Corso praticanti 18.03.2016 Diritto di famiglia

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Corso formativo
Praticanti
Consulenti del
lavoro
ELEMENTI DI
DIRITTO DI
FAMIGLIA
Aspetti civilistici
e fiscali
Bolzano, lì 18/03/2016
Relatori:
Dott. Anton Steiner
e
Dott. Egon Gerhard Schenk
SOMMARIO
pagina
Parentela ed affinità……………………………………………..……………02
Separazione e comunione dei beni……………………………………….…..06
Impresa famigliare e coniugale……………………………………………….10
Il patto famigliare…………………………………………………..…………16
La successione…………………………………………………………….…..18
Il testamento…………………………………………………………………..34
La donazione……………………………………………………………….....46
La dichiarazione di successione e gli adempimenti successivi…….…….......53
Successione e rapporto di lavoro……………………………………….……62
© Dott. Egon Gerhard Schenk – Via Winkel, 8 – 39012 Merano
1
PARENTELA – AFFINITA’
Fondamentale per la comprensione del diritto di famiglia è la conoscenza dei rapporti che
intercorrono tra i vari membri della famiglia.
Con il matrimonio, considerato come origine della famiglia dal punto di vista legale, oltre al
rapporto di coniugio tra gli sposi, si vengono a creare altri rapporti, la parentela e l'affinità.
Cominciamo con la parentela.
parentela (art. 74
c.c.)
indica il vincolo tra le persone che discendono dallo stesso
stipite
Sono parenti, quindi, il padre ed il figlio, il nonno ed il nipote, i fratelli, i cugini, se hanno uno
stipite in comune e così via.
Il testo dell'art. 74 è però stato modificato dalla l. 219\2012 che ha precisato il concetto di
parentela come vediamo nella tabella che segue.
La parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno
stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta
parentela (art. 74 all'interno del matrimonio, sia nel caso in cui e' avvenuta al di
c.c.)
fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di
parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di
età, di cui agli articoli 291 e seguenti
Con la modifica dell'art. 74, quindi, si è voluta far cessare ogni possibile discriminazione tra
diverse "categorie" di figli, considerandoli, quindi, tutti allo stesso modo. Aver accertato che tra
diverse persone esiste un rapporto di parentela non è, però, sufficiente. Vedremo che in
numerose occasioni (soprattutto in caso di eredità) è indispensabile accertare anche il grado di
parentela, accertare, cioè, chi sono i parenti più "vicini" e più "lontani".
Per l'accertamento del grado di parentela ci soccorre l'art. 76 del codice civile. Questo distingue
due linee di parentela, la linea retta e quella collaterale.
linea retta
(persone che
discendono l'una
dall'altra)
nella linea retta si contano altrettanti gradi quante sono le
generazioni, escluso lo stipite
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2
Padre e figlio, quindi, sono parenti di primo grado, nonno e nipote sono parenti di secondo
grado (nonno + padre + nipote = 3 - nonno <stipite,che non si conta>= 2°)
linea collaterale
(persone che non
nella linea collaterale i gradi si computano dalle generazioni,
discendono l'una
salendo da uno dei parenti fino allo stipite comune e da questo
dall'altra ma
discendendo all'atro parente, sempre restando escluso lo stipite
hanno uno stipite
in comune)
I primi cugini, quindi, sono parenti di quarto grado ( dal figlio al padre (2) dal padre al nonno
(3) dal nonno al figlio (4) dal figlio al nipote (5) - il nonno <stipite comune> = 4°).
Secondo l'art. 77 c.c. la parentela non ha effetti giuridici oltre il sesto grado, salvo che per
alcuni effetti specialmente determinati.
Ancora sulla parentela ricordiamo che i fratelli sono indicati dal codice in maniera diversa
secondo che abbiano in comune solo il padre o solo la madre o entrambi. Si indicano, infatti
come:
fratelli germani
fratelli
consanguinei
fratelli uterini
quando sono figli dello stesso padre e della stessa madre
quando sono figli dello stesso padre ma di madri diverse
quando sono figli della stessa madre ma di padri diversi
PROSPETTO
PARENTI FINO AL IV GRADO
ED AFFINI
Parenti
Parenti
FINO AL II
in linea
in linea retta
GRADO Gradi
collaterale
I
- Genitori
- Figli
II
- Nonni
- Nipoti (figli dei
figli)
__________
- Fratelli e sorelle
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3
Affini
- Suoceri
- Generi e nuore
- Cognati
III
IV
- Bisnonni
- Bisnipoti (figli dei
nipoti da parte dei
figli)
- Zii (fratelli e
sorelle dei genitori)
- Nipoti (figli di
fratelli e sorelle)
___________
___________
- Cugini
- Pronipoti (figli di
nipoti da parte di
fratelli e sorella)
- Prozii (fratelli e
sorelle dei nonni)
___________
In base agli artt. 74,75 e seguenti del Codice Civile si precisa che:
- la parentela è il rapporto giuridico che intercorre tra persone che
discendono da uno stesso stipite e sono quindi legate tra loro da un
vincolo di consanguineità;
- l’affinità è il vincolo tra il coniuge e i parenti dell’altro coniuge.
Si precisa inoltre che i coniugi (legati da rapporto di coniugio, ossia di
matrimonio), non sono né parenti né affini.
Semplice metodo di calcolo
Viene qui illustrato un semplice metodo pratico per calcolare qualsiasi grado di parentela tra
due persone A e B. Si disegni uno schema (come il seguente per il caso di due fratelli) partendo
da A e B (nel nostro esempio i due fratelli) fino a risalire all'antenato comune (per i due fratelli
l'antenato comune è il padre).
Schema per il calcolo del grado di parentela nel caso dei fratelli (2º grado)
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4
Il numero dei segmenti disegnati per passare da A a B è il grado di parentela (nel nostro caso 2:
un segmento dal fratello A al padre e un altro dal padre al fratello B).
Altri esempi:
Schema per il calcolo del grado di
parentela tra cugini (4º grado)
Schema per il calcolo del grado di
parentela tra nonno e pronipote (3º grado)
affinità (art. 78
è il vincolo che lega il coniuge con i parenti dell'atro coniuge
c.c.)
Il calcolo dei gradi di affinità è speculare rispetto a quello di parentela.
Secondo l'art. 78 c.c., infatti: " Nella linea e nel grado in cui taluno è parente d'uno dei coniugi,
egli è affine dell'altro coniuge".
La moglie di mio fratello, quindi, è mia affine di secondo grado, visto che io sono parente di
secondo grado con mio fratello.
Gli affini dei coniugi, però, non sono affini anche tra loro; la moglie di mio fratello è, quindi,
mia affine ma non è affine anche a mia moglie.
L'affinità non cessa con la morte di uno dei coniugi, ma tra affini non esistono diritti ereditari
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COMUNIONE E SEPARAZIONE DEI
BENI
Il regime patrimoniale coniugale, nel diritto italiano (o secondario) è
l'insieme delle norme del codice civile italiano che disciplinano i criteri di
distribuzione tra i coniugi della ricchezza acquisita durante il matrimonio.
Questi criteri sono fondamentalmente due:
•
•
comunione legale;
separazione dei beni.
Il regime patrimoniale coniugale di comunione dei beni è il regime che opera nel
caso in cui non sia diversamente stabilito dagli sposi (tramite convenzione
matrimoniale). Le norme del regime patrimoniale coniugale sono quindi norme
dispositive (derogabili).
La comunione dei beni è il risultato di un accordo tra due o più
individui che mettono a disposizione i propri beni costituendo un patrimonio
comune, godendone equamente dei frutti e partecipando solidalmente alle spese.
Nel diritto privato italiano con l'espressione comunione dei beni si intende il
regime patrimoniale legale della famiglia, vale a dire il regime patrimoniale che si
applica automaticamente in mancanza di diverse pattuizioni da parte dei coniugi.
Riforma del diritto di famiglia
La scelta per la comunione dei beni è stata operata dal legislatore con la riforma del diritto di famiglia del 1975,
che ha mantenuto, per tutti i matrimoni contratti dopo il 20 settembre 1975 l'applicabilità, in mancanza di contraria
pattuizione, del regime della comunione dei beni. Precedentemente al 1975 ai matrimoni si applicava
esclusivamente la separazione dei beni. Per tali matrimoni la legge di riforma del diritto di famiglia ha disposto un
periodo di tempo transitorio (fino al 15 gennaio 1978) entro il quale ciascuno dei coniugi, anche con atto reso
unilateralmente dinanzi al notaio del luogo del contratto matrimonio, avrebbe potuto dichiarare di non voler
aderire al nuovo regime, rimanendo pertanto in regime di separazione dei beni. Entro lo stesso termine (15
gennaio 1978) i coniugi possono convenire che i beni acquistati anteriormente alla data del 20 settembre 1975
siano assoggettati al regime della comunione, salvi i diritti dei terzi.
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Beni della comunione
La comunione dei beni non è, a dispetto del nome, una comunione di tutti i beni.
Occorre quindi distinguere ciò che rientra nella comunione (beni della
comunione) e ciò che invece non vi rientra e appartiene dunque esclusivamente a
un coniuge o all'altro (beni personali dei coniugi).
Sono beni della comunione:
•
•
•
•
•
gli acquisti compiuti dai coniugi insieme o separatamente in costanza di
matrimonio, eccezione fatta per i beni personali.
le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio, gli
utili e gli incrementi di quelle appartenenti a uno dei coniugi prima del
matrimonio ma gestite da entrambi.
i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati al
momento dello scioglimento della comunione.
i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se non siano stati
consumati al momento dello scioglimento della comunione.
i beni destinati dall'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi dopo il
matrimonio se sussistono al momento dello scioglimento della comunione.
Sono invece beni personali e non rientrano in comunione:
•
•
•
•
•
•
i beni di cui ciascuno dei coniugi era titolare (proprietà o altro diritto reale
parziario) prima del matrimonio
i beni acquisiti durante il matrimonio per donazione o successione, a meno
che nella donazione o successione non sia specificato che essi sono
attribuiti alla comunione.
i beni di uso strettamente personale di ciascuno dei coniugi e i loro
accessori.
i beni strumentali all'esercizio della professione.
i beni ottenuti a titolo di risarcimento per danni.
i beni acquistati con il prezzo di alienazione dei beni personali, purché ciò
sia dichiarato espressamente nell'atto di disposizione.
Occorre precisare che in materia di assegni di mantenimento e diritti economici del coniuge separato o divorziato,
qualsiasi proprietà rileva ai fini del reddito, compresi i beni personali che non rientrano in comunione dei beni, e
può essere oggetto di azione giudiziale volta al recupero del credito: se il coniuge non paga l'assegno alimentare
all'altro coniuge per sé e per i figli di cui è affidatario, il credito alimentare che viene così a crearsi può essere
soddisfatto con il pignoramento di qualsiasi proprietà del coniuge debitore, quale è la casa parentale ereditata dai
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genitori anche dopo vari anni di matrimonio (e sicuramente fuori dal regime di comunione), e a tal fine non ha
alcuna importanza se nell'immobile stesso sia avvenuta una qualche forma di convivenza o coabitazione fra i due
coniugi.
Stessa considerazione a favore del coniuge affidatario dei figli (anche in caso di affido condiviso): se i coniugi
vivevano in una casa presa in affitto prima della separazione senza un immobile di proprietà, e il reddito dell'uno
non è più sufficiente a pagare a quello affidatario alimenti e il canone di affitto, il giudice può disporre che il
coniuge affidatario dei minori abbia l'usufrutto (non la nuda proprietà) dell'unico immobile disponibile, sebbene si
tratti della casa parentale che l'altro ha ereditato dai propri genitori - e che è del tutto sua, fuori dalla comunione
patrimoniale- perché questi possa andarvi a vivere coi figli, in base agli stessi criteri e poteri con cui decide che
uno dei due genitori deve abbandonare la casa coniugale familiare per assegnarla all'altro affidatario, sia che
questa era cointestata (in comunione dei beni) che di proprietà esclusiva di uno dei due, e con un eventuale nuovo
convivenza more-uxorio di cui l'altro coniuge ha l'onere della prova per chiedere la revoca dell'assegnazione art.
155-quater c.c. e riottenere il diritto al pieno godimento dell'immobile, revoca che non è automatica e invece
dipende da uno specifico giudizio di conformità rispetto all'interesse del minore (Corte Costituzionale 30 luglio
2008 n.308).
