Fuori testo, filosofia minima come introduzione

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filosofia minima Fuori testo
come una prima introduzione (da riprendere) e come un gioco.
D. a cosa serve la filosofia?
R.1. a mettere in moto atteggiamenti di lettura e di controllo delle procedure del pensiero, del
linguaggio, dell’agire, dei sentimenti, della percezione sensibile ed estetica, della comunicazione,
del vivere sociale, del produrre … «… senza simbolo l’uomo sarebbe schiacciato dal peso
opprimente del reale» (Recalcati Massimo 2016, Jacques Lacan, Volume II. La clinica
psicoanalitica: struttura e soggetto, Raffaello Cortina editore, Milano, 203)
R.2. a tale scopo non presenta una tecnica unica e tanto meno definitiva, ma propone analiticamente
e mette a confronto i modi con cui nel tempo questa esigenza di conoscenza e di gestione è stata
affrontata, articolata e posta in piani di sistema.
R.3. perciò non fornisce risposte (se non quelle rese possibili dalla teoria orchestrata) ma aiuta a
formulare domande, portando prima a controllare se le domande sono proponibili (le risposte
mancate sono una non risposta a domande non formulabili sensatamente), poi a mettere a
disposizione gli strumenti per rispondere e decidere con consapevolezza e scelta riflessiva.
«Com'è stato detto, chi si trova a scrivere in un'epoca che, a torto o a ragione, gli appare barbara,
deve sapere che le sue forze e la sua capacità di espressione non sono per questo accresciute, ma,
semmai, diminuite e logorate. Poiché tuttavia, non può fare diversamente e il pessimismo gli è per
natura estraneo - né, d'altra parte, gli pare di poter ricordare con certezza un tempo migliore l'autore può soltanto affidarsi a chi avrà provato le sue stesse difficoltà - in questo senso, a degli
amici.
Se non vi fosse esigenza, ma solo necessità, non potrebbe esservi filosofia. Non ciò che ci obbliga,
ma ciò che ci esige; non il dover-essere né la semplice realtà fattuale, bensì l'esigenza: questo è
l'elemento della filosofia. Ma anche la possibilità e la contingenza, per effetto dell'esigenza, si
trasformano e modificano. Una definizione dell'esigenza implica, cioè, come compito preliminare
una ridefinizione delle categorie della modalità.». (Agamben Giorgio, 2016, Che cos’è la filosofia?,
Quodlibet, Macerata, 7, 49)
Qui il ruolo della memoria, della ripresa, vera essenza di una qualsiasi storia. Non una memoria del
ricordo, ma una memoria della ripresa.
«Un paradigma dell'esigenza è la memoria. Benjamin ha scritto una volta che, nel ricordo, noi
facciamo l'esperienza che ciò che sembra assolutamente compiuto - il passato ridiventa di colpo
incompiuto. Anche la memoria, in quanto restituisce incompiutezza al passato e lo rende così in
qualche modo per noi ancora possibile, è qualcosa come un'esigenza.» (Agamben 2016, 50-51)
E, come una definizione della filosofia nel suo divenire storico continuo, espressione dell’esigenza,
essenza dell’esistenza: «L'esigenza è lo stato di complicazione estrema di un essere, che implica in
sé tutte le sue possibilità. Ciò significa che essa si tiene in una relazione privilegiata con l'idea, che,
nell’esigenza, le cose sono contemplate sub quaedam aeternitatis specie. Come quando
contempliamo l'amata mentre dorme. Essa è là - ma come sospesa da tutti i suoi atti, involuta e
raccolta in se stessa. Come l'idea, c'è e, insieme, non c'è. Sta davanti al nostro sguardo, ma perché ci
fosse veramente occorrerebbe destarla e, così facendo, la perderemmo. L'idea - l'esigenza - è il
sonno dell'atto, la dormizione della vita. Tutte le possibilità sono ora raccolte in un'unica
complicazione, che la vita andrà poi man mano spiegando - ha già, in parte, spiegato. Ma, di pari
passo al procedere delle spiegazioni, sempre più s'addentra e complica in sé inesplicabile l'idea.
