione professionale del risparmio
operate dai fondi comuni di investimento mobiliare e
dalle SICAV, all’attività di gestione di patrimoni mobiliari
individuali (GPM) effettuata da banche e da società d’intermediazione mobiliare (SIM), nonché alle attività di investimento per conto dei risparmiatori operate dai fondi
pensione e dalle compagnie di assicurazione nell’ambito
della cosiddetta previdenza complementare.
I prodotti finanziari rientranti nell’ambito del risparmio
gestito si distinguono da quelli dell’intermediazione ban-
8
caria tradizionale, che mediante la raccolta di depositi e
l’erogazione di impieghi, attua una radicale trasformazione delle caratteristiche degli strumenti finanziari.
Nel caso dei fondi comuni e delle gestioni individuali di
patrimoni mobiliari si realizza una completa traslazione
sugli investitori del rischio proveniente dalle oscillazioni
di valore dei titoli detenuti in portafoglio e dalle possibili
differenze temporali tra le esigenze finanziarie dei soggetti in deficit ed in surplus.
Accanto alla nozione più ampia di risparmio gestito,
usualmente utilizzata nelle statistiche internazionali,
che ricomprende le gestioni di patrimoni individuali, gli
“
I FONDI PENSIONE RI
R SPONDONO
ALLE ESIGENZE DI NATURA
PREVI
V DENZI
ZIALE DEGLI
L
INVESTI
TITOR
RI
”
OICR (fondi comuni di investimento e SICAV), le assicurazioni sulla vita e i fondi pensione, spesso ci si richiama
ad una nozione più ristretta comprendente le sole gestioni di portafogli, collettive e individuali. Con il termine
gestioni collettive sono da intendersi le gestioni dei fondi
comuni di investimento mobiliare e le SICAV.
FONDI COMUNI E FONDI PENSIONE
I fondi comuni sono quindi patrimoni collettivi costituiti con i capitali raccolti da una pluralità di risparmiatori, ciascuno dei quali detiene un
numero di quote proporzionali all’importo che ha
versato. Il sottoscrittore di una quota di fondo
comune di investimento accetta implicitamente
il rischio e il rendimento associati al portafoglio
scelto: se il valore del portafoglio aumenta, il sottoscrittore ne trae beneficio; se diminuisce, ne sopporta la perdita.
Rispetto a un investimento diretto in azioni o obbligazioni, il vantaggio offerto dal fondo comune
di investimento è l’accesso alla diversificazione
di portafoglio, anche disponendo di risorse mi-
nime: chi investe in attività finanziarie più di ogni
altro dovrebbe rammentare che “non si devono
mettere tutte le uova nello stesso cesto”.
Il valore di una singola azione o obbligazione è legato alle fortune di una singola impresa, quindi detenere azioni o obbligazioni di un solo tipo è molto
rischioso; assai meno rischioso è un portafoglio
che contiene diversi tipi di azioni o di obbligazioni, perché le sorti di una singola impresa possono
influire solo su una parte modesta del patrimonio.
I fondi comuni rendono facile l’accesso a
portafogli diversificati: oggi chiunque può sottoscrivere una quota di un fondo comune e diventare di conseguenza comproprietario o creditore di
centinaia di imprese diverse.
Un secondo vantaggio riconosciuto ai fondi comuni è legato alla competenza professionale di
chi ne gestisce gli investimenti: i gestori di fondi
comuni di investimento tengono sotto stretto controllo le tendenze e gli andamenti dei mercati finanziari nei quali sono presenti e acquistano i titoli delle imprese che considerano più promettenti.
Questa gestione professionale garantisce un
rendimento migliore sulle somme date in gestione
al fondo.
Gli strumenti finanziari di previdenza complementare, tipicamente i fondi pensione, consentono invece ai risparmiatori di investire le proprie
risorse con un orizzonte di lungo termine, in base
ad un’esigenza di natura previdenziale. I fondi
pensione, in particolare, sono strumenti finanziari
ideati per consentire ai risparmiatori di costruire
una rendita pensionistica aggiuntiva a quella offerta dai sistemi di previdenza obbligatoria.
Nella fase di raccolta il fondo pensione riceve le
contribuzioni previdenziali che gli sono versate dal
lavoratore aderente e dal datore di lavoro, nonché
le quote di accantonamento annuale del trattamento di fine rapporto (TFR).
Al termine dell’attività lavorativa, una volta maturato il diritto alla pensione, il lavoratore (o più in
generale il soggetto aderente al fondo) riceve una
rendita pensionistica periodica, proporzionale alla contribuzione accumulata.
Gli investimenti realizzati dai fondi pensione possono riguardare sia titoli quotati nei mercati finanziari regolamentati sia quote di OICR. In ogni
caso, sono previste regole specifiche per questi
prodotti, volte a tutelare l’investimento realizzato
dai lavoratori aderenti. Per questo motivo i fondi
pensione non possono effettuare speculazioni finanziarie ritenute particolarmente
rischiose (come le vendite allo scoperto) o utilizzare strumenti finanziari derivati con finalità diverse da quella della copertura dei rischi.
1.5
I MERCATI GESTITI
DA BORSA ITALIANA - LONDON
STOCK EXCHANGE
Borsa Italiana, società per azioni nata nel 1998 con la
privatizzazione dei mercati di borsa, svolge l’attività
di organizzazione e gestione di mercati regolamentati di strumenti finanziari. Il suo principale obiettivo
è quello di garantire lo sviluppo e di massimizzare la
liquidità, la trasparenza, la competitività e l’efficienza
dei mercati stessi. Dal 2007 Borsa Italiana fa parte del
London Stock Exchange Group plc, il primo mercato
europeo per scambi azionari, con il 48% della capitalizzazione di mercato dell’indice FTSEurofirst 100 e
con il book di negoziazione più liquido per contratti
e controvalore
Le competenze di Borsa Italiana sono principalmente:
to dei mercati;
missione, di esclusione e di sospensione degli operatori e degli strumenti finanziari dalle negoziazioni;
missione e permanenza sul mercato per le società
emittenti;
corretto svolgimento delle negoziazioni.
Gli scambi vengono effettuati su 6 distinti mercati in
9
9
base alla natura del sottostante oggetto di contrattazione: MTA, SeDeX, MOT, ExtraMOT, IDEM ed ETFplus
(vedi figura nella pagina successiva).
1.5.1
MTA: IL MERCATO AZIONARIO
MTA è il Mercato Telematico Azionario all’interno del quale si negoziano azioni, obbligazioni convertibili, diritti di
opzione e warrant. Questo mercato si rivolge alle imprese
di media e grande capitalizzazione offrendo loro un mercato allineato ai migliori standard internazionali, in grado
di supportare le esigenze di raccolta di capitali domestici e
internazionali provenienti da investitori istituzionali, professionali e dal pubblico risparmio ed in grado di garantire
un’elevata liquidità dei titoli.
MTA (unitamente al mercato MIV) è rappresentato
dai seguenti indici:
!
" #$& #
Cap, FTSE Italia Small Cap, FTSE Italia Micro Cap
'& ! appartenenti al segmento STAR
AIM Italia è il mercato di Borsa Italiana dedicato alle
“piccole e medie imprese italiane leader di domani”.
AIM Italia si rivolge alle PMI più dinamiche e competitive del Paese facendo leva sul know how ottenuto in
14 anni di esperienza dell’AIM inglese, il mercato dedicato alle small caps, leader mondiale con oltre 1.600
società quotate provenienti da 40 diverse nazioni.
L’MTA Internationa) permette di negoziare sull’MTA alcuni dei titoli più liquidi dell’area Euro utilizzando modalità e costi del mercato italiano. Si tratta di un servizio
sostanzialmente rivolto alla clientela privata, ma anche
gli operatori professionisti possono trovare interessanti
opportunità di trading in questo segmento.
LE AZIONI
In generale ad ogni azione spetta un voto, tuttavia, sebbene esista il divieto di emettere azioni a voto plurimo,
10
e quindi di assegnare più di un voto a ogni azione, esiste la possibilità di emettere categorie speciali di azioni
con differenti contenuti in termini di diritti amministrativi e patrimoniali.
AZIONI ORDINARIE
L’azione ordinaria rappresenta l’unità minima di partecipazione al capitale di una società. Le caratteristiche
istintive delle azioni ordinarie riguardano i pagamenti
discrezionali di dividendi, i diritti residuali sul capitale della società, la responsabilità limitata e il diritto di
voto nelle assemblee societarie.
I profitti derivanti dal possesso di azioni ordinarie
sono rappresentati dai dividendi e dai guadagni in conto capitale (capital gain).
Il pagamento e l’ammontare dei dividendi sono determinati dal Consiglio di Amministrazione (CdA) della società emittente (eletto dagli azionisti ordinari) e approvati
dall’assemblea ordinaria. Tuttavia il diritto degli azionisti
a ricevere il dividendo non è assoluto; nel caso in cui, pur
in presenza di utili positivi, il CdA e l’assemblea ordinaria decidano di non distribuire gli utili gli azionisti non
riceveranno nulla. In generale, però, quando gli utili non
vengono distribuiti sono automaticamente reinvestiti
nella società stessa contribuendo ad incrementare i profitti dell’esercizio successivo.
La principale componente di remunerazione delle azioni
ordinarie è comunque rappresentata dal capital gain, ossia dalla differenza tra il prezzo di acquisto ed il prezzo di
vendita dell’azione stessa.
In caso di fallimento o di scioglimento della società,
gli azionisti ordinari possono vantare soltanto un diritto residuale. Ciò significa che essi avranno diritto a
suddividersi pro quota ciò che residua dopo il soddisfacimento di tutte le altre categorie di stakeholders:
i creditori, i lavoratori dipendenti, gli obbligazionisti,
l’amministrazione tributaria e gli azionisti privilegiati. Tale caratteristica rende le azioni ordinarie più rischiose dei titoli di debito e delle azioni privilegiate.
Una delle principali caratteristiche associate alle azioni ordinarie è costituita dal beneficio della responsabilità limitata. Essa implica che le eventuali perdite degli
azionisti siano limitate all’ammontare dei conferimenti inizialmente apportati nell’impresa a titolo di capi-
Capitolo 1
tale, anche qualora il valore delle attività dell’impresa
scenda al di sotto di quello dei debiti dovuti. In altre
parole, il patrimonio personale dell’azionista resta
estraneo rispetto ai diritti vantati dai creditori della
società in caso di fallimento. Un’altra caratteristica
delle azioni ordinarie è la titolarità di un diritto di voto
pieno che fa sì che gli azionisti possano partecipare,
pro-quota, ai fatti sociali e alla formazione della volontà assembleare.
AZIONE NOMINATIVA
Azione intestata a una persona fisica o giuridica, con il nome del titolare riportato sul certificato
azionario e risultante dal libro dei soci della società
emittente.L’azione nominativa può essere trasferita secondo due diverse modalità. La prima, detta transfert,
comporta l’annotazione del nome dell’acquirente sia sul
titolo che sul libro dei soci ad opera della società. Con la
conclusione di questa procedura l’acquirente assume la
qualifica di socio e può quindi esercitare i diritti relativi.
AZIONARIO
SECURITISED
DERIVATES
Covered
C
overed
d
warran
war
warrant
rantt
Covered
C
overed
d warrant
struttura
strutturati
strutt
urati
ti / eesot
esotici
sotici
ici
AZIONE PRIVILEGIATA
L’azione privilegiata, al pari dell’azione ordinaria,
rappresenta l’unità minima di partecipazione al capitale di una società, ed attribuisce sia diritti amministrativi, sia diritti patrimoniali.
Tuttavia il contenuto dei diritti patrimoniali può
essere liberamente stabilito dalla società e, di norma, prevede alcuni vantaggi rispetto alle azioni
ordinarie. Generalmente le società riconoscono
un rendimento addizionale (e una prelazione) rispetto al dividendo delle azioni ordinarie. Inoltre
gli azionisti privilegiati godono di una prelazione
nel riparto del patrimonio a seguito del fallimento o dello scioglimento della società rispetto ai soli
azionisti ordinari.
A fronte di questi vantaggi patrimoniali vi sono,
in genere, alcune restrizioni dei diritti amministrativi, infatti gli azionisti privilegiati possono
votare soltanto nelle assemblee straordinarie, ma
non ordinarie.
ETF E ETC
REDDITO FISSO
ETF
DERIVATI
IDEM Equity
DomesticMOT
IDEX
Laverage
Laverage
certificates
certif
cer
tifica
icates
tes
MAC
Investment
Invest
Inv
estmen
mentt
certificates
Mercato Regolamentato
Segmento di mercato
MTF ( Multilateral Trading Facilities)
Trading After Hours: STAR, SeDeX
11
11
1.5.2
MOT E EXTRAMOT:
IL MERCATO DEI TITOLI
A REDDITO FISSO
IL MERCATO MOT
E’ possibile negoziare tutti gli strumenti sopra descritti
sul mercato italiano del MOT.
Le negoziazioni avvengono inizialmente con modalità
di asta e successivamente, fino al termine della giornata, in modalità di negoziazione continua. Durante la
fase d’asta i contratti sono conclusi ad un prezzo teorico che massimizza il quantitativo scambiato mentre
durante la negoziazione continua sono conclusi mediante abbinamento automatico delle proposte ordinate in base al criterio prezzo/tempo.
ORARI DI NEGOZIAZIONE
8:00
9:00
asta di
apertura
17:30
negoziazione
i i
continua
LE OBBLIGAZIONI
L’obbligazione è un titolo di credito che rappresenta
una parte di debito acceso da una società o da un ente
pubblico per finanziarsi. Garantisce all’acquirente il
rimborso del capitale più una remunerazione sotto forma di tasso di interesse.
Le obbligazioni sono emesse allo scopo di reperire,
direttamente tra i risparmiatori e a condizioni più
vantaggiose rispetto a quelle dei prestiti bancari, capitali da investire. Il vantaggio per l’emittente deriva,
infatti, dalla possibilità di pagare tassi di interesse
solitamente inferiori rispetto a quelli che sarebbe costretto a pagare a fronte di un finanziamento bancario
di eguale scadenza. L’investitore, a sua volta, beneficia di un rendimento maggiore rispetto a quello di un
investimento in liquidità e con la possibilità, laddove
quotati, di smobilizzare il proprio investimento sul
mercato secondario.
12
Il detentore di obbligazioni di una società, pur non
essendo immune dal rischio d’impresa, a differenza dell’azionista non partecipa all’attività gestionale
dell’emittente, non avendo diritto di voto nelle assemblee. In compenso, la remunerazione del capitale di rischio azionario è subordinata al preventivo pagamento
di interessi e rimborsi agli obbligazionisti.
Esistono, tuttavia, delle obbligazioni (obbligazioni
convertibili) che possono essere convertite in azioni
della società emittente, o di una società appartenente
allo stesso gruppo. A seguito della conversione si cessa
di essere obbligazionista diventando azionista ed acquistando, quindi, tutti i diritti relativi.
Le obbligazioni possono essere classificate in due macrocategorie: le obbligazioni semplici (plain vanilla) e
quelle strutturate, ovvero costruite utilizzando un titolo semplice (di solito zero coupon) ed una o più opzioni
sull’andamento di un prodotto sottostante.
Fanno parte della prima i titoli a Tasso Fisso, quelli a
Tasso Variabile e le obbligazioni Zero Coupon. Tra le
strutturate ricordiamo, a titolo esemplificativo ma non
esaustivo, le equity linked, le index linked, gli strutturati su tassi e quelli su commodities.
La cedola rappresenta l’interesse pagato durante la
vita del titolo: può avere periodicità trimestrale, semestrale, o annuale. Può essere anche corrisposta esclusivamente a scadenza se, come nel caso delle obbligazioni strutturate, la performance dell’attività sottostante
rispetta quanto stabilito nel regolamento del prestito
obbligazionario.
L’interesse può essere fisso (stabilito a priori) o variabile
(solitamente indicizzato al Libor o all’Euribor maggiorato di uno spread o ad altri tassi ufficiali e di norma aggiustato semestralmente) o, come già anticipato, legato
all’andamento di un’attività sottostante. Spesso, per incentivarne la sottoscrizione, l’emissione avviene sotto la
pari, cioè il valore nominale (ovverosia il valore che verrà rimborsato a scadenza) è maggiore rispetto al prezzo
di sottoscrizione (che è quello che si paga per acquistare
il titolo): in questo modo aumenta il rendimento.
&GWVUEJG$CPM
FD:VTCEMGTU
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FDZVTCEMGTU52
'WTQ*GFIGF'6(
+PFKEKCRQTVCVCFKOCPQ
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6'4
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”
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LITÀ
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L
I titoli detti “zero coupon”, invece, non pagano interessi sotto forma di cedole durante la loro vita ed il rendimento è dato unicamente dalla differenza tra il valore
nominale ed il prezzo di sottoscrizione. Per garantire
i sottoscrittori dal rischio di insolvenza dell’emittente,
la legge prevede che le obbligazioni non possano essere emesse per un importo superiore al capitale sociale
della società emittente, versato ed esistente secondo
l’ultimo bilancio approvato; si può derogare a questo
principio generale solamente se l’emissione è accompagnata da garanzie reali.
BOT - BUONI ORDINARI DEL TESORO
I BOT, Buoni Ordinari del Tesoro, sono titoli di credito
emessi dal Tesoro al fine di finanziare il debito pubblico nel breve termine. Tali strumenti presentano quindi
una vita di 3, 6 o 12 mesi. Alla scadenza l’investitore
riceverà una somma di denaro pari al valore nominale
dei titoli posseduti.
I BOT RIENTRANO NELLA TIPOLOGIA
DI TITOLI “ZERO COUPON” (SENZA CEDOLA).
La remunerazione dell’investimento è data dalla differenza tra il valore nominale del titolo (il prezzo di
rimborso) ed il prezzo di acquisto: la somma che l’investitore paga in sede di sottoscrizione (o di successivo
acquisto sul mercato secondario) è, infatti, inferiore a
quanto incasserà a scadenza. L’emissione dei BOT avviene tramite asta telematica competitiva, gestita dalla
Banca d’Italia, a cui partecipano gli intermediari autorizzati; in questa fase si determina il prezzo di assegnazione dei titoli ai sottoscrittori. Generalmente si ha
un’emissione a metà e alla fine di ogni mese.
Una volta emessi, il MOT (Mercato Telematico delle
Obbligazioni di Borsa Italiana) permette la successiva
compravendita dei titoli sul mercato secondario.
All’investitore viene offerta, quindi, la possibilità di
vendere il titolo prima della sua scadenza ad un prezzo
trasparente e tendenzialmente coerente con i tassi di
interesse di mercato.
Il rendimento a scadenza del titolo, come detto, deriva
dalla differenza tra il prezzo di rimborso ed il prezzo
di acquisto o di emissione e dalla vita residua del titolo. Ad esempio, nel caso di un BOT a dodici mesi con
prezzo di emissione pari a 97, il rendimento a scadenza
è pari al 3.09% annuo.
Di seguito, si riporta la formula per calcolare il tasso di
rendimento effettivo a scadenza, da applicarsi nel caso
di vita residua del titolo inferiore a 12 mesi:
vedi esempio 1 qui sotto
Il valore percentuale così determinato corrisponde al
rendimento annuo lordo, cioè il rendimento che si otterrebbe nell’arco temporale di un anno reinvestendo
i proventi ottenuti dall’investimento originario alle
medesime condizioni di mercato iniziali (c.d. regime di
capitalizzazione composta).
Stessa operazione matematica va effettuata nel caso in
ESEMPIO 1
Caso
prezzo
emissione
valore nominale
di rimborso
(
14
100
97
)
Bot semestrali
360
Bot trimestrali
360
180
90
= 2
= 4
2
-1 x 100 =
6,28
Quindi il rendimento
su base annua sarebbe
pari al 6,28%
Capitolo 1
cui si acquisti il titolo sul mercato secondario: l’unica differenza è che ovviamente il denominatore è rappresentato dal prezzo di acquisto e non dal prezzo di emissione.
vedi esempio 2 qui sotto
Nell’ipotesi in cui l’investitore decidesse di vendere il
titolo sul MOT prima della scadenza il calcolo del tasso
di rendimento è il seguente:
Il rendimento annuo lordo a scadenza è già noto in
fase di sottoscrizione del titolo, sempre che lo stesso
venga mantenuto in portafoglio fino a scadenza. Nel
caso di vendita prima della stessa, invece, ci si espone
al rischio che tale rendimento possa essere inferiore a
quello originariamente previsto.
clientela retail che per gli investitori istituzionali.
I BTP possono essere sottoscritti per un valore nominale minimo di 1000 Euro o un multiplo di esso.
I Buoni Poliennali sono titoli a reddito fisso particolarmente adatti per quegli investitori che richiedono flussi di pagamenti costanti. Le varie scadenze esistenti sul
mercato consentono di programmare flussi di cassa
regolari durante tutto l’arco dell’anno. Inoltre i BTP
sono particolarmente apprezzati per la loro liquidità. Il
principale rischio che l’investitore corre acquistando i
BTP è quello di mercato. I BTP, in quanto strumenti a
tasso fisso, sono molto sensibili alle variazioni che intervengono sui tassi di mercato.
La volatilità, in altri termini, è tanto maggiore quanto più lunga è la vita residua del titolo. Un aumento
dei tassi di mercato comporterà una diminuzione del
BTP - BUONI DEL TESORO POLIENNALI
I Buoni del Tesoro Poliennali (BTP) sono titoli di
credito a medio-lungo termine emessi dal Tesoro
con scadenza pari a 3, 5, 7,10, 15 e 30 anni. L’investitore riceve, durante la vita dell’obbligazione, un
flusso cedolare periodico oltre al rimborso a scadenza del valore nominale dei titoli posseduti. Le cedole
sono determinate applicando al valore nominale del
titolo un tasso di interesse fisso, predeterminato la
momento dell’emissione del prestito. Il pagamento
è, a differenza dei Bund tedeschi e degli Oat francesi, semestrale. Anche nel caso di questi strumenti
di debito pubblico, l’emissione avviene tramite asta;
solitamente si ha un’emissione al mese. Si tratta di
aste marginali in cui non viene definito un prezzo
base d’asta. Anche per i BTP il MOT, il mercato telematico delle obbligazioni, rappresenta il mercato
secondario regolamentato di riferimento sia per la
ESEMPIO 2
PREVEDONO OPERATORI
R SPECIAL
I LISTI
T
A SOSTEGNO DELLA LI
L QUI
U DITÀ
I
DEGLI
L STRUMENTI
T.
”
prezzo del BTP: per eguagliare il rendimento di mercato, date le cedole fisse, la quotazione dovrà decrescere, in modo che l’investitore recuperi con un “capital gain” la differenza tra il rendimento cedolare e
quello di mercato. Al contrario, nel caso di diminuzione dei tassi di mercato, il prezzo del BTP si alzerà.
In ogni caso, mantenendo i titoli in portafoglio fino a
scadenza, l’investitore si vedrà rimborsato un importo
pari al valore nominale.
(55= giorni in cui il titolo è tenuto in portafoglio)
prezzo emissione
o di acquisto
prezzo
di acquisto
(
“
I MERCATI
T OBBLI
L GAZI
Z ONARI
R
98
97
)
360
55
6
= 6,54
6,54
-1 x 100 =
6,94
94
Quindi il rendimento
su base annua sarebbe
pari al 6,94%
15
15
CTZ - CERTIFICATI DEL TESORO ZERO COUPON
Con l’introduzione dei CTZ (Certificati del Tesoro Zero
Coupon), nel 1995, il Tesoro ha uno strumento zerocoupon di medio termine. Si tratta, infatti, di un titolo,
della durata di 24 mesi, che non prevede il pagamento di
cedole periodiche a favore dei sottoscrittori ed il cui rendimento viene determinato sulla base della differenza tra
valore nominale e prezzo di emissione (sotto la pari). Dal
rendimento lordo così determinato deve essere sottratta
la ritenuta fiscale, attualmente pari al 12.5%. L’emissione
dei CTZ avviene mediante asta marginale mensile, che si
tiene in coincidenza con l’asta dei BOT. All’asta possono
partecipare solo gli intermediari abilitati, ovvero banche
e SIM; gli investitori intenzionati a sottoscrivere CTZ
dovranno prenotare la quantità desiderata presso un
intermediario autorizzato non oltre il giorno precedente
l’asta: l’importo di sottoscrizione è pari a nominali Euro
1.000 (lotto minimo) e relativi multipli. La commissione
di collocamento dello 0.20% è retrocessa dal Tesoro agli
intermediari, e quindi il sottoscrittore finale paga il prezzo d’asta, senza ulteriori aggravi.
Dopo l’emissione i CTZ sono negoziabili sul mercato regolamentato MOT, per importi pari o multipli di 1000 euro.
CCT - CERTIFICATI DI CREDITO DEL TESORO
Una ulteriore tipologia di titoli emessi dallo Stato è rappresentata dai Certificati di Credito del Tesoro (CCT). Si tratta
di titoli a tasso variabile della durata di 7 anni. Sono caratterizzati dal pagamento di cedole semestrali indicizzate al
rendimento dei BOT a 6 mesi, maggiorato di uno spread. I
CCT hanno la peculiarità di adeguare la cedola ai tassi correnti di mercato, permettendo all’investitore la possibilità,
in caso di smobilizzo dell’investimento prima della scadenza, di recuperare, grosso modo, il capitale inizialmente
investito. Ai fini della determinazione della cedola semestrale, si moltiplica per 0.5 il rendimento lordo semplice
del BOT semestrale registrato nell’ultima asta che precede
il godimento della cedola del CCT; al risultato così ottenuto viene sommato uno spread dello 0.15%. La cedola netta
incassata dall’investitore terrà conto della ritenuta fiscale
attualmente del 12.50%. Sul rendimento lordo dell’investimento, oltre alle cedole incassate, incide anche lo scarto di
emissione (ovvero la differenza tra valore nominale e prezzo di emissione).
16
Capitolo 1
“
CORPORATE
E BOND PER
DIVERSIFICARE
C
IL PROPRIO
PORTAFOGLIO BENEFICIANDO
DI PIÙ ALTI RENDIMENTI
”
Come per i CTZ, il collocamento avviene una volta al mese
mediante asta marginale a cui partecipano gli intermediari abilitati. L’investitore dovrà quindi prenotare i titoli con
almeno un giorno di anticipo rispetto alla data dell’asta. Il
prezzo pagato è quello d’asta, dato che nessuna commissione è prevista a carico del sottoscrittore. Per quanto concerne l’importo minimo di sottoscrizione e la negoziazione sui
mercati secondari, si rimanda al paragrafo dedicato ai CTZ.
BOC
I cosiddetti BOC sono titoli obbligazionari emessi da enti
territoriali, esclusivamente con finalità di copertura degli
investimenti. È quindi fatto divieto di utilizzare tali strumenti per finanziarie le spese correnti. La durata minima
è fissata in 5 anni e l’emissione avviene alla pari, mentre le
cedole possono essere trimestrali, semestrali o annuali, di
importo fisso o variabile. Nel secondo caso l’indicizzazione
deve essere basata sui tassi BOT o interbancari, eventualmente maggiorati di uno spread non superiore al punto
percentuale. La tassazione sulle cedole è pari al 12.50%.
1.5.3
ETFPLUS, IL MERCATO DI ETF ED ETC
ETFplus è il mercato interamente dedicato alla negoziazione di ETF, ETF strutturati ed ETC, strumenti che, pur
condividendo i medesimi meccanismi di funzionamento,
presentano caratteristiche e peculiarità proprie. Sono previsti tre segmenti.
- ETF indicizzati (ETF obbligazionari, ETF azionari)
- ETF strutturati (con effetto leva, senza effetto leva )
- ETC (Indici di commodities, Energia, Metalli industriali, Metalli preziosi, Prodotti agricoli, Bestiame)
- ETN (su sottostanti non compresi nella categoria ETC)
Le negoziazioni degli ETF, ETF strutturati, ETC ed ETN
si svolgono in continua dalle 9.05 alle 17.25 senza aste
di apertura e di chiusura. I contratti vengono conclusi
mediante l’abbinamento automatico delle proposte in
acquisto e in vendita ordinate secondo criteri di priorità
prezzo/tempo.
ETF ED ETC
ETF
ETF è l’acronimo di Exchange Traded Fund, un termine
con il quale si identifica una particolare tipologia di fondo
d’investimento o Sicav con due principali caratteristiche:
*
$
!
<<
plicare l’indice al quale si riferisce (benchmark) attraverso una gestione totalmente passiva.
Un ETF riassume in sé le caratteristiche proprie di un fondo e di un’azione, consentendo agli investitori di sfruttare i
punti di forza di entrambi gli strumenti:
! dei fondi;
<
in tempo reale delle azioni.
Gli ETF sono caratterizzati inoltre da un innovativo meccanismo di funzionamento, definito “creation / redemption
in kind” (“sottoscrizione / rimborso in natura”), che consente una puntuale replica dell’indice e un maggior contenimento dei costi rispetto ad un fondo tradizionale.
Acquistando un ETF è possibile prendere posizione su un
indice di mercato (S&PMIB, DAX, Nasdaq100, S&P500…)
in tempo reale con una sola operazione ad un prezzo che
riflette il valore del fondo in quel preciso momento e che va
a replicare passivamente la performance dell’indice stesso.
Va considerato però che qualora la valuta di riferimento
dell’indice sia differente da quella di negoziazione (che è
sempre l’euro), il rendimento dell’ETF potrà divergere da
quello del benchmark per effetto della svalutazione/rivalutazione di tale valuta nei confronti dell’euro.
Gli ETF presentano una commissione totale annua (TER)
ridotta e applicata automaticamente in proporzione al
periodo di detenzione, mentre nessuna commissione di
“Entrata”, di “Uscita” e di “Performance” è a carico dell’investitore. Il risparmiatore deve solo considerare le com-
17
17
missioni applicate dalla propria banca/Sim per l’acquisto
e la vendita sul mercato. Inoltre poiché il lotto minimo di
negoziazione è sempre pari ad una quotazione l’investitore potrà acquistare un ETF investendo anche solo poche
centinaia di euro.
I dividendi o gli interessi che l’ETF incassa a fronte dei
tanti detenute nel proprio patrimonio (nonché i proventi
del loro reinvestimento) possono essere distribuiti periodicamente agli investitori o capitalizzati stabilmente nel
patrimonio dell’ETF stesso. In entrambi i casi il solo beneficiario è l’investitore.
Un aspetto molto importante che riguarda l’operatività sugli ETF è la liquidità, cioè la facilità con la quale è possibile
costruire o smobilizzare una posizione. Va sottolineato che
il meccanismo di creazione e rimborso in natura degli ETF
richiede ai partecipanti autorizzati di operare sui titoli presenti nell’indice benchmark al fine di creare nuove quote/
azioni o chiederne il rimborso. Di conseguenza si crea un
legame tra liquidità dell’ETF e liquidità del mercato sottostante, per cui le condizioni di spread e di controvalore
delle proposte presenti sul book di negoziazione sono le
medesime che si potrebbero fronteggiare operando direttamente sui titoli componenti l’ETF.
Per operare sugli ETF è necessario inoltrare l’ordine di acquisto / vendita attraverso la propria Banca / Sim utilizzando gli usuali canali (Internet, sportello, promotore, call
center ecc..), per cui di fatto il trading su questo strumento
è analogo a quello delle le azioni.
Gli ETF non sono esposti ad un rischio di insolvenza (e di
conseguenza non richiedono un rating) neppure nel caso
in cui le società che ne hanno curato o curano le attività
di costituzione, gestione, amministrazione ecc... risultino
insolventi. Questo perché gli ETF, come i Fondi Comuni
di Investimento oppure le Sicav, hanno un patrimonio separato rispetto a quello delle società appena menzionate.
Non deve invece essere dimenticato che gli ETF sono ovviamente esposti al rischio che le azioni, le obbligazioni e
gli altri strumenti in cui è investito il loro patrimonio perdano valore.
ETF STRUTTURATI
Gli ETF strutturati sono degli OICR, cioè dei fondi o delle
Sicav negoziabili in tempo reale come delle azioni gestiti
con tecniche volte a perseguire rendimenti che non sono
18
solo in funzione del mercato a cui fanno riferimento, ma
che possono essere volte:
cipando agli eventuali rialzi dell’indice di riferimento
(ETF protective put);
>!
damento di un indice (ETF a leva);
di riferimento (ETF short con o senza leva);
>
complesse come ad esempio la strategia cosiddetta
buy-write o covered call che prevede l’assunzione di
una posizione lunga sul benchmark e la contestuale
vendita di un opzione sull’indice stesso con strike out
of the money del 5%.
L’elemento che accomuna gli ETF strutturati agli ETF è
la politica d’investimento che si può sinteticamente definire “passiva” in considerazione del fatto che una volta
definito il modello matematico in base al quale il patri-
ETF: SEMPLICI
E
ITÀ, TRASPAR
T
RENZA,
FLE
L SSIBILIT
ITÀ, ECONOMICIT
ITÀ
E ABBATT
A TIMEN
ENTO
DEL RISCHIO EMI
E ITTE
ENTE
”
monio sarà gestito, la discrezionalità lasciata al gestore è
limitata. Come per gli ETF indicizzati, le quote possono
essere create e riscattate continuamente da parte degli
intermediari autorizzati (authorised participant), assicurando che il prezzo di mercato sia sempre allineato al
NAV del fondo.
ETC
Gli ETC sono titoli senza scadenza emessi da una società
veicolo a fronte dell’investimento diretto o in materie prime
o in contratti derivati su materie prime.
Il prezzo degli ETC è quindi legato direttamente o indirettamente all’andamento del sottostante, esattamente
come il prezzo degli ETF è legato al valore dell’indice a
cui fanno riferimento.
Gli ETC rispondono all’esigenza di poter prendere posizione su una singola materia prima, possibilità preclusa agli
ETF che, in quanto fondi o Sicav, devono garantire un certo
grado di diversificazione ai sensi della Direttiva sugli Organismi d’Investimento Collettivi del Risparmio (UCITS III).
In sintesi un ETC consente di:
"
ETC replicano la performance di una singola commodity o di indici di commodities, grazie all’investimento
diretto da parte della società emittente nella materia
prima fisica (ETC fisici o physically-backed) o in contratti derivati sulla materia prima stipulati con controparti nel mercato delle commodities nei confronti delle
quali si sostiene un rischio di credito. In questo secondo
caso gli ETC consentono agli investitori di avere un’esposizione simile a quella che si otterrebbe gestendo
una posizione in acquisto in contratti future senza leva
finanziaria.
'
delle materie prime: a differenza di una posizione in
future, gli ETC non comportano la necessità di riposizionarsi da un contratto future ad un altro, non richiedono nessun margine e non comportano altre spese di
intermediazione/sostituzione dei contratti derivati in
scadenza in quanto tali attività sono incorporate nello
strumento.
@J!
me consentono di evitare gli oneri e i rischi legati al loro
stoccaggio ed eliminare il rischio di controparte.
W
[tal return). In caso di ETC legati al prezzo di contratti
future sulla materia prima, il risparmiatore ha accesso
ad un rendimento assoluto che comprende tre diverse
componenti:
- rendimento spot: è quello derivante dall’oscillazione del prezzo del future della materia prima sottostante;
- rendimento legato al rolling (che può essere
positivo o negativo): è il rendimento associato
all’attività di sostituzione dei contratti future in scadenza che consente di mantenere la posizione sul
sottostante; è negativo (riporto) quando il contratto
in scadenza ha un prezzo inferiore di quello successivo, è positivo (deporto) nel caso opposto;
- rendimento del collaterale: è l’interesse che si
ottiene dall’investimento del collaterale (l’acquisto
di un future non richiede infatti alcun investimento se non il mantenimento di un margine che però è
anch’esso remunerato);
- Va inoltre considerato che gran parte delle materie
prime sono trattate in dollari per cui il valore dell’investimento sarà influenzato positivamente o negativamente dall’andamento del tasso di cambio EUR/
USD.
“
DIVERSIFICAZIONE
E PROTEZIONE DEL CAPITALE
SONO I FOND
NDAMENTALI OBIETTIVI
NELLA COSTRUZIONE
DEL PORTAFOGLIO
”
molto contenuto: nessuna commissione di “entrata”, di
“uscita” e di “performance” è a carico dell’investitore, le
commissioni di gestione sono contenute e sono applicate in proporzione al tempo di possesso del titolo attraverso la riduzione della quantità di materia prima di cui
si ha diritto.
mercato vanno considerate le commissioni applicate
dalla propria banca/SIM.
Anche per gli ETC esiste un mercato primario e un
mercato secondario. Il mercato primario, accessibile
esclusivamente agli intermediari autorizzati, consente la sottoscrizione e il rimborso dei titoli su base giornaliera al valore ufficiale dell’ETC; per gli ETC physically-backed è prevista la possibilità di effettuare la
sottoscrizione anche in natura, ossia consegnando
all’emittente direttamente la materia prima.
Questo meccanismo consente agli intermediari specia-
19
19
lizzati di effettuare arbitraggi che fanno si che il prezzo
degli ETC sia sempre costantemente allineato al valore di
mercato della materia prima sottostante.
Il mercato secondario è rappresentato dalla Borsa, dove
tutti gli altri investitori possono negoziare gli ETC al prezzo determinato dalle migliori proposte in acquisto e in
vendita presenti sul book di negoziazione.
1.5.4
SEDEX: IL MERCATO DEI
SECURITISED DERIVATES
SeDeX è il mercato di Borsa Italiana dedicato alla negoziazione di certificati e covered warrant, nel loro insieme definiti derivati cartolarizzati. Il mercato è suddiviso
in 4 segmenti:
Covered Warrant Plain vanilla;
Strutturati / esotici (Cap e Floor
Warrant sui tassi, Warrant digitali,
Alpha Warrant)
Certificates
Investment (Classe A – Benchmark, Open End – Classe B Capitale
protetto,
Bonus,
Outperformance, Discount);
Leverage (Mini Futures e Turbo &
Short Certificates)
GLI ORARI E LE FASI DI NEGOZIAZIONE
8:00
9:00
cancellazione
ll i
delle proposte
9:00
17:25
negoziazione
i i
continua
Il mercato SEDEX apre alle ore 8.00 con una fase di
cancellazione delle proposte che chiude alle ore 9.00;
alle 9.05 apre la fase di negoziazione in continua che
chiude alle 17.25 e infine dalle 18.00 alle 20.30 è possibile negoziare in After Hours. Non sono previste aste
di apertura e di chiusura.
20
I CERTIFICATI E I COVERED WARRANT
Investment Certificates
Sono strumenti negoziati nel segmento Investment
Certificates e sono divisi in due classi, A e B.
La classe A comprende:
BENCHMARK - certificati che replicano linearmente
l’attività sottostante prescelta (al netto dei flussi dei
dividendi), infatti in ogni momento il loro prezzo sarà
derivato da quest’ultima, senza l’utilizzo di ulteriori
variabili. Alla scadenza rimborsano in modo automatico un importo pari al livello dell’indice sottostante,
moltiplicato per il multiplo e convertito al tasso di
cambio corrente, nel caso in cui l’indice di riferimento non sia espresso in euro. Open End - certificati che
replicano linearmente l’attività sottostante prescelta e non prevedono una scadenza. L’assenza di una
scadenza li rende utilizzabili anche in una strategia
di medio-lungo termine, con la possibilità di suddividere l’investimento nel tempo e costruire un piano di
accumulo. Si possono vendere in qualsiasi momento,
senza commissioni di uscita, pagando il solo costo di
negoziazione. L’investitore ha comunque facoltà di
esercitarli nel corso della loro vita e lo stesso emittente può a un certo punto fissare una data di scadenza.
QUANTO – tipo di benchmark certificates che a scadenza rimborsano in modo automatico il livello dell’indice
moltiplicato per il multiplo, senza subire la conversione al tasso di cambio corrente, anche se espressi in
valuta estera. In questo modo viene azzerata l’esposizione al rischio di cambio e tramutato il valore del
sottostante direttamente in euro, in base al principio
per cui 1 punto indice vale 1€.
La classe B comprende invece:
BONUS - certificati che garantiscono un rendimento
minimo a scadenza (bonus) se, durante un periodo
di osservazione prestabilito, l’attività sottostante non
scende al di sotto di un valore predeterminato e definito barriera. Se la barriera viene raggiunta il certificato
diventa un benchmark. Questi prodotti risultano particolarmente indicati per investitori aventi aspettative
di mercato al rialzo, piuttosto che stabile o moderatamente ribassista, in quanto consentono di partecipare
Capitolo 1
in maniera lineare all’attività del sottostante, con l’eccezione positiva data dal bonus.
CAPITALE PROTETTO - certificati che attribuiscono
una totale o parziale protezione da eventuali deprezzamenti dell’attività sottostante (Equity Protection,
Borsa Protetta). Questa categoria comprende anche
gli Airbag (o Planar) che attenuano l’effetto di deprezzamenti dell’attività sottostante. Sono prodotti adatti
per operatori con aspettative rialziste che desiderino
limitare l’esposizione al rischio collegato con l’operazione senza rinunciare, però, ad una partecipazione
ad una possibile performance positiva del sottostante. Alla scadenza gli Equity Protection sono automaticamente rimborsati in funzione della quotazione
del sottostante rispetto al livello di protezione. Se il
prezzo di riferimento del sottostante è minore o uguale alla protezione verrà rimborsato un importo parti
alla protezione stessa moltiplicata per il multiplo, se
invece il prezzo di riferimento è superiore alla prote-
“
CERTIFICATI
C
: CONSENTONO DI
REALIZZARE CON UN UNICO
STRUMENTO STRATEGIE DI
INVESTIMENTO COMPLESSE
”
zione, verrà rimborsato un valore pari al livello d del
sottostante a scadenza commisurato a un fattore di
partecipazione al rialzo e rapportato al multiplo.
DISCOUNT - certificati che a fronte di uno sconto sul
prezzo di acquisto pongono dei limiti sui potenziali
profitti (Cap). Sono strumenti che consentono di porre
in essere strategie di investimento nel caso di aspettative di mercato stabili o moderatamente rialziste. Alla
scadenza prevedono il pagamento di un importo che
dipende esclusivamente dalla performance del sottostante; se il prezzo del sottostante è superiore al cap,
viene corrisposto all’investitore una somma uguale al
valore del cap, se invece risulta inferiore, viene liquidato il valore del sottostante.
OUTPERFORMANCE – famiglia di certificati molto ampia che al proprio interno contiene strumenti strut-
turati molto variegati. Quello che accomuna queste diverse tipologie di strumenti, e di qui il nome
outperformance, è che al verificarsi di determinate
condizioni i certificati permettono di partecipare in
misura più che proporzionale alle variazioni al rialzo
o al ribasso dell’attività sottostante. Questi strumenti
possono prevedere nella loro strutturazione barriere
predeterminate di autocallability o di knock-out, pagamento di coupon e presenza di cap o di floor. Alcuni
certificati, al raggiungimento di predeterminati valori
dell’attività sottostante, possono estinguersi anticipatamente (autocallability) rispetto alla loro naturale
scadenza.
Questa categoria comprende diverse tipologie di strumenti che i vari emittenti identificano con denominazioni proprie:
]&^&^J
&!
_
`
& _
`
<& <&
Up&Up
j<]&j<J!
&{
J!J
$|
LEVERAGE CERTIFICATES
Questi strumenti replicano l’andamento dell’attività
sottostante permettendo di partecipare, con effetto
leva, alla performance dello stesso. In caso di andamento sfavorevole del sottostante è prevista l’estinzione anticipata dello strumento al raggiungimento
della barriera di stop-loss. La versione rialzista di
questi strumenti è chiamata bull, mentre quella ribassista è chiamata bear. Con riferimento all’effetto
leva presente in questi prodotti, occorre rilevare che
la variazione in euro del prezzo dello strumento è
pressoché la stessa del sottostante, in quanto il delta
degli stop loss bull e bear si attesta attorno al 100%.
Inoltre è possibile constatare che quanto più il valore
corrente del sottostante è vicino alla barriera, tanto
minore sarà il prezzo del certificato e l’effetto leva ne
risulterà amplificato. Questi strumenti finanziari si
adattano maggiormente a strategie di investimento
più speculative e con orizzonti temporali mediamente di breve periodo.
21
21
COVERED WARRANT PLAIN VANILLA
I covered warrant plain vanilla rappresentano la categoria
più semplice di covered warrant, in quanto incorporano
unicamente una facoltà di acquisto (covered warrant call)
o di vendita (covered warrant put).
L’esercizio di un covered warrant può comportare la consegna fisica del sottostante (physical delivery) oppure la
liquidazione monetaria della differenza (cash delivery), se
positiva, tra il prezzo dell’underlying e lo strike price (nel
caso di covered warrant call) o della differenza, se positiva,
tra lo strike price e il prezzo dell’underlying (nel caso di
covered warrant put).
Sulla base della facoltà che attribuiscono al loro possessore si distinguono:
J `
}
~
J" facoltà al portatore di acquistare, alla data di scadenza (o entro la data di scadenza), un certo quantitativo
dell’attività sottostante ad un prezzo prestabilito (strike price), ovvero, nel caso di strumenti per i quali è
prevista una liquidazione monetaria (cash delivery),
di incassare una somma di denaro determinata come
differenza tra il prezzo di liquidazione dell’attività sottostante e lo strike price, se positiva.
J `
}
~
}" facoltà al portatore di vendere, alla data di scadenza
(o entro la data di scadenza), un certo quantitativo
dell’attività sottostante ad un prezzo prestabilito (strike price), ovvero, nel caso di strumenti per i quali è
prevista una liquidazione monetaria (cash delivery),
di incassare una somma di denaro determinata come
differenza tra lo strike price e il prezzo di liquidazione
dell’attività sottostante, se positiva.
Il covered warrant plain vanilla si differenzia dall’opzione
oltre che per il fatto di essere un titolo e non un contratto,
per una maggiore durata e per la mancanza di un sistema
di margini.
COVERED WARRANT STRUTTURATI/ ESOTICI
I covered warrant strutturati o esotici si differenziano dai
plain vanilla per il fatto che incorporano una combinazione di più opzioni call e/o put oppure di alcune opzioni esotiche (es. le opzioni digitali), strumenti finanziari derivati
che presentano caratteristiche speciali e comunque diver-
22
Capitolo 1
se da quelle che regolano il funzionamento di un’opzione
ordinaria, che conferiscono allo strumento una maggiore
complessità. Sulla base della tipologia delle attività sottostanti si distinguono in:
"
!
e predeterminato (chiamato rebate) quando scadono
in-the-money. Come le call (put) plain vanilla, quando a scadenza il sottostante è inferiore (superiore) allo
strike si estinguono senza valore, mentre se è maggiore (minore) rimborsano un rebate, il cui ammontare
è predefinito e indipendente dall’ampiezza della differenza tra sottostante e strike. Sono strumenti adatti ad
investitori con aspettative direzionali sul sottostante
(rialziste per i call o ribassiste per i put);
"
<
call o put che permettono all’investitore di neutralizzare la propria esposizione rispetto all’andamento dei tassi di interesse sia a breve che a lungo termine (ad esempio tasso Euribor o tasso Swap); in particolare possono
essere utilizzati per coperture a fronte di passività (ad
esempio mutui) indicizzate a un tasso variabile;
<_"_
*
dal rapporto tra due asset, l’asset long e l’asset short.
Ciascuno dei due asset può essere costituito da un basket di sottostanti. Questo tipo di prodotto consente di
puntare su una performance dell’asset long a scadenza
maggiore di quella realizzata dall’asset short. Il prezzo
dei rainbow è influenzato oltre che dalla volatilità dei
sottostanti anche dalla correlazione che intercorre tra
l’asset long e l’asset short e nel caso di basket anche dalla
correlazione diretta tra i componenti del basket stesso.
1.5.5
IDEM: IL MERCATO DEDICATO
AGLI STRUMENTI DERIVATI
Il mercato IDEM (Italian Derivatives Market) è suddiviso
in 2 segmenti:IDEM Equity ed IDEX
Sul mercato IDEM sono negoziati i seguenti prodotti:
- 1 tipologia di opzione sull’indice FTSEMIB (Mibo)
- 2 tipologie di futures sull’indice FTSEMIB (FIB
e MiniFIB)
- 46 contratti di opzione listati su azioni liquide e ad elevata capitalizzazione e caratterizzati da un controvalo-
re accessibile anche all’investitore retail
- 55 futures su azioni liquide e ad elevata capitalizzazione e caratterizzati da un controvalore accessibile anche
all’investitore retail
- 13 futures su azioni Europee (Pan European
stock futures)
- 1 futures su indice FTSE MIB Dividend (FDIV)
- Futures annuali, trimestrali e mensili sull’energia
Gli strumenti derivati sono negoziati sul mercato IDEM
con i seguenti orari e modalità:
GLI ORARI DI NEGOZIAZIONE
9:30
8:30 9:01
asta di
apertura*
Obblighi operatori
Market Makers
17:40
negoziazione
continua
* L’asta di apertura è valida solo per il FTSE MIB Futures
e il FTSE MIB Mini-Futures
LE OPZIONI
Le opzioni sono contratti finanziari che danno al compratore – dietro il pagamento di un importo iniziale chiamato
“premio” - il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare o vendere una data quantità di una attività finanziaria sottostante
(titoli, indici, valute,...) ad un determinato prezzo di esercizio chiamato “strike” ad una data specifica o entro tale data.
Nel caso in cui l’opzione possa essere esercitata solo alla
scadenza avremo le cosiddette opzioni “europee”, mentre
le opzioni “americane” danno al possessore la possibilità di
esercizio in qualunque momento entro la data di scadenza.
OPZIONE CALL
Garantisce al possessore il diritto di ricevere a scadenza (o entro la scadenza) e ad un prezzo prefissato il
sottostante, oppure, quando non possibile (ad esempio per opzioni su indici), il corrispettivo in denaro.
23
23
Ovviamente l’esercizio avrà senso solo se il prezzo del
sottostante sarà superiore allo strike poiché il possessore della call avrà il diritto di acquistare il sottostante
ad un prezzo strike “X” quando sul mercato tale sottostante ha un valore pari a “Y” (dove X<Y) ed il profitto
realizzato sarà pari alla differenza tra il prezzo di mercato e lo strike.
Il grafico sintetizza il profilo di profitti e perdite connesso all’uso di opzioni call.
L’asse orizzontale indica il prezzo del sottostante; l’asse verticale indica invece i profitti (o le perdite) dell’acquirente dell’opzione. Come già detto, l’opzione acquisirà valore solo se il prezzo di mercato del sottostante
sarà maggiore del prezzo di esercizio. Dal momento che
l’acquisto della call ha un costo (ovvero il premio che si
deve riconoscere alla controparte che vende l’opzione,
a chi cioè accetta di garantire all’acquirente il diritto di
acquistare il sottostante al prezzo prefissato), il grafico
del payoff della call origina nel quadrante negativo. In
caso di ribasso dei prezzi, il valore della call tenderà a
zero e la massima perdita che l’investitore sosterrà sarà
il premio pagato.
Questo strumento risulta ottimo per coloro i quali vogliono scommettere sul rialzo del mercato senza correre
il rischio, in caso di ribasso, di subire le perdite in conto
capitale connesse al possesso diretto del sottostante.
È utile anche per gli investitori che desiderano acquistare il titolo sottostante, ma vogliono differire nel
tempo le uscite finanziarie che l’acquisto diretto del
titolo comporterebbe.
OPZIONE PUT
Garantisce al possessore il diritto di vendere a scadenza
il sottostante ad un prezzo prefissato. In questo caso, l’esercizio avrà senso solo se il prezzo del sottostante sarà
inferiore allo strike; il profitto realizzato ammonterà alla
differenza tra lo strike e il prezzo di mercato.
La put è uno strumento che permette di guadagnare se il
mercato scende. Il compratore di opzioni put vuole scommettere sul ribasso del mercato senza i costi connessi con
lo “short selling” (vendita allo scoperto, cioè di titoli che
non si possiedono) né le perdite subite se il mercato va in
direzione opposta a quella prevista.
Inoltre, la put è spesso utilizzata da chi desidera proteggere il proprio portafoglio dai ribassi del mercato. Acquistare un titolo e la relativa put permette di ottenere i
guadagni in conto capitale sul titolo in caso di mercato
crescente e al tempo stesso di evitare di perdere qualora
scendesse. Infatti, in questo secondo caso, le perdite sul
titolo verrebbero bilanciate dall’apprezzamento dell’opzione; la perdita massima verrebbe comunque limitata al
valore dello strike, ovvero al valore a cui il detentore della
put ha il diritto di vendere i suoi titoli.
In sintesi, le posizioni “lunghe” sulle opzioni consentono di
prendere posizione scommettendo sul rialzo o sul ribasso
del mercato con la possibilità di guadagno illimitato ed il
rischio di una perdita limitata al prezzo del premio pagato.
Ma qual è il profilo di perdite e profitti per il venditore delle opzioni?
Bisogna sottolineare che, mentre l’acquirente di opzioni
a scadenza (o entro la scadenza per le opzioni americane)
Acquisto opzioni: profilo profitto/perdita
LONG
CALL
Profitto
Guadagno massimo
teoricamente
illimitato
strike price
prezzo del
sottostante
Perdita
24
Perdita massima
limitata al
premio pagato
LONG
PUT
Profitto
prezzo del
sottostante
Perdita
strike price
Guadagno massimo
estremamente
elevato
Perdita massima
limitata al
premio pagato
Capitolo 1
ha la facoltà di non esercitare il diritto (e da qui deriva il
limite alle perdite che si possono subire), il venditore ha
sempre l’obbligo di onorare l’impegno che l’opzione che
ha venduto prevede. Nel caso del venditore di una call, il
payoff sarà quello riportato in figura. Il profitto fisso iniziale (il premio incassato) va diminuendo all’aumentare
del prezzo del sottostante: il venditore dell’opzione si attende dunque che il mercato resti fermo o cali.
È da sottolineare che a fronte di un profitto immediato limitato, la perdita è potenzialmente illimitata.
Nel caso della put, invece, l’erosione del premio iniziale
incassato si ha se il prezzo del sottostante diminuisce: il
massimo profitto si avrà se il prezzo resterà costante o salirà. Anche per il venditore della put il profitto sarà limitato e pari al premio incassato, mentre la perdita massima si
realizzerà quando il sottostante dovesse perdere completamente di valore. L’assunzione di una posizione corta in
opzioni ha un profilo di rischio superiore all’equivalente
posizione lunga. Per questo motivo, molto spesso la vendita di questi strumenti viene associata alla compravendita di altre attività finanziarie (ad esempio azioni, ETF,
future e opzioni su indici e su azioni) al fine di realizzare
strategie di investimento più articolate le quali possono
perseguire finalità differenti come, ad esempio, la copertura della posizione in azioni e in derivati e l’incremento
della performance del proprio portafoglio.
LA “DANAROSITÀ” DELLE OPZIONI
Come appena illustrato, il profitto o la perdita a scadenza connessi all’utilizzo delle opzioni dipendono dal
superamento al rialzo (per la call) o al ribasso (per la
put) del prezzo di esercizio da parte delle quotazioni
del sottostante. Per opzione “at the money” (ATM) si
intende quella per cui il prezzo di esercizio è uguale al
prezzo corrente dell’attività sottostante.
Per opzione “in the money” (ITM) si intende quella
per cui il prezzo di esercizio è inferiore (call) / superiore (put) al prezzo corrente dell’attività sottostante.
Per opzione “out of the money” (OTM) si intende quella per cui il prezzo di esercizio è superiore (call) / inferiore (put) al prezzo dell’attività sottostante.
I FUTURES
Nei principali testi di finanza i futures vengono definiti come dei contratti a termine in cui la controparte assume l’obbligo di comprare (posizione lunga) o
vendere (posizione corta) un dato quantitativo di una
specifica attività sottostante (underlying) ad una certa
data futura e ad un prezzo prestabilito (prezzo a termine o prezzo future). Da un punto di vista teorico, la
derivazione del prezzo di un generico future si basa sul
principio di non arbitraggio in base al quale il prezzo
del future è determinato correttamente se non è possibile ricavare un profitto da operazioni sul mercato a
pronti (ovvero il mercato sul quale è quotata l’azione
sottostante) e su quello a termine (nella realtà, le operazioni possibili sono il cash and carry e il reverse cash
and carry).
Una delle caratteristiche peculiari dei contratti futures
- e che li rendono un interessante strumento i trading
- è il cosiddetto “effetto leva”.
Vendita opzioni: profilo profitto/perdita
Profitto
prezzo del
sottostante
strike price
Perdita
SHORT
CALL
Guadagno massimo
limitato al premio
incassato
Perdita massima
teoricamente
illimitata
SHORT
PUT
Profitto
strike prezzo del
price sottostante
Perdita
Guadagno massimo
limitato al premio
incassato
Perdita massima
estremamente
elevata
25
25
Capitolo 2
Finanza 2.1
comportamentale
La finanza comportamentale
fornisce una guida
alla comprensione degli errori
commessi dagli investitori.
Consulenti preparati e prodotti
finanziari adeguati
aiutano a limitarne
le conseguenze negative
26
INTRODUZIONE
ALLA DISCIPLINA
L
a teoria finanziaria tradizionale è stata
per lungo tempo il paradigma principale
di analisi dei fenomeni finanziari, fondato sull’assunzione che gli individui si
comportino in maniera razionale. Questa
ipotesi, sebbene per molti aspetti non realistica, ha permesso alla teoria finanziaria di affrontare in
modo rigoroso e coerente un ampio ventaglio di problemi.
Negli ultimi trent’anni ha iniziato a farsi strada un approccio alternativo, la finanza comportamentale, che, applicando i risultati della psicologia cognitiva alle tematiche
finanziarie, ha privilegiato il realismo delle ipotesi al rigore
del metodo o dei risultati. I primi lavori propriamente di
finanza comportamentale furono pubblicati nelle riviste
scientifiche nella prima metà degli anni Ottanta del secolo
scorso, segnatamente da Hersh Shefrin e Meir Statman tra
il 1984 e il 1985. In seguito vi fu un progressivo intensificarsi della produzione di ricerca scientifica, sotto la spinta
di studiosi come Richard Thaler, Robert Shiller e molti altri. Non si deve dimenticare, tuttavia, che la finanza comportamentale è profondamente debitrice del lavoro degli
psicologi Daniel Kahneman, Amos Tversky e Paul Slovic
che, a partire dalla prima metà degli anni Settanta, hanno
condotto numerose ricerche dimostrando che la psicologia
cognitiva poteva contribuire al rinnovamento della teoria
delle decisioni economiche.
Alla finanza comportamentale è stata spesso mossa la
critica di essere una disciplina disorganica, formata dalla
descrizione di una collezione di “anomalie” spesso in reciproco contrasto. Si deve, tuttavia, tenere presente che l’obiettivo originario della finanza comportamentale è stato
quello di descrivere e interpretare singoli aspetti del comportamento di investitori, professionisti e mercati, senza
pretendere di proporre una visione unitaria e coerente di
tutti i fenomeni. Nel corso degli anni, tuttavia, anche la finanza comportamentale si è indirizzata verso una visione
più organica dei problemi finanziari, spinta dall’accresciuta consapevolezza che non ci si può limitare a sottolineare
gli errori che le persone commettono sistematicamente,
ma si deve anche guardare alle possibili soluzioni di tali
problemi. In questo processo può essere di grande aiuto la
Capitolo 2
teoria tradizionale che, fornendo un quadro di riferimento
organico di cosa dovrebbe fare un individuo per ottimizzare il proprio benessere, permette, da un lato di misurare
la perdita di benessere prodotta dagli errori, dall’altro di
individuare i comportamenti più coerenti (o meno incoerenti) con quelli ottimali.
È quindi in atto un processo di convergenza dei due paradigmi, quello classico e quello comportamentale, un
tempo contrapposti, che Hersh Shefrin chiama “behavioralizing finance”: un processo che vede affermarsi un nuovo paradigma nella teoria della finanza in base al quale si
cerca di dare spiegazioni organiche ai problemi muovendo
da presupposti che tengano conto di come pensano e agiscono effettivamente gli individui. Con questi presupposti
si sta progressivamente abbandonando la contrapposizione tra l’approccio descrittivo (la finanza comportamentale
che descrive e spiega il comportamento prevalente) e quello normativo (la finanza tradizionale che detta le regole per
prendere le decisioni migliori). I due approcci possono, infatti, trovare una felice sintesi in un’impostazione prescrittiva che riconosce che gli individui non sono naturalmente
inclini a comportarsi nel modo che potrebbe ottimizzare
il loro benessere e che è, pertanto, importante studiare e
proporre meccanismi e soluzioni che li aiutino a mantenere una linea di comportamento capace di coniugare l’esigenza di seguire la propria natura con quella di perseguire
il benessere economico.
2.2
2.2.1
GLI ERRORI NELLE
SCELTE D’INVESTIMENTO
GLI ERRORI COGNITIVI
ED EMOZIONALI
La teoria tradizionale ipotizza l’esistenza di individui perfettamente razionali e onniscenti che, nel prendere decisioni in condizioni di incertezza, massimizzano la propria
utilità attesa.
Ovviamente questa non è la realtà: le evidenze empiriche mostrano infatti che gli individui commettono errori
cognitivi ed emozionali che inficiano il comportamento razionale prospettato dalla teoria classica. Non si può
tuttavia considerare l’approccio teorico tradizionale come
errato, in quanto esso ha natura normativa o prescrittiva:
teorizza situazioni ideali in presenza (teorica, appunto) di
mercati perfetti ed efficienti.
L’approccio comportamentale, avendo invece natura descrittiva, è in grado di considerare i limiti alla razionalità
degli individui e di valutarne gli impatti sulle decisioni. La
sfida più grande della finanza comportamentale è forse
quella di dimostrare che questi errori possono essere tipizzati in quanto comuni alla maggioranza degli individui
(vedere nella tabella in Appendice la descrizione sintetica
dei quindici errori ritenuti più rilevanti dagli studiosi).
In gergo tecnico, questi errori vengono chiamati bias. Rappresentano in realtà una predisposizione a commettere un
errore. Si tratta dunque di “pregiudizi” nel senso proprio
del termine, ossia di qualcosa che viene prima (pre appunto) del giudizio e può condurre all’errore.
In particolare, due bias sono ritenuti particolarmente rilevanti in ambito comportamentale: l’iper-ottimismo e
l’eccessiva sicurezza (overconfidence). Occorre innanzitut-
“
È POSSIBILE TIPIZZARE
NUMEROSI ERRORI CHE GLI
INVESTITORI COMMETTONO
”
to distinguere tra ottimismo e iper-ottimismo; mentre il
primo è un aspetto generalmente positivo (chi è ottimista
è tendenzialmente più socievole, attivo e propositivo), il
secondo porta a effetti indesiderati legati al fatto di sovrastimare la probabilità di esiti favorevoli che portano a commettere errori di valutazione nel formulare delle stime.
Mentre l’ottimismo si basa sulla percezione del mondo
che ci circonda, l’eccesso di sicurezza ha a che fare con la
considerazione di noi stessi, delle nostre conoscenze e delle nostre capacità. Chi è overconfident crede di sapere più
di quanto non sappia, e di essere più bravo di quanto non
sia. Non si tratta di una persona incapace; al contrario, le
persone più dotate e ambiziose tendono a essere più sicure
di sè. In generale, si sente superiore alla media o ai suoi
“pari” o soffre della cosiddetta illusione del controllo, ossia
pensa di potere dominare fenomeni che in realtà sfuggono
al suo controllo, come l’andamento dei mercati finanziari.
Ad aumentare il grado di oveconfidence contribuisce poi
27
27
l’errore di conferma, che porta gli individui a dare troppa
importanza alle informazioni che supportano il loro personale punto di vista e al contrario a sottovalutare, o addirittura non considerare, quelle che lo contraddicono.
È tuttavia possibile commettere errori non solo prima o
durante il processo di elaborazione e gestione delle informazioni, ma anche successivamente alla decisione presa.
In particolare, due sono gli errori tipici della fase successiva a quella decisionale: l’errore di attribuzione e quello
del “senno di poi”. Col primo (attribuzione) si intende l’evidenza per la quale gli individui tendono a incolpare altri per gli errori di scelta commessi, e al contrario lodare
sè stessi per le decisioni andate a buon fine . L’errore del
“senno di poi” si riferisce invece a un giudizio in retrospettiva che ci porta a pensare che l’esito di un determinato
evento fosse ovvio e prevedibile già al momento in cui abbiamo preso la decisione, mentre in verità era giustificabile
e comprensibile solo a posteriori.
“
LA PAURA DEL RIMPIANTO ANCORA
GL
G
LI INVESTITORI ALL
A LO STATUS QUO,
FACENDO PERDERE OPPORTUNITÀ
D’INVESTIMENTO
”
Se gli errori cognitivi giocano un ruolo rilevante nel processo decisionale, anche il peso di quelli emozionali è di
assoluta rilevanza. Una delle emozioni più importanti è il
“rimpianto” che deriva dalla sofferenza che ci provoca renderci conto di aver fatto una scelta sbagliata. Il rimpianto,
per sua natura, si verifica ex-post, ma può condizionare la
scelta anche ex-ante. La paura di prendere una decisione
sbagliata, e poi di rimpiangerla, può infatti bloccare gli individui e impedire loro di scegliere. Il rimpianto ha un impatto psicologico più forte del rammarico, che si prova per
non aver preso una decisione che invece si sarebbe rivelata
corretta. Dunque, dato il maggior impatto emotivo rispetto al rammarico, il rimpianto può portarci all’inazione.
La paura del rimpianto può addirittura portare alla cosiddetta dissonanza cognitiva, cioè la situazione psicologica
conflittuale nella quale un individuo si trova quando deve
affrontare il fatto che una sua convinzione è sbagliata. Al
28
fine di evitare tale problema, gli individui possono arrivare
a negare l’esistenza di evidenze che contraddicono il loro
punto di vista.
Un altro meccanismo mentale di difesa dal rammarico e
dalla dissonanza cognitiva è rappresentato dai comportamenti mimetici o gregari che consistono nell’omologazione a determinati comportamenti di massa. Seguire ciò che
fanno gli altri ci offre infatti la possibilità di condivere gli
sbagli, riducendo il rammarico e i suoi effetti negativi.
Data la complessità delle decisioni che si trovano ad affrontare, le persone ricorrono a scorciatoie mentali note
come “euristiche”, guidate dai pregiudizi/errori (bias) sottostanti. Si tratta di regole empiriche che utilizzano basi
intuitive per reperire e gestire più agevolmente le informazioni al fine di semplificare il problema decisionale e giungere rapidamente a una scelta.
Tre euristiche giocano un ruolo particolarmente rilevante:
la disponibilità, la rappresentatività e l’ancoraggio.
L’euristica della disponibilità interviene nel processo di
raccolta delle informazioni e fa sì che le persone tendano
a fare più affidamento sulle news che sono maggiormente
e più facilmente reperibili, anche se non necessariamente
sono quelle più rilevanti per prendere la decisione.
La rappresentatività e l’ancoraggio sono invece euristiche utilizzate per gestire ed elaborare l’informazione
raccolta. La prima fa riferimento al fatto che le persone
spesso ragionano su base intuitiva. Osservando un evento, gli individui tendono ad associarlo a uno stereotipo,
ossia vedono quell’evento come rappresentativo di una
classe più generale di eventi. La rappresentatività si rivela pericolosa in quanto ragionare per stereotipi porta
spesso a commettere errori.
La rappresentatività spinge a trarre conclusioni basandosi
su un numero troppo limitato di informazioni, ma anche
a dare eccessiva importanza alle news più recenti, a prescindere dalla loro importanza. È noto che purtroppo gli
individui hanno difficoltà nel calcolo probabilistico e non
danno sufficiente importanza alle informazioni statistiche.
Un fenomeno molto diffuso nei processi umani è noto
come “inversione verso la media” e sta a indicare l’evidenza secondo la quale anche se è possibile osservare valori
estremi, si tende poi a ritornare verso il valore medio. Ad
esempio, i figli di persone molto più alte della media tenderanno, in media, pur essendo alti, ad esserlo meno dei
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genitori. Al contrario figli di persone più basse della media,
pur rimanendo sotto la media, tenderanno ad essere più
alti dei propri genitori.
Queste “euristiche” derivano dal fatto che spesso gli individui prendono decisioni su base intuitiva. La valutazione
di un particolare evento non segue regole matematico-statistiche come vorrebbe la teoria tradizionale, ma avviene
a livello psicologico tramite l’assegnazione di valori affettivi che possono essere positivi o negativi. Se da un lato
l’intuizione può essere inizialmente utile, è poi necessario
passare ad analisi più rigorose. Basandosi su esperienze
passate che non necessariamente si ripeteranno in futuro,
essa può infatti risultare fuorviante.
Non solo l’euristica della rappresentatività, ma anche
quella dell’ancoraggio gioca un ruolo rilevante nel modo
in cui le persone gestiscono le informazioni. Questa euri-
“
LE PREFERENZE E LE
L DECISIONI
DEGL
GLI INVESTITORI SONO INFLUENZATE
L
DAL
A MODO IN CUI LE
L
INFORMAZIONI SONO PROPOSTE
”
stica decisionale porta ad ancorarsi mentalmente a un determinato valore. Come un’ancora fa sì che una barca non
si discosti dal punto di aggancio, si può rimanere ancorati
mentalmente a un certo valore iniziale di riferimento.
L’ancoraggio è molto forte quando dobbiamo formulare
delle stime, ma lo è anche quando serve decidere, ad esempio, se mantenere o abbandonare una certa idea.
Le euristiche sono legate agli errori sottostanti, come nel
caso, ad esempio, dell’iper-ottimismo che fa credere di
poter reperire facilmente le informazioni (euristica della
disponibilità), di essere in grado di utilizzare esempi familiari per le proprie stime (euristica della rappresentatività)
e di avere a disposizione valori di riferimento su cui basare
le proprie decisioni (euristica dell’ancoraggio).
2.2.2
GLI ERRORI DI PREFERENZA
GLI EFFETTI DI “CORNICE”
L’approccio neoclassico alla finanza assume che le preferenze degli individui siano relative alla ricchezza in termi-
30
ni assoluti e che determinino l’atteggiamento nei confronti
del rischio in maniera stabile. Si può essere propensi, neutrali o avversi al rischio, ma non è possibile essere propensi
al rischio in determinati casi e avversi in altri.
Nella realtà queste affermazioni teoriche non sembrano
verificate, in quanto il cervello tende a valutare i guadagni
e le perdite rispetto a un determinato punto di riferimento
(tipicamente lo status quo, la situazione nella quale ci si
trova in quel momento). Gli individui tendono dunque a
prendere decisioni in base a variazioni di ricchezza e non
tanto in base ai livelli assoluti. Tale meccanismo mentale
porta ad avere un atteggiamento nei confronti del rischio
che varia a seconda che si stiano valutando guadagni o perdite potenziali.
Queste evidenze sono il risultato di esperimenti e costituiscono la base dell’ormai nota “Teoria del prospetto”, sviluppata dagli psicologi Daniel Kahneman e Amost Tversky
in un contributo del 1979 che è valso al primo il premio
Nobel per l’economia nel 2002.
Un esempio chiarisce i concetti. Si immagini di dover scegliere tra due opzioni. La prima prevede il lancio di una
moneta: nel caso esca testa si vincono 1.000 euro, se l’esito
invece è croce, allora non si vince nulla. La seconda consiste invece nel ricevere 500 euro certi, senza partecipare
al gioco rischioso. Davanti a un quesito di questo tipo, la
maggioranza delle persone opta per la seconda opzione. Il
valore atteso della scommessa è la media dei due possibili
risultati (1.000 euro di vincita con probabilità pari al 50%,
contro la stessa probabilità di non vincere nulla) ed è esattamente pari a quanto è possibile ricevere nella seconda
opzione, 500 euro. Accettare i 500 euro certi al posto di affrontare la scommessa con pari valore atteso è un atteggiamento di avversione al rischio. A parità di valore atteso, si
preferisce l’opzione certa rispetto a quella aleatoria. Alcuni
individui sono talmente avversi al rischio da essere anche
disposti a rinunciare a una parte del potenziale guadagno
purché questo sia certo.
Si ipotizzi ora di dover optare tra due scelte, ma che implichino delle perdite. La prima opzione che ci viene proposta
è un gioco in cui al 50% si perderanno 1.000 euro, ma sarà
anche possibile non rimetterci nulla in un caso su due. La
seconda opzione invece è una perdita certa di 500 euro.
La maggioranza degli individui, in questo caso, sceglie la
scommessa. Il motivo risiede nel fatto che agli individui
Capitolo 2
non piace perdere. Nel gergo della finanza comportamentale si parla appunto di “avversione alla perdita certa”.
Gli studi sperimentali hanno inoltre dimostrato che il
dispiacere che proviamo in caso di perdita è pari a circa
due volte e mezzo rispetto alla soddisfazione che ci dà un
guadagno di eguale ammontare. Una perdita di 500 euro
provoca un dispiacere molto più forte della soddisfazione
derivante da un guadagno di 500 euro..
La teoria del prospetto si caratterizza inoltre per alcuni caratteristiche, denominate “effetti”, che mostrano come nella
realtà gli individui non si comportino in modo razionale.
La prima caratteristica è nota come “effetto certezza” e
consiste nell’evidenza che gli individui tendono ad attribuire un peso eccessivo agli eventi certi. Un evento ha un impatto psicologico maggiore se è considerato certo rispetto
alla situazione in cui si pensa sia meramente probabile. Di
nuovo, un esempio aiuterà a chiarire il concetto. Si immagini di stare valutando la probabilità che un evento si verifichi e che, a seguito di una nuova informazione, si sappia
che tale probabilità aumenterà del 10%. La teoria tradizionale postula una funzione di probabilità lineare, nel senso
che un aumento ad esempio del 10% deve avere le stesse
conseguenze a prescindere dal livello di probabilità di partenza. Nella realtà gli individui reagiscono diversamente
a seconda della probabilità di partenza: passare dal 20%
al 30% di probabilità non è la stessa cosa che passare dal
90% al 100%. Nel secondo caso siamo davanti a un evento
certo, a cui gli individui associano un valore maggiore.
Poche persone sono tuttavia in grado di ragionare correttamente da un punto di vista probabilistico. Si tende, ad
esempio, a dare troppa importanza a variazioni di probabilità, anche se lievi, che fanno sì che un evento possa essere
considerato certo o impossibile.
Per questo motivo, nella teoria del prospetto non si utilizza una vera e propria funzione di probabilità, ma una
funzione di “ponderazione” delle probabilità, nel senso che
queste ultime vengono pesate per tenere conto del comportamento degli individui. L’effetto certezza, inoltre, fa sì
che si tenda a ritenere certi gli eventi molto probabili (ad
esempio con probabilità superiore al 95%) e impossibili
quelli estremamente improbabili (per esempio, sotto il 5%
delle probabilità che si realizzino). Un aspetto interessante riguarda gli eventi ritenuti improbabili, ma che hanno
a che fare con guadagni o perdite di ammontare elevato,
come ad esempio l’esplosione di una centrale nucleare, da
un lato, o la vincita di una lotteria, dall’altro. Questi eventi
sono talmente suggestivi che influenzano in maniera rilevante a livello emotivo le decisioni delle persone.
Un altro effetto, detto di “isolamento”, afferma che gli individui tendono a isolare le diverse caratteristiche di uno
stesso problema decisionale, focalizzando l’attenzione su
quelle che ritengono maggiormente rilevanti, o differenziali rispetto ad altre opzioni di scelta, trascurando gli elementi comuni. Anche in questo caso, sovrappesare gli elementi differenziali e sottopesare quelli comuni può portare
a errori di valutazione. Addirittura, opzioni equivalenti, se
scomposte nei loro elementi caratterizzanti, potrebbero
essere considerate in maniera differenziale.
La finanza tradizionale sostiene inoltre che, davanti a un
problema decisionale, gli individui siano in grado di sce-
“
SOLO UN GUADAGNO DUEE/TRE VOLTE
NSARE
MAGGIORE PUÒ COMPENS
IL DISPIACERE DI UNA PERDITA
”
gliere razionalmente l’opzione che massimizza la loro utilità, a prescindere dal modo con cui il problema venga strutturato. Il teorema dell’irrilevanza della struttura asserisce
che è la sostanza che conta, non la forma. In realtà, come
sappiamo, anche la forma ha la sua importanza: il modo
in cui un problema viene strutturato è infatti in grado di
modificare le scelte.
L’approccio comportamentale basato sulla teoria del prospetto afferma invece che gli effetti di framing (cornice)
sono di assoluta rilenza. Il framing è appunto il modo in
cui un problema decisionale viene inquadrato. Il modo in
cui viene presentato un quesito è dunque in grado di influenzare le scelte degli individui.
L’aspetto è di estrema rilevanza in quanto chi pone il quesito è in grado di influenzare chi lo riceve. In sostanza, è
in grado di manipolare le scelte, semplicemente modificando la presentazione del problema. Una stessa notizia
televisiva, ad esempio, può essere data in maniera completamente diversa a seconda dell’emittente. Si può dunque influenzare la percezione delle persone variando il
31
31
linguaggio o la mera enfasi che viene data alle singole notizie, o focalizzando l’attenzione su determinati aspetti, non
necessariamente rilevanti, anche solo cambiando l’ordine
di presentazione.
Ovviamente, anche quando non si voglia volontariamente
condizionare la scelta, è possibile che il problema decisionale non sia trasparente, ma opaco, confuso, contenente
dati incompleti o informazioni errate.
Non solo il modo in cui un problema è posto può influenzare il processo decisionale degli individui, ma anche le
scelte precedentemente prese. La stesso atteggiamento nei
confronti del rischio può variare a seconda che in precedenza l’individuo abbia subito una perdita o incassato un
guadagno. Nel primo caso, si potrebbe essere più cauti,
essendo già in perdita al fine di evitarne un’altra, mentre
un guadagno pregresso potrebbe portare ad aumentare
l’esposizione al rischio.
Il condizionale, tuttavia, è d’obbligo in quanto l’avversione alla perdita certa potrebbe invece portare a un atteggiamento più propenso al rischio al fine di tornare in pareggio, di recuperare cioè la perdita precedente. Al tempo
stesso, un guadagno pregresso potrebbe portare l’individuo ad accontentarsi di quanto incassato in precedenza.
Questo meccanismo è alla base di una ben nota evidenza
in ambito di investimenti finanziari, il cosiddetto “effetto
di disposizione”, secondo il quale gli individui tendono a
chiudere troppo presto le posizioni vincenti e a lasciare
invece correre le perdite (in questo caso per via dell’avversione alla perdita certa).
2.3
2.3.1
LE DECISIONI D’INVESTIMENTO
E I PORTAFOGLI DEGLI INVESTITORI
IL RISCHIO NEL PROCESSO
D’INVESTIMENTO
2.3.1.1 La percezione del rischio
Vi è un accordo pressoché unanime sul fatto che le decisioni d’investimento debbano basarsi sulla valutazione
del rischio degli investimenti e sulla disponibilità degli
investitori ad assumere rischi. La teoria classica della finanza ha dato risposte precise ed eleganti a questi problemi, ma il comportamento degli investitori sembra
tenerne conto solo in minima parte.Nella teoria classica
della finanza il rischio di un investimento è tipicamente
definito come la volatilità dei rendimenti attesi: questa
definizione suggerisce l’idea che il rischio sia un fenomeno oggettivo in cui la dimensione soggettiva non ne
modifica la percezione, quanto l’accettabilità o meno.
La finanza comportamentale mette in discussione questo presupposto, sottolineando la soggettività della percezione del rischio che non è visto come un “oggetto che
esiste in natura”, che aspetta semplicemente di essere
descritto e misurato. Esso è invece una costruzione del
Tabella 1. Le tre definizioni più frequenti di “rischio finanziario”
32
Percentuale riportata
Percentuale riportata
dagli investitori
dai consulenti
Una perdita rilevante
40%
22%
Un rendimento inferiore
a quanto preventivato
20%
25%
Rischio di business,
definito da elementi quali la leva
dell’investimento, il beta del titolo,
la pressione competitiva del settore
18%
22%
Fonte: Olsen (1997)
Capitolo 2
pensiero che dipende dall’approccio mentale, dalla cultura, dall’esperienza e dagli stati d’animo del soggetto
che lo percepisce e valuta. La teoria del prospetto permette di dare un contenuto più preciso a tale affermazione, chiarendo che:
- l’atteggiamento verso il rischio non è definito
a priori, ma dipende dalla situazione che si sta
esaminando, poiché prevalgono propensioni diverse a seconda che l’investitore abbia a che fare con
utili o perdite;
- l’impatto delle perdite sulla soddisfazione e sul benessere è nettamente maggiore di quello dei guadagni. Tale asimmetria valutativa suggerisce che le
persone sono più propense a percepire il rischio in
termini di probabilità e dimensione della perdita
attesa, piuttosto che di volatilità dei rendimenti.
Conviene allora pensare al rischio come a una costruzione mentale che ha molteplici dimensioni: la volatilità dei rendimenti, così come la probabilità di perdere
o qualunque altra definizione univoca si voglia dare,
in genere potranno offrire solo una visione parziale di
come gli individui percepiscono il rischio. Ciò vale sia
per gli investitori, sia per i professionisti della finanza,
per i quali si può pensare che, mentre definiscono il rischio in termini essenzialmente coerenti con quelli della teoria finanziaria classica, lo percepiscono in modo
più articolato e meno oggettivo.
La tabella seguente mostra le definizioni di rischio più
ricorrenti fornite da un panel di consulenti finanziari
e investitori facoltosi: ai soggetti era chiesto di stilare
una lista aperta riportante in ordine d’importanza ciò
che veniva in mente quando si pensava al rischio di un
investimento finanziario. Più della metà delle persone
ha fornito almeno due definizioni alternative, con il
risultato che nel complesso non vi è stata una definizione nettamente prevalente sulle altre. La principale
differenza emersa tra investitori e consulenti è stata
la maggiore attenzione che gli investitori mettono sulla “nozione di perdita rilevante”, che peraltro ricorre
spesso anche tra i consulenti. È significativo il fatto che
le definizioni più ricorrenti non vedono mai il rischio
come un’opportunità.
Queste evidenze mostrano che, per rappresentare con
maggiore realismo il tema della percezione del rischio,
bisogna in primo luogo abbandonare l’idea consolidata e razionale che l’investitore possa essere descritto
da un unico e stabile atteggiamento verso il rischio, la
tolleranza al rischio. Il suo atteggiamento dipende dalle circostanze e dalle emozioni: generalmente dopo un
periodo di rendimenti positivi la sua tolleranza apparirà maggiore che non dopo un periodo di rendimenti
negativi. Inoltre molto spesso si trascura la differenza
tra “il prima” e “il dopo”. Si cerca, infatti, di valutare la
tolleranza al rischio solamente nel momento in cui l’investitore prende una decisione, nell’ipotesi implicita che
gli individui anticipino correttamente le proprie reazioni emotive alle conseguenze degli investimenti. In realtà
gli individui non sono generalmente in grado di valutare
correttamente in anticipo come reagiranno quando si
verificherà un evento avverso. Per questo motivo biso-
“
GLI INVESTITORI PERCEPISCONO
IL RISCHIO COME LA POSSIBILITÀ
DI UNA PERDITA RILEVANTE
”
gnerebbe capire la reazione emotiva che segue alle conseguenze dell’investimento (“il dopo”), oltre a quella che
segue alla decisione di fare un investimento (“il prima”).
2.3.1.2La relazione tra rischio e rendimento
Il principio fondamentale della finanza è che la relazione tra rischio e rendimento deve essere positiva: i titoli che promettono un rendimento atteso più elevato
comportano anche un rischio più elevato. Alcune indagini empiriche sulle aspettative, sia dei risparmiatori
che dei professionisti del settore finanziario, mettono
in dubbio che gli individui aderiscano intimamente a
questo principio. Ciò spiegherebbe perché accade così
frequentemente che le persone sottostimino i rischi
d’investimenti che promettono rendimenti elevati, correndo il pericolo di cadere preda di intermediari o consulenti spregiudicati.
Questa dissonanza tra il principio fondante della finan-
33
33
za e la convinzione degli investitori ha due spiegazioni
principali che, pur muovendo da presupposti diversi,
possono coesistere:
1) la natura multidimensionale del rischio fa sì che sia
più facile definire cos’è il rendimento rispetto al rischio. Di conseguenza è più difficile fare una graduatoria dei rischi piuttosto che dei rendimenti di diversi
investimenti; e gli individui trovano difficile definire
una relazione tra queste due caratteristiche alternative degli investimenti. In altre parole, gli investitori
pensano che le attività più redditizie possano avere un
minore rischio perché non hanno le idee chiare su cosa
sia il rischio;
2) seguendo un’altra linea di ragionamento, invece, gli
investitori associano il rischio principalmente a un’eventualità negativa (non vedono il rischio come un’opportunità, bensì come un pericolo) e quindi trovano
innaturale aderire a un principio che sostiene che un
attributo positivo (il rendimento elevato) debba essere
associato a uno negativo (il rischio elevato). Come sostiene Shefrin, gli individui, sotto l’effetto dell’euristica
della rappresentatività, sono implicitamente propensi
a credere che “le azioni di società bene amministrate
siano buoni investimenti”.
2.3.2
I PORTAFOGLI DEGLI INVESTITORI
2.3.2.1 La diversificazione
La diversificazione è un principio d’investimento che potrebbe permettere di contenere i rischi anche quando si
considerano attività di per sé rischiose. Vi è, tuttavia, una
diffusa evidenza empirica che dimostra la scarsa diversificazione della gran parte dei portafogli d’investimento.
I titoli direttamente detenuti sono in media molto pochi,
non più di 4-5: inoltre, la scelta di questi titoli difficilmente
segue la regola base della diversificazione efficiente, cioè
la ricerca di titoli i cui rendimenti sono poco correlati. È
interessante notare che, mentre sembra che nel corso degli
anni gli investitori abbiano aumentato il numero di titoli in
portafoglio, non sembra che il principio della diversificazione efficiente abbia trovato un’applicazione più diffusa.
34
Queste evidenze si coniugano con un altro comportamento
degli investitori apparentemente inspiegabile:
- i mercati azionari sono tendenzialmente sottopesati
rispetto a quanto si dovrebbe fare applicando la teoria
classica di portafoglio;
- gli investimenti azionari sono concentrati in pochi titoli.
Perché investitori che preferiscono sotto pesare rischi che
storicamente nel lungo periodo hanno offerto buoni rendimenti, si espongono all’alea dell’investimento diretto in
pochi titoli? Comprendere le ragioni di questo comportamento è importante per cercare di correggerlo o, quanto
meno, di ridurne le possibili conseguenze negative.
Gli sviluppi della teoria del prospetto hanno dimostrato
che gli individui sono propensi al rischio quando considerano guadagni elevati, sebbene poco probabili, mentre
sono avversi al rischio quando considerano perdite eleva-
“
NON È NECESSARIAME
N
ENTE VERO
CHE LE AZIONI
N DI SOCIETÀ
BEN
ENE AMMINISTRATE
N
SIAN
A O BUONI
N INVESTIME
N
ENTI
”
te e poco probabili. In pratica si rovesciano le preferenze
che valgono per le situazioni più comuni, nelle quali l’investitore è avverso al rischio nel dominio dei guadagni e
propenso in quello delle perdite. Ciò spiega da un lato il
sovrappeso dato a investimenti molto conservativi, a basso rischio e rendimento (perché riducono la probabilità di
perdite elevate), e dall’altro la preferenza per investimenti
limitati nel loro ammontare, ma con forti rischi (perché
lasciano aperta la possibilità di ottenere in circostanze fortunate rendimenti elevati).