Regole di amministrazione
Il codice civile italiano distingue gli atti di ordinaria amministrazione dagli atti di
straordinaria amministrazione. I primi possono essere compiuti disgiuntamente da
ciascuno dei coniugi. I secondi devono essere compiuti congiuntamente dai due
coniugi.
Scioglimento della comunione
L'art. 191 del codice civile stabilisce lo scioglimento della comunione dei beni
nei casi in cui:
•
•
•
•
•
•
sia stata dichiarata l'assenza o la morte presunta di uno dei coniugi.
sia stato annullato il matrimonio o eccepita la sua nullità
vi sia stato lo scioglimento del matrimonio per morte di uno dei coniugi o
per divorzio, ovvero in caso di separazione personale, giudiziale o
consensuale. Nel caso di separazione personale, una eventuale successiva
riconciliazione dei coniugi non ripristina la comunione dei beni.
in caso di separazione giudiziale dei beni pronunciata in caso di
interdizione o inabilitazione o di cattiva amministrazione della comunione.
nel caso in cui i coniugi abbiano scelto un regime diverso.
nel caso di fallimento di uno dei coniugi.
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La separazione dei beni, secondo la legge italiana è un regime
patrimoniale coniugale, cioè un criterio di distribuzione tra i coniugi della
ricchezza acquisita durante il matrimonio.
Nel regime di separazione dei beni ogni coniuge è titolare esclusivo dei beni
acquisiti durante il matrimonio. Tale convenzione deve essere stipulata per atto
pubblico sotto pena di nullità (art.162 c.c.).
La scelta del regime di separazione dei beni può essere fatta dai coniugi:
•
•
•
al momento della celebrazione del matrimonio. Rendendo apposita
dichiarazione al celebrante (Ufficiale di stato civile, Parroco o altro
ministro del culto);
prima del matrimonio, con appropriata convenzione stipulata davanti a un
notaio;
dopo il matrimonio, con convenzione stipulata davanti a un notaio.
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L’IMPRESA FAMILIARE
Le norme del codice civile e in quelle del diritto tributario
L’impresa familiare è un’impresa individuale
collaborazione dei familiari dell’imprenditore.
caratterizzata
dalla
Il codice civile richiede la presenza di requisiti ben precisi affinché sia
configurabile l’ipotesi dell’impresa familiare: ciò sia in merito al tipo dell’opera
prestata, sia al concetto di familiare.
La nozione di impresa familiare sotto il profilo civilistico e sotto quello fiscale
non sono del tutto simili, come vedremo in seguito.
L’istituto dell’impresa familiare è disciplinato nell'art. 230-bis del codice civile.
Secondo tale articolo si può parlare di impresa familiare quando il familiare
presta la sua attività di lavoro in modo continuativo nell’impresa o nella famiglia.
Il lavoro prestato dal familiare, quindi, deve essere continuativo il che esclude
che si possa parlare di impresa familiare nel caso in cui il familiare presti la
propria attività di lavoro in modo occasionale nell'impresa o nella famiglia.
Invece, per il codice civile, è indifferente che l'attività di lavoro del familiare
sia svolta all’interno dell’azienda o all’interno della famiglia.
Va rilevato, però, che in entrambi i casi si può parlare di impresa familiare
solamente se non è configurabile un diverso tipo di rapporto, come ad esempio
nel caso di rapporto di lavoro subordinato.
Per quanto concerne il concetto di familiare con questa espressione si intendono:
il coniuge, i parenti entro il terzo grado (ad esempio: figli, genitori, fratelli, nonni,
ecc..) e gli affini entro il secondo grado (ad esempio: suoceri, nuore, generi,
cognati).
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Il familiare che partecipa all’impresa familiare ha una serie di diritti. Essi possono
essere distinti in diritti di natura economica ed altri diritti.
I diritti di natura economica riconosciuti al familiare sono:
• il diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;
• il diritto a partecipare agli utili dell’impresa familiare, ai beni acquistati con
essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento. Il tutto
in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.
Gli altri diritti, diversi da quelli di natura economica, riconosciuti al familiare
sono:
• il diritto di intervenire nelle decisioni relative l’impiego degli utili e degli
incrementi del patrimonio aziendale;
• il diritto di partecipare alle decisioni relative alla gestione straordinaria, agli
indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa;
• il diritto di essere preferiti a terzi in caso di cessione dell’azienda;
• il diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria.
Nonostante il legislatore abbia previsto la possibilità dei familiari di intervenire
su alcune decisioni relative alla vita dell’impresa, non ha voluto prevedere
un’azienda gestita da più persone. Infatti l'impresa familiare è sempre
un’impresa individuale, nella quale le decisioni sono prese dall’imprenditore
che rimane anche l’unico che assume il rischio derivante dall’esercizio
dell’impresa.
Infatti, in caso di insolvenza dell'impresa l'unico soggetto passibile di
fallimento rimane l'imprenditore. Questa conclusione è sottolineata dal fatto
che la disposizione di legge prevede una partecipazione agli utili dei familiari, ma
non una partecipazione alle perdite.
Questo vuol dire che nei confronti dei terzi, l’impresa familiare rimane
un'impresa individuale e la sua disciplina ha soprattutto come finalità quella di
garantire ai familiari, che prestano il loro lavoro nell'impresa o nella famiglia, la
possibilità di intervenire nelle scelte aziendali in caso di situazioni di straordinaria
amministrazione, legate a momenti particolari della vita dell’impresa che si
ripercuotono spesso anche sulla vita della famiglia.
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L’impresa familiare, inoltre, è un istituto ben diverso rispetto all’impresa
coniugale, detta anche cogestita. Quest’ultima è, infatti, un’azienda condotta da
entrambi i coniugi, i quali assumono ambedue la qualifica di imprenditori,
prendono insieme le decisioni inerenti l’impresa e partecipano nella stessa misura
agli utili e alle perdite dell’azienda, e quindi, sono entrambi passibili di
fallimento.
In parte diversa è la disciplina fiscale dell’impresa familiare: come
spesso accade il fisco richiede dei requisiti maggiori rispetto alla norma
civilistica.
Così il lavoro del collaboratore all’interno dell’azienda deve essere non solo
continuativo, come richiede il codice civile, ma anche prevalente. Questo
significa che l’attività di collaboratore nell’impresa familiare deve prevalere su
qualsiasi altra attività lavorativa. Quindi non possono essere collaboratori coloro
che svolgono in modo continuativo attività di lavoro dipendente, autonomo o
d‘impresa, mentre possono esserlo i pensionati.
Altra restrizione prevista dalla normativa fiscale è che il lavoro dei collaboratori
deve essere prestato nell’impresa familiare: non ha valore ai fini fiscali il lavoro
prestato nella famiglia.
Anche secondo le norme fiscali, come per quelle civilistiche, la partecipazione al
reddito deve essere proporzionale alla qualità e alla quantità del lavoro prestato
nell’impresa dal collaboratore, ma il fisco aggiunge che le quote spettanti a tutti
i collaboratori non possono in ogni caso superare, ai fini fiscali, il 49% degli
utili conseguiti dall’impresa. Ovvero almeno il 51% di tale reddito deve restare
assegnato all’imprenditore.
Mentre l’unico responsabile delle perdite, come prevede anche la normativa
civilistica, è il titolare dell’impresa familiare.
In fine va ricordato che condizione essenziale per assegnare il reddito
d’impresa ai familiari è che prima dell’inizio del periodo d’imposta sia
stipulato un atto pubblico o una scrittura privata autenticata da cui risulti il
nome di tutti i collaboratori, firmato da questi ultimi e dall’imprenditore.
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ATTO COSTITUTIVO IMPRESA FAMILIARE
Il sottoscritto ............................................. nato a ............................................. il...............................
domiciliato in .................................................. .........................................................................................
via..........................................................n............, Codice fiscale.................................................................
titolare dell’attività di..................................... in......................................................via...............................
n............
dichiara
ai fini del D.P.R. 917 del 22.12.1986, Art. 5 che la predetta impresa, con effetto dal giorno....................
è costituita con i sotto indicati familiari, in forma di impresa familiare.
Familiari:
................................................... nato a............................. il............................... codice fiscale
grado parentela col titolare
.................................................. nato a............................. il............................... codice fiscale
grado parentela col titolare
................................................... nato a............................. il............................... codice fiscale
grado parentela col titolare
con riferimento al D.L. 19.12.1984 n. 853 conv. Con L. 17.2.1985 n.17 le quote di partecipazione agli
utili potranno annualmente variare in proporzione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente
prestato in modo continuativo e prevalente, con un minimo del 51% degli utili riservato al titolare.
A quanto oggi convenuto i sottoscritti attribuiscono validità fino al...........................................................
(oppure attribuiscono validità anche per gli anni successivi fino a nuovo atto di revoca.)
Data
Firma del titolare e di tutti i collaboratori
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L’IMPRESA CONIUGALE
Le caratteristiche dell'azienda coniugale
L'azienda coniugale è disciplinata dall'art.177 del Codice civile. Esso stabilisce che
costituiscono oggetto della comunione legale tra i coniugi le aziende gestite da entrambi i
coniugi e costituite dopo il matrimonio.
Mentre l'art.178 del Codice civile stabilisce che i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno
dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche
precedentemente si considerano oggetto della comunione solo se sussistono al momento dello
scioglimento di questa.
Possiamo dire, quindi, che l'azienda coniugale o impresa coniugale è un'impresa gestita da
entrambi i coniugi: questo, infatti, è l'aspetto caratteristico di questo tipo di azienda. Se tale
requisito sussiste si può parlare di azienda coniugale sia nel caso in cui essa è stata costituita
dopo il matrimonio che nel caso in cui sia stata costituita prima del matrimonio.
Quindi, in tutti i casi di matrimoni contratti dopo il 20/09/1975 (data di entrata in vigore delle
norme relative al nuovo diritto di famiglia), all'impresa costituita dopo il matrimonio e gestita
da entrambi i coniugi si applica il regime di comunione legale, comunione che si estende anche
agli utili e agli incrementi, salvo che i coniugi non optino per una convenzione diversa dalla
comunione legale (ad esempio scelgono di essere nel regime di separazione dei beni).
Se, invece, l'azienda è stata costituita da uno solo dei coniugi prima del matrimonio e,
successivamente al matrimonio è gestita da entrambi i coniugi, la comunione concerne
solamente gli utili e gli incrementi successivi al matrimonio e non la proprietà dell'azienda
stessa.
Ricapitolando:
La comunione riguarda
a)
Azienda costituita dopo il matrimonio e gestita da entrambi i coniugi:
• Azienda
• Utili
• Incrementi
b)
Azienda costituita prima del matrimonio da uno solo dei coniugi e gestita da
entrambi i coniugi
• Utili
• Incrementi
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La gestione dell'azienda coniugale spetta ad entrambi i coniugi ma, come previsto dall'art.182
del Codice civile, uno dei coniugi può essere delegato dall'altro al compimento di tutti gli atti
necessari all'attività dell'impresa.
Aspetti fiscali - la tassazione del reddito prodotto dall'azienda coniugale.
L'azienda coniugale può essere costituita come una società nella quale i soci sono
i due coniugi. In questo caso valgono le regole proprie delle società.
In caso contrario l'utile conseguito dall'azienda va ripartito tra i soci al 50%.
Tuttavia, i coniugi possono stabilire delle quote diverse in apposite convenzioni
matrimoniali stipulate per atto pubblico a pena di nullità.
Nel caso in cui l'azienda coniugale non è gestita in forma societaria, il titolare
dell'azienda dichiara il reddito d'impresa nel modello Unico utilizzando il quadro
F (se l'impresa è in contabilità ordinaria) o G (se l'impresa è in contabilità
semplificata).
Egli, inoltre, deve indicare la quota di utile spettante all'altro coniuge.
L'altro coniuge deve indicare il proprio reddito compilando il quadro H (redditi
da partecipazione) della propria dichiarazione.
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IL PATTO DI FAMIGLIA
Il patto di famiglia
è un istituto giuridico introdotto attraverso la
Legge 14 febbraio 2006 n. 55, la quale lo ha disciplinato prevedendo un apposito
capo, il V-bis, nell'ambito del titolo IV del libro II nel codice civile.
Le norme che lo concernono espressamente sono gli artt. numerati da 768-bis a
768-octies del codice civile.