Essa è l'esigenza che resta indelibata in tutte le sue realizzazioni, il sonno che non conosce
risveglio». (Agamben 2016, 55-56)
Gli antichi, il passato, la loro ripresa e la nostra storia nella distanza storica: «Entusiasmi facili e
semplificanti non fanno sempre bene all'idolo. Credere che un autore antico possa ancora dirci
qualcosa è sicuramente un gesto critico di grande importanza, anzi, è necessario, ma le
attualizzazioni, le addomesticazioni vanno evitate: lo studio del latino e la lettura degli autori
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antichi istruiscono e devono istruire al fondamentale valore della distanza storica, perduto il quale si
perde anche il senso della nostra collocazione temporale e culturale. I più bravi lettori di cose
antiche cercano di fare esperienza proprio di storicità, intendendo misurare la distanza, che è folta di
illusionismi e di prospettive cangianti, proprio come un paesaggio che si contempli da lontano e da
punti sempre diversi della specola. Da un antico noi possiamo apprendere interpretazioni e risposte,
ma bisogna sempre tenere a mente che quelle interpretazioni e quelle risposte corrispondono a
tempi e a contesti culturali diversissimi, e dunque non si possono applicare letteralmente ai nostri
bisogni. Gli antichi ci parlano di sé. Noi, imparando chi sono loro, impariamo, in sostanza, a parlare
di noi stessi; diventiamo, per così dire, un pochino antichi anche noi, anziché pretendere che loro
diventino moderni; immettiamo noi stessi nel flusso della storia, e questo non può che portare
benefici correttivi alle nostre irresponsabili pretese di assolutezza. […] Attraverso lo studio
amoroso dell'antichità, il presente scopre la sua stessa storicità e tenta di istituzionalizzarsi come
resistenza alle forze disgregatrici del tempo mediante un perfezionamento morale e linguistico
dell'individuo. […] …la missione che tradizionalmente la letteratura ha assolto e che ancora
avrebbe il potere di assolvere meglio di qualunque altra forma di sapere o di comunicazione: dare
ordine e senso all'esperienza umana con storie e con metafore; ampliare i confini del vissuto
attraverso nuove ipotesi di mondo; formare e trasmettere paradigmi di condotta e di pensiero;
rappresentare idee e forme di vita che stanno ancora al di qua o già al di là dell'istituzionalizzazione;
confezionare sentimenti ed emozioni e valori morali; ragionare sulla giustizia e sulla bellezza e
strutturare in insiemi culturali comunità altrimenti disperse e frammentarie; e […] facendo tutto
questo, comunicare una speciale forma di piacere: quella del capire interpretando.» (Gardini
Nicola, 2016, Viva il latino. Storie e bellezza di una lingua inutile, Garzanti, Milano, 197-198, 214,
217)
Indicazioni preliminari.
Fare filosofia non si riduce a sapere cosa hanno detto i filosofi… quella semmai è storia della
filosofia e si presenta come una sfida che si stempera ormai in circa 2500 anni, per il pensiero
definito “occidentale”. Una storia che fa certamente parte (e fondante) della filosofia in quanto entra
in relazione, interna (tra filosofi) ed esterna (tra filosofi e quelli che non vengono considerati tali),
con lo sterminato e imprevedibile campo delle relazioni comunicative simboliche che caratterizzano
l’umanità. Ma la filosofia è intreccio (crossover, dicendo per moda) e connessione.
1. i luoghi della filosofia:
- le opere dei filosofi
- il linguaggio quotidiano
- il nostro modo di gestire le facoltà sensibili e mentali in rapporto ai luoghi e ai tempi del nostro
vivere (la storia e la geografia ci generano)
La filosofia nasce, prende forma ed effetto solo quando i tre luoghi si incontrano. E questo non
avviene mai in modo né definitivo né uniforme. Questo crocevia spaziotemporale è il divenire reale
della filosofia, il suo prender forma e corpo.
Autori e passi citati non vanno colti come solitamente appaiono in una storia della filosofia, magari
pensata con presupposti impliciti di carattere evolutivo e di progressiva chiarificazione, ma come
“episodi” che la filosofia produce, vive e consegna a una lunga tradizione che a loro guarda come a
radici che alimentano la densità e la complessità del nostro dire, pensare e fare. Si tratta di eventi
che provocano una moltiplicazione di sensi e di progetti che, se da una parte richiede precisione
analitica, profondità storica e ricerca di significato in più direzioni (nel potere dell’etimologia, nel
contesto storico, nell’intreccio pluridisciplinare…), dall’altra permette di avvertire le molte valenze
del dire e del significare: la sfumatura insidiosa, la capacità figurativa, l’ambivalenza che apre,
l’indeterminatezza che confonde e quella che produce, l’evanescenza e l’alone che non si limita a
definire ma indica, la vaghezza che produce intorpidimento e inerzia e la vaghezza che genera
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sollecitazione, il dire più cose in una per analogie e ammiccamenti, il risvegliare e fare accadere nel
presente un lungo cammino...
2. filosofia come intensità e incrocio (crossover)
2.1. come il vento e il fuoco. Osserva Giorgio Agamben: « È mia convinzione che la filosofia non
sia una disciplina, di cui sia possibile definire l'oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o,
come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La
filosofia non è una sostanza, ma un'intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l'arte, la
religione, l'economia, la poesia, il desiderio, l'amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa
come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all'improvviso, scuote, trasforma
e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e
scompare». (articolo Giorgio Agamben, la Repubblica 15 maggio 2016) Richiamando Platone, che
nella sua Lettera VII afferma a proposito della sua filosofia: «questa mia non è una scienza come le
altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che
balza…nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una
vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima».
2.2. come intensità e non come sostanza: Osserva ancora Giorgio Agamben: «Ho l'abitudine di
dividere l'ambito dell'esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e dall'altra,
l'intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l'oggetto, tracciare la
cartografia; l'intensità invece non ha un luogo proprio. […] La filosofia, il pensiero è, in questo
senso, un'intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo
carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un'intensità, anche la politica, contrariamente a
quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com'è evidente non soltanto nella storia
recente, di colpo la religione, l'economia, perfino l'estetica possono acquisire una decisiva intensità
politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti
delle sostanze. Se le sostanze e le discipline - come la vita, del resto - rimangono inerti, se non
raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche. […] Ho sempre pensato
che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l'unico campo
del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c'è poesia senza
pensiero, così come non c'è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e
Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si
dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi.» (G. Agamben, in
la Repubblica 15 maggio 2016) Dunque l’intersezione e il porsi a confronto e quindi in questione
produttiva diventa l’indeterminatezza e l’intensità (la sostanza aerea e pervasiva) della filosofia.
3. un atteggiamento di carattere filosofico: filosofia come proemio
“non diamo nulla per scontato”
“non abusate dei luoghi comuni” (avviso notato da Andrea Camilleri nell’atrio di un
condominio)
La filosofia richiede “virtù inattuali” (direbbe Nietzsche): perseveranza ma non senza passione,
perfezionismo ma non per sterile sottigliezza, l’umiltà di mettersi al servizio dell’opera; e l’opera è
sempre nei tre luoghi in cui si insedia la filosofia: la produzione che si definisce filosofica, il
linguaggio che custodito nel suo significare veicola il pensiero, noi che teniamo desta la domanda
mirata e la meraviglia…
3.1. La filosofia è proemio (e ogni proemio, come ogni prefazione che è postfazione, è epilogo)
«Come, in una buona legge, si devono distinguere, secondo Platone, un proemio e un λόγος in senso
stretto (il comando), così anche in ogni discorso umano è possibile distinguere un elemento
proemiale da un elementi propriamente discorsivo o prescrittivo. Ogni parola umana è proemio
(προοίμιον) o discorso (λόγος), persuasione o comando, e può essere opportuno, parlando,
mescolare i due elementi o tenerli distinti. […]
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Come una legge pura (ἄκρατος, non mescolata), cioè senza proemio, è tirannica, tirannico è anche
un discorso privo di proemi, che si limiti a formulare teorie, per quanto corrette esse possano essere.
Questo spiegherebbe l'ostilità di Platone verso l'enunciazione di teorie e di opinioni vere e il suo
ricorrere di preferenza al mito piuttosto che all'argomentazione logica. La parola filosofica è
essenzialmente e costitutivamente proemiale. Essa è l'elemento proemiale che deve essere presente
in ogni discorso umano. Ma se il proemio della legge precede e introduce la parte normativa della
legge — le prescrizioni e i divieti — di che cosa la parola filosofica costituisce il proemio? […]
Il carattere proemiale della parola filosofica non significa, pertanto, che esso rimandi a un discorso
filosofico post-proemiale, ma si riferisce alla natura stessa del linguaggio, alla sua debolezza (Plat.
Epist. VII, 343 a1) ogni volta che esso sia chiamato a confrontarsi con i problemi più seri. La
filosofia è, cioè, proemio, non a un altro discorso più filosofico, ma, per così dire, al linguaggio
stesso e alla sua inadeguatezza. Ma, proprio per questo - in quanto, cioè, esso dispone di una
consistenza linguistica propria, che è quella proemiale - il discorso filosofico non è un discorso
mistico, che, contro il linguaggio, prenda partito per l'ineffabile. La filosofia è, cioè, quel discorso
che si limita a far da proemio al discorso non filosofico, mostrandone l'insufficienza. […]
La filosofia è quel discorso che riporta ogni discorso al proemio. Generalizzando, si potrebbe dire
che la filosofia si identifica con l'elemento proemiale del linguaggio e si attiene rigorosamente ad
esso. Evita, cioè, di trapassare in discorso o in comando, di enunciare seriamente tesi o proibizioni.
(La critica paolina del comando - ἐντολή - della legge nella Lettera ai Romani può essere vista
come un tentativo di purificare la legge dal comando per riportarla alla sua natura proemiale, cioè
persuasiva). L'uso del mito e dell'ironia in Platone va visto in questa prospettiva: esso ricorda a chi
parla e a chi ascolta il carattere proemiale di ogni discorso umano che abbia a cuore la verità. […]
La filosofia è costitutivamente proemio e, tuttavia, l'affare della filosofia non è l'indicibile, ma l'impredicibile, ciò che non può essere detto in un proemio; adeguato allo scopo, cioè veramente
filosofico, sarebbe soltanto un epilogo. Il proemio deve trasformarsi in epilogo, il preludio in
postludio: in ogni caso, però, il λόγος è assente, il ludus non può che mancare. […]
Ciò che del linguaggio si riesce a dire è solo prefazione o postilla e i filosofi si distinguono secondo
che preferiscano la prima o la seconda, si attengano al momento poetico del pensiero (la poesia è
sempre annuncio) o al gesto di chi, in ultimo, depone la lira e contempla. In ogni caso, ciò che si
contempla è il non-detto, il congedo dalla parola coincide con il suo annuncio». (Agamben Giorgio,
2016, Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata, 127-131)
Occorre poi ricordare che ogni prefazione, ogni proemio, viene scritta per ultimo, è una postfazione,
come un epilogo.
3.2. Una nota critica ricorrente (esposta a derive qualunquistiche ma forse doverosa). «Il linguaggio
si dà oggi come chiacchiera che non urta mai il proprio limite e sembra aver smarrito ogni
consapevolezza del suo intimo nesso con ciò che non si può dire, cioè col tempo in cui l’uomo non
era ancora parlante. […] E se, secondo il suggerimento di Hannah Arendt, il pensiero coincide con
la capacità di interrompere il flusso insensato delle frasi e dei suoni, arrestare questo flusso per
restituirlo al suo luogo musaico è oggi per eccellenza il compito filosofico». (Agamben 2016, 145,
146)
4. Il gioco e la definizione possibile di filosofia… ma solo nella varietà possibile dei giochi.
4.1. Il gioco 1: inizio
«Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove
incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista;
li assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul
pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani cercando di smontarli, di
farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia
in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre nuove: un
cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto
che guarda in cagnesco un altoparlante.»
(Bencivenga Ermanno 2013 Filosofia in gioco, Laterza, Roma-Bari)
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4.2. Il gioco 2: fine
«Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre il centro campo; ma
preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori dall'area. Il terzino scatta veloce: gli
avversari sono sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di
metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista potente e
armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino
si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un
cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal portiere.
L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano rischiando il rigore e gli bloccano
la visuale della porta, così invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui
piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il pallone varca la linea
bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali
non è durato neanche un minuto.
[gioco 1. e gioco 2.] Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto
evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi un arbitrio, un
capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di occupare il tempo. La bambina agisce
in assoluta libertà, guidata solo dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò
che è in gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non contempla un limite
temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà sempre e comunque interromperla, e quando lo
si farà lei manifesterà con vigore il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla —
null’altro, cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che dura
esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è compito dell’arbitro e dei
suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e che domani provocheranno discussioni a non finire sui
giornali e nei bar); hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per
questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può offrire l’uso di una
stessa parola con significati tanto diversi se non una penosa confusione?» (Bencivenga Ermanno
2013 Filosofia in gioco, Laterza, Roma-Bari)
Nota: gioco 1. e gioco 2.: ma tutto è sempre inizio [1.] e fine [2].
5. Tradizione è trádere.
La tradizione (nella storia del tradere e ricevere ciò che viene trasmesso; pensare e storia): la
filosofia è possibile soltanto in dialogo con altri, con la tradizione. Qui si colloca la triplice sede
della filosofia: 1. le opere trasmesse (ciò che i “filosofi” han detto e che decide del loro essere
filosofi, in una circolarità irrisolta); 2. il linguaggio scientifico e comune (il parlato, soprattutto
quello quotidiano per le molte stratificazioni di cui vive); 3. l’uomo che si interroga secondo
problemi ipotizzando risposte (ogni persona in quanto, a partire da sé come insieme continuo di
esperienze e potenzialità, osserva, formula concetti, pensieri, domande e risposte… entrando così in
un confronto).
5.1. Hilary Putnam riprende una “brillante metafora” di Willard van Orman Quine: «la cultura dei
nostri padri è un tessuto di enunciati. Nelle nostre mani essa si evolve e muta, attraverso nuove
revisioni e aggiunte più o meno arbitrarie e deliberate, occasionate più o meno direttamente dalla
continua stimolazione dei nostri organi di senso. È una cultura grigia, nera di fatti e bianca di
convenzioni. Ma non ho trovato alcuna ragione sostanziale per concludere che vi siano in essa fili
del tutto neri o altri del tutto bianchi». (Quine W.V., Carnap e la verità logica, in Schlipp P.A. (a
cura di) 1963 La filosofia di Rudolf Carnap, Milano, Il Saggiatore, 1974, 390) (La citazione è in
Putnam Hilary 2002 Fatto/Valore: fine di una dicotomia e altri saggi, Fazi editore, Roma 2004, 16)
5.2. «Si tratta di rivificare la concettualità sedimentata, la quale, diventata ovvietà, costituisce il
terreno del suo lavoro privato e non-storico, di rivificarne il nascosto senso storico. Si tratta di
riprendere nella propria riflessione la riflessione dei predecessori, si tratta cioè non soltanto di
ridestare la catena dei pensatori, la loro comunione di pensiero, il loro accomunamento teoretico e
di trasformarli in qualcosa di vivente e attuale, bensì di esercitare, sulla base di questa unità
complessiva attualizzata, una critica responsabile, una critica di tipo peculiare, che ha il suo terreno
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in queste finalità storiche e personali, nei relativi adempimenti e nelle reciproche rettifiche e non
nelle ovvietà privatamente assunte dei filosofi attuali. Pensare autonomamente, essere un filosofo
autonomo nella volontà di liberarsi da tutti i pregiudizi: quest’esigenza gli è imposta dal fatto di
aver intuito come tutte le ovvietà siano pregiudizi, come tutti i pregiudizi siano oscurità derivanti da
una sedimentazione tradizionale, e non soltanto giudizi di cui rimane dubbia la verità, e che ciò vale
innanzitutto per quel grande compito, per quell'idea che si chiama «filosofia». E tutti quei giudizi
che valgono come filosofici possono essere ricondotti a pregiudizi. Una riconsiderazione storica
come quella che stiamo discutendo è dunque in realtà una profondissima auto-considerazione che
tende a una comprensione di ciò che si è in quanto esseri storici. Quest’auto-considerazione serve
alle decisioni; e qui essa equivale naturalmente a una ripresa del compito veramente più peculiare,
di quel compito che l’auto-considerazione storica ci ha permesso di comprendere e di chiarire, e che
attualmente è assegnato a tutti noi.» (Husserl Edmund 1959, La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, 100)
5.3. «… l'analisi esistenziale non è altro che lo sviluppo metodico di quell'intelligenza dell'esistere
che è data in uno con l'esistere medesimo. Se si sa che nell'analisi esistenziale si prenderà una
decisione, si sappia pure che è la decisione di esistere. E la si prende grazie al fatto che l'analisi
rivela la differenza tra l'essere dell'uomo, che è esistere, dalla 'semplice presenza' (Vorhandensein)
che è propria delle cose (cioè dei fenomeni del mondo come sono intelligibili dal pensiero
oggettivante). Tale decisione, però, non dice affatto chiusura, ma, proprio al contrario, apre la via
alle concrete possibilità dell'autocomprensione esistentiva. Non è un momento metodico del
pensiero filosofìco, ma è piuttosto ciò che dà motivo al filosofare. O se si vuole proprio
caratterizzarla come filosofica, ha un senso solo se il filosofare viene inteso come un movimento
essenzialmente peculiare dell'essere umano.» (Bultmann Rudolf 1941 Nuovo testamento e
mitologia, Il manifesto della demitizzazione, ed. Queriniana, Brescia 1970, 206)
Ogni produzione culturale è certamente un prodotto individuale, ma che si apre al sociale
inesorabilmente sia in quanto si iscrive in una lunga tradizione di linguaggio e di cultura per poter
prendere una sua propria forma, sia perché l’opera è prodotto per un esterno, per un esser posta in
osservazione e in uso. Dunque, in ogni opera “res tua agitur”. Ogni produzione filosofica narra al
lettore qualche cosa che lo riguarda e lo coinvolge essenzialmente e lo apre a se stesso al di fuori di
banali stereotipi o di cammini troppo usati. Così come, osserva T.W. Adorno, per l’opera d’arte. «A
ciò è consona la situazione centrale, cioè che dalle opere d'arte, anche dalle cosiddette individuali,
parla un noi e non un io e in maniera tanto più pura quanto meno esso esternamente si adatta ad un
noi ed al suo idioma.» (Adorno Wiesengrund Theodor, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977,
281-282)
6. Il ruolo del domandare
«Ma riconoscere che i nostri giudizi aspirano alla validità oggettiva e riconoscere che essi
acquistano la loro forma in virtù di una particolare cultura e di una particolare situazione
problematica non sono mosse incompatibili. E ciò è vero per le questioni scientifiche, così come per
quelle etiche. La soluzione non è rinunciare alla possibilità stessa della discussione razionale, né
cercare un punto archimedeo, una “concezione assoluta” al di fuori di tutti i contesti e di tutte le
situazioni problematiche, ma — come Dewey ci ha insegnato in tutto il corso della sua vita —
indagare, discutere e mettere alla prova le cose in maniera cooperativa, democratica e soprattutto
fallibilista.» (Putnam Hilary 2002 Fatto/Valore: fine di una dicotomia e altri saggi, Fazi editore,
Roma 2004, 51)
6.1. «La filosofia — in ogni campo di indagine — è ciò che dobbiamo fare fino a quando non
riusciamo a capire quali sono le domande da cui saremmo dovuti partire. È una situazione che a
certi non piace affatto: preferirebbero prendere le domande dallo scaffale, tutte ben confezionate,
pulite, stirate, e pronte per essere affrontate. Chi ha preferenze simili può occuparsi di fisica,
matematica, storia o biologia. Il lavoro non manca e ce n’è per tutti. Noi filosofi preferiamo
occuparci degli interrogativi che hanno bisogno di essere chiariti prima che se ne possa trovare la
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risposta. Non è per tutti. Provateci, però; potrebbe piacervi.» (Dennett C. Daniel 2013, Strumenti
per pensare, Raffello Cortina editore, Milano 2014, 20-21)
«Pensare è difficile. Pensare a certi problemi è così difficile che il solo pensiero di pensare a quei
problemi può far venire il mal di testa. Il mio collega neuropsicologo Marcel Kinsbourne suggerisce
che quando pensare ci sembra difficile è sempre perché il percorso accidentato per arrivare alla
verità è in competizione con altre vie più facili e allettanti, che poi risultano essere vicoli ciechi. È
questione di resistere elle tentazioni e la fatica del pensare è dovuta per lo più a questo. Subiamo
continuo agguati e dobbiamo armarci di coraggio per realizzare il compito.» (Dennett C. Daniel
2013, 1)
6.2. « Un uomo chiese a un rabbino di insegnargli qualcosa del Talmud. Il rabbino rifiutò: «Non hai
una testa adatta al Talmud». L'uomo continuò a insistere, così il rabbino gli pose la seguente
domanda:
«Due uomini caddero nello stesso camino. Uno ne uscì pulito e uno ne uscì sporco. Quale dei due
andò a lavarsi?»
«Quello sporco naturalmente», rispose l'uomo.
«No!», disse il rabbino. «Sapevo che non avevi la testa adatta al Talmud. Ora va' via e lasciami
solo».
«Mettimi alla prova un'altra volta», lo pregò l'uomo.
«Solo un'altra volta, allora. Due uomini caddero nello stesso camino. Uno ne uscì pulito e uno ne
uscì sporco. Quale dei due andò a lavarsi?»
L'uomo ci pensò un attimo, poi ridacchiò: «Quello pulito. Guarda quello che è sporco e pensa di
essere sporco anche lui».
«Idiota. Tu non hai la testa adatta per il Talmud. Lasciami solo».
L'uomo si sentì umiliato. «Ti prego, mettimi alla prova un'ultima volta».
«E allora vada per un'ultima volta. Due uomini cadono in un camino. Uno ne esce pulito e l'altro ne
esce sporco. Quale dei due va a lavarsi?»
L'uomo pensò a lungo. «Quello pulito guarda quello sporco. Lui mi sta guardando, pensa, e non si
sta lavando, quindi deve essere convinto di essere pulito. Quindi io devo essere pulito. Quindi,
nessuno dei due va a lavarsi!»
«Stupido!», urlò adirato il rabbino. «Come puoi pensare che due uomini possano cadere nello stesso
camino e uscirne uno pulito e uno sporco!»
(Freedman Harry 2014, Storia del Talmud. Proibito, censurato e bruciato. Il libro che non è stato
possibile cancellare, Bollati Boringhieri, Torino 2016, 18)
Bibliografia Introduzione prima alla filosofia – Bibliografia – Suggerimenti
1. Come preparazione penso sia utile, più che un testo introduttivo, entrare direttamente in contatto
con opere (brevi) scritte dai filosofi.
Un dialogo di Platone (Apologia di Socrate, Critone, Simposio)
o un’opera di Aristotele (magari per estratti, come l’Anima e la Poetica)
o i Racconti filosofici di Voltaire.
2. Utili certamente, ma dipende da molti fattori, sono opere introduttive alla filosofia (a volte
sembrano presupporre una conoscenza filosofica); Per la brevità, concisione ed efficacia segnalo:
Vernant Jean-Pierre, Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti, Roma 1984
Colli Giorgio 1975 La nascita della filosofia, Adelphi, Milano 1989
Alain Badiou, Manifesto per la filosofia, Feltrinelli, Milano 1991
Paolo Rossi 1991 Il passato, la memoria, l’oblio. Sei saggi di storia delle idee, il Mulino, Bologna
Dummett Michael 2001 La natura e il futuro della filosofia, il melangolo, Genova
Margalit Avishai 2004 L’etica della memoria, il Mulino, Bologna 2006
Badiou Alain, Žižek Slavoj 2005, La filosofia al presente, il melangolo, Genova 2012
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Gnoli Antonio, Volpi Franco 2010 I filosofi e la vita, Bompiani, Milano
Bencivenga Ermanno 2013 Filosofia in gioco, Laterza, Roma-Bari
Lyotard Jean-François 2013 Perché la filosofia è necessaria, Raffello Cortina, Milano
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Agamben Giorgio 2016 Che cos’è la filosofia?, Quodlibet, Macerata
come romanzo
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Cécile Coulon, 2013 La casa delle parole (tit. originale Le rire du grand blessé), Keller editore,
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8
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