Una spiegazione complementare ricorre all’apparato
concettuale della contabilità mentale che dimostra che,
contrariamente a quanto postulato dalla teoria del portafoglio, gli individui non ragionano considerando congiuntamente tutti gli investimenti. Essi preferiscono,
infatti, dividere in diversi strati ideali la ricchezza e gli
investimenti, secondo una logica che viene ripresa dalla metodologia della “piramide degli investimenti” a cui
non di rado fanno ricorso anche i consulenti. I diversi
strati corrispondono ai bisogni dell’individuo: lo strato
base deve garantire la sicurezza e, pertanto, richiederà
d’investire in strumenti molto conservativi. Negli strati
intermedi prevale l’obiettivo di garantire una crescita del
capitale e, pertanto, si investirà in prodotti con migliori
prospettive di rendimento e, ovviamente, più rischi. Da
ultimo rimangono i bisogni meno essenziali e, tuttavia,
importanti per non precludere la dimensione della “speranza” all’individuo: infatti, il benessere esistenziale richiede che, pur senza abbandonare un realismo di base,
le persone possano sperare che in futuro sia possibile
migliorare significativamente la propria condizione. Ecco
allora che, per credere in un futuro migliore, negli strati
più alti gli investitori concentrano gli investimenti in pochi strumenti rischiosi. Emerge con chiarezza che questo
processo d’investimento, dove ogni strato è trattato separatamente, è in aperta contraddizione con la teoria del
portafoglio, che prescrive che la selezione di ogni singolo
investimento debba tenere conto della correlazione con
tutto il portafoglio.
Un’altra forma di scarsa diversificazione presente nei portafogli degli investitori di tutto il mondo è il cosiddetto
home bias, vale a dire la tendenza a preferire gli investimenti in ambito domestico o di emittenti geograficamente
vicini. Le versioni estreme di quest’anomalia vedono gli
investitori prediligere l’investimento in azioni della società
per cui lavorano, con l’effetto di concentrare doppiamente
il rischio: da un lato perché investono in uno o pochi titoli,
dall’altro perché il rischio finanziario tende a coincidere
pericolosamente con quello professionale. L’anomalia è
spiegata dalla confusione tra familiarità e conoscenza: le
persone pensano di conoscere meglio ciò che è consueto
e familiare. Tale assunzione può, forse, essere vera nella
vita quotidiana, ma è tutta da dimostrare nei mercati finanziari, dove si può affermare di conoscere meglio un investimento rispetto a un altro solo quando le previsioni sui
rendimenti futuri del primo si rivelano a posteriori più corrette che per il secondo. Vi sono, infatti, numerosi riscontri
sul fatto che gli investitori si ritengono più competenti nel
fare previsioni sui titoli del proprio Paese, anche se non è
dimostrato che queste previsioni siano realmente più at-
36
tendibili. Inoltre, vi è in genere una relazione positiva tra la
presunzione di competenza e l’iper-ottimismo: le persone
tendono a prevedere rendimenti tanto più alti quanto più
credono di conoscere le caratteristiche dell’investimento.
2.3.2.2Il trading
Vi sono investitori che movimentano molto raramente il
proprio portafoglio: tuttavia, negli ultimi 15-20 anni, grazie
anche alla diffusione dei sistemi di trading online e alla maggiore disponibilità di informazioni assicurata da Internet, è
aumentato l’attivismo degli investitori. Un investitore razionale movimenta attivamente il portafoglio perché pensa di
sapere cogliere in anticipo le tendenze generali di mercato
(market timing), oppure perché pensa di sapere selezionare
titoli sopra/sotto valutati (securities selection). Tuttavia, dovrebbe persistere in tale pratica solo se i fatti gli dessero ragione: il rendimento del portafoglio, al netto dei costi di transazione e tenuto conto dei rischi assunti, dovrebbe essere
“
SE LAS
A CIATI A SE STESSI MOLTI
INVESTITORI NON DIVERS
R IFICANO
GLI INVESTIMENTI
”
mediamente maggiore di quello di un portafoglio poco movimentato. L’evidenza empirica, che copre ormai sia diversi
mercati che intervalli temporali, non conferma questa convinzione: nella maggior parte dei casi gli investitori privati
che movimentano di più il portafoglio ottengono performance peggiori di quelli meno attivi. Un risultato impressionante
è stato misurato a Taiwan dove è stato possibile esaminare il
risultato complessivo di tutti gli investitori nel periodo 1995
– 1999: la movimentazione aggressiva ha provocato perdite
in aggregato pari a circa il 2,8% del PIL di Taiwan.
Vi sono diverse spiegazioni concorrenti per l’eccessivo trading degli investitori. In primo luogo vi è la cosiddetta “ricerca di emozioni” (sensation seeking). La ricerca di emozioni
è un tratto stabile della personalità che può variare molto
tra le persone. Quando è molto spiccato, l’individuo è alla
continua ricerca di nuove, inusuali e intense esperienze generalmente associate all’assunzione di rischio: il trading ben
si adatta a questa descrizione perché muta continuamente
Capitolo 2
l’oggetto dell’investimento. L’investitore che è alla ricerca di
emozioni non è eccitato dal rischio in sé del portafoglio, ma
dal fatto che tale rischio muti continuamente. In queste circostanze non deve stupire che i rendimenti possano essere
inadeguati, perché l’investitore è alla ricerca di emozioni, più
che di rendimento, anche se probabilmente per non sentirsi
in colpa si convince che il suo attivismo ha solo l’obiettivo di
migliorare la performance.
L’eccessiva sicurezza è un altro elemento importante che
dispiega i suoi effetti tramite due meccanismi: da un lato
induce a sottostimare i rischi, dall’altro a considerarsi migliori della media e, pertanto, capaci di battere il mercato
perseguendo una movimentazione attiva del portafoglio.
Ciò è rinforzato dalla competenza e dall’illusione del controllo. Gli investitori che si percepiscono più competenti
sono più inclini a puntare sulla propria autonoma capacità di discernimento: sottovalutano tuttavia che, anche in
molti compiti dove l’abilità è importante, i fattori casuali e
fuori controllo possono esercitare un impatto notevole sui
risultati (illusione del controllo). A ben vedere il trading attivo assomma su di sé tutte queste caratteristiche: richiede
informazioni, conoscenza e competenza, ma i risultati delle
decisioni sono sempre pesantemente influenzati da fattori non prevedibili, cioè casuali. Gli errori comportamentali
non agiscono solo nel senso di indurre a un trading eccessivo, ma spingono anche ad attuarlo in modo non ottimale. È
il caso dell’effetto di disposizione, che induce ad anticipare
il realizzo delle posizioni in utile, posticipando quello delle
perdite. Le decisioni su cosa vendere e/o comprare, che coinvolgono una valutazione sulle prospettive future di uno strumento d’investimento non dovrebbero essere influenzate da
un dato passato come il prezzo d’acquisto, che non riguarda
la generalità del mercato ma la situazione specifica dell’investitore. È stato documentato che questa tendenza deprime le
performance del portafoglio: infatti, mediamente i titoli in
utile venduti garantirebbero in seguito rendimenti maggiori
di quelli in perdita mantenuti in portafoglio.
A conclusione di questa panoramica sul trading, si deve rammentare che si tratta di un gioco a somma zero, se si escludono i costi di transazione. Pertanto, se gli investitori individuali in media perdono, altri investitori in media guadagnano.
La già citata ricerca su Taiwan, che copre l’universo di tutti
gli investitori attivi sul mercato locale, offre un’interessante
evidenza al riguardo. Mentre il rendimento al lordo dei costi
37
37
di transazione degli investitori individuali è negativo, quello
degli investitori istituzionali è positivo e rimane tale anche
dopo avere incluso l’effetto dei costi di transazione.
2.4
2.4.1
LA CORREZIONE DELLE ANOMALIE
NELLE SCELTE D’INVESTIMENTO
IL PROCESSO DI CORREZIONE
DEGLI ERRORI DI COMPORTAMENTO
L’approccio comportamentale è stato accusato di descrivere gli errori commessi dagli investitori, e le anomalie di
mercato da essi derivanti, senza tuttavia fornire proposte
per la loro correzione.
Tale critica fotografa una situazione ormai passata, perché
negli ultimi anni gli studiosi di finanza comportamentale
si sono sempre più sforzati di fornire indicazioni su come
correggere gli errori cognitivi. Il processo di correzione degli errori comportamentali è noto come debiasing. Si tratta
di un insieme di procedure che possono essere poste in essere al fine di ridurre, se non eliminare, gli effetti indesiderati dei bias o delle euristiche decisionali ad essi associate.
Rendere gli individui consapevoli degli errori commessi è
un primo passo verso la loro correzione, ma non è sufficiente a eliminare le conseguenze negative di questi errori
in quanto estremamente radicati e dunque resistenti ai
cambiamenti. A tale riguardo è poi fondamentale spiegare
all’individuo la natura dell’errore e le sue cause, eventualmente utilizzando esempi personali di situazioni in cui si è
ripetuto lo stesso errore. La parte più importante di tutto il
processo di correzione degli errori risiede tuttavia nell’addestramento e nella ripetizione sistematica delle procedure e richiede enormi sforzi.
Tali tecniche variano a seconda dell’errore o dell’euristica considerata. Per non essere condizionati dagli effetti
di cornice (framing), ad esempio, occorre ridefinire i parametri di riferimento, in modo da poter considerare i
costi pregressi come tali e dunque ininfluenti rispetto alla
decisione da prendere. In questo modo, si riuscirà a sopportare la perdita percependo un minore costo soggettivo.
Nel caso dell’ancoraggio, invece, è utile ricordarsi che nel
formulare una stima, o nel prendere decisioni riguardo la
vendita di strumenti finanziari, il cervello tende ad ancorarsi ad alcuni valori di riferimento. Il primo passo per evi-
38
tare l’ancoraggio è rendersi conto di qual è l’ancora mentale e capire se essa continua a rappresentare un adeguato
punto di riferimento o se invece la si debba aggiornare. Anche in questo caso, la ripetizione di tecniche che aiutino ad
aggiornare il punto di riferimento saranno di sicuro aiuto.
Occorre dunque mettere in dubbio i punti di riferimento
personali e chiedersi se sono effettivamente rilevanti al
fine decisionale. Questo tipo di atteggiamento aiuta non
solo nel caso dell’anchoring, ma anche con riferimento
all’eccesso di sicurezza (overconfidence); la quale, oltre
che essere causata dall’illusione del controllo e della conoscenza, è spesso esacerbata da errori come quello di
conferma (confirmation bias), che porta a sopravvalutare
i punti di vista favorevoli alla propria posizione e a sottovautare quelli contrari. Mettere in dubbio le informazioni
o i dati che supportano solamente il nostro punto di vista
e invece cercare di riportare all’attenzione quelli ad esso
contrari è un esercizio che - se ripetuto - risulta essere
estremamente utile.
“
LA FINANZA COMPORTAMENTAL
ALE
AIUTA A CAPIRE COME POSSONO
ESSERE CORRETTI GL
GLI ERRORI
DEGL
GLI INVESTITORI
”
L’istruzione gioca un ruolo fondamentale nel trasmettere le nozioni da utilizzare per una corretta valutazione
finanziaria, ma la ripetizione di tecniche di debiasing è
fondamentale per evitare i condizionamenti degli errori
cognitivi. L’addestramento e le procedure sono anche utili a risolvere gli errori psicologici o emotivi. Ad esempio,
l’avversione alle perdite o l’avversione alla perdita certa
non sono errori cognitivi, ma psicologici. Riconoscere che
il nostro atteggiamento nei confronti del rischio cambia
perchè percepiamo di essere in un dominio delle perdite
può aiutarci a prendere la decisione giusta.
La correzione degli errori comportamentali (debiasing)
è tuttavia estremamente difficoltosa in quanto il tipo di
errori che si sta considerando è particolarmente duro da
sconfiggere; non solo perchè si tratta di modi di ragionare estremamente radicati nel cervello, ma anche perchè
Capitolo 2
quando agiscono in ambito economico-finanziario il processo di apprendimento è particolarmente lento. È noto,
infatti, che l’apprendimento, e la conseguente riduzione
degli errori, è più agevole quando il feedback di una certa
scelta è chiaro e immediato. Meno chiaro e meno immediato è questo riscontro, minore è l’apprendimento. L’esito delle decisioni finanziarie è per loro natura opaco e a
medio-lungo termine. È opaco nel senso che non dipende
solo dalle scelte dell’investitore, ma dal concomitante agire di fattori esogeni e dunque al di fuori del suo controllo.
In caso di esito positivo l’investitore non saprà se è stato
merito suo o per via di una congiuntura favorevole del
mercato. In caso contrario, potrebbe essere frutto di una
sua decisione sbagliata, ma anche di uno shock inatteso sui
mercati. Spesso, come si è detto, l’investitore tenderà ad
attribuire a sè il merito degli esiti positivi (self-attribution
bias) e a dare la colpa ai mercati per quelli sfavorevoli.
Tipicamente, l’esito degli investimenti si osserva a distanza di un certo numero di mesi, o addirittura anni, rendendo ancora più ostica l’interpretazione da parte dell’investitore. Ottenendo un feedback non chiaro e a distanza di
tempo, l’investitore non è in grado di correggere i propri
errori in maniera opportuna.
Le procedure di debiasing sono difficili da seguire ed è
spesso necessario l’intervento di un esterno, come ad
esempio un consulente finanziario. Accade infatti che gli
individui siano soggetti al cosiddetto narrow framing, la
tendenza cioè a focalizzarsi eccessivamente sul problema
che si sta valutando, perdendo una visione più d’insieme.
Il punto di vista di una persona esterna può invece aiutare
ad avere una visione più ampia e imparziale.
Un consulente finanziario non solo può assumersi il ruolo
del terzo, ma grazie alla sue competenze può aiutare l’investitore ad agire in modo più razionale per raggiungere
i suoi obiettivi. Il consulente dovrebbe essere in grado di
guidare il proprio cliente a perseguire nel modo migliore i
suoi interessi, correggendo quegli errori cognitivi che possono invece minarne il raggiungimento.
Occorre tuttavia essere chiari e trasparenti nel mettere in
luce sin dall’inizio, e per tutta la durata del rapporto di consulenza, non solo quali sono le aspettative del cliente, gli
obiettivi e i mezzi per raggiungerli, ma anche il fatto che
è probabile che il cliente tenderà a deviare dal percorso
proposto dal consulente e che ogni deviazione andrà ad in-
taccare la possibilità di raggiungere gli obiettivi prescelti.
Quest’ultimo aspetto è fondamentale per garantire la stabilità del rapporto consulente-cliente.
Meir Statman, esperto di finanza comportamentale, sostiene infatti che il consulente finanziario dovrebbe avere un ruolo simile a quello del medico di famiglia (parla
infatti di financial physician). Il medico di famiglia non è
uno specialista, ma ha il vantaggio di conoscere il proprio
assistito, la sua storia clinica e la sua personalità, e dunque il modo in cui risponde alle cure proposte. Allo stesso
modo, il consulente finanziario deve conoscere il proprio
cliente, le sue conoscenze in ambito finanziario, ma anche
la storia degli investimenti effettuati in precedenza, per
sapere come reagisce alle oscillazioni di mercato rispetto
al percorso di investimento prescritto. Non basta infatti
prospettare a un cliente la soluzione ottimale, se si sa che
alla prima turbolenza abbandonerà la strategia per paura
da un lato o eccessiva euforia dall’altro.
“
LA CORREZIONE DEGL
GLI ERRORI
D’INVESTIMENTO È PIÙ EFFICACE CON
IL SUPPORTO DI UN CONSUL
ULENTE
”
Più in generale, la correzione degli errori coinvolge aspetti
relativi all’educazione finanziaria, da un lato, e alla disclosure in ambito finanziario, dall’altro. Recentemente si è
assistito a un acceso dibattito, anche in sede istituzionale,
rispetto a questi due temi, non solo rispetto ai loro effetti,
ma anche con riferimento alla loro implementazione. Non
è in dubbio solamente la loro efficacia, ma anche di chi
dovrebbe essere l’iniziativa su questi aspetti, se dei singoli
individui, o del mercato in senso lato, oppure delle istituzioni responsabili della regolamentazione e della vigilanza
in ambito finanziario.
Se si sposasse la prima ipotesi, si dovrebbe innanzitutto
valutare se i singoli investitori sono in grado di “difendersi” da eventuali comportamenti opportunistici degli
intermediari finanziari. Volendo leggerla alla Hirschman,
l’opzione voice, di “protesta”, è limitata dal limitato valore
contrattuale del singolo, o se si vuole dalla debole regolamentazione della class action in Italia. L’opzione exit, os-
39
39
sia quella ad esempio di “andarsene”, di cambiare banca,
è invece alquanto limitata dal cosidetto status quo bias,
ossia la tendenza degli individui all’inazione, che li porta
generalmente a essere estremamente riluttanti a cambiare
il proprio status quo, la loro situazione corrente. Questo
errore è estremamente rilevante nelle decisioni individuali, come si avrà modo di esporre con riferimento alle scelte
in termini di previdenza integrativa.
Se allora i singoli investitori non sono in grado di eliminare gli incentivi perversi degli operatori di mercato a
sfruttare a loro vantaggio gli errori comportamentali, è
forse necessario un intervento istituzionale pubblico per
limitare alcuni aspetti devianti dei meccanismi di mercato che non solo non eliminano tali incentivi, ma anzi
tendono ad enfatizzarli.
È però necessario sottolineare come gli interventi regolamentari tradizionali non siano stati sufficienti a eliminare
gli incentivi perversi di cui sopra. Alcune regole di trasparenza, ad esempio, si sono rilevate spesso esclusivamente
L’INTERVENTO PUBBLICO
L
PUÒ
CONTRIBUIRE A CORREGGERE GL
GLI
ERRORI, MA GL
GLI INVESTITORI
DEVONO AVERE LIBERTÀ
L
DI SCELTA
L
”
formali, non incidendo nella sostanza, ma aumentando
l’ammontare di informazioni, spesso non particolarmente
rilevanti, che hanno causato un sovraccarico informativo
dal quale gli individui tipicamente escono tramite l’uso di
euristiche comportamentali, per loro natura distorsive.
È dunque fondamentale strutturare meglio la regolamentazione finanziaria tenendo in considerazione
quanto descritto, e prescritto, dagli studi di finanza
comportamentale.
Soprattutto a seguito della recente crisi finanziaria si è
andato diffondendo sempre più un atteggiamento di tipo
paternalistico a tutela degli investitori. Alcune posizioni
paternalistiche estreme arrivano a pensare addirittura di
vietare per norma alcuni strumenti finanziari più rischiosi, ad esempio quelli collegati a derivati. Anche se esistono
già regole a tutela degli investitori individuali che vietano
40
la somministrazione a livello retail ad esempio di alcuni
obbligazioni o altri prodotti pensati esclusivamente per
gli operatori istituzionali, occorre porre molta cautela in
questo tipo di limitazioni. È vero infatti che molti investitori individuali non godono di un’adeguata preparazione
finanziaria, ma altri, invece, dimostrano conoscenze e capacità molto avanzate. È poi difficile poter discriminare
all’interno dell’ampia e variegata categoria degli investitori individuali quelli più preparati e abili, da quelli invece non sofisticati.
Vietare dunque a tutti l’accesso agli strumenti finanziari
più complessi e rischiosi non rappresenta dunque una soluzione ottimale nè per gli investitori individuali, nè tantomeno per l’industria del risparmio gestito, senza contare
anche gli effetti negativi che ne deriverebbero in termini di
minore innovazione finanziaria.
La possibile soluzione, ancorchè non definitiva, dovrà essere costituita da un mix di educazione finanziaria, regole
di disclosure ben strutturate, nonchè l’incentivazione della
consulenza finanziaria al servizio del cliente e non tanto
degli interessi dell’intermediario.
In quest’ottica sono dunque da preferire soluzioni semi-paternalistiche che utilizzino la strumentazione e le
evidenze della finanza comportamentale per suggerire
opzioni ritenute preferibili nella generalità dei casi, ma
lasciando la libertà agli individui di poter cambiare tali opzioni e scegliere quelle preferite. Si potrebbe ad esempio
sfruttare la naturale tendenza degli individui all’inazione
per proporre in diversi ambiti finanziari un’opzione di default, ritenuta più valida per la maggioranza delle persone,
dalla quale sia possibile deviare, ma solo con un atto esplicito di cambio opzione.
Se dunque sembra ineluttabile un intervento pubblico al
fine della correzione degli errori comportamentali, è doveroso garantire agli individui la libertà di scelta. Sotto
questo punto di vista è fondamentale innalzare il grado di
cultura finanziaria degli investitori individuali tramite opportune iniziative educative che tengano però anche conto
dei meccanismi cognitivi di apprendimento delle persone
e dei potenziali errori nella gestione delle nozioni apprese.
2.4.2
L’EDUCAZIONE FINANZIARIA
L’approccio tradizionale alla finanza, presupponendo la
razionalità degli agenti, trasla la responsabilità delle scelte
finanziarie sugli individui stessi. Nella realtà, le persone
non sono perfettamente razionali e gli errori cognitivi sopra descritti, influenzando il modo con il quale percepiscono ed elaborano le informazioni, impediscono una corretta
comprensione dei fenomeni finanziari.
Si pone dunque, per le autorità preposte alla tutela dei risparmiatori, la necessità di implementare programmi di
educazione finanziaria che considerino i dettami dell’approccio comportamentale. Se il debiasing cerca di correggere gli aspetti pertinenti la cognizione, intervenendo sugli
errori di comportamento, l’educazione aiuta a innalzare il
grado di alfabetizzazione finanziaria.
L’importanza di quest’ultima è ormai riconosciuta a livello internazionale quale obiettivo da perseguire non solo a
beneficio dei singoli, ma dell’economia e della società in
generale. L’educazione finanziaria aiuta infatti a comprendere il valore del denaro, il ruolo del risparmio e l’importanza dell’investimento.
“
L’EDUCAZIONE FINANZIARIA
AIUTA A COMPRENDERE IL VAL
ALORE
DEL DENARO E L’IMPORTANZA
DELL’INVESTIMENTO
”
Questi aspetti sono ancor più rilevanti per gli individui illetterati in finanza, per i quali la probabilità di incorrere
in problemi finanziari è più elevata, anche se il problema
è generalizzato perché la maggiore parte delle persone sovrastima le proprie conoscenze e competenze in ambito
finanziario. A volte, dunque, il problema di un’inadeguata
educazione finanziaria non è nemmeno percepito. Questo
accade soprattutto perchè gli investitori faticano a comprendere i reali benefici di una migliore comprensione dei
fenomeni finanziari.
Occorre però sottolineare come non solo la recente crisi finanziaria, ma anche i crac societari che l’hanno preceduta
(si pensi a Cirio, Parmalat, ai tango bond) hanno smosso le
coscienze di molti investitori, spingendoli ad ammettere la
loro “ignoranza” su questi temi.
Elevare il grado di alfabetizzazione finanziaria, inoltre,
ha conseguenze più generali, aumentando ad esempio la
42
stabilità del sistema economico e riducendo le possibilità
di nuovi scandali finanziari o crisi. Investitori finanziariamente più colti saranno in grado di scegliere mutui più
adatti alle loro esigenze, di comprendere più a fondo le
caratteristiche dei prodotti o dei servizi acquistati, di avere
portafogli più diversificati e di pianificare meglio il proprio
futuro previdenziale. Questi comportamenti virtuosi possono risultare in una spinta verso una maggior concorrenza nell’industria dell’intermediazione finanziaria, riducendone i costi, a beneficio degli utenti finali.
Una migliore conoscenza dei prodotti e dei servizi finanziari, infine, tipicamente porta a un maggiore utilizzo dei
mercati, aumentando le possibilità di finanziamento delle
imprese con conseguenze positive a livello occupazionale e
dell’economia in generale.
È tuttavia noto che il livello medio di cultura finanziaria
degli investitori individuali sia molto basso non solo in
Italia, ma anche nel confronto internazionale (Australia,
Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e
Stati Uniti).
Le autorità preposte alla tutela dei risparmiatori devono
allora tenere sotto controllo il grado di educazione finanziaria della popolazione e la sua evoluzione nel tempo.
A tale scopo vengono predisposti questionari come quelli
contenuti nelle periodiche indagini sui bilanci delle famiglie italiane di Banca d’Italia o nell’elaborazione dell’Indicatore di Cultura Finanziaria (ICF) sviluppato da The
European House-Ambrosetti per Patti Chiari. Secondo
quest’ultimo, la cultura finanziaria può essere suddivisa
tra istruzione/preparazione finanziaria, informazione finanziaria e scelte di comportamento.
Se tramite l’istruzione gli individui formano le proprie
competenze, l’informazione finanziaria invece veicola i
dati sui prodotti e i servizi finanziari, offrendo agli investitori la possibilità di conoscere le opportunità offerti da
questi, ma anche i rischi ad essi connessi. Le scelte comportamentali, infine, riguardano le capacità dei singoli di
gestione dei propri investimenti e programmazione per le
esigenze future.
L’ICF va da 0 (conoscenza nulla) a 10 (ottima conoscenza
dei concetti finanziari di base) e per il 2010 si assesta a un
livello medio tra le tre componenti pari a 4,3; in crescita rispetto al 2008 quando tale valore era pari a 3,5. Nonostante tale aumento, il valore medio di conoscenza finanziaria
Capitolo 2
appare ancora al di sotto del livello di sufficienza.
In linea con le indagini di Banca d’Italia, si evidenzia poi
come i residenti nel Centro e Nord Italia abbiano una conoscenza finanziaria media più elevata di chi vive al Sud.
Inoltre, mentre fra i giovani si registra un certo disinteresse per le questioni finanziarie, il livello di alfabetizzazione
cresce nell’età lavorativa, per tornare a decrescere per i
pensionati. Infine, chi ha un titolo di studio di livello più
elevato vanta in genere maggiori conoscenze finanziarie.
Questi dati sono particolarmente preoccupanti se si pensa
che sono proprio le classi potenzialmente più vulnerabili
ad avere le conoscenze finanziarie più basse e di conseguenza a commettere più errori. Il rischio è quello che gli
individui più svantaggiati da un punto di vista socio-demografico non riescano a progredire e invece peggiorino la
propria posizione economico-sociale. È infatti noto il legame diretto tra un livello di cultura finanziaria più elevato e
una maggiore ricchezza.
Una nota a parte merita l’evidenza che sottolinea come chi
ha maturato un’esperienza diretta sul campo ottiene punteggi di ICF più elevati rispetto a chi invece si è preparato
solo a livello teorico. Se tale evidenza può nascondere una
relazione causale inversa (chi possiede una cultura finanziaria superiore diventa anche finanziariamente più attivo), essa potrebbe anche confermare il fatto che le esperienze vissute direttamente fanno sì che l’apprendimento,
e quindi il processo di correzione degli errori, sia migliore.
In generale, come confermano anche le indagini di cui
sopra, il grado di conoscenza finanziaria varia a seconda
della complessità del tema investigato. Se circa due terzi
dei rispondenti alle indagini Banca d’Italia, ad esempio,
affermano di poter leggere con facilità un estratto conto o di conoscere le numerose tipologie di mutuo offerte
dalle banche, ma anche la differente rischiosità del tasso
fisso rispetto a quello variabile, le evidenze mostrano invece come molti individui abbiano sbagliato la scelta tra
mutuo a tasso fisso e variabile, decidendo per quello fisso
dopo un periodo di forti incrementi nei tassi, come quello
terminato nel 2008. A prescindere dal forte abbassamento dei tassi deciso dalla Banca Centrale Europea a seguito
dello scoppio della recente crisi finanziaria, a seguito di un
periodo di forti rialzi nei tassi era prevedibile una loro discesa. La paura di ulteriori aumenti ha invece spinto molte
persone a optare per un mutuo a tasso fisso, vincolandosi
tuttavia a un livello alquanto elevato.
Sempre dall’indagine Banca d’Italia risulta poi che meno
della metà degli intervistati capisce il concetto di diversificazione di portafoglio e solo un terzo comprende appieno il
grado di rischio insito in un investimento obbligazionario
a confronto con uno azionario.
Per quanto riguarda i temi pensionistici, infine, gli italiani sembrano possedere una conoscenza ancor più limitata delle caratteristiche dei piani di previdenza complementare a disposizione, con una conoscenza media tra il
20% e il 30%. Tale evidenza non sorprende se si pensa
che è necessario possedere alcune conoscenze tecniche
di base per poter comprendere questi piani previdenziali.
Solo attraverso un’adeguata conoscenza dei concetti finanziari di base è infatti possibile pianificare opportunamente per la pensione.
“
LA CONOSCENZA DEGL
GLI
INVESTITORI ITAL
ALIANI SUI TEMI
PENSIONISTICI È SCARSA
”
Esiste ormai una molteplicità di studi sugli effetti di programmi finalizzati all’investor education, anche se i risultati in termini di efficacia non sono sempre incoraggianti.
L’efficacia di ogni programma di educazione finanziaria
può infatti scontrarsi coi problemi cognitivi degli individui
a cui è indirizzato. È dunque essenziale incorporare quanto prescritto dalla finanza comportamentale per essere
certi che le conoscenze trasmesse agli individui vengano
da essi percepite, capite ed elaborate in maniera corretta.
Il problema della bassa cultura finanziaria potrebbe essere risolto se ci si affidasse a consulenti, o comunque a
esperti. Tuttavia, il ricorso degli investitori individuali a
queste figure professionali risulta essere ancora limitato.
Soprattutto gli individui in condizioni meno agiate o con
basso livello di istruzione tendono piuttosto ad affidarsi
ad amici o familiari e spesso ne seguono i consigli, confidando nelle loro conoscenze finanziarie che tuttavia non
sono in grado di verificare.
I programmi di educazione finanziaria possono essere
implementati a diversi livelli, ma tipicamente richiedo-
43
43
no la collaborazione di autorità di regolamentazione e
supervisione finanziaria, del sistema scolastico e di associazioni in difesa dei consumatori. Queste ultime cercano
di aiutare i risparmiatori, soprattutto quelli che hanno
minori possibilità, ma spesso i mezzi a loro disposizione
non sono sufficienti.
In conclusione: l’educazione finanziaria da sola non è sufficiente, ma è necessario che sia accompagnata da un’adeguata protezione degli investitori e da regole che garantiscono il comportamento corretto degli intermediari
finanziari nei confronti dei loro clienti.
2.4.3
LA DISCLOSURE SULLE CARATTERISTICHE
DEI PRODOTTI FINANZIARI
Alla luce di quanto sopra esposto, appare chiaro come
non sia più sufficiente prevedere la mera trasmissione di
una quantità di informazioni più elevata per gli investitori,
in quanto essa causarebbe solo un sovraccarico di dati da
gestire per l’individuo.
“
LA FINANZA COMPORTAMENTAL
ALE
MOSTRA COME DOVREBBERO
ESSERE PRESENTATE LE
L
INFORMAZIONI AGL
GLI INVESTITORI
”
Tale sovraccarico spingerebbe infatti a un maggiore utilizzo delle euristiche decisionali con una conseguente
maggiore probabilità di commettere errori. Inoltre, alcuni
recenti studi sui trader online in Italia, hanno dimostrato
che una maggiore quantità di informazioni può aumentare l’illusione di conoscenza e far aumentare il grado
di overconfidence.
Per garantire un’adeguata disclosure dei prodotti finanziari a tutela del risparmiatore è allora necessario strutturare
le regole di trasparenza informativa secondo le prescrizioni fornite dalla finanza comportamentale.
Incorporare l’approccio comportamentale in ambito di
regolamentazione, oltre ad aumentare l’efficacia della disclosure finanziaria attraverso idonee modalità di presentazione, sfavorisce quelle situazioni in cui gli operatori di
44
mercato possono sfruttare a loro vantaggio comportamenti non pienamente razionali degli investitori.
È dunque fondamentale non solo il compito dei regolatori,
ma anche delle autorità di supervisione finanziaria, al fine
di vigilare contro possibili comportamenti opportunistici
degli intermediari.
A tale proposito, è interessante notare come una recentissima analisi dell’Ufficio studi Consob metta in evidenza
le lezioni dell’approccio comportamentale alla vigilanza.
In questo studio si citano ad esempio gli studi sul presentational impression management, ossia il modo con
cui è possibile gestire le modalità di presentazione di un
prodotto o servizio finanziario enfatizzando gli aspetti
che possano impressionare gli investitori, attirando la
loro attenzione. Diversi studi in questo filone di ricerca
mostrano ad esempio che variando la veste grafica con la
quale si presenta il prodotto si è in grado di far focalizzare
gli investitori solo sugli aspetti di forza dello stesso, non
facendo trasparire quelli di debolezza. Al contrario, queste tecniche dovrebbero essere utilizzate dai regolatori
per assicurare un’adeguata comprensione da parte degli
investitori delle informazioni contenute ad esempio nei
prospetti informativi.
Un prospetto informativo di decine di pagine tende di per
Capitolo 2
sè a scoraggiarne la lettura. Se poi contiene una descrizione troppo dettagliata, prolissa o ridondante dei dettagli tecnici del prodotto, senza utilizzare una vesta grafica
appropriata volta a enfatizzare chiaramente i vantaggi
e gli svantaggi, allora sortirà il solo effetto di distogliere
l’attenzione dell’investitore, non di fornire un’adeguata informazione sul prodotto presentato. In alcuni casi limite,
purtroppo, sembra che sia stato proprio questo l’obiettivo
perseguito: riempire i prospetti di dettagli inutili per scoraggiare la vera comprensione del prodotto proposto.
Volendo invece perseguire una migliore comprensione da
parte degli investitori, è necessario rendere più efficace la
trasmissione delle informazioni, utilizzando ad esempio
tabelle riassuntive e grafici che spingono a concentrarsi
sugli aspetti veramente rilevanti.
Ovviamente, enfatizzando alcuni aspetti, le tabelle e i
grafici possono essere utilizzati per manipolare e guidare
l’attenzione degli investitori. Sarà dunque fondamentale
non solo porre in essere regole ben precise al riguardo, ma
soprattutto vigilare su potenziali violazioni di una ancora
più importante norma non scritta secondo la quale la veste
grafica deve aiutare la corretta comprensione del prodotto
e non tradursi in una visione distorta che enfatizzi solo gli
aspetti positivi, celando quelli negativi.
“
I GRAFICI HANNO UN IMPATTO
MAGGI
G ORE NELL’INDIRI
RIZZARE
LE SCELTE DEGLI
L INVESTI
TITOR
RI
”
Le parole utilizzate, o l’enfasi data nelle tabelle o nei grafici, focalizzando l’attenzione di volta in volta sugli aspetti
positivi, piuttosto che su quelli negativi possono arrivare a
indurre l’investitore ad atteggiamenti, rispettivamente, di
avversione o propensione al rischio, come osservato nella
teoria del prospetto.
Recenti studi dimostrano che i grafici hanno generalmente
un impatto ancor maggiore nell’indirizzare le scelte degli
individui. A tale proposito, non solo la scelta dei contenuti dei grafici è importante, ma anche la loro modalità di
presentazione. La scelta di un grafico a torta, o a linee di
trend, oppure a istogrammi è in grado di influenzare il processo decisionale. Si ricordi infatti che le diverse tipologie
di rappresentazione grafica sono nate appositamente per
trasmettere diverse informazioni.
Se l’utilizzo di grafici può aiutare la comprensione da parte
degli investitori, occorre dunque porre estrema attenzione
al tipo di grafico utilizzato. Una possibile soluzione è quella
di fornire all’investitore diverse alternative grafiche. Tuttavia, questa scelta potrebbe far percepire una ridondanza
di informazioni che si rivelarebbe controproducente ai fini
della comprensione da parte dell’investitore.
Un altro problema collegato alle rappresentazioni, e agli
effetti di framing che da esse ne derivano, riguarda il
modo in cui vengono riportate le performance passate di
un certo prodotto finanziario. La disponibilità, la rappresentatività e l’ancoraggio spingono infatti gli investitori a
dare eccessiva importanza ai risultati precedentemente
ottenuti da un certo investimento finanziario. È chiaro che
le performance passate non assicurano che gli stessi rendimenti saranno ottenuti anche in futuro, ma le euristiche
sopra menzionate portano a pensare che invece lo siano.
Infine, ma non in ordine di importanza, un problema più
generale riguarda il modo con il quale viene rappresentata
la relazione rischio-rendimento. Come si è visto, molti individui tendono a percepire questa relazione come positiva, credendo che anche titoli pochi rischiosi, rappresentativi di aziende percepite come buone, siano anche in grado
45
45
di fornire rendimenti attesi elevati.
A questa errata percezione, dovuta alle euristiche della
rappresentatività e della familiarità, si può aggiungere
la naturale tendenza degli individui a focalizzare l’attenzione sull’aspetto positivo di questo binomio, ossia
sul guadagno potenziale, e non tanto a quello ritenuto
negativo, il rischio. Un esempio può aiutare a chiarire il
concetto. Le obbligazioni ad alto rischio, sotto il livello di investment grade, sono state a lungo denominate
junk bonds (obbligazioni “spazzatura”), enfatizzando
dunque la connotazione positiva del rischio ad esse
associato. Le stesse obbligazioni, più recentemente,
sono state ribattezzate high yield (ad alto rendimento),
a sottolineaneare i potenziali alti guadagni derivanti
dall’elevata rischiosità delle stesse. Un investitore non
sofisticato potrebbe essere tratto in inganno dalla diversa denominazione ed essere portato a investire nel
caso gli vengano presentate come obbligazioni ad alto
rendimento, piuttosto che sotto la denominazione di
titoli spazzatura.
In finanza, il concetto di rischio ha natura bidirezionale,
ossia afferma la possibilità di incorrere in risultati sia negativi che positivi. Una misura di rischio come la volatilità mostra infatti quali deviazioni ci si dovrà attendere, in
media, rispetto al rendimento atteso dell’investimento.
Gli individui, al contrario, tendono a percepire il rischio
solamente come “rischio negativo”. La teoria del prospetto, tuttavia, insegna che percepire il rischio in termini di
potenziali perdite invece che di possibili minori guadagni
implica un diverso atteggiamento degli individui.
Se l’approccio comportamentale aiuta a trovare soluzioni
per eliminare o quanto meno ridurre gli effetti negativi
derivanti dall’utilizzo delle euristiche decisionali o dagli
errori cognitivi cognitivi (bias) in generale, al tempo stesso apre nuove problematiche come quelle appena esposte legate alle modalità di disclosure. Al tempo stesso, le
prescrizioni della finanza comportamentale non sono utili
solo in ambito di educazione finanziaria e trasparenza informativa, ma anche per la consulenza finanziaria. Come si
accennava, il ruolo dei consulenti è assolutamente rilevante per aiutare i propri clienti non solo nell’educarli finanziariamente, ma anche nella corretta interpretazione delle
informazioni ad essi destinate, anche perchè previste dalle
regole sulla disclosure.
46
L’investitore può infatti usufruire dell’interazione col consulente per dirimere i suoi dubbi, mentre in assenza di
questa possibilità si troverà da solo a dovere gestire tutti
i dati e le informazioni che gli vengono riversate addosso,
aumentando la probabilità di rimanere vittima dei propri
errori comportamentali.
2.5
LA CONSULENZA FINANZIARIA
Negli ultimi anni la consulenza finanziaria è stata oggetto di un riesame da parte di regolatori e intermediari in seguito al recepimento della Direttiva MiFID, che
ha ricondotto la consulenza in materia d’investimenti
nell’ambito dei servizi d’investimento. Da un punto di
vista normativo la consulenza si qualifica come un servizio d’investimento quando è personalizzata, vale a dire è
proposta a una persona nella sua qualità d’investitore. La
consulenza in materia d’investimenti deve riferirsi a uno
o più specifici strumenti finanziari: se il suo oggetto si limita alle “classi” di strumenti finanziari, come nel caso
della semplice asset allocation, si parlerà di “consulenza
generica”. La consulenza generica, pur non essendo un
servizio d’investimento, è disciplinata in via indiretta dalla MiFID laddove la Direttiva precisa che se la consulenza
generica rientra in un’attività preparatoria e strumentale
alla prestazione del servizio di consulenza in materia d’investimenti, essa deve essere considerata parte integrante
del servizio d’investimento.
La finanza comportamentale, dimostrando che il comportamento degli investitori tende a divergere sistematicamente dalle logiche ottimali prefigurate dalla finanza
classica, fornisce un importante supporto al principio che
la consulenza può essere un servizio a reale valore aggiunto per gli investitori, in cui il ruolo del consulente è essenziale e non può essere sostituito dall’automatizzazione del
processo. Se, infatti, le scelte degli investitori divergessero
da quelle ottimali suggerite dalla teoria finanziaria semplicemente perché essi non dispongono di informazioni,
conoscenze tecniche e tempo necessari per elaborare le
politiche d’investimento, sarebbe sufficiente fornire proposte d’investimento adeguate per il profilo dell’investitore. Al più si tratterebbe di spiegarle in modo comprensibile
alla luce della cultura finanziaria dell’investitore. Tuttavia,
15 Aprile 2011
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rendimento. Solo l’intervento e la mediazione di un consulente preparato, capace di cogliere la ricchezza delle
sfumature psicologiche e del vissuto dell’investitore,
possono aiutare l’investitore a ridurre la discrepanza tra
le scelte “ottime” e quelle verso cui è più naturalmente
predisposto. Con queste premesse, la consulenza si configura come un’attività “prescrittiva”, in contrapposizione a due approcci alternativi, che potremmo definire
“normativo” e “descrittivo”.
Se il consulente sposa l’impostazione normativa, cercherà di convincere l’investitore ad adattare le sue preferenze a quelle razionali che portano a definire il portafoglio
ottimale. Se, invece, il consulente adotta un’impostazio-
Gli errori cognitivi possono essere corretti o attenuati dal
consulente usando argomentazioni “oggettive” fondate
sull’evidenza empirica. Ad esempio, a un investitore che
considera di fatto impossibili eventi rari, il consulente può
rispondere predisponendo un elenco di eventi che si sono
verificati pur essendo stati trascurati o sottovalutati anche
dagli operatori più qualificati.
È invece più difficile correggere gli errori di preferenza
perché meno sensibili sia al ragionamento astratto che
all’evidenza empirica. Un investitore che manifesta una
forte avversione alle perdite troverà tendenzialmente poco
plausibile una misura di rischio basata sulla volatilità dei
rendimenti attesi, che è sottesa alla maggior parte dei modelli finanziari.
Da queste considerazioni si può trarre una prima indicazione da seguire per attuare l’approccio prescrittivo alla
consulenza finanziaria:
“
- quando la divergenza tra le preferenze del cliente e l’investimento ottimale è attribuibile soprattutto a errori
cognitivi, il consulente deve cercare di correggere gli
errori in modo da spingere l’investitore verso il portafoglio ottimale;
UN BRAVO CONSULENTE
U
PUÒ
U
FORNIRE UN
U AIUTO
U
FONDAMENTALE
PER EVITARE GLI ERRORI NEL
PROCESSO D’INVESTIMENTO
”
ne descrittiva, tenderà ad assecondare il più possibile
le preferenze dell’investitore. Il consulente che adotta
l’impostazione prescrittiva cerca, per quanto possibile, di contemperare gli aspetti divergenti di queste due
prospettive estreme, tenendo presente che ciò richiede
di capire su quali meccanismi psicologici e percettivi si
può agire per ridurre gli errori nei quali l’investitore solitamente incorre.
Le divergenze tra il comportamento effettivo e quello razionale possono essere riconducibili a due fattori:
- errori cognitivi o euristiche: derivano dai limiti cognitivi della nostra mente, che affronta i problemi
semplificandoli, filtrandoli ed elaborandoli in modo
imperfetto;
- effetti di framing: derivano dalla struttura delle preferenze che non coincide con quanto ipotizzato nella teoria finanziaria classica.
48
- quando prevalgono gli errori di preferenza, il consulente deve tendenzialmente adattare le proposte alle preferenze del cliente.
L’attività del consulente deve tenere conto anche del fatto
che la soddisfazione dell’investitore non dipende semplicemente dall’entità del suo patrimonio ma, come è dimostrato dalla teoria del prospetto, dai guadagni o perdite
rispetto a un punto di riferimento che dipende dalle aspirazioni e dagli obiettivi dell’investitore. È utile al riguardo introdurre il concetto di status, inteso come punto di
riferimento non solo economico finanziario, ma anche di
prestigio personale e sociale che un investitore si pone. Si
può sostenere che un cliente è soddisfatto dei suoi investimenti se percepisce che lo aiutano a migliorare o almeno
a preservare lo status che si è dato. Il consulente dovrebbe
pertanto spingere l’investitore verso investimenti che facilitino il conseguimento dei suoi obiettivi di status. In certe
circostanze, tuttavia, l’investitore può manifestare bisogni
di status che sono in contrasto con le prospettive del mer-
Capitolo 2
cato e le sue caratteristiche personali. Ad esempio, un investitore che vuole inseguire i fasti e i successi di un amico o
un parente potrebbe essere indotto a effettuare investimenti
rischiosi per spirito di emulazione. Ciò è pericoloso soprattutto quando la sua posizione patrimoniale non è particolarmente solida. Il consulente non deve però dimenticare
che, poiché gli investitori sono sensibili ai guadagni e alle
perdite rispetto a un punto di riferimento (che corrisponde
allo status desiderato), gli investitori facoltosi possono subire pesanti contraccolpi psicologici anche quando l’entità
delle perdite non erode in modo significativo il patrimonio.
Gli atti di un processo che ha coinvolto Larry Ellison, fondatore e amministratore delegato di Oracle, forniscono
un esempio illuminante di tale principio. Larry Ellison è
uno degli uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio
personale stimato quasi 30 miliardi di dollari. Nel corso di
un processo promosso contro Ellison all’inizio degli anni
Duemila è emerso, da un lato, il suo stile di vita molto dispendioso, potenzialmente in grado di minare la solidità
patrimoniale dell’imprenditore se le sue fortune industriali
si fossero incrinate. Dall’altro, sono emerse un’attenzione
e una preoccupazione per le sorti dei propri investimenti
finanziari che, sebbene corrette in linea di principio, sono
apparse sproporzionate per l’enfasi emotiva che richiamavano, alla luce del patrimonio e delle faraoniche spese
personali dell’imprenditore. Il suo consulente finanziario,
ad esempio, gli scriveva: “Io so che questa e-mail ti deprimerà. Comunque, io credo che il mio lavoro consista
nell’affrontare problemi che tu preferiresti evitare. Anni fa
mi hai detto che per te era corretto discutere insieme trimestralmente la “questione della diversificazione”. Bene, è
quello che sto facendo ora. Considera questa e-mail come
una chiamata alle armi”.
Queste considerazioni permettono di individuare le fasi essenziali di un’attività di consulenza che cerchi di applicare
l’approccio prescrittivo delineato dalla finanza comportamentale. In primo luogo il consulente deve passare al
vaglio di una “verifica di status” che esamina le caratteristiche che l’investimento finanziario dovrebbe possedere
per assicurare all’investitore lo status desiderato. Lo status
riassume sia obiettivi strettamente economico-finanziari,
che di prestigio e di autostima. Se lo status desiderato
non è coerente con prospettive ragionevoli dei mercati, il
consulente deve cercare di agire sulle aspirazioni dell’inve-
“
LE PERDITE PRODUCONO CONTRACCOLPI
L
PSICOLOGICI
L
ANCHE QUANDO NON
INTACCANO SIGNIFICATIVAMENTE
L RICCHEZZA
LA
”
stitore, evitando di assecondarle pedissequamente. Non è
raro che le aspirazioni siano irragionevoli in conseguenza
di errori studiati dalla finanza comportamentale, quali:
iper-ottimismo, overconfidence, euristica della rappresentatività. In questi casi un’azione capace di correggere questi errori dovrebbe riportare le aspirazioni dell’investitore
in un ambito di maggiore ragionevolezza. Viceversa, se il
consulente non riuscisse a ripristinare la coerenza tra status e scenario finanziario, dovrebbe, se non abbandonare
il cliente, quantomeno esporre chiaramente e senza mezzi
termini le proprie perplessità.
In secondo luogo il consulente deve tenere presente che la
maggiore parte degli investitori non è naturalmente propensa a sposare spontaneamente le scelte ottimali suggerite dai modelli finanziari: egli deve capire quali sarebbero le
conseguenze del disallineamento tra le naturali preferenze
dell’investitore (che definiscono il portafoglio preferito) e
le indicazioni fornite dai modelli finanziari (che definiscono il portafoglio ottimale).
La figura seguente riassume i diversi possibili incroci che
possono verificarsi.
Coerenza tra status
e portafoglio ottimale
BASSA
ALTA
BASSA
A
B
ALTA
C
D
Coerenza tra status
e portafoglio preferito
CASO A
Questo incrocio corrisponde alla premessa che è stata
fatta all’attività di consulenza, descrivendo come com-
49
49
portarsi in caso di aspirazioni irragionevoli alla luce delle
prospettive dei mercati.
CASO B
Il portafoglio ottimale è coerente con le aspirazioni dell’investitore, il quale tuttavia è propenso a preferire investimenti che lo allontananerebbero dalla possibilità di raggiungere
i suoi obiettivi. L’investitore è vittima di errori o equivoci che
gli potrebbero costare caro. Il consulente deve intervenire
con decisione, al limite cercando di modificare anche errori
di preferenza, perché è la situazione in cui il suo ruolo è in
assoluto più importante: infatti esistono politiche d’investimento coerenti con il bisogno di status dell’investitore che,
tuttavia, sbaglierebbe strada se lasciato da solo.
CASO C
Mentre il portafoglio preferito è coerente con lo status
desiderato, non lo è il portafoglio ottimale. Non avrebbe senso considerare questa eventualità se gli individui
si comportassero secondo i criteri di razionalità previsti
“
UN CONSULENTE
U
DEVE SAPERE
INDIVIDUARE
U
GLI ERRORI CHE
POSSONO INTACCARE IL FUT
UTURO
BENESSERE DEL CLIENTE
”
dalla teoria finanziaria classica. In questo caso infatti il
portafoglio ottimo è per definizione quello che meglio
soddisfa i bisogni (razionali) dell’investitore. Un esempio
tipico è rappresentato dalla persona che allo stesso tempo investe prudentemente la maggior parte del patrimonio e compra in via residua attività speculative: secondo
la teoria classica, questa condotta sarebbe in genere non
ottimale e intrinsecamente contraddittoria. A ben vedere
però essa permette all’investitore di alimentare la speranza di ottenere alti rendimenti, magari di dare una svolta
radicale alla sua condizione, o più semplicemente significa
semplicemente potersi cullare nella speranza di essere baciati dalla fortuna. Se tutto ciò non mette a repentaglio il
benessere patrimoniale dell’investitore (la quale cosa è assicurata della coerenza tra status e portafoglio preferito), il
50
consulente potrebbe assecondare un simile orientamento.
CASO D
Il bisogno di status e le aspirazioni del cliente sono soddisfatte sia dal portafoglio preferito che quello ottimale.
Quest’ultimo tuttavia è definito usando modelli finanziari
che ottimizzano il compromesso tra rischio e rendimento
o minimizzano i costi: il consulente deve cercare di intervenire sugli errori cognitivi più facilmente influenzabili,
tenendo comunque presente che non ha senso forzare
troppo gli orientamenti dell’investitore se questo mostra
delle resistenze.
Sebbene la finanza comportamentale legittimi l’utilità della consulenza finanziaria, anche quando non promette extra rendimenti rispetto al mercato, non è scontato che essa
in concreto permetta di raggiungere gli obiettivi desiderati.
In primo luogo non si può trascurare che gli errori di ragionamento e di preferenza sono comuni a tutti gli individui,
consulenti compresi: una maggiore cultura finanziaria e la
pratica quotidiana dei mercati possono sviluppare importanti antidoti verso gli errori tipici degli investitori, ma non
sono una garanzia assoluta. Inoltre è documentato che i
soggetti più esposti agli errori studiati dalla finanza comportamentale sono spesso anche quelli che non ricorrono
ai servizi di consulenza. Infine la struttura organizzativa e
il sistema remunerativo dell’industria dei servizi d’investimento possono a volte determinare un disallineamento tra
gli interessi del cliente e quelli del consulente, anche se si
è verificato un importante passo in avanti verso una maggiore trasparenza del rapporto in seguito al recepimento
della Direttiva MiFID.
In concreto le analisi empiriche che analizzano l’impatto della consulenza sul comportamento degli investitori
sono giunte a risultati non sempre univoci, che sembrano dipendere anche dal Paese e dall’assetto regolamentare che si sta considerando. Mentre in alcune circostanze
emerge che gli investitori seguiti da un consulente sono
meno soggetti agli errori comportamentali e ottengono un
migliore profilo di rischio e rendimento, un recente studio
sul mercato tedesco arriva a conclusioni opposte. L’analisi
del caso italiano mostra che la consulenza è positivamente
legata all’entità del patrimonio e all’avversione al rischio,
mentre non dipende dal livello di educazione finanziaria.
Capitolo 2
Gli investitori seguiti da un consulente detengono portafogli più diversificati tra le diverse classi d’investimento,
anche se nel complesso assumono più rischi in conseguenza soprattutto di una maggiore incidenza di prodotti del
risparmio gestito e polizze a contenuto finanziario.
2.6
LA PREVIDENZA INTEGRATIVA
La pianificazione finanziaria risulta di estrema importanza per riuscire a far fronte alle spese più significative
che si possono prospettare nell’arco della vita, legate ad
esempio alla costruzione della propria famiglia, all’acquisto della casa, al mantenimento dei figli, ma anche
a eventi imprevisti e negativi come i problemi di salute.
Solo attraverso un’adeguata programmazione si può far
fronte con relativa certezza a tutte queste evenienze senza
rinunciare a un adeguato tenore di vita una volta arrivati
all’età della pensione.
Le scelte previdenziali sono ancor più rilevanti se si pensa
che il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, il ridimensionamento della previdenza sociale e
il contestuale necessario incremento del ricorso a quella complementare, hanno spostato nella mani (o ancora
meglio nelle menti) dei singoli il compito di pianificare
il proprio futuro. Questo passaggio di responsabilità dal
pubblico al privato presuppone che gli individui siano in
grado di decidere al meglio per sè. Mentre questa è l’ipotesi chiave dell’approccio tradizionale alla finanza, quello
comportamentale ha ampiamente dimostrato che purtroppo ciò non corrisponde alla realtà.
Numerose indagini mostrano come gli individui non siano abili nel programmare il proprio futuro, o addirittura
non vogliano farlo. Pianificare il proprio futuro è difficile,
oltre a implicare spesso rinunce nel presente.
Le evidenze che riguardano i Paesi con sistemi di previdenza sociale limitati sono disarmanti e mostrano che
molti individui non riescono a mantenere un livello di
vita soddisfacente una volta in pensione, a causa di un
livello di risparmio inadeguato.
I motivi di questa insufficiente accumulazione a fini previdenziali sembrano derivare da due principali cause.
La prima risiede nel fatto che gli errori cognitivi come
l’eccessivo ottimismo o l’overconfidence (eccesso di sicurezza) portano da un lato a sottostimare la probabilità di
eventi negativi e costosi (come ad esempio le malattie) e
dall’altro a sovrastimare le capacità reddituali future. La
seconda è che l’utilizzo di euristiche decisionali per gestire la complessità delle variabili da considerare nella
pianificazione pensionistica induce a commettere errori.
È allora fondamentale capire come gli errori comportamentali impattino sulle decisioni previdenziali e come
correggere tali distorsioni.
A questo scopo, come sopra menzionato, è fondamentale il contributo dell’educazione finanziaria. Da sola,
tuttavia, essa non è in grado di eliminare gli errori comportamentali degli individui, anche se è attuata tenendo
conto dei dettami della finanza comportamentale. Infatti,
come spiega lo stesso approccio comportamentale, non è
sufficiente conoscere i concetti necessari al debiasing (eliminazione degli errori di comportamento), ma servono
procedure e allenamento che l’investitore deve ripetere in
continuazione.
“
GLI INVESTITORI NON SONO
ABILI NEL PROGRAMMARE
IL PROPRIO FUTURO
”
Spesso, nella realtà, gli individui non hanno sufficiente
forza di volontà per operare scelte che potrebbero eliminare o almeno limitare gli effetti negativi degli errori
comportamentali, ma che sono costose. Uno dei problemi
che spingono gli individui a non risparmiare abbastanza
risiede nel fatto che le persone tendono a dare maggiore
importanza ai consumi correnti rispetto a quelli futuri.
Una possibile causa di questo atteggiamento potrebbe
essere la mancanza di auto-controllo. È dunque possibile
che non si tratti tanto di non sapere quanto dover accontonare per avere una pensione dignitosa, ma piuttosto
che il risparmiare di più impone di consumare di meno
oggi. Anche sapendo quale sarebbe il giusto ammontare
da accantonare, la mancanza di volontà spinge a posticipare la decisione del risparmio a favore del consumo
corrente, che ha il vantaggio di fornire una gratificazione
51
51
immediata. Si tratta dunque di un errore cognitivo che
riguarda la percezione del valore dei consumi nel tempo
che si acuisce più vicina è la gratificazione.
Le scelte previdenziali sono soggette allo status quo bias
in quanto caratterizzate da diversi elementi di complessità tecnica, ma anche dal fatto che riguardano un futuro
molto lontano e dunque incerto. L’inerzia si estrinseca
dunque nel fatto che le persone tendono a posticipare l’adesione a piani di previdenza complementare.
La procrastinazione porta dunque all’inazione, a una
forma di inerzia nota come status quo bias la quale sembra essere causata dell’avversione alle perdite. Si preferisce dunque non abbandonare la condizione attuale per
paura delle possibili conseguenze negative associate al
cambiamento.
La paura del cambiamento aumenta con l’incertezza
e, di conseguenza, la forza dello status quo bias cresce
quando vi sono più alternative tra cui scegliere. Questo
“
L’INERZIA INDUCE LE
L PERSONE
A POSTICIPARE L’ADESIONE A PIANI
DI PREVIDENZA COMPL
PLEMENTARE
”
fenomeno si configura come un sovraccarico di scelte
possibili al pari di quello che gli individui affrontano
davanti a troppa informazione. La conseguenza è che,
avendo troppe opzioni a disposizione, si tende a scegliere quella più comprensibile, anche se non necessariamente migliore. Addirittura, questo eccesso di opzioni
ha spinto alcuni lavoratori statunitensi alle prese con
troppi linee di investimento previdenziale tra cui optare, non solo a non scegliere, ma addirittura a decidere di
non partecipare a tali piani.
Anche l’operare delle euristiche decisionali è causa di
inerzia. In contesti complessi, l’euristica più semplice per
decidere è quella di non fare nulla, di non decidere, di accettare la scelta che è stata fatta da qualcun altro.
L’ancorarsi allo status quo ha effetti in molteplici situazioni in ambito finanziario. Ad esempio, anche nel caso le
condizioni applicate sul conto corrente o sul portafoglio
titoli peggiorino, risulta particolarmente difficile cam-
52
biare banca. Ciò può incentivare gli intermediari a sfruttare questa inerzia a loro vantaggio, offrendo condizioni
particolarmente vantaggiose, ma per un tempo limitato.
Gli investitori saranno inizialmente attratti, ma successivamente non riusciranno a chiudere la posizione, anche
quando le condizioni saranno peggiorate.
L’inerzia decisionale può essere anche utilizzata per aiutare gli investitori, a condizione che si scelga un’opzione
di base che vada nel loro interesse. Se si ritiene ad esempio che, dato che in generale le persone non risparmiano
a sufficienza per la pensione, sia nel loro interesse iscriversi a un piano di previdenza privato e integrativo, allora si potrà istituire per legge l’adesione automatica dei
lavoratori a questi piani, lasciando ovviamente la possibilità di decidere altrimenti e di abbandonare il piano, ma
tramite un’azione esplicita. Il fatto di dovere attivarsi per
abbandonare la scelta di default tipicamente fa sì che le
persone, per inerzia, non lo facciano e rimangano all’interno del piano di previdenza complementare.
Si istituisce dunque un’iscrizione automatica, con un
meccanismo di silenzio assenso. Tipicamente, i sistemi di
iscrizione automatica aumentano sensibilmente il tasso
di adesione ai piani di previdenza complementare. Tuttavia, la previsione di un’opzione di base per tutti gli iscritti
non sempre sortisce effetti positivi.
Ad esempio, con riferimento ai piani previdenziali privati statunitensi, si è purtroppo constatato che l’opzione
di default creava problemi riguardo il tasso di contribuzione, ossia quanto si accantonava nel piano stesso.
Ovviamente, da questa decisione dipende in larga misura quale sarà il benessere in futuro del lavoratore. Nei
piani previdenziali considerati, il tasso di contribuzione
previsto era pari al 3%, un tasso abbastanza basso. Tale
previsione nasceva dalla considerazione che i lavoratori
con gli stipendi più bassi avrebbero potuto avere difficoltà nel contribuire maggiormente. Tuttavia, la scelta
del 3% non era ottimale: sarebbe infatti stato razionale per il lavoratore un tasso di contribuzione doppio in
quanto fino al 6% il datore di lavoro era tenuto a versare
esattamente quanto versato dal lavoratore, andando a
incrementare i fondi nel piano previdenziale. Se cioè il
lavoratore versava il 3% e l’azienda la stessa percentuale,
il tasso di contribuzione complessivo sarebbe risultato
il 6%. Se invece il lavoratore avesse deciso di versare il
Capitolo 2
6%, dato che l’azienda avrebbe dovuto fare lo stesso, il
tasso di contribuzione complessivo sarebbe salito al 12%.
Complessivamente, dunque, se il lavoratore avesse aumentato il suo tasso di contribuzione di un ammontare
pari al 3% (dal 3% previsto nell’opzione di base al 6%),
quello complessivo sarebbe aumentato del 6% (dal 6% al
12%). Tuttavia, l’evidenza ha mostrato che, a causa dello
status quo bias, la maggioranza dei lavoratori rimaneva
ancorata al 3%, ossia all’opzione predeterminata.
La differenza nel livello di contribuzione iniziale è assolutamente rilevante se si pensa che l’ammontare investito
viene capitalizzato per un numero di anni molto elevato.
La mancata percezione da parte degli individui dell’effetto della capitalizzazione dei rendimenti nel tempo contribuisce sicuramente a minimizzare la differenza tra i tassi
di contribuzione iniziali.
Se da un lato dunque lo status quo bias spiega il successo
dell’iscrizione automatica ai piani di previdenza complementare, esso rappresenta anche la causa del basso livello
di contribuzione. Il problema assume più rilevanza se si
pensa alle conseguenze sistemiche. Se infatti da un lato i
programmi di iscrizione automatica riescono ad “arruolare” quei lavoratori che probabilmente non avrebbero
adottato un piano di previdenza complementare (a causa
ad esempio del basso livello di reddito), dall’altro abbassano il livello di risparmio di chi invece si sarebbe comunque iscritto a questi piani, ma che per inerzia rimane
ancorato al tasso di contribuzione troppo conservativo
previsto dall’opzione di default.
Il problema legato al tasso di contribuzione, purtroppo,
non è il solo collegato allo status quo bias. Sempre con
riferimento ai piani previdenziali statunitensi, si è riscontrato che, una volta iscritti, i lavoratori tendevano a
mantenere l’asset allocation decisa inizialmente, anche a
distanza di anni e a seguito del mutare delle condizioni
di mercato. Tale allocazione, a causa dell’inerzia sopra
descritta, spesso coincideva con quella proposta dall’opzione di default che prevedeva l’investimento in titoli
del mercato monetario per limitare la rischiosità degli
investimenti e “tutelare” i lavoratori. Tuttavia, questa
non necessariamente è la scelta migliore. Un’asset allocation troppo conservativa può, infatti, danneggiare il
lavoratore negli anni di rialzo del mercato azionario. È
vero che, al contrario, potrebbe proteggerlo in quelli al
ribasso, ma data l’evidenza storica per la quale gli anni
al rialzo sono in media i due terzi del totale, avendo a
disposizione un orizzonte di investimento medio-lungo
sarebbe auspicabile prevedere una quota azionaria consistente per ottenere un maggiore rendimento in futuro.
Non tutti i lavoratori che entrano in un piano di previdenza integrativa hanno un orizzonte così lungo, alcuni al
contrario potrebbero essere vicini alla pensione o entrare
in un momento in cui le prospettive dei mercati azionari
non sono delle più rosee. In questo caso, sarebbe sicuramente saggio prevedere un’asset allocation più prudente.
A maggior ragione, dunque, il lavoratore che entra in un
piano previdenziale complementare non deve accettare
in maniera incondizionata quanto previsto dall’opzione
di default. In questa direzione vanno ad esempio i piani
previdenziali cosiddetti lifecycle (ciclo di vita), nei quali
la quota azionaria descresce man mano che ci si avvicina
alla pensione.
“
I PIAN
I NI PREVI
V DENZI
ZIAL
LI LI
L FECYCLE
AIUTANO GLI
A
L INVESTI
TITOR
RI
AD ADEGUARE L’ASSET ALLOCATI
T ON
AL CAMBIAMENTO
I
DI ETÀ
”
Oltre allo status quo bias, la scelta di non alterare l’asset
allocation prevista nell’opzione di base del piano previdenziale potrebbe essere dettata, soprattutto per i lavoratori con minor cultura finanziaria, dalla tendenza a
credere che quanto previsto a livello collettivo sia la scelta
migliore possibile. Inoltre, si potrebbero innescare comportamenti imitativi per i quali si tende a seguire quello
che fanno gli altri. Se la maggioranza dei lavoratori, tuttavia, non ha un grado sufficiente di conoscenze finanziarie, potrebbe accadere che molti si adeguino alla massa e
risparmino troppo poco a fini previdenziali.
Inoltre, questi individui difficilmente modificheranno il
tasso di contribuzione nel tempo, anche se troppo basso,
a causa dell’inerzia già descritta. Se questo problema vale
in generale, la procrastinazione e l’avversione al cambiamento possono essere pericolose anche in una situazione
diametralmente opposta.
53
53
Si pensi ad esempio a un lavoratore che invece avesse deciso un’asset allocation più aggressiva perchè entrato in
un momento di mercati azionari in forte rialzo. Il pericolo è che egli, per inerzia, non riduca la quota investita in
azioni anche a seguito di un’inversione dei mercati.
Nelle scelte sulle possibili riallocazioni di portafoglio agisce inoltre l’errore di “ancoraggio”, che fa sì che si decida
prendendo l’allocazione iniziale come punto di riferimento. Se questa è l’ancora mentale rispetto alla quale
si prendono le decisioni, è allora possibile che l’effetto
di disposizione spinga a mantenere l’allocazione iniziale,
anche se più rischiosa, per evitare di incassare perdite.
Un’evidenza simile si è riscontrata a seguito della recente
crisi finanziaria e ha suscitato accese polemiche sui fondi
pensione complementari che avevano adottato linee di
gestione più aggressive. Si ricordi, tuttavia, che è possibile passare da una linea di gestione all’altra con costi
di switch tipicamente molto contenuti. È dunque spesso
colpa del singolo lavoratore il mancato passaggio a linee
di investimento più prudenti. Tuttavia, un basso livello di
educazione finanziaria associato agli errori cognitivi sopra descritti fa sì che il singolo individuo, se lasciato solo,
commetta errori nella gestione del proprio risparmio.
Ad esempio, sempre con riferimento all’asset allocation
scelta all’interno dei piani di previdenza integrativa, le
evidenze statunitensi sopra menzionate segnalano che
gli individui tendono a diversificare il portafoglio titoli
in maniera che non corrisponde ai dettami della finanza classica. In particolare, dato un certo numero di linee
d’investimento proposte dal piano, molti lavoratori tendevano a suddividere equamente i loro fondi tra queste
alternative. Questo è un tipico esempio di un’euristica decisionale nota come “1/n” o “diversificazione naive” per
la quale, in condizioni di incertezza causata da molteplici
scelte, nel dubbio si opta per considerarle in quote uguali.
È ormai nota la posizione di Harry Markowitz, premio
Nobel per l’economia e padre della moderna teoria di
portafoglio, che nel prendere la sua scelta previdenziale
aveva seguito esattamente questa euristica investendo
metà in azioni e metà in obbligazioni, al fine di minimizzare il suo rammarico futuro. Se avesse infatti investito al
100% in azioni e i mercati azionari avessero subito forti
ribassi avrebbe rimpianto di non aver investito in obbligazioni e viceversa in caso di decisione opposta e mercati
54
al ribasso. Non è solo il potenziale rammarico a far sì che
i lavoratori diversifichino in modo naive, ma anche gli effetti di framing (la cornice nella quale si inquadra la decisione), ossia il numero di linee di investimento proposte
nel piano previdenziale. Non è dunque la propensione
al rischio del singolo lavoratore a decidere l’allocazione
di portafoglio, bensì la modalità di presentazione delle
diverse opzioni.
Un’altra evidenza molto riscontrata nella pratica fa riferimento al già citato home bias, ossia alla tendenza a
investire nei titoli maggiormente conosciuti o familiari.
Con riferimento ai piani previdenziali, molti lavoratori inseriscono all’interno del proprio portafoglio i titoli
dell’azienda per cui lavorano. Occorre sottolineare come
sia possibile che questi titoli facciano parte di pacchetti
remunerativi e che dunque la loro inclusione nel portafoglio dei lavoratori non sia una scelta del lavoratore stesso.
“
GLI INVESTITORI SONO POCO
PROPENSI AL RISPARMIO
PREVIDENZIALE PERCHÉ
SOTTOVALUTANO I CONSUMI FUTURI
”
Inoltre, dato che alcune aziende contribuiscono ai piani
previdenziali dei loro lavoratori tramite azioni proprie,
si potrebbe essere portati a pensare che questo tipo di
investimento sia profittevole e dunque essere tentati di
riprodurlo (endorsement effect).
A volte, invece, è il lavoratore stesso a preferire i titoli
della propria azienda per ragioni affettive. Altre volte,
è invece l’euristica della familiarità a portare a investire
nel titolo che si conosce (o si pensa di conoscere) meglio,
pensando di poterne in qualche modo “controllare” l’andamento. Tuttavia, questa “illusione del controllo” accentua i meccanismi che portano all’overconfidence e risulta
costosa nella misura in cui il lavoratore che investe nella
propria azienda aumenta il grado di sotto-diversificazione dovuto al fatto che da essa riceve il proprio stipendio e
che in essa investe il proprio capitale umano. Come molti
crac societari hanno purtroppo dimostrato, questo atteggiamento può risultare estremamente pericoloso.
Capitolo 2
I problemi appena citati sono dovuti ai agli errori (bias)
cognitivi e alle euristiche che gli individui utilizzano nel
prendere decisioni. Tuttavia, i loro effetti più deleteri
sono legati a come viene strutturata l’opzione di default.
È allora fondamentale il lavoro di chi è proposto a disegnare lo schema dei piani previdenziali, al fine di avvantaggiarne gli iscritti.
Un esempio interessante a tal riguardo è rappresentato dai cosiddetti piani SMART, acronimo di Save More
Tomorrow (risparmiare di più domani) e gioco di parole
(smart in inglese significa “intelligente”) per segnalare
la bontà dei piani in questione. Questi piani prevedono
sempre l’iscrizione automatica con la possibilità di uscire
con decisione volontaria ed esplicita, ma anche altri meccanismi che cercano di sfruttare gli errori commessi dai
singoli a vantaggio degli stessi. In particolare, chi entra in
un piano SMART tipicamente lo fa con un tasso di contribuzione relativamente basso che però cresce automaticamente in concomitanza di futuri aumenti di stipendio.
Questa previsione deriva dal fatto che occorre non fare
percepire ai lavoratori i maggiori contributi previdenziali
come una perdita. Se questi invece sono sincronizzati con
gli aumenti salariali, il lavoratore non vedrà alcuna riduzione nello stipendio netto. Oltre a evitare le conseguenze
negative dell’avversione alla perdita, questo meccanismo
permette di aggirare la miopia tipica degli investitori e la
loro preferenza per il consumo corrente rispetto a quello futuro. Se gli individui sono dunque poco propensi al
risparmio perchè sottovalutano i consumi futuri, al tempo stesso tenderanno a sottostimare altre decisioni che
riguardano il futuro, compresi i vincoli autoimposti. È allora possibile sfruttare questo atteggiamento per spingere i lavoratori a concordare maggiori contributi in futuro
purchè corrispondenti ad aumenti di stipendio. In altri
termini, il vincolarsi a qualche “sacrificio” in futuro pesa
meno perchè permette un livello di contribuzione iniziale
basso e dunque meno rinunce.
È tuttavia importante che la strategia del piano sia chiara
al lavoratore, come devono essere chiare le linee di investimento proposte e quale sia la migliore per ottenere gli
obiettivi previdenziali che si vuole raggiungere.
Le evidenze a disposizione sui piani SMART sono incoraggianti in quanto sembrano in grado di risolvere i problemi collegati all’iscrizione automatica e all’ancoraggio
a opzioni di default troppo conservative sia da un punto
di vista del tasso di contribuzione che da quello dell’asset
allocation iniziale.
Questo tipo di piano permette infine di evitare soluzioni
drastiche come l’imposizione di piani pensionistici obbligatori che non prevedano la possibilità di uscita. Queste scelte, apparentemente risolutive, in passato hanno
fatto registrare una diminuzione generalizzata del tasso
di risparmio dedicato a fini pensionistici e sono dunque
sconsigliabili.
I piani SMART sono solo una delle possibili scelte operabili nella pratica, ma forniscono un ottimo esempio di
come è possibile strutturare le opzioni previdenziali per
favorire i partecipanti al piano stesso. Ovviamente, se tutti gli individui decidessero di sottoscrivere piani di questo
tipo, il risultato sarebbe quello di aumentare il risparmio
dedicato ai fini previdenziali non solo a livello individuale, ma sistemico con effetti positivi per i mercati finanziari e l’economia nel suo complesso.
Per questa ragione è importante chiedersi che ruolo debbano avere lo stato o i decisori pubblici in generale nell’aiutare gli investitori nelle loro scelte.
Negli ultimi anni si sta sviluppando una corrente di pensiero denominata “paternalismo libertario”, la quale sostiene che si dovrebbe in qualche modo “guidare” i risparmiatori affinchè essi operino le scelte ottimali che da soli
non sarebbero in grado di perseguire.
La denominazione discende dal fatto che la definizione
delle opzioni di default è prerogativa del decisore pubblico, ma al tempo stesso si lascia agli individui la libertà di
scegliere, garantendo in ogni caso la possibilità di abbondanare l’opzione di base prevista e adottarne un’altra, ma
sempre con una scelta esplicita.
Questa posizione appare interessante perchè rappresenta
una via di mezzo tra l’approccio liberista supportato dalla finanza tradizionale, ma smentito dai fatti, e quello di
paternalismo autoritario che prevede un intervento massiccio dello Stato e che ha fallito in più occasioni. Secondo questo approccio si dovrebbe dare all’investitore una
“spinta” (nudge) nella direzione giusta, senza costringerlo
o vincolarlo a una determinata soluzione, ma neanche lasciandolo solo di fronte a decisioni spesso troppo complesse. Ciò spiega il successo di iniziative di paternalismo
libertario, soprattutto in ambito previdenziale, come quel-
55
55
le adottate recentemente in Nuova Zelanda, Regno Unito
e Stati Uniti. Sembra dunque giunta anche per l’Italia l’ora
di considerare questa nuova impostazione in ambito previdenziale, soprattutto in seguito alle modifiche legislative
che hanno cercato di spingere, negli ultimi anni, verso un
maggior utilizzo della previdenza complementare.
2.7
IL RISPARMIO GESTITO
Si può essere indotti a ritenere che, poiché nel risparmio
gestito l’investitore delega la gestione a un intermediario, i tipici errori studiati dalla finanza comportamentale
siano meno insidiosi. Ciò è vero solo in parte, perché nel
processo di scelta del prodotto e del gestore si ripresentano i tipici problemi che caratterizzano in generale le
decisioni d’investimento.
I tre principali obiettivi che possono animare l’investitore
che si avvale del risparmio gestito sono:
- ottenere un livello di diversificazione che sarebbe
molto difficile raggiungere attraverso l’investimento
diretto. In questo senso il risparmio gestito permette sicuramente di depotenziare le conseguenze della
scarsa diversificazione, che è uno degli errori d’investimento più frequenti e pericolosi. Anche se limitasse
a un solo fondo d’investimento, l’investitore otterrebbe una diversificazione migliore della maggior parte
dei portafogli investiti direttamente in titoli;
- avvalersi di competenze professionali per migliorare
le decisioni d’investimento, nella consapevolezza di
non avere il tempo, la preparazione e le informazioni
necessarie per gestire direttamente il portafoglio;
- avvalersi di competenze professionali per ottenere
extra rendimenti positivi rispetto al mercato.
La ricerca empirica sul comportamento degli investitori
in fondi comuni e prodotti similari ha documentato che
ricorrono alcuni errori sistematici.
Il primo problema riguarda i costi: gli investitori prestano più attenzione agli oneri che pagano direttamente
rispetto a quelli che gravano sul fondo. Tra questi ultimi,
56
inoltre, ricevono maggiore attenzione le commissioni di
gestione rispetto alle altre spese operative. Ciò porta ad
alcune conseguenze in palese contrasto con l’ipotesi di
efficienza allocativa del mercato:
- la relazione negativa tra commissioni d’ingresso e raccolta dei fondi si rovescia quando si considerano tutti i
costi operativi, probabilmente perché alcuni di questi
costi sono connessi a efficaci campagne distributive e
di comunicazione;
- gli investitori potrebbero ragionevolmente pensare che i costi siano positivamente legati anche alla
qualità della gestione del fondo. Se si considerano
tuttavia fondi indicizzati a benchmark dovrebbe essere chiaro che l’investitore dovrebbe puntare alla
minimizzazione dei costi a suo carico, direttamente
o indirettamente. L’esempio dei fondi americani indicizzati al benchmark S&P 500, smentisce questa
supposizione. I costi dei fondi indicizzati sono mediamente bassi (i costi totali medi sono lo 0,444%
del patrimonio), ma le disparità tra i fondi sono
consistenti. Il fondo con le spese minori, ad esempio, si assesta sullo 0,06%, mentre quello con le
spese maggiori raggiunge l’1,35%. La performance
rispetto al benchmark dei fondi indicizzati è facilmente prevedibile e condizionata soprattutto dai
costi: cionondimeno la relazione tra la raccolta e
i costi dei fondi indicizzati è statisticamente debole, dimostrando che molti investitori impiegano
nuove risorse in fondi che a causa della struttura
di costo pesante sono stati poco soddisfacenti in
passato e che, con ogni probabilità, lo saranno anche in futuro.
L’atteggiamento degli investitori verso i costi del risparmio gestito può essere spiegato dall’avversione alle perdite. L’investitore percepisce le commissioni d’ingresso che
paga subito come dei costi, mentre percepisce le commissioni di gestione e gli altri costi a carico del fondo come dei
minori guadagni: questo inquadramento è, inoltre, favorito dal fatto che le commissioni di gestione e gli altri oneri a
carico del fondo sono dedotti dal valore della quota, che è
sempre espresso al valore netto, e non sono sottratti dalla
Capitolo 2
i propri investimenti in modo simmetrico rispetto alla
performance recente dei fondi, la maggioranza si caratterizza per un comportamento asimmetrico che può essere
riconducibile all’effetto di disposizione e alla riluttanza a
realizzare le perdite. Alcune ricerche basate su questionari contribuiscono a spiegare questo fenomeno: gli investitori sovrastimano la performance storica dei fondi che
possiedono, probabilmente per trovare una conferma alla
propria volontà di rimanere nel fondo e ridurre il rammarico causato da eventuali scelte poco felici. In questo caso,
l’ottimismo degli investitori sarebbe riconducibile a una
forma di dissonanza cognitiva: gli individui modificano
e adattano i propri convincimenti ai risultati delle azioni
e delle scelte intraprese, in modo da ridurre il dispiacere.
Il terzo aspetto riguarda lo spostamento tra diverse categorie d’investimento. È documentato che tra gli investitori
tendono a formarsi opinioni condivise circa la profittabilità prospettica delle diverse categorie d’investimento, dando luogo al cosiddetto sentiment che influenza significativamente i flussi netti di raccolta tra le diverse categorie
di fondi. Vi sono diverse evidenze a favore dell’ipotesi che
somma sottoscritta o rimborsata. Poiché l’impatto psicologico dei costi è maggiore di quello dei minori guadagni,
l’investitore finisce per dare relativamente poca importanza alla commissione di gestione e, di fatto, trascurare gli
altri oneri a carico del fondo.
Il secondo aspetto problematico riguarda la ricerca dei
fondi con la migliore performance: gli investitori cercano
i fondi che possano garantire le migliori performance aggiustate per il rischio. Ciò è non solo legittimo, ma anche
auspicabile per il mantenimento di una vitale concorrenza nel settore. Tuttavia, mentre è documentata la tendenza degli investitori a dirigersi verso i fondi con la performance recente più elevata, non vi sono evidenze solide
che dimostrino che gli investitori riescano a selezionare i
fondi che in via prospettica ottengono le migliori performance. Inoltre, la raccolta netta positiva verso i fondi con
la migliore performance recente è più elevata del deflusso
di risorse in uscita dai fondi peggiori: l’impatto della performance storica sulle scelte degli investitori è asimmetrico. Un’analisi approfondita del fenomeno mostra che,
mentre vi è una minoranza d’investitori che movimenta
La relazione tra l’andamento dei mercati e la raccolta dei fondi comuni
50,00%
40,00%
30,00%
20,00%
10,00%
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
1997
1996
1995
1994
1993
1992
1991
1990
1989
1988
1987
1986
1985
-10,00%
1984
0,00%
-20,00%
-30,00%
Raccolta netta fondi
Rendimenti MSCI World
-40,00%
57
57
il sentiment degli investitori individuali sia legato più alla
moda del momento o alla tendenza a seguire il gregge piuttosto che ai fondamentali dell’economia: sovente gli investitori investono nelle diverse classi d’investimento quando i rally positivi stanno finendo, mentre le abbandonano
quando il peggio è passato, ottenendo pertanto rendimenti
decisamente inferiori rispetto a quelli possibili con politiche d’investimento meno umorali. È stato dimostrato, ad
esempio, che il rendimento medio annuo ottenuto dall’investitore in fondi americano nel periodo 1986-2005 è stato
il 3,9%, mentre nello stesso periodo il rendimento dell’indice S&P 500 è stato l’11,9%. Anche i dati sul mercato
italiano mostrano confermano l’incapacità del sentiment
di anticipare i rendimenti di mercato: il grafico seguente
mostra visivamente che i flussi di raccolta e l’andamento di
mercato sono spesso sfasati.
“
IL SENTI
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Una semplice analisi quantitativa basata sulla correlazione chiarisce il punto:
- la correlazione tra la raccolta e l’andamento del mercato nello stesso anno è + 0,28;
- la correlazione tra la raccolta e l’andamento del mercato nell’anno precedente è + 0,57;
- la correlazione tra la raccolta e l’andamento del mercato nell’anno successivo è + 0,02.
Emerge con chiarezza che i flussi di raccolta netta non anticipano i rendimenti di mercato ma li seguono, dimostrando
che contrastare l’inclinazione a seguire le mode può essere
uno dei migliori e meno complicati mezzi per migliorare la
performance degli investimenti. Ciò contribuisce ad avvalorare l’utilità di politiche d’investimento che ricorrono ai
58
Piani di Accumulo (PAC). Da un punto di vista teorico non si
può dimostrare la superiorità di un PAC rispetto agli investimenti in un’unica soluzione. Tuttavia, se si tengono presenti
gli errori e le debolezze che così frequentemente connotano
le decisioni degli investitori, il PAC si dimostra una politica
d’investimento capace di ridurne l’impatto proteggendo l’investitore dalle conseguenze indesiderate. In primo luogo il
PAC abbassa il prezzo medio di carico delle quote sottoscritte
che, secondo la teoria del prospetto, è il punto di riferimento
rispetto cui sono calcolati gli utili e le perdite e da cui dipende
il piacere/dispiacere che si ricava. In termini probabilistici
ciò non significa che è più probabile ottenere un rendimento più elevato investendo con un PAC invece che in un’unica
soluzione: vi possono essere, infatti, sia scenari di mercato
più favorevoli alla prima che alla seconda soluzione. È vero,
invece, che il PAC impone una regola d’investimento decisa
a priori e introduce una disciplina d’investimento da seguire a prescindere dagli umori del momento. Di conseguenza
è come se l’investitore si liberasse dalla responsabilità delle
sue decisioni, con l’effetto di ridurre il rammarico. Se i rendimenti saranno insoddisfacenti o negativi, sarà colpa dell’andamento avverso del mercato, che tra l’altro colpisce tutti gli
investitori, e non dell’investitore che ha deciso di investire
tutto il suo patrimonio nel momento sbagliato. Un ultimo
aspetto da considerare riguarda la capacità degli investitori di valutare appropriatamente le caratteristiche dei fondi,
evitando di farsi influenzare da elementi formali piuttosto
che sostanziali. Numerose ricerche empiriche mostrano,
infatti, che gli investimenti in comunicazione e pubblicità
agiscono favorevolmente sulla raccolta anche quando non
contengono le informazioni che un investitore razionale
dovrebbe richiedere per la scelta consapevole del prodotto.
Una ricerca che ha esaminato il caso di fondi azionari americani che hanno cambiato il proprio nome, scegliendone uno
che si rifaceva agli stili di gestione più in voga nel momento,
ha mostrato che:
- i fondi più propensi a cambiare nome erano
quelli che venivano da un periodo di raccolta netta e
performance scadenti;
- il cambio di nome ha favorito in media un incremento della raccolta del 20%, indipendemente dal fatto che i fondi
abbiano o no cambiato realmente lo stile di gestione.
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61
61
I
15 ERRORI
CLASSICI
DELL’INVESTITORE...
EFFETTI DI
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EURISTICHE
ERRORI COGNITIVI
DENOMINAZIONE
62
DESCRIZIONE
Eccessiva Sicurezza
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63
63
Il lavoro contenuto nel capitolo 2 della pubblicazione
è frutto di un impegno comune tra i due autori.
I singoli paragrafi sono attribuibili come segue:
par. 2.2.1, 2.2.2, 2.4.1, 2.4.2, 2.4.3, 2.6 Enrico Maria Cervellati;
par. 2.3.1, 2.3.2, 2.4.4, 2.5, 2.7 Ugo Rigoni.
UGO RIGONI
Professore Associato
di Economia degli intermediari finanziari
Università Ca’ Foscari Venezia
e Scuola di Studi Avanzati Venezia
ENRICO MARIA CERVELLATI
Professore Aggregato di Finanza Aziendale
Università degli Studi di Bologna
e Luiss Guido Carli di Roma
La presente pubblicazione preparata in occasione del Salone del Risparmio ha carattere puramente informativo e non rappresenta né un’offerta
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in una sua parte, senza la preventiva autorizzazione scritta di Brown Editore S.p.a. Qualsiasi informazione, opinione, valutazione e previsione
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Italian Certificate Awards 2010
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