Nozione e genesi dell'istituto
La nozione elaborata dal legislatore, all'art. 768-bis, lo descrive come un
contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa
familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l'imprenditore
trasferisce, in tutto o in parte, la propria azienda ad uno o più discendenti.
Con il patto di famiglia si possono trasferire anche, in tutto o in parte,
partecipazioni societarie.
Prima dell'intervento legislativo, tra gli operatori del diritto e dell'economia era sempre più
invalsa la considerazione che la disciplina delle successioni in Italia apparisse rigida
nell'applicazione, oltre che inadeguata allorché fosse in considerazione la necessità per
l'imprenditore di trasferire un'azienda ai propri discendenti. Circostanza quest'ultima assai
frequente, essendo il tessuto produttivo italiano in gran parte costituito da aziende familiari.[1]
La recente normativa ha recepito tali esigenze, sempre più avvertite nel contesto economico e
sociale, agevolando il ricambio generazionale nell'azienda, dapprima fortemente limitato dal
generale divieto di patti successori di cui all'art. 458 cod. civ. Tale ultimo articolo è stato,
peraltro, modificato nella sua parte iniziale, proprio per disciplinare la deroga parziale a tale
divieto e per l'inevitabile esigenza di coordinamento normativo alla luce della nuova disciplina.
La novità legislativa ha mutato in sostanza lo scenario di riferimento, consentendo ora
all'imprenditore di assicurare il trasferimento del bene produttivo (azienda), salvaguardando al
tempo stesso l'unità familiare.
Il patto di famiglia è dunque il contratto – tipico, ossia disciplinato nei suoi contenuti dalla
legge - con cui l'imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, la propria azienda o le proprie
partecipazioni societarie a uno o più tra i suoi discendenti.
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Trattasi di un atto ‘inter vivos’, con effetti traslativi immediati dell'azienda, la cui particolare
disciplina si discosta vistosamente dalle regole generali successorie.
A pena di nullità, il contratto va stipulato nella forma di atto pubblico (art. 768-ter cod. civ.),
previsione che tende ad assicurare un consenso tendenzialmente più informato di tutti i
partecipanti.
I partecipanti al patto, oltre ovviamente all'imprenditore disponente, devono necessariamente
essere il coniuge e tutti coloro che sarebbero legittimari se, al momento della stipulazione del
patto, si aprisse la successione dell'imprenditore: art. 768-quater, primo comma cod. civ.
Gli assegnatari dell'azienda o delle partecipazioni societarie devono liquidare gli altri
partecipanti al contratto - ossia tutti coloro che al momento della sottoscrizione del patto
sarebbero legittimari rispetto all'imprenditore - con il pagamento di una somma corrispondente
al valore delle quote di legittima o in natura (art. 768-quater, secondo comma cod. civ.).
V'è poi una seconda ipotesi, che può essere ricavata analizzando il terzo comma del medesimo
articolo da ultimo citato: che il soddisfacimento degli altri legittimari avvenga mediante altri
beni assegnati dal disponente stesso. Detti beni in tal caso sono imputati alle quote di legittima
loro spettanti.
È fatta salva la possibilità che i partecipanti al patto non assegnatari dell'azienda rinunzino, in
tutto o in parte, alla liquidazione della somma corrispondente al valore delle quote loro
spettanti (art. 768-quater secondo comma cod. civ.).
Vizi, impugnativa e controversie
Il patto di famiglia può essere impugnato per vizi del consenso (art. 768-quinquies cod. civ.) e la suddetta azione si
prescrive nel termine di un anno.
Il patto di famiglia può essere sciolto o per mutuo consenso, tramite la stipulazione di un nuovo contratto avente le
medesime caratteristiche e prevedente la partecipazione delle medesime parti che conclusero il primo patto,
ovvero mediante recesso, se la facoltà di recedere fu espressamente prevista nel patto stesso. La dichiarazione di
recesso è destinata alle controparti contrattuali e deve essere certificata da notaio (art. 768-septies cod. civ.).
Ove si verificasse che il coniuge o altri legittimari siano stati pretermessi dalla stipulazione del patto essi potranno,
all'apertura della successione dell'imprenditore disponente, chiedere ai beneficiari del patto il pagamento della
somma pari al valore delle quote di legittima loro corrispondenti, maggiorata degli interessi legali (art. 768-sexies
cod. civ.).
La norma finale dell'art. 768-octies cod. civ. prevede che le controversie relative alle disposizioni sul patto di
famiglia vadano preliminarmente devolute agli organismi di conciliazione previsti dall'articolo 38 del D. Lgs.vo
17.1.2003 n. 5.
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LA SUCCESSIONE
La successione si apre al momento della morte (art. 456 c.c.) e mira ad
assicurare la continuità dei rapporti attivi e passivi già facenti capo al de cuius.
La Costituzione all’art. 42, comma 4, afferma che “la legge stabilisce le norme e i
limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle
eredità”.
Come vedremo in seguito, la successione testamentaria è quella dettata dalla volontà del de
cuius mediante disposizioni scritte nel testamento, mentre la successione legittima è quella
disposta dalla legge quando non vi sia un testamento o quando esso non contempli l’intero asse
ereditario, di modo che alcuni beni risultano non assegnati. Nell’ambito poi della successione
legittima si inserisce quella dello Stato quando il defunto non ha fatto testamento e non ha
parenti entro il sesto grado.
La successione ha dunque la funzione di tutelare la famiglia e di garantire la permanenza del
patrimonio all’interno della cerchia familiare.
Con riferimento a taluni familiari (i c.d. legittimari) si parla poi di successione necessaria in
quanto essi devono ricevere una data quota del patrimonio del de cuius fissata per legge anche
contro la volontà del defunto. Gli eredi legittimari sono: il coniuge, figli legittimi, naturali,
legittimati, adottivi, e in assenza di figli gli ascendenti legittimi. Per cui se il de cuius fa
testamento può disporre, se ha degli eredi legittimari, solo di una parte del proprio patrimonio
(la c.d. quota disponibile), mentre l’altra parte (la c.d. quota di riserva) spetta necessariamente
ai legittimari. Qualora il de cuius non rispetti tale disposizione i legittimari possono agire con
un’azione giudiziaria (detta azione di riduzione) per reintegrare la quota di riserva lesa.
Ai fini di stabilire qual è il patrimonio del de cuius su cui va calcolata la quota di riserva si
deve tenere conto non solo di quanto lasciato al momento della morte ma anche di quanto
donato in vita.
Se il de cuius non fa testamento si apre la successione legittima. È la legge a fissare l’ordine
con cui i vari parenti fino al sesto grado vengono chiamati a succedere e le quote in cui
succedono. Anche nell’ipotesi di successione legittima può sorgere il problema della tutela dei
legittimari in quanto la lesione della quota di riserva può essere avvenuta, anche in assenza di
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testamento, a seguito delle donazioni fatte in vita. In assenza di testamento e di parenti entro il
sesto grado succede lo Stato.
Quindi, la successione può essere testamentaria (se il de cuius ha fatto testamento) o
legittima (se manca il testamento). La successione poi può essere a titolo universale (si
succede nella totalità dei rapporti facenti capo al defunto) o a titolo particolare (si succede nel
singolo rapporto individuato dal de cuius nel testamento).
Nell’ambito della successione mortis causa si deve fare la distinzione tra successione a titolo
universale e successione a titolo particolare. Eredità e legato.
Eredità e legato.
La prima fa acquistare la qualità di erede che succede in
tutti i rapporti, attivi e passivi (in universum ius), del de cuius. L’istituzione di
erede non può mai mancare in quanto è la tessa legge che sopperisce, in caso di
successione legittima, se non vi ha provveduto il defunto.
Il legato, invece, può essere disposto solo da defunto attraverso il testamento,
salvo i casi di legato ex lege, e implica la successione del legatario solo in quel
singolo rapporto indicato espressamente dal de cuius.
Capire se una disposizione sia stata prevista a titolo di erede o di legato non si
desume dalla terminologia usata dal testatore ma da criterio oggettivi: l’erede è
chiamato a succedere nella universalità dei beni o in una quota di essi (la metà, un
terzo), mentre al legatario è attribuito un bene singolo. Comunque l’indicazione
di determinati beni non esclude che la disposizione sia a titolo universale quando
risulta che il testatore ha inteso assegnare quei beni come quota per patrimonio.
Mentre l’erede risponde di tutti i debiti del defunto anche al di là del valore
dell’attivo, il legatario risponde solo delle obbligazioni discendenti dal singolo
rapporto in cui succede e mai al di là del valore dei beni ricevuti.
Per tale motivo il legato si acquista automaticamente, al momento della morte del
de cuius, senza la necessità della sua accettazione; al contrario l’acquisto della
qualità di erede è subordinato alla accettazione che può anche avvenire con
beneficio di inventario al fine di limitare la responsabilità patrimoniale al valore
dei beni lasciati dal de cuius.
Inoltre, mentre la successione a titolo universale è esclusiva della successione
mortis causa, la successione a titolo particolare si ravvisa anche in ogni
trasferimento tra vivi.
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L’art 458 c.c. afferma la nullità di ogni atto di disposizione o di rinunzia ai diritti
su una successione non ancora aperta. Patti successori, il divieto dei patti.
Il divieto dei patti successori.
Questi atti sono chiamati “patti
successori” e possono essere:
– istitutivi, quando si dispone della propria successione al di fuori del tepatti
successoristamento, pretendendo di creare così accanto alla vocazione
testamentaria e legale una specie di vocazione contrattuale;
–
dispositivi, quando si vuole disporre di diritti che possono spettare su una
successione futura;
–
rinunciativi, quando si rinuncia a diritti che possono spettare su una
successione prima dell’apertura della stessa successione.
Il chiamato all’eredità è la persona a cui l’eredità è offerta.
Qualora il chiamato non sia nel possesso dei beni è possibile che non subentri immediatamente
poiché egli ha 10 anni di tempo per accettare l’eredità e in tal caso viene nominato un curatore
dell’eredità giacente.
Come vengono regolamentati i rapporti pendenti nel periodo che va dall’apertura della
successione all’accettazione dell’eredità?
In tale periodo di tempo il chiamato all’eredità ha interesse a che la situazione di fatto esistente
al momento dell’apertura della successione rimanga inalterata. Per tale motivo egli può
esercitare le azioni possessorie, compiere atti conservativi, di vigilanza, di amministrazione
temporanea e può farsi autorizzare dall’autorità giudiziaria a vendere i beni che non si possono
conservare o la cui conservazione importa grave dispendio.
Il chiamato all’eredità, solo se è nel possesso dei beni ereditari, ha l’onere di formare
l’inventario entro tre mesi (rinnovabili) a garanzia dei terzi (art. 485 c.c.). Inoltre, durante la
formazione dell’inventario, ha la facoltà di rappresentare l’eredità qualora sia convenuta in
giudizio; se, invece, non intende comparire, l’autorità giudiziaria provvede alla nomina di un
curatore dell’eredità con il solo scopo di rappresentarla in giudizio.
Si parla di eredità giacente quando, apertasi la successione, il chiamato all’eredità non è stato
identificato oppure il chiamato non ha ancora accettato l’eredità e non sia nel possesso dei beni
(cosicché ha 10 anni per decidere se accettare).
Allora su istanza delle persone interessate (un legatario, un creditore, un chiamato all’eredità di
grado successivo) o d’ufficio, il giudice del luogo ove si è aperta la successione provvede alla
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nomina di un curatore dell’eredità che cessa dalle sue funzioni nel momento in cui avviene
l’accettazione dell’eredità.
Se i chiamati all’eredità sono più di uno allora il primo che accetta amministrerà l’intera
eredità.
Il curatore dell’eredità giacente rappresenta un semplice amministratore del patrimonio
ereditario e come tale è tenuto a procedere all’inventario dell’eredità, ad amministrarla, nonché
a rendere conto della propria amministrazione.
Il pagamento dei debiti ereditari e dei legati può essere fatto dal curatore previa autorizzazione
del giudice a meno che alcuni creditori o legati non facciano opposizione; in tal caso si dovrà
procedere alla liquidazione dell’eredità dettate dall’art. 498 e ss del c.c.
Capacità di succedere.
Hanno la capacità di succedere tutti coloro che sono nati al tempo dell’apertura della
successione, coloro che sono stati concepiti al tempo della successione ( si presume concepito
in tale tempo chi è nato entro 300 giorni dalla morte del de cuius) e in caso di successione
testamentaria anche i figli non ancora concepiti di persona vivente al tempo della morte del
testatore.
L’indegnità
Viceversa, può accadere che un soggetto, benché chiamato a succedere, sia escluso dalla
successione. È il caso dell’indegnità. È indegno di succedere chi abbia posto in essere uno dei
comportamenti previsti dall’art. 463: però in tal caso l’indegno comunque acquista dopo
l’apertura della successione ciò che gli spetta, ma deve restituirlo qualora chi abbia interesse
alla condanna dell’indegno promuovi un’azione giudiziaria (azione che si prescrive in 10 anni
dall’apertura della successione) che accerti tramite sentenza l’indegnità.
L’indegno deve restituire insieme ai beni anche i frutti percepiti dopo l’apertura della
successione.
I casi di indegnità si raggruppano in due categorie:
1) Casi penalmente rilevanti:
– Omicidio e tentato omicidio nei confronti del de cuius e dei suoi eredi legittimari;
– denunzie calunniose nei confronti degli stessi soggetti per pretesi reati punibili con
l’ergastolo o con la reclusione non inferiore a 3 anni;
– testimonianza false in giudizi penali per i reati di cui sopra intentati nei confronti del de cuius
e suoi eredi.
2) Casi rilevanti in sede civile:
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– attentato alla libertà di testare, consistente nell’indurre il de cuius , con dolo o violenza, a
fare, revocare, mutare un testamento, o ancora nell’alterare egli stesso il testamento o
formandone uno falso.
Il de cuius può anche riabilitare, ossia perdonare, l’indegno mediante una dichiarazione
contenuta in un atto pubblico o in un testamento posteriore al comportamento dell’indegno.
Accettazione dell’eredità.
In genere la qualità di erede si acquista mediante l’accettazione, espressa o tacita,
i cui effetti retroagiscono al momento in cui si è aperta la successione.
In alcuni casi, invece, l’acquisto della qualità di erede avviene ex lege, anche contro la volontà
del chiamato all’eredità. Vediamo quali sono:
– quando il chiamato ha sottratto o nascosto beni spettanti all’eredità stessa; in tal caso non
può rinunciare all’eredità;
– quando l’erede, che è nel possesso dei beni ereditari, deve fare l’inventario dei beni entro 3
mesi (prorogabili per altri tre mesi) ma non lo fa; in tal caso trascorso il termine ultimo per la
redazione dell’inventario il chiamato è considerato erede puro e semplice.
L’accettazione espressa
L’accettazione è espressa “quando, in un atto pubblico o in una scrittura privata, il chiamato
all’eredità ha dichiarato di accettarla oppure ha assunto il titolo di erede. Inoltre è nulla la
dichiarazione di accettare sotto condizione o a termine.” Infatti il nostro ordinamento prevede
che una “volta eredi si è sempre eredi” (semel heres, sempre heres) per cui non può apporsi un
termine finale all’accettazione così come l’accettazione non può essere revocata. Infine, “è
nulla la dichiarazione di accettazione parziale di eredità”; ciò perché con l’accettazione non si
acquista quel bene o quella data quota di patrimonio, ma la qualità di erede che è unitaria e
indivisibile.
L’accettazione tacita
L’accettazione è tacita quando “il chiamato all’eredità compie un atto che presuppone
necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella
qualità di erede”. Di conseguenza ciò che importa ai fini dell’accettazione tacita è l’animus del
chiamato che compie un dato atto e non la natura dell’atto compiuto.
Esiste una ricca casistica di fattispecie di accettazione tacita che può risultare:
– da una dichiarazione, ad esempio da un’iscrizione di ipoteca o da una vendita riguardante il
bene ereditato;
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– da un comportamento consistente ad esempio nel pagamento di un debito ereditario con
denaro prelevato dall’asse ereditario;
–
dall’inizio di un’azione giudiziaria consistente nella domanda di divisione ereditaria o
nell’impugnazione di disposizioni testamentarie ecc.
Il diritto di accettare si prescrive in 10 anni nel caso in cui il chiamato non sia nel possesso dei
beni o di parte di essi; in caso contrario si osserva quanto disposto dall’art. 485 c.c., ossia tre
mesi o sei se il termine è prorogato.
Coloro che vi abbiano interesse possono esperire un’azione giudiziaria (l’actio interrogatoria)
affinché il giudice fissi al chiamato (non nel possesso dei beni e che ha 10 anni di tempo per
decidere se accettare) un termine entro il quale dichiari di accettare o di rinunciare all’eredità.
Trascorso tale termine senza che il chiamato abbia fatto la dichiarazione, il chiamato perde il
diritto di accettare.
Il chiamato, non nel possesso dei beni ereditari, perde il diritto di accettare anche quando abbia
formato l’inventario senza però precederlo dalla dichiarazione di successione e non accetta
entro i successivi 40 giorni.
Il termine per l’accettazione decorre dal giorno dell’apertura della successione.
L’impugnazione dell’accettazione
L’accettazione dell’eredità può essere impugnata qualora sia l’effetto di violenza o dolo. In tal
caso l’azione si prescrive in 5 anni dal giorno in cui è cessata la violenza o è stato scoperto il
dolo.
Il chiamato all’eredità può decidere di accettare con beneficio di inventario se vuole limitare la
sua responsabilità entro i limiti di valore del patrimonio relitto (è l’attivo lasciato del de cuius)
del de cuius.
Accettazione con beneficio dell’inventario.
Come si accetta?
L’accettazione con beneficio di inventario si effettua mediante dichiarazione
ricevuta da un notaio o cancelliere del tribunale territorialmente competente ed è
inserita nel registro delle successioni. Tale dichiarazione dev’essere poi trascritta
presso la conservatoria del luogo in cui si è aperta la successione. La trascrizione
di cui sopra va eseguita anche se nell’eredità non vi siano beni immobili ed è
unica anche se gli immobili sono una pluralità.
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L’inventario va formato entro 3 mesi rinnovabili una sola volta per altri 3 mesi
(totale 6 mesi). A questo punto va distinto il caso in cui chi faccia l’inventario sia
o meno nel possesso dei beni.
Il chiamato nel possesso dei beni ha l’obbligo di formare l’inventario indipendentemente e a prescindere
dall’accettazione con beneficio di inventario in quanto proprio perché nel possesso dei beni vi è la necessità di
garantire i creditori da un lato e dall’altro quello di evitare che i beni ereditari e quelli personali del chiamato
possano confondersi. Se il chiamato non osserva il termine trimestrale (rinnovabile) allora si considera erede puro
e semplice anche contro la sua volontà.
Una volta formato l’inventario nel termine di legge, il chiamato, se non ha già manifestato la sua volontà di
accettare con beneficio di inventario, deve decidere entro i successivi 40 giorni. Scaduti questi, il chiamato è libero
di accettare con o senza beneficio di inventario o di rinunciare. Se tace è considerato erede puro e semplice.
Qualora, invece, il chiamato non sia nel possesso dei beni ha 10 anni di tempo per decidere se accettare con
beneficio di inventario, accettare senza beneficio di inventario o rinunciare. Per cui se decide di accettare con
beneficio di inventario allora da quel momento decorrono i 3 mesi per formare l’inventario, trascorso il quale
invano egli sarà considerato erede puro e semplice. Se, al contrario, decide di procedere prima all’inventario, avrà
poi 40 giorni da quando esso sarà formato per accettare: in difetto egli decadrà dal relativo diritto.
Qualora al chiamato non nel possesso dei beni venga fissata dal giudice un termine per l’accettazione ed egli
voglia accettare con beneficio, dovrà provvedere alla formazione dell’inventario entro il termine così fissato. Se fa
la dichiarazione ma non fa l’inventario sarà considerato erede puro e semplice, mentre se forma l’inventario ma
non fa la dichiarazione non potrà acquistare la qualità di erede.
Una volta formato l’inventario l’effetto è quello di tener distinto il patrimonio del de cuius da quello dell’erede; gli
altri effetti:
–
non si crea confusione tra i beni del defunto e quelli dell’erede;
– l’erede non è tenuto al pagamento dei debiti ereditari e dei legati oltre il valore dei beni a lui pervenuti. Per cui
pur essendo lui succeduti in tutti i rapporti del de cuius, attivi e passivi, vede limitata la sua responsabilità ai soli
beni pervenutigli, cioè al solo attivo;
– i creditori dell’eredità e i legatari hanno preferenza sul patrimonio ereditario di fonte ai creditori dell’erede.
Tale effetto può però venir meno in caso di decadenza dal beneficio di inventario o in caso di rinuncia ad esso.
L’erede che accetta con beneficio di inventario deve anche pensare al soddisfacimento dei creditori e dei legatari;
egli può agire in tre modi:
– trascorso un mese dall’inserzione della dichiarazione dell’erede (con cui accetta con beneficio di inventario)
nel registro delle successioni senza che i creditori e legatari si oppongano, l’erede può procedere al pagamento dei
creditori man mano che essi si presentano;
–
se i creditori e legatari si oppongono o se l’erede stesso non intende accettazione beneficio inventario
procedere ad una liquidazione individuale si apre quella concorsuale. L’erede, con l’assistenza di un notaio e con
il controllo del giudice, invita creditori e legatari a presentare le dichiarazioni di credito, dopo procede alla
liquidazione dell’attivo e alla formazione della graduatoria dei crediti;
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– se l’erede non vuole occuparsi della liquidazione può rilasciare tutti i beni ereditati a creditori e legatari. Tale
dichiarazione va annotata sul registro delle successioni e trascritta (nella conservatoria del luogo ove si trovano gli
immobili ereditati). Essa comporta che l’erede non può più disporre di tali beni. Operata la trascrizione, il giudice
nominerà un curatore perché provveda alla liquidazione concorsuale.
L’istituto del beneficio di inventario da un lato garantisce i creditori e i legatari, dall’altro garantisce l’erede dal
rischio di dover rispondere dei debiti ereditari oltre il valore dei beni. Per tale motivo la legge prevede che le
eredità devolute a minori e interdetti, minori emancipati e inabilitati, nonché quelle devolute a persone giuridiche
diverse dalle società, possano essere accettate solo con beneficio di inventario.
Abbiamo detto che in genere l’erede accetta l’eredità con beneficio di inventario quando nell’eredità le passività
superano le attività.
Eredità e separazione dei beni.
In tal modo egli si protegge in quanto non risponderà mai oltre l’attivo ereditario per i debiti contratti dal de cuius
e proteggerà anche i creditori del defunto che non dovranno concorrere con i creditori personali dell’erede
sull’attivo dell’eredità.
Per cui se l’erede ha già molti debiti personali e l’eredità si presenta attiva, accetterà semplicemente, senza
beneficio di inventario, con grave danno dei creditori dell’eredità e dei legatari che dovranno concorrere con i tanti
creditori personali dell’erede.
I creditori possono, per tutelare le proprie ragioni, esercitare la separazione dei beni del defunto e soddisfarsi su
beni separati con preferenza dei creditori dell’erede.
Con la separazione si ottiene un risultato simile al beneficio di inventario solo che: in caso di accettazione
beneficiata i creditori dell’eredità e i legatari non possono soddisfarsi sui beni personali dell’erede mentre i
creditori personali dell’erede possono aggredire i beni ereditari solo in via sussidiaria; nel caso di separazione
,invece, i creditori dell’eredità e i legatari possono soddisfarsi anche sui beni personali dell’erede così come i
creditori personali di costui possono aggredire i beni dell’eredità, ma sempre in via sussidiaria rispetto agli altri
creditori e legatari.
Altra differenza è la seguente: il beneficio di inventario tiene distinti il patrimonio dell’erede da quello del de
cuius e crea all’interno di quest’ultimo due categorie distinte, quella dei creditori dell’eredità e legatari e quella dei
creditori personali dell’erede; invece la separazione non tiene distinti i due patrimoni ma separa all’interno del
patrimonio ereditario singoli beni a vantaggio di quei creditori e legatari che hanno attuato la separazione; per cui
distingue all’interno del patrimonio ereditario tra creditori separatisti e non separatisti.
La separazione va chiesta mediante domanda giudiziale entro 3 mesi dall’apertura della successione.
Una volta chiesta la separazione bisogna distinguere il caso in cui il patrimonio non separato sia capiente o meno.
I creditori che non hanno chiesto la separazione possono soddisfarsi solo sul patrimonio non separato e in più in
concorso con i creditori personali dell’erede. Per cui se anche tale patrimonio non separato è capiente, può darsi
che essi possano rimanere insoddisfatti per via del concorso con i creditori personali. Questo è il prezzo che
devono pagare per non aver voluto chiedere la separazione.
Solo in questo caso i creditori e legatari non separatisti possono concorrere con coloro che hanno esercitato la
separazione. Ciò accade nell’ipotesi in cui tutti i beni siano stati già separati non potendosi in tal caso ipotizzare un
concorso con i creditori dell’erede. Se, invece, una parte del patrimonio non era stata separata e il suo valore non
era comunque sufficiente a soddisfare i non separatisti, allora il valore della parte non separata si aggiunge al
valore dei beni separati.
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Per ciò che concerne il rapporto tra i creditori e i legatari, i primi prevalgono sui secondi. L’unica ipotesi in cui i
legatari prevalgono sui creditori è quella dei legatari separatisti in conflitto con creditori non separatisti negligenti
che, pur essendo il patrimonio del de cuius capiente, non hanno esercitato la separazione.
Con l’accettazione dell’eredità si acquista la qualità di erede.
Petizione ereditaria
Quest’ultimo ha a disposizione una particolare azione, la petizione ereditaria, con cui può chiedere il
riconoscimento della qualità di erede contro chiunque possiede tutti o parte dei beni ereditari a titolo di erede o
senza alcun titolo, al fine di vedersi restituire tali beni (art. 533 c.c.).
Quindi, l’azione di petizione ereditaria può essere esperita sia:
– contro chi pretende di essere egli stesso erede e quindi legittimato a possedere i beni per tale motivo; in tal
caso l’erede che agisce con l’azione deve provare unicamente l’esistenza di una valida vocazione a suo favore e la
valida accettazione (per cui se ad esempio un erede legittimo contesta ad un erede testamentario la sua qualità in
quanto ritiene che il testamento sia invalido, deve dare la prova della validità del testamento).
– contro chi possiede i beni ereditari senza contestare la qualità di erede; in tal caso l’erede si deve limitare a
provare che il bene posseduto dal terzo fa parte dell’asse ereditario.
Si tratta di un’azione volta ad accertare la qualità di erede o l’appartenenza del bene all’asse ereditario; la
restituzione del bene è solo un effetto secondario conseguente all’accertamento della qualità.
L’azione di petizione ereditaria si presenta molto simile all’azione di rivendica con cui però ha in comune solo il
risultato finale, ossia la restituzione del bene.
Cosa succede se chi possiede a titolo di erede o anche senza titolo aliena i beni a terzi prima di essere convenuto
con l’azione di petizione ereditaria.
In tal caso l’erede può anche agire contro i terzi. Ma bisogna fare delle precisazioni.
Infatti, se una persona ha acquistato da persona che si dichiara e che appare come erede, ma non lo è (erede
apparente), in tal caso sono fatti salvi i diritti dei terzi che abbiano acquistato a titolo oneroso e provino la loro
buona fede.
Se i terzi abbiano acquistato dall’erede apparente un bene immobile o un bene mobile registrato, sono fatti salvi i
diritti da loro acquistati qualora dimostrino di essere stati in buona fede e abbiano trascritto il relativo acquisto.
Qualora l’erede vero non riesce a recuperare il bene trasferito ai terzi allora può rivalersi sul possessore alienante
(l’erede apparente che possieda i beni). Anche in tal caso si fa una distinzione:
– se il possessore che ha alienato i beni era possessore in buona fede (lo è chi ha acquistato il possesso dei beni
ritenendo per errore di essere erede), è obbligato a restituire all’erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto.
– Se, invece, il possessore era in mala fede e ha alienato in mala fede, deve risarcire all’erede vero l’intero danno
da lui subito.
Il chiamato all’eredità può anche decidere di non accettare la delazione e rinunciare all’eredità attraverso una
dichiarazione unilaterale non recettizia ricevuta da un notaio o dal cancelliere del Tribunale territorialmente
competente.
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Rinuncia all’eredità.
La rinunzia non può riguardare i legati e le donazioni fatte in vita dal de cuius al rinunziante.
Tale dichiarazione viene poi inserita nel registro delle successioni.
Come l’accettazione anche la rinuncia ha effetto retroattivo a far data dall’apertura della
successione.
La rinunzia può essere fatta in qualsiasi momento dopo l’apertura della successione e fino a
quando è possibile accettare. E’ anche possibile che il chiamato dapprima rinunzi all’eredità e
poi accetti, sempre che non sia ancora intervenuta l’accettazione di un altro dei chiamati
all’eredità e sempre che non sia decorso il termine prescrizionale per accettare.
La rinunzia è nulla se è fatta sotto condizione o a termine o solo per una parte dell’eredità e può
essere impugnata solo per violenza e dolo.
Qualora il rinunziante abbia dei creditori personali e a seguito di delazione rinunzi all’eredità,
benché senza frode, a danno dei suo creditori, questi possono farsi autorizzare dal giudice,
entro 5 anni dalla rinunzia, ad accettare l’eredità in nome e luogo del rinunziante al fine di
soddisfarsi sui beni ereditari fino a concorrenza dei loro crediti.
A questo punto se, da un lato, il rinunziante non ha accettato l’eredità questa sarà entrata a far
parte del patrimonio dell’erede subentrato al suo posto che si vedrà aggrediti tali beni dai
creditori del rinunziante. Per cui si ritiene che l’erede subentrato possa evitare l’esecuzione dei
beni entrati nel suo patrimonio offrendo il valore dei beni oppure rilasciando i beni ai creditori
o ancora estinguendo direttamente i debiti del rinunziante per poi rivalersi nei suoi confronti.
Il legato è disposto di solito dal testatore, ma alcune rare volte anche dalla legge. Legato
testamentario: come si acquista il legato.
Legato testamentario: come si acquista il legato. Tra i casi di legato ex lege: l’assegno vitalizio
spettante ai figli naturali non riconoscibili e l’assegno periodico a carico dell’eredità a cui ha
diritto il coniuge divorziato che stia in stato di bisogno in caso di morte dell’ex coniuge
obbligato.
Il legato si acquista automaticamente senza bisogno di accettazione, salva la facoltà di
rinunziare.
Non è previsto un termine per la rinunzia che deve essere comunque fatta nel termine
prescrizionale a meno che l’autorità giudiziaria, su istanza di una persona interessata, non fissi
un termine trascorso il quale il legatario perde il diritto di rinunziare. Una volta rinunziato al
legato non è più possibile cambiare idea, ossia rinunziarvi.
Inoltre, il legatario, a differenza dell’erede, risponde delle obbligazioni del de cuius nei limiti
del valore della cosa legata.
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In caso di successione testamentaria le regole sulla delazione successiva sono molto complicate
rispetto alla successione legittima.
Delazione successiva
Abbiamo visto che all’apertura della successione la delazione individua il chiamato all’eredità
per vocazione testamentaria o legale. Se però il chiamato non può o non vuole accettare
bisogna stabilire chi subentra al suo posto.
In caso di successione testamentaria si segue questo iter:
– se il testatore ha previsto un sostituto nel caso in cui il chiamato o il legatario non possa o
non voglia succedere, si fa luogo alla sostituzione ordinaria. Il testatore può prevedere anche
una scala di sostituti che subentreranno eventualmente l’uno all’altro in ordine progressivo.
Se il testatore non ha previsto un sostituto bisogna verificare se è possibile applicare il
meccanismo della rappresentazione.
La rappresentazione fa subentrare all’infinito i discendenti legittimi o naturali (detti
rappresentanti) nel luogo e nel grado del loro ascendente (il rappresentato) che non può o non
vuole accettare a condizione che questi sia figlio legittimo, legittimato, adottivo o naturale del
defunto ovvero suo fratello o sorella.
In pratica la rappresentazione opera entro il doppio grado di parentela, ossia a favore dei
discendenti legittimi e naturali dei figli e fratelli del defunto. In caso di legato, il meccanismo
della rappresentazione incontra il limite del legato di usufrutto o di altro diritto personale
disposto dal de cuius e del legato ex lege avente ad oggetto un assegno vitalizio (in tali casi la
rappresentazione non opera perché trattasi di diritti personali nella cui titolarità non può
subentrare chiunque).
–
Se non vi sono i presupposti per la rappresentazione si applicano le regole
sull’accrescimento. Il meccanismo consiste nell’accrescersi della quota del chiamato che non
può o non vuole accettare a favore di quella degli altri chiamati che abbiano accettato.
L’accrescimento opera quando più eredi sono stati istituiti con uno stesso testamento
nell’universalità dei beni, senza determinazioni di parti o in parti uguali. L’acquisto per
accrescimento avviene di diritto senza che sia necessaria l’accettazione. In conseguenza si
subentra non solo nei diritti ma anche negli obblighi facenti capo al chiamato o al legatario
mancante.
– Se non ha luogo l’accrescimento la porzione dell’eredità mancante si devolve agli eredi
legittimi, mentre la porzione del legatario mancante va all’onerato.
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La quota di riserva
Gli eredi legittimari sono:
–
–
–
–
il coniuge;
i figli legittimi, legittimati e adottivi;
i figli naturali;
gli ascendenti legittimi, in assenza di figli.
Inoltre, a favore dei discendenti dei figli legittimi o naturali che vengono alla
successione in luogo di questi la legge attribuisce gli stessi diritti sulla quota di
riserva (c.d. rappresentazione).
Entità della quota di riserva
La quota di riserva varia a seconda della categoria di legittimario e in caso di concorso con altri
legittimari.
Ai figli: se il genitore lascia un solo figlio a lui spetta la metà del patrimonio. Se vi sono più
figli a loro spettano i 2/3 del patrimonio da diversi in parti uguali tra tutti i figli.
Agli ascendenti: se il de cuius non ha figli, ma solo ascendenti legittimi, a loro spetta un terzo
del patrimonio. Se vi sono più ascendenti la quota è ripartita tra gli stessi.
Al coniuge: al coniuge spetta la metà del patrimonio dell’altro coniuge. Inoltre, a lui sono
anche riservati i diritti di abitazione sulla casa di residenza e i diritti di uso sui mobili, se di
proprietà del de cuius o comuni. Quest’ultimi diritti gravano sulla quota disponibile e se questa
non è sufficiente sulla quota di riserva del coniuge.
Le ipotesi di concorso sono due, quella dei figli con il coniuge e quella del coniuge con gli
ascendenti.
Concorso tra figli e coniuge: Se il de cuius lascia il coniuge e un solo figlio, allora a
quest’ultimo spetta 1/3 e al coniuge ugualmente 1/3. Se il de cuius lascia più figli allora ad essi
spetta complessivamente (in parti uguali) la metà del patrimonio, mentre al coniuge 1/4.
Concorso tra ascendenti e coniuge: se il de cuius non ha figli, ma solo ascendenti legittimi e il
coniuge, a quest’ultimo è riservata la metà del patrimonio, mentre agli ascendenti 1/4. Se gli
ascendenti sono più di uno la quota loro spettante è tra loro ripartita.
Al coniuge separato al quale non sia stata addebitata la separazione con sentenza
passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato. Se,
invece, vi è stato addebito al coniuge spetta solo un assegno vitalizio se al
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momento dell’apertura della successione godeva degli alimenti a carico del
coniuge defunto.
La quota di riserva deve sempre pervenire ai legittimari anche contro la volontà del de cuius, il quale inoltre non
può imporre pesi o condizioni sulla quota stessa.
Per poter determinare la quota disponibile (di cui il defunto può disporre liberamente) e la quota di riserva
(riservata ai legittimari) si forma una massa di tutti i beni appartenenti al de cuius al tempo della morte (si
considerano anche le donazioni fatte in vita) togliendone il passivo, ossia i debiti.
Dopo averli riuniti tutti fittiziamente (si parla di riunione fittizia in quanto si tratta di fare una semplice operazione
matematica) si calcola la quota di cui il defunto poteva disporre.
La prova dell’appartenenza dei beni al de cuius e del loro valore deve essere data dal legittimario che voglia
controllare la congruità di quanto ricevuto o voglia stabilire quanto avrebbe dovuto ricevere. Può accadere che
detratti i debiti, il passivo sia superiore all’attivo, per cui la quota di legittima va calcolata solo sulle donazioni che
potrebbero in tal modo essere ridotte.
Facciamo un esempio pratico:
Immaginiamo che il de cuius abbia due figli e che in vita abbia donato ad un solo figlio beni per un valore di 200.
Alla sua morte il defunto lascia per testamento 1000 ripartito in tal modo: 300 ad un figlio, 300 all’altro figlio, 400
ad un’associazione. I debiti ammontano a 200.
Per vedere se la disposizione a favore dell’associazione è stata mantenuta nei limiti della quota disponibile,
togliamo dunque dal valore di tutti i beni i debiti per cui si avrà 1000-200=800; poi si aggiunge la donazione di
200 e si ottiene 1000. Dato che ai figli spettano i 2/3 del patrimonio a titolo di quota di riserva e cioè 666 (ossia
333 a ogni figlio), la quota disponibile è di 333 e pertanto la disposizione fatta all’associazione (essendo di 400) è
lesiva.
A questo punto entra in gioco la donazione di 200 fatta dal da cuius a uno dei due figli, dovendo verificare se la
lesione sia anche nei suoi confronti. Se la donazione era stata fatta al figlio senza esonero da imputazione all’asse
ereditario significa che essa era stata fatta in conto di legittima; in quest’ultimo caso la donazione va imputata
all’eredità e allora la lesione non sussiste (in quanto la quota è di 333 e il figlio ha ricevuto in donazione anche
200; per cui è sufficiente che riceva altre 133 per arrivare a 333, mentre ne ha ricevuto 300). Si tratterà di
reintegrare solo la quota di riserva dell’altro figlio che ha ricevuto solo 300, senza donazione, e che avendo invece
diritto a 333 dovrà avere altri 33.
L’azione di riduzione.
L’azione di riduzione è un’azione che spetta al legittimario nel caso in cui non abbia ricevuto nulla oppure che
abbia ricevuto per testamento o si trovi a succedere per successione legittima in una quota di beni inferiore a
quella che gli spetta per legge.
Tale lesione può essere stata cagionata dal defunto sia con disposizioni testamentarie che con atto tra vivi, come
donazioni e liberalità.
L’art. 560 c.c prevede che l’azione di riduzione consiste nell’attribuire al legittimario i beni in natura necessari a
reintegrare la sua quota lesa.
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In pratica, in presenza di successione testamentaria la riduzione consiste nel separare la parte del bene che serve
per integrare la quota riservata. Se ciò non è possibile allora il bene viene attribuito integralmente all’eredità o a
chi ha subito la riduzione con pagamento dei dovuti conguagli. I beni immobili e quelli mobili registrati vengono
restituiti al legittimario liberi da pesi e ipoteche, nonché da ogni diritto reale e personale di godimento e di
garanzia.
In caso di successione legittima l’art 553 c.c., nel concorso di legittimari con altri successori non legittimari, le
porzioni che spetterebbero a questi ultimi si riducono proporzionalmente nei limiti in cui è necessario per integrare
la quota riservata ai legittimari. Per cui si procederà prima a ridimensionare le quote dei successori non legittimari
(riducendo i beni loro spettanti o le loro quote) per poi passare a ridurre eventuali disposizioni testamentarie (se il
defunto ha disposto in parte dei suoi beni con testamento) e infine le donazioni.
In caso di disposizioni lesive della quota di riserva si procede prima alla riduzione delle disposizioni testamentarie
e poi alla riduzione delle donazioni in quanto le prime, essendo mortis causa, hanno effetto in un momento
successivo (ossi all’apertura della successione che segna anche il momento in cui si procede alla riunione fittizia).
Le disposizioni testamentarie vengono ridotte proporzionalmente (in proporzione a quanto ricevuto al fine di
mantenere intatte le proporzioni volute dal defunto) senza distinzione tra eredi e legatari a meno che il de cuius
non abbia dichiarato (nel testamento) che una disposizione deve avere effetto con preferenza rispetto alle altre.
Poi si procede a ridurre le donazioni valide. Se la donazione è nulla il legittimario può agire con l’azione di nullità
che ha come conseguenza quella di far rientrare il bene donato nell’asse ereditario, avvantaggiando così tutti gli
eredi( l’azione di riduzione, invece, mira solo a far dichiarare l’inefficacia delle donazioni o delle disposizioni
testamentarie nei confronti del legittimario; solo quest’ultimo potrà procedere poi alla reintegrazione della propria
quota, mentre la donazione rimarrà efficace nei confronti di ogni altro soggetto, anche del legittimario che non ha
agito in riduzione). Le donazioni si riducono ad iniziare dall’ultima e risalendo via via a quelle precedenti nel
tempo in quanto si presume che l’ultima donazione effettuata dal de cuius sia quella lesiva.
Facciamo un esempio: se il defunto ha in vita un patrimonio pari a 1000 e fa prima una donazione di 100 e poi
un’altra di 500, morendo subito dopo, e lasciando all’unico figlio un patrimonio di 400 si avrà la seguente
situazione: al relictum di 400 (che spetta al figlio) si devono togliere i debiti (supponiamo in tal caso pari a zero) e
si sommano le donazioni pari a 600. Si avrà dunque 1000. Poiché all’unico figlio spetta la metà del patrimonio,
ossia 500, ne deriva che la quota del figlio ricevuta per testamento è lesiva in quanto è stata di soli 400. Di
conseguenza egli potrà agire in riduzione nei confronti dell’ultima donazione (di 500) per recuperare 100. Saranno
salve l’ultima donazione per il restante di 400 e la precedente di 100.
L’azione di riduzione si prescrive nel termine di 10 anni decorrenti dalla morte del de cuius.
L’azione di riduzione e restituzione.
Una volta intrapresa l’azione di riduzione si può rinunciare ad essa senza particolari formalità (la rinuncia
all’azione di riduzione si può desumere anche da comportamenti concludenti) e ciò comporta che le donazioni e le
disposizioni testamentarie lesive diventano definitivamente inattaccabili.
L’azione di riduzione può essere intrapresa dai legittimari, dai loro eredi ed aventi causa (in quanto tale diritto si
trasmette mortis causa ed inter vivos ), nonché dai creditori ereditari quando il legittimario ha accettato senza
beneficio di inventario.
L’azione di riduzione può essere esperita solo nei confronti dei legatari, dei donatari e degli eredi in quanto
destinatari dell’assegnazione del defunto lesiva della quota di riserva.
Una volta accertata la lesione e dichiarato inefficace l’atto di conferimento si procederà alla restituzione dei beni
oppure al conguaglio in denaro.
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Nel caso in cui i convenuti con l’azione di riduzione hanno già alienato a terzi i beni il legittimario può, con la
sentenza che dichiara la lesione e l’inefficacia del relativo atto di conferimento, agire nei confronti dei terzi
acquirenti per ottenere la restituzione dei beni.
L’azione di restituzione è disciplinata dall’art. 563 c.c.: il legittimario deve per prima aggredire il patrimonio del
soggetto convenuto con l’azione di riduzione (che ha alienato il bene) per verificare se può rivalersi in toto su tale
patrimonio. In caso negativo può agire per la restituzione nei confronti dei terzi acquirenti.
Tutela dei terzi acquirenti
Gli acquirenti di beni immobili possono perdere il bene acquistato a seguito dell’esperimento da parte del
legittimario dell’azione di riduzione tranne che nel caso di seguito indicato. Infatti, se la trascrizione della
domanda di riduzione è eseguita dopo 10 anni dall’apertura della successione, la sentenza che l’accoglie non
pregiudica i terzi che hanno acquistato a titolo oneroso in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione
della domanda di riduzione.
Per cui chi intende acquistare un bene da un donatario deve stare bene attento: se acquista prima che siano
trascorsi 10 anni dalla morte del de cuius rischia di perdere tutto di fronte all’azione di riduzione del legittimario
leso, se invece acquista dopo prevale sempre ché che abbia provveduto a trascrivere l’atto di acquisto prima della
trascrizione dell’azione di riduzione.
Il terzo acquirente che soccombe all’azione di riduzione può liberarsi dall’obbligo di restituire in natura le cose
donate pagando l’equivalente in denaro (art. 563, co 3, c.c.).
Irrecuperabilità del bene
Può accadere che il bene non sia recuperabile per causa imputabile al convenuto in riduzione (e non per cause di
forza maggiore), per causa imputabile ai suoi aventi causa o perché il bene è stato alienato a terzi e l’atto di
acquisto non sia attaccabile ed in più che il legittimario non possa neanche rifarsi sul patrimonio del convenuto in
riduzione. In tutti questi casi il valore dei beni non recuperati viene detratta dalla massa ereditaria.
La ratio di tale disposizione consiste nel trovare un equo contemperamento sottraendo dalla massa ereditaria il
valore della donazione con la conseguenza di ridurre in tal modo sia la quota di riserva che quella disponibile
(ponendo a carico sia del legittimario che dei donatari la perdita patrimoniale). In questa maniera il legittimario
potrà rivolgersi anche contro i donatori precedenti ma per un importo inferiore.
L’azione di riduzione si prescrive nel termine di 10 anni decorrenti dalla morte del de cuius.
L’art. 564 c.c. prevede, quanto alle condizioni per esercitare l’azione di riduzione, che il legittimario che non ha
accettato con beneficio di inventario non può chiedere la riduzione delle donazioni e dei legati, a meno che le
donazioni ed i legati siano stati fatti a persone chiamate come coeredi (sebbene abbiano rinunciato all’eredità).
L’azione di riduzione. L’azione di riduzione. Le condizioni dell’azione.
L’azione di riduzione. Le condizioni dell’azione. Questa disposizione non si applica all’erede che ha accettato col
beneficio d’inventario e che ne è decaduto.
Lo scopo della norma è quella di tutelare i donatari e legatari estranei i quali per poter riuscire a verificare se vi
sia stata un’eventuale lesione, necessitano di un inventario che specifichi l’esatta consistenza dei beni ereditari.
Per tale motivo l’accettazione beneficiata non è, invece, richiesta quando legatari e donatari siano anche coeredi in
quanto si presumi che gli stessi, in quanto successori a titolo universale, conoscano esattamente l’entità del
patrimonio senza dover procedere all’inventario.
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Altra condizione è quella per cui il legittimario che chiede la riduzione ha l’obbligo di imputare alla sua quota di
legittima le donazioni ed i legati ricevuti, a meno che non ne sia stato espressamente dispensato.
Il legittimario che succede per rappresentazione deve anche imputare le donazioni e i legati fatti, senza espressa
dispensa, al suo ascendente. La dispensa in ogni caso non ha effetto a danno dei donatari anteriori.
Nel caso in cui, poi, il legittimario rinunzi all’eredità può, sulla sua quota disponibile, ritenere le donazioni o
conseguire i legati. Per cui la rinunzia all’eredità non comporta rinunzia alle donazioni ricevute in vita, sebbene
esse devono sempre intendersi come fatte in conto di legittima.
Qualora il relictum, ossia tutti i beni facenti parte del patrimonio del de cuius, è superiore ai debiti ereditari non vi
sono problemi nei rapporti tra i legittimari e i creditori del defunto in quanto quest’ultimi verranno soddisfatti.
Legittimari e creditori.
Legittimari e creditori. Se, al contrario, l’eredità è passiva può nascere un conflitto tra i creditori dell’eredità e i
legittimari in presenza di donazioni fatte in vita dal de cuius a terzi estranei.
Infatti, in tal caso i legittimari agiranno in riduzione per reintegrare la propria quota lesa e i creditori possono
pretendere di rivalersi anch’essi sulle donazioni.
I creditori ereditari possono agire contro le donazioni con l’azione revocatoria sempre che non sia decorso il
termine di 5 anni. Nel conflitto con il legittimario che vuole agire con l’zione di riduzione si ritiene che prevalga
l’azione revocatoria. Se l’azione revocatoria è prescritta rimane la possibilità di agire con l’azione di riduzione;
però, i creditori del de cuius non possono chiedere la riduzione se il legittimario avente diritto alla riduzione ha
accettato con beneficio di inventario
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Successione testamentaria
Il codice civile all’art. 587 definisce il testamento come atto revocabile con il
quale taluno dispone per dopo la propria morte di tutte le proprie sostanze o di
parte di esse.
Forma testamento
Le disposizioni di carattere non patrimoniale, ossia le espressioni sentimentali e
simili, possono essere contenute nel testamento ed hanno efficacia, anche se la
sua finalità è essenzialmente patrimoniale.
Le disposizioni testamentarie possono essere a carattere universale attribuendo la
qualità di erede se comprendono la totalità o una quota soltanto dei beni del
testatore; oppure possono essere a carattere particolare, attribuendo invece la
qualità di legatario.
Ma qual è la differenza fra erede e legatario?
Mentre l’erede risponde dei debiti dell’asse ereditario pro quota, il legatario non
ne risponde mai.
Il testamento olografo deve essere scritto per intero, datato e
sottoscritto di mano del testatore (art 602 c.c.). La sottoscrizione deve essere
apposta alla fine delle disposizioni ed è valida anche se non contiene il nome e
cognome, purché la firma permetta di riconoscere con certezza la persona del
testatore. La data deve contenere l’indicazione del giorno, mese, anno che
possono espressi in qualsiasi modo purché tutti e tre gli elementi siano
individuabili con certezza. L’eventuale prova della falsità della data è consentita
solo quando bisogna giudicare della capacità del testatore, della priorità di data
fra più testamenti. In tutti gli altri casi la sicurezza della non esattezza della data
non inficia in alcun modo il testamento olografo.
Il testamento pubblico è ricevuto dal notaio in presenza di due
testimoni (art. 603 c.c.). Il testatore, alla presenza dei testimoni, dichiara al notaio
la sua volontà che viene redatta in forma scritta dal pubblico ufficiale che alla
fine ne dà lettura al testatore, indicando con precisione la data del ricevimento, il
luogo e l’ora. Il testamento è sottoscritto oltre che dal notaio e dal testatore anche
dai due testimoni.
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Nel caso in cui il testatore non possa firmare ne deve dichiarare la causa e il
notaio ne deve dare atto prima della lettura del documento. Se, inoltre, il testatore
è anche incapace di leggere è necessaria la presenza di quattro testimoni. Se, poi,
il testatore si esprime in una lingua straniera che il notaio non è in grado di
comprendere è indispensabile la presenza di un interprete.
Il testamento segreto può essere scritto sia dal testatore che da un terzo.
Nel primo caso deve essere sottoscritto alla fine delle disposizioni, mentre se è
scritto in tutto o in parte da altri o mediante l’ausilio di mezzi meccanici deve
contenere la sottoscrizione del testatore su ciascun foglio, unito o separato. Il
testatore che sa leggere ma non sa scrivere o che non ha potuto firmare deve
dichiarare al notaio che riceve il testamento segreto di averlo letto, specificando
la causa che gli ha impedito di firmare; di tutto ciò si deve far menzione nell’atto
di ricevimento. Chi non sa o non può leggere, come il cieco, non può fare
testamento segreto. Altre importanti adempimenti da seguire sono le seguenti:
– la carta che contiene le disposizioni testamentarie deve essere sigillata con
un’impronta di modo che non si possa aprire senza rompere il sigillo;
– il testatore, alla presenza di sue testimoni, presenta personalmente al notaio il
documento sigillato oppure lo stesso viene sigillato dal notaio alla presenza dei
testimoni e con la dichiarazione del testatore che quel documento rappresenta il
suo testamento; inoltre, se il testatore è muto o sordomuto deve scrivere tale
dichiarazione indicando anche di aver letto il testamento nel caso in cui questo sia
stato scritto da altri;
–
Sul documento che il testatore consegna al notaio o su altro foglio
predisposto dal notaio stesso e da lui sigillato si deve scrivere l’atto di
ricevimento che testimonia la consegna, la dichiarazione del testatore, l’impronta
del sigillo e l’assistenza dei testimoni. L’atto deve essere sottoscritto dal notaio,
dal testatore, dai testimoni. Se il testatore non può sottoscrivere l’atto di consegna
si segue la regola prevista per il testamento pubblico.
Il codice civile contempla tre ipotesi di testamenti speciali: quelli scritti in occasione di malattie contagiose o di
calamità pubbliche o infortuni, quelli redatti durante la navigazione marittima o aerea e quelli redatti da militari.
Testamenti speciali: malattie contagiose, calamità pubbliche o infortuni.
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Le forme speciali di testamento sono quelle previste per circostanze eccezionali; tali testamenti, detti speciali,
sono ricevuti da soggetti diversi dal notaio con formalità semplificate e hanno un’efficacia temporanea.
Testamenti speciali: le forme speciali di testamento.
Ai sensi dell’art 609 c.c. se il testatore si trova in un luogo in cui vi sia una malattia reputata contagiosa o per
causa di pubblica calamità o d’infortunio, il testamento è valido se ricevuto da un notaio, dal giudice di pace del
luogo, dal sindaco o da un ministro di culto; è comunque sempre necessaria la presenza di due testimoni che
abbiano un’età non inferiore a sedici anni.
Così, durante un viaggio a bordo di un aereo o di una nave il testamento può essere ricevuto dal comandante,
mentre il testamento del comandante può essere ricevuto da colui che lo segue immediatamente in ordine di
servizio.
Il testamento testamenti dei militari e delle persone facenti parte delle forze armate in guerra e che si trovano in
zona di operazioni belliche o prigionieri o si trovano in luoghi dove sono interrotte le comunicazioni, può essere
ricevuto da un ufficiale, da un cappellano militare, da un ufficiale della croce rossa alla presenza di due testimoni.
Il testamento deve essere poi trasmesso tempestivamente al quartiere generale e da questo al Ministero
competente, che ne ordina il deposito nell’archivio notarile del luogo del domicilio o dell’ultima residenza del
testatore.
I testamenti speciali devono essere sottoscritti dal testatore, dalla persona che lo ha ricevuto e dai testimoni. Se il
testatore o i testimoni non possono sottoscrivere, si deve indicare il motivo che ha reso impossibile la
sottoscrizione. Inoltre, i testamenti speciali perdono in ogni caso efficacia una volta trascorsi tre mesi dalla
normalizzazione degli eventi quando il testatore è nuovamente in grado di preparare un testamento nelle forme
ordinarie.
I testamenti speciali sono nulli quando manca la redazione in forma scritta della dichiarazione del testatore ovvero
la sottoscrizione della persona autorizzata a riceverla o del testatore.
In caso di altri difetti di forma la sanzione è quella dell’annullabilità del testamento sottoposta a prescrizione
quinquennale che decorre dal momento in cui è stata data esecuzione alla volontà testamentaria.
Il testamento internazionale è disciplinato dalla legge n. 387 del 29 novembre 1990 con cui l’Italia ha aderito alla
Convenzione di Washington (1973) che ha istituito una legge uniforme sulla forma di un testamento
internazionale.
Per cui il testamento di un italiano o di uno straniero è valido sul piano formale qualunque sia il luogo dove è stato
redatto, la situazione dei beni, la residenza del testatore, purché sia scritto, in qualunque lingua, a mano, anche da
terzi, o con altro procedimento. Inoltre, il testatore deve dichiarare in presenza di due testimoni e della persona
abilitata a ricevere il testamento (per il territorio nazionale è il notaio, mentre all’estero un agente diplomatico o
consolare) che il documento è il suo testamento e che egli ne conosce il contenuto, sottoscrivendolo poi o, se già
apposta, riconoscendo la firma ovvero indicando i motivi dell’eventuale impossibilità a firmare.
I testimoni e la persona abilitata non devono necessariamente conoscerne il contenuto, ma devono sottoscrivere il
testamento in presenza del testatore. Ciascuna delle sottoscrizioni deve essere apposta in calce e se il testamento si
compone di più fogli, ciascuno deve essere firmato dal testatore. La data del testamento coincide con quella della
firma apposta dalla persona abilitata alla fine del testamento stesso.
Infine la persona abilitata a ricevere il testamento redige un attestato in cui si dà atto dell’osservanza degli obblighi
formali previsti dalla legge. Una copia di tale attestato viene consegnata dalla persona abilitata al testatore. Il
testamento internazionale rappresenta, in conclusione, una via intermedia tra un testamento pubblico e uno
segreto.
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La capacità del testatore.
Per tale motivo è necessario che egli abbia la piena capacità di agire nonché la capacità di intendere e di volere. Di
conseguenza non possono fare testamento i minori, gli interdetti e gli incapaci naturali.
Per stabilire se il testamento sia valido bisogna avere come riferimento il momento in qui esso è stato redatto.
Se, dunque, il testatore redige testamento e in un momento successivo viene dichiarato interdetto il testamento è
valido ed efficace, mentre se la redazione è avvenuta quando la dichiarazione di interdizione era già pendente
allora il testamento è invalido (così come rimane invalido anche se il testatore ritorna in un secondo momento
pienamente capace).
Molto più difficile è stabilire l’incapacità naturale del testatore al momento della redazione del testamento. La
prova dell’incapacità deve essere molto rigorosa e tale da aver potuto legittimare una pronuncia di interdizione e
non di semplice inabilitazione che invece permette di fare testamento.
Poiché l’interdizione legale non comporta anche l’incapacità di intendere, egli può fare validamente testamento.
Sono nulle le disposizioni testamentarie a favore del tutore e del protutore se redatte dopo la nomina di questo (o
del protutore che sostituiva il tutore) e prima che sia stato approvato il conto. Questo non vale nel caso in cui il
tutore o del protutore sia ascendente, discendente, fratello, sorella o coniuge del testatore; in tali casi il testamento
è comunque valido.
Sono, altresì, nulle le disposizioni a favore del notaio o di altro ufficiale che ha ricevuto il testamento pubblico, o
quelle fatte a favore dei testimoni o dell’interprete intervenuti al testamento medesimo.
Altri soggetti che non possono succedere: colui che ha scritto il testamento segreto e il notaio a cui il testamento
segreto è stato consegnato in plico non sigillato.
Infine sono nulle le disposizioni testamentarie fatte sotto nome d’interposta persona. Si reputano per persone
interposte il padre, la madre, i discendenti e il coniuge della persona incapace.
Il testamento può essere impugnato da chiunque vi abbia l’interesse qualora vi sia stato un vizio della volontà,
ossia qualora sia stato redatto a seguito di errore, di violenza o di dolo (art. 624 c.c.). Impugnazione testamento: i
vizi della volontà.
Impugnazione testamento
Tra i vizi della volontà particolare rilevanza è riconosciuta all’errore sul motivo che è causa di annullamento
della disposizione testamentaria quando ricorrono due presupposti: quando il motivo risulta dal testamento, anche
se non in maniera espressa, e quando il motivo è il solo che ha spinto il testatore a quella data disposizione.
In caso di erronea indicazione dell’erede o del legatario o della cosa che forma oggetto della disposizione, il
testamento è comunque valido quando dal contesto delle disposizioni testamentarie o altrimenti risulta in modo
non equivoco quale persona il testatore voleva effettivamente nominare o a quale cosa il testatore si riferiva.
Se il motivo ha indotto il testatore a disporre in un determinato modo è un motivo illecito, esso rende nulla la
disposizione testamentaria quando tale motivo illecito risulta dal testamento ed è il solo che ha spinto il testatore a
disporre.
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Non è consentito agire in giudizio per accertare che le disposizioni fatte a favore di persona dichiarata nel
testamento ( il c.d. istituito apparente) sono solo apparenti e che in realtà riguardano altra persona, anche se
espressioni del testamento possono indicare o far supporre che si tratta di persona interposta.
Tuttavia la persona dichiarata nel testamento, se ha spontaneamente eseguito la disposizione fiduciaria trasferendo
i beni alla persona voluta dal testatore, non può agire per la ripetizione a meno che la persona non sia un incapace.
Perché sia abbia la disposizione fiduciaria è necessario che l’istituito apparente sia a conoscenza della volontà del
de cuius e voglia attuarla. Per cui si avrà così un doppio trasferimento: dal de cuius alla persona interposta (mortis
causa) e da quest’ultima alla persona che il defunto voleva effettivamente beneficiare (inter vivos).
È nulla qualsiasi disposizione fatta a favore di una persona in modo da non poter essere determinata.
Il codice esclude che il de cuius possa rimettere all’arbitrio di un terzo l’indicazione dell’erede o del legatario, ma
permette che un terzo possa scegliere la persona del legatario tra più persone indicate dal testatore stesso. Se il
terzo non può o non vuole scegliere, la scelta è fatta con decreto del presidente del tribunale del luogo dove si è
aperta la successione (art. 631 c.c.)
Il codice prevede la possibilità di poter disporre a favore dei poveri, esprimendosi in modo generico, ossia senza
che sia necessario determinare l’uso o il pubblico istituto a cui beneficio sono fatte le disposizioni. In tal caso il
testamento si intende fatto in favore dei poveri del luogo in cui il testatore aveva il domicilio al tempo della sua
morte, e i beni sono devoluti all’ente comunale di assistenza.
Il testatore può altresì disporre a favore dell’anima; in tal caso le disposizioni sono valide se siano determinati i
beni o possa essere determinata la somma da impiegarsi a tale fine.
Si ritiene che legittimato a esigere la prestazione fatta a favore dell’anima sia il parroco del luogo.
Il testatore nel redigere il proprio testamento può anche decidere di apporvi una condizione, un termine o un onere.
La condizione consiste in un evento futuro e incerto al verificarsi del quale è subordinata efficacia delle
disposizioni sottopostevi oppure al contrario la cessazione degli effetti.
Si è visto negli articoli precedenti che il testatore non può apporre pesi o condizioni sulla quota di legittima
(riservata ai legittimari), di conseguenza essa può riguardare solo la parte disponibile.
La condizione può essere sospensiva o risolutiva. Per ciò che concerne la prima, quando l’erede è istituito sotto
condizione sospensiva egli ha solo un’aspettativa di delazione (chiamata all’eredità) che avverrà nel momento in
cui si avverrà la condizione. Esempio: istituisco mio erede Marco a condizione che al momento della mia morte si
sia già laureato)
In caso di condizione risolutiva, invece, la delazione è immediata, ossia gli effetti del testamento si verificano con
l’apertura della successione; però il verificarsi della condizione risolutiva fa venir meno, con effetti retroattivi,
l’istituzione di erede o il legato.
Le condizioni impossibili o illecite perché contrarie a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, si
considerano come non apposte a meno che non risulti dal testamento che la condizione è stato l’unico motivo che
ha spinto il testatore a fare testamento; in tal caso è viziata l’intera disposizione testamentaria.
In linea di principio si può dire che la condizione non può e non deve essere il mezzo per imporre ad un erede o al
legatario il compimento di attività illecite o che possono ledere la libertà personale oltre ogni tollerabilità (si pensi
alla condizione di pretendere l’iscrizione ad un dato partito politico, o ancora di prendere i voti sacri, di impedire il
matrimonio).
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Un particolare tipo di condizione è quella sospensiva potestativa; essa fa sì che il chiamato acquisterà la qualità di
erede o il legato solo se deciderà di far avverare la condizione, quindi l’acquisto della qualità o meno di erede
dipende dalla sua volontà. Però egli non potrà aspettare troppo a lungo prima di decidere se far avverare la
condizione, tant’è che il codice prevede che se il testatore non gli ha dato un termine le persone interessate
potranno rivolgersi al giudice perché fissi loro detto termine.
Il testatore non può apporre un termine, che si considera come non apposto, alla istituzione di erede e ciò in base
al principio “semel heres sempre heres”, ossia per l’erede a titolo universale la delazione è immediata e una volta
diventato erede sarà sempre erede. Non è ammesso istituire eredi “a termine”. Ciò non vale per il legatario che
succede a titolo particolare. Il testatore può legittimamente istituire un legato a termine.
Si tratta di un peso imposto all’erede o al legatario che grava Successione testamentaria sulla loro persona e non
sui loro beni. In pratica è un’obbligazione il cui contenuto il defunto è libero di scegliere. Si ritiene che il modus
sia concesso al testatore, insieme alla condizione, al fine di dare vincolatività ai propri desideri (si pensi
all’obbligo di celebrare ogni anno una cerimonia pubblica in suo nome).
A volte risulta difficile capire se il de cuius abbia inteso disporre un modus o condizionare l’istituzione ereditaria o
il legato. Per cui si può dire che il modus obbliga ad una data prestazione senza però incidere, sospendendone
l’efficacia, sulla disposizione testamentaria; inoltre, il modus pone sempre a carico dell’erede o del legatario la
prestazione.
Il modus illecito o impossibile si considera come non apposto, al pari della condizione; se, tuttavia, è stato l’unico
motivo che ha spinto il testatore a disporre, rende nulla l’intera disposizione testamentaria. L’inadempimento del
modus può portare qualsiasi persona interessata ad agire per costringere l’onerato ad adempiere.
Revoca testamento.
Il testamento può essere revocato fino al momento della morte del testatore ( art
679 c.c.) attraverso una dichiarazione o con comportamento concludente.
Nel primo caso si parla di revoca espressa che può farsi solo mediante la
redazione di un nuovo testamento o con atto ricevuto dal notaio in presenza di
due testimoni in cui il testatore dichiara di revocare in tutto o in parte il
testamento anteriore (art. 680 c.c.). Il nuovo testamento può essere fatto con
qualunque delle forme previste dalla legge e non dovrà per forza contenere nuove
disposizioni ma potrà limitarsi a revocare tutto il testamento anteriore (aprendo
così la strada alla successione legittima revoca testamento) o singole disposizioni
precedenti.
La revoca per comportamenti concludenti consiste nel fatto che la legge ricollega a determinate situazioni o azioni
l’effetto revocatorio, ma bisogna distinguere:
–
Così un testamento posteriore che non revoca espressamente quello precedente ha l’effetto di annullare le
vecchie disposizioni che sono in contrasto o incompatibili con le nuove (art. 682 c.c.);
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– Il testamento olografo distrutto, lacerato o cancellato in tutto o in parte si considera revocato a meno che non si
dimostri che ciò è accaduto per opera di terzi o per errore del testatore (art. 684 c.c.);
– Quando il testatore aliena la cosa legata o la trasforma in modo da farle perdere la primitiva denominazione il
legato si considera revocato anche se la cosa poi torna di proprietà del testatore o se l’alienazione è annullabile per
vizi diversi da quelli del consenso. Se il testatore vuole trasformare il legato di cosa propria in legato di cosa altrui
ha l’obbligo di dichiararlo per iscritto (686 c.c.);
– La legge prevede un caso di revoca di diritto delle disposizioni a titolo di erede o di legato fatte dal testatore
che al tempo non aveva figli o ignorava di averne, qualora nel primo caso sopravvengano figli o, nel secondo, il
testatore proceda a legittimazioni, adozioni o riconoscimenti di figli naturali (art. 687 c.c.).
Il testamento è annullabile per vizi della volontà, per incapacità di disporre per testamento, per
vizi formali non determinanti.
L’azione per far valere la nullità del testamento può essere esperita da chiunque vi abbia
interesse e si prescrive in cinque anni che decorrono dal giorno in cui si è avuta notizia del
dolo, violenza o errore oppure dal giorno in cui è stata data esecuzione alle disposizioni
testamentarie.
Il testamento è nullo in presenza di gravi vizi di forma che fanno dubitare che il testamento
provenga dalla persona del de cuius, si pensi:
–
alla mancanza della sottoscrizione in caso di testamento olografo;
–
alla mancanza delle forme prescritte per il testamento segreto;
–
alla mancanza della redazione per iscritto, da parte del notaio, delle dichiarazioni del
testatore o della sottoscrizione o del notaio o del testatore, in caso di testamento pubblico).
In tutti questi casi è nullo l’intero testamento.
In tutti gli altri casi la nullità colpisce solo le singole disposizioni, lasciando valide le altre. Si
pensi:
– al motivo illecito che rende nulla la singola disposizione testamentaria, quando risulta che
sia stato il solo motivo che ha determinato il testatore a disporre;
– alle disposizioni fatte a favore di persone incapaci a succedere; è il caso di quelle fatte dalla
persona sottoposta a tutela in favore del tutore, esse sono nulle se fatte dopo la nomina di
questo e prima che sia approvato il conto o sia estinta l’azione per il rendimento del conto
medesimo. Lo stesso vale per il protutore;
– alle disposizioni fatte a favore di persona incerta, ossia indicata in modo da non poter essere
determinata;
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–
alle disposizioni testamentarie contenenti condizioni impossibili o contrarie a norme
imperative, all’ordine pubblico o al buon costume; esse si considerano come non apposte,
salvo quanto è stabilito dall’art. 626.
In materia di legato, è nullo quello di cosa altrui (ossia dell’onerato o di un terzo), salva diversa
volontà del de cuius.
Conferma del testamento nullo
La nullità del testamento o della singola disposizione può essere superata mediante la conferma
o l’esecuzione volontaria delle disposizioni (art. 590 c.c.). Infatti, la nullità non può essere fatta
valere da chi, conoscendone la causa di nullità, ha dopo la morte del testatore confermato la
disposizione o ha dato ad essa volontaria esecuzione.
In caso di successione testamentaria si segue questo iter:
–
se il testatore ha previsto un sostituto nel caso in cui il chiamato o il legatario non possa o non voglia
succedere, si fa luogo alla sostituzione ordinaria. Il testatore può prevedere anche una scala di sostituti che
subentreranno eventualmente l’uno all’altro in ordine progressivo.
Se il testatore non ha previsto un sostituto bisogna verificare se è possibile applicare il meccanismo della
rappresentazione.
La rappresentazione fa subentrare all’infinito i discendenti legittimi o naturali (detti rappresentanti) nel luogo e nel
grado del loro ascendente (il rappresentato) che non può o non vuole accettare a condizione che questi sia figlio
legittimo, legittimato, adottivo o naturale del defunto ovvero suo fratello o sorella.
In pratica la rappresentazione opera entro il doppio grado di parentela, ossia a favore dei discendenti legittimi e
naturali dei figli e fratelli del defunto. In caso di legato, il meccanismo della rappresentazione incontra il limite del
legato di usufrutto o di altro diritto personale disposto dal de cuius e del legato ex lege avente ad oggetto una
assegno vitalizio (in tali casi la rappresentazione non opera perché trattasi di diritti personali nella cui titolarità non
può subentrare chiunque).
Delazione successiva
– Se non vi sono i presupposti per la rappresentazione si applicano le regole sull’accrescimento. Il meccanismo
consiste nell’accrescersi della quota del chiamato che non può o non vuole accettare a favore di quella degli altri
chiamati che abbiano accettato.
L’accrescimento opera quando più eredi sono stati istituiti con uno stesso testamento nell’universalità dei beni,
senza determinazioni di parti o in parti uguali. L’acquisto per accrescimento avviene di diritto senza che sia
necessaria l’accettazione. In conseguenza si subentra non solo nei diritti ma anche negli obblighi facenti capo al
chiamato o al legatario mancante.
– Se non ha luogo l’accrescimento la porzione dell’eredità mancante si devolve agli eredi legittimi, mentre la
porzione del legatario mancante va all’onerato.
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Il fenomeno della sostituzione fedecommissaria si inserisce nell’ambito della delazione successiva. Successione
eredi: la sostituzione fedecommissaria.
Successione eredi: la sostituzione fedecommissaria. È una sostituzione prevista dal defunto, non nel caso in cui
l’istituito non possa o non voglia succedere, quanto per il momento della morte di quest’ultimo, quindi per dopo
che egli ha accettato la delazione.
Facciamo un esempio di sostituzione fedecommissaria: si pensi al testatore che istituisce erede o legatario Tizio
con l’obbligo di conservare il patrimonio che andrà, alla morte di Tizio, a Caio, indipendentemente dalla volontà
positiva o contraria di Tizio. Dunque, Caio succederà direttamente al testatore originario che ha disposto la
sostituzione fedecommissaria.
L’istituto della sostituzione fedecommissaria può essere previsto solo nei confronti dell’intero patrimonio ed
esclusivamente se l’istituito è interdetto, figlio, discendente o coniuge del testatore. Inoltre, colui che subentra nel
patrimonio alla morte dell’istituito può essere solo la persona o l’ente che ha avuto cura dell’interdetto stesso. Per
cui più esattamente si parla di fedecommesso assistenziale.
La disciplina si estende anche al minore di età che si trovi in condizioni di abituale infermità di mente tali da far
presumere la successiva pronuncia di interdizione che deve seguire entro due anni dal raggiungimento della
maggiore età. Se ciò non avviene la sostituzione è priva di effetto.
Una volta che l’interdetto venga meno il sostituito succede non all’istituito (interdetto) ma all’originario de cuius .
Se poi il sostituito non possa o non voglia accettare non opera la delazione successiva a vantaggio dei suoi
successibili, ma ha luogo la successione legittima dell’interdetto.
Poteri dