Ermanno Mazza
Il dono e le Associazioni del dono
Alle radici culturali del progetto Giovani Ambasciatori del Dono
Il tema che voglio richiamare non è legato al dono del sangue, o degli organi o del midollo, e alla loro
urgenza e importanza sociale, agli aspetti medico-scientifici della donazione o alla realtà delle varie
Associazioni.
Vorrei proporvi invece di riflettere su cosa sta dietro (o dentro) a un dono, dietro a ogni donazione, non
solo per verificare se dietro i vari tipi di donazione ci stia una filosofia, una concezione della vita ispirata
agli stessi valori, ma anche per interrogarmi circa il fatto che il dono (e la costellazione dei valori ad
esso collegata) possa essere usato come chiave di lettura dei rapporti umani e dell'esistenza stessa.
Se cioè il donare possa indicare una visione di vita. Vorrei usare il concetto di dono come una lente
particolare per guardare dentro la vita e dentro l'esistenza, nel tentativo di capire se il dono e il donare
siano in grado di offrire un senso più profondo al nostro esistere.
E questo percorso di riflessione, in qualche modo trasversale rispetto alle varie appartenenze
associative, ma che va ben oltre, dovrebbe portarci alla scoperta, per usare un'espressione che ho
utilizzato altre volte, della circolazione, nei singoli e nella società, di un “secondo sangue” (F.
Cacciaguerra), quello dei valori, appunto, che ci spiega anche la donazione del primo sangue, come
spiega ogni altra forma di dono esistente nella società. Che è come dire di andare alla ricerca del
valore simbolico e del senso profondo delle varie donazioni. La riflessione cioè dovrebbe condurci a
considerare che la donazione del sangue, degli organi, del midollo, del cordone, di una parte di noi, del
nostro tempo, sono solo esempi e testimonianze di una dimensione dell'esperienza umana, quella del
donare, che costruisce quotidianamente l'esistenza e le relazioni sociali. E che nutre, perciò, non solo
le centinaia di forme di volontariato organizzato che conosciamo, ma anche i miliardi di relazioni che
circolano nella quotidianità dell'esistenza.
La donazione come simbolo, allora, come rinvio ad un significato ulteriore. Teniamo conto che questo
prefisso greco syn (con) indica sempre qualcosa di corale: sinfonia, sintonia, simpatia, sinergia,
sincronia, sintassi, sinagoga, simbolo, dal greco syn-ballo: unire, tenere insieme, contrassegno; tenere
insieme fatti, eventi e significati. Il suo contrario dia-ballo: attraversare, dividere, separare.
Noi non possiamo vivere senza tenere insieme lo scorrere delle nostre esperienze con dei significati,
quali che siano. La ricerca filosofica ma anche quella linguistica, psicologica, artistica, scientifica, è
dettata dal bisogno-desiderio di verificare i significati presenti in ciascuno di noi e nella nostra cultura
per approfondirli, per allargarli, per superarli o per contestarli.
Quando si parla di dono
Fermiamoci un attimo sull'analisi del linguaggio poiché i termini dono e donazione e il verbo donare
sono polisemici, possono cioè rivestire diversi significati. Attorno al dono si è costruita una parte del
nostro linguaggio e del linguaggio si serve la filosofia, come del resto ogni altra disciplina, per i suoi
approfondimenti.
Alcuni ritengono che il donare sia un'ipocrisia, una falsità poiché nasconde sempre un interesse, una
pretesa di restituzione, un'aspettativa di ritorno. È un modo di pensare molto diffuso, ma appiattito sulla
dimensione mercantile o contrattualistica della nostra vita; dimensione secondo la quale la
motivazione fondamentale che guida l'azione e le scelte degli uomini è quella dell'interesse personale,
del tornaconto, del guadagno e dell'accumulo. Un modo di pensare radicato, antico, ma anche molto
attuale, persistente.
Se assolutizzato, questo modo di pensare ci porterebbe ad affermare che la convivenza e i legami
sociali sono solo il risultato degli intrecci degli interessi e dei calcoli egocentrici dei singoli: non faccio
nulla se non ricevo in cambio nulla. E quindi il fare favori per averne il contraccambio, il distribuire beni
per averne poi una restituzione, il donare per avere qualche vantaggio, diventerebbero l'unica cifra
interpretativa non solo del donare ma dell’intera esistenza.
Per chi utilizza solo questo paradigma stereotipato, come unica chiave di lettura dell’esistenza e delle
relazioni, allora il dono, come lo intendono le Associazioni del dono, gratuito, anonimo, disinteressato, è
poco comprensibile, è una sorta di anomalia, e, allora, si afferma, è un'illusione, un'utopia, una falsità.
Quando il dono è parola
Vorrei spostare il ragionamento su un altro piano rispetto a quello della logica o dell'argomentazione.
Vorrei porre l'attenzione sul dono come linguaggio, come comunicazione. Il dono come messaggio,
come gesto parlante, come modo e forma di comunicazione e quindi sul donare come dimensione
relazionale, come modalità di comportamento, se vogliamo, come scelta di vita. Molte volte, negli
incontri di formazione, ho trattato il tema della comunicazione rifacendomi anche a una teoria
particolare, quella della pragmatica della comunicazione. La teoria assume che la comunicazione è un
comportamento. Non potendovi essere un non-comportamento, ne deriva che noi comunichiamo
sempre anche se sempre troviamo una qualche difficoltà nella comunicazione e nella comprensione
reciproca (la difficoltà di comunicazione è essa stessa, appunto, come comportamento, una
comunicazione).
Il secondo assioma-principio di questa teoria ci stimola a prendere coscienza del fatto che noi non
comunichiamo solo con il linguaggio verbale ma anche con quello non verbale. E cioè coi gesti, col
tono della voce, con le azioni che compiamo o con quelle che non compiamo. Spesso queste
comunicazioni dicono di più del linguaggio verbale, al punto che lo possono rinforzare, confermare o
smentire. "Ti faccio un bel regalo!", detto con un certo tono, può significare esattamente una fregatura.
In termini tecnici si dice che si tratta di una metacomunicazione: una comunicazione sulla prima
comunicazione.
La realtà del dono, nelle sue variegate manifestazioni personali e organizzate, esiste e, con la sua
stessa esistenza, afferma e tiene viva, nel tessuto sociale, la crucialità del riconoscimento della
struttura relazionale dell'esistenza (M. Buber), e, quindi l’importanza della condivisione e della
solidarietà. O, in altre parole, il dono e le donazioni tengono viva l'idea che la specie umana, come
alcuni antropologi hanno sostenuto, non avrebbe potuto sussistere senza il dono e che il dono, per
la società e per il suo futuro è più importante del contratto o dello scambio di interessi o dell'efficienza
tecnica.
Si può parlare di scambio, certo, anche nelle relazioni umane, ma esso può partire dall’idea di
restituzione (ed eventualmente di ringraziamento) e non da quella del contraccambio o dal calcolo dei
vantaggi che se ne possono ricavare. Diceva il grande poeta indiano Rabindranath Tagore “Abbiamo
ricevuto la vita in dono e noi ce la meritiamo donandola”. È lo spirito del dono che si rinnova
continuamente a ricordarci, come vedremo, la misteriosa gratuità della nascita. (M. Mauss, A. Caillé, J.
Godbout). Anche un piccolo gesto pone in essere qualcosa che prima non c’era.
Mi risulta che da quando Erika (la ragazza che insieme a Omar ha ucciso la propria madre e il proprio
fratello) è stata incarcerata, il padre, tutte le settimane, la vada a trovare. Cosa si dicano ovviamente
non so. So però che, se Erika, dalla pena che sta scontando, potrà trarre un qualche senso alla propria
vita, dovrà molto anche a questo padre che invece di ‘mollarla’ al suo destino, settimana dopo
settimana, le dona un po' del suo tempo e della sua attenzione, le dona il riconoscimento, pur
drammatico, della sua esistenza.
Tutti abbiamo bisogno di essere riconosciuti, di contare per qualcuno, di sentirci parte-di, di essere
confermati nel nostro esistere; e da questo bisogno soddisfatto può continuamente nascere e
rinascere la responsabilità (nel senso etimologico del termine: respondeo = rispondere) di riconoscere gli altri, di condividere la vita con gli altri, di restituire parte di ciò che si è ricevuto.
C'è sicuramente uno scambio ma è uno scambio metacomunicativo che non segue sempre o solo la
logica del mercato o del contratto ma quella della ricerca e dell’offerta di significato della relazione, del
proprio esser-ci reciprocamente. Siamo al livello dell'essere non dell'avere, come direbbero diversi
autori.
Dono e relazioni umane
E qui, con riferimento a Martin Buber, tocchiamo il nucleo di ciò che egli chiama la struttura relazionale
dell'esistenza: nella relazione, in fondo, noi cerchiamo e offriamo continuamente il riconoscimento del
nostro esistere, la sua conferma, oppure il suo contrario, la disconferma. Il dono fa parte delle
modalità attraverso le quali noi ri-conosciamo e riprendiamo coscienza del legame radicale e
originario che ci rende appartenenti alla vita, al nostro gruppo familiare, al nostro contesto socioculturale, alla storia in cui siamo stati scaraventati.
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Naturalmente ci sono sempre stati, e ci sono anche oggi, dei modi di donare che sono ostentazioni,
strumentalizzazioni, ricerca di visibilità. Ci sono sempre stati e ci sono doni che diventano obblighi
sociali e perfino politici, che diventano ricatti, provocazioni, mortificazioni per colui che riceve. Ma in
genere quando parliamo di questi fenomeni li giudichiamo degenerazioni e cioè ne parliamo come di un
livello di qualità scaduta, di alterazione o di degrado di qualcosa che non dovrebbe essere così. (I
missilia degli imperatori romani, o la largesse della nobiltà nei secoli passati: lanciare monete alla folla
dei miserabili dimostrando la propria potenza e lasciando che essi si scannino per averne una.)
Chiaramente rimangono le ambivalenze; non si è mai finito di guadagnare profondità e coerenza
nello spirito del dono.
Un cioccolatino può essere un dono gratuito ma può anche essere un adescamento; una donazione
umanitaria può rivelarsi un gesto criminale, come quello del latte avariato o delle medicine scadute;
un'elemosina può essere un gesto di compassione sincera ma anche uno sfregio infame come quando
si getta una moneta fuori corso ...
Ho conosciuto, in un paese dell'Appennino, una vecchia montanara di ottant'anni passati, senza studi
alle spalle ma con una formidabile memoria e ancora in grado di cucire senza occhiali. Durante una
malattia che in pochi mesi l'ha portata alla morte, ha confidato al suo medico, in dialetto, riferendosi ai
propri occhi "se sono ancora buoni come prima vorrei che li usassero per uno che non ha mai visto il
sole". Come non leggere questa estrema offerta di una parte di sé senza la minima possibile ipotesi di
un ricambio?
Ma l'ambiguità non scompare e ci porta al paradosso. La vita è relazione; per poter confermare gli
altri devo essere stato confermato e mentre confermo sono confermato. In questo senso Callié
parla del "paradossale obbligo del dono". Il dono, per sua natura, non può essere un obbligo, come non
può esserlo la spontaneità o la libertà.
Il dono è un invito a-far-parte, ad appartenere all'umanità. “Il dono è una forma elementare di
circolazione delle cose che impedisce agli uomini di diventare delle cose” (M. Mauss). È superare
la razionalità strumentale della convivenza per accedere alla comprensione e al senso delle relazioni:
che cosa sono io per te e che cosa sei tu per me.
Il rimando alla gratuità della nascita
L'esperienza più inattesa e imprevedibile, più gratuita, di riconoscimento per noi è stata la nostra vita,
dovuta ad altri da noi e possiamo dire donata da altri da noi. La nostra unicità, la nostra irripetibilità, la
nostra identità sono cominciate per volere di altri. Ed è cominciato lì, per noi, il gioco delle relazioni; ma
in questo gioco la pallina è stata lanciata per la prima volta dall'altra parte della rete e a noi non
rimaneva, e non rimane, che rispondere.
Il dono più altruistico è quello che accorda all'altro la libertà di una risposta, che gli fa scoprire o gli
restituisce la capacità di donare a sua volta.
Il donare è rinnovare e tessere continuamente questo filo sorprendente della relazione che continua a
provocarci e a interrogarci sfidandoci a comprenderne sempre meglio il senso. Il dono di qualcosa o
di qualcosa di sé è un modo per continuare a fare rifiorire l'inatteso, l'imprevedibile momento
della nascita, del nuovo che nasce.
Se l'esistenza e l'identità sono relazionali, allora, donando, in qualche modo, restituiamo un po' di ciò
che abbiamo ricevuto, che è sì un dare e ricevere ma che va al di là della logica mercantile o
contrattuale per attingere a quella della relazione.
Allora il dono del sangue, di un organo, di una parte di sé, il dono del tempo, il dono dell'attenzione, il
dono dell'educazione e nell'educazione, il dono della cultura, in qualche modo tengono vivo il senso
della vita come dono ricevuto, sorprendente e inatteso, e come dono offerto, nutrito dalla logica della
relazione e della comunità.
A questo punto si possono capire meglio le affermazioni di Alain Caillé quando parla di "obbligo
paradossale del donare" o quando dice "il dono appartiene sempre all'ordine della scommessa"
quindi, dico io, all'ordine della speranza.
"Si dona per imitare simbolicamente l'atto della nascita" (Caillé). Ovviamente, per chi si lascia afferrare
dallo spirito del dono, personale o associato, il cammino per la ricerca di una autenticità coerente e
limpida non è mai concluso.
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La diffusione dello spirito del dono
Ogni associazione di volontariato e, in particolare quelle delle donazioni, ha nei propri statuti, come
parte integrante della specifica mission, anche quella di diffondere la donazione fra le nuove
generazioni e di educare alla cultura del dono. Possiamo perciò dire che ogni associazione del dono
costituisce un potenziale prezioso ambiente educativo per la società, e quindi dovrebbe avere come
compito (e molti lavorano in questa direzione) quello di approfondire e qualificare anche
pedagogicamente le proprie proposte, contribuendo alla formazione di personalità che riconoscano,
nella costellazione dei valori connessi al dono, una prospettiva di realizzazione piena di sé e non certo
una mortificazione rinunciataria.
Educare al dono significa proprio impegnarsi per quello che è un aspetto fondamentale della
trasmissione culturale, e cioè quello della “trasmissione dei valori”.
E qui alcune brevi considerazioni.
Credo ci si debba liberare dall'idea che la trasmissione dei valori possa avvenire come una sorta di
trasferimento; come se fosse possibile far passare i valori da una testa ad un'altra, da un cuore ad un
altro, da una persona ad un'altra (ma non è così neppure per la trasmissione della conoscenza e della
competenza).
Trasmissione dei valori non significa neppure limitarsi a enunciare, proclamare dei valori o a
lamentarne la perdita o la mancanza; sarebbe troppo facile.
La trasmissione dei valori da una generazione all’altra avviene sempre per riscoperta personale,
attraverso un metabolismo complesso e che ha a che fare con la comunicazione, ma che non si
esaurisce nella enunciazione verbale dei valori stessi.
Per farsi un’idea che un certo comportamento ha valore, un bambino, un ragazzo, un adolescente,
deve vedere in atto tale comportamento. Deve poter vedere, constatare, essere colpito, da
comportamenti, gesti, azioni solidali, ad esempio, per poter conquistare il concetto di solidarietà e
attribuire ad esso la forza di un criterio morale che impegna le scelte della propria vita. E così è per
l'accoglienza, per la condivisione, per la sobrietà, per la legalità, ecc.
Educare al dono significa perciò innanzitutto creare le condizioni e i contesti relazionali nei
quali gli adulti possano offrire il fascino vissuto dell'esperienza di dono, di gratuità, di
condivisione.
In secondo luogo occorre che questi comportamenti siano accompagnati da un qualche tipo di
commento, di giustificazione, di convinzione esplicitata, anche molto semplice, autobiografica, da parte
degli adulti: quando si compie una scelta si escludono altre possibilità. È importante che questa scelta
sia giustificata come qualificante, come qualcosa che conta, come qualcosa che ha valore rispetto
ad altre possibili scelte, sulla base di criteri che chiamano sempre in causa la coerenza.
Ed è solo a questo punto che i confronti e le discussioni sugli enunciati, sulle definizioni filosofiche di
bene e di male, sulle condizioni storiche, sulle grandi visioni della vita, possono radicarsi e attecchire e
determinare scelte di vita sempre più mature e consapevoli. L’esperienza del dono, poi, non avviene ‘in
vitro’, in ‘ambiente sterile’. È nel contesto reale di una società, con le sue contraddizioni storiche, con i
suoi pluralismi e i suoi relativismi, che si fa esperienza del dono e del donare e di una possibile presa di
posizione nei confronti, appunto, di una realtà che lo spirito del dono vorrebbe migliorare.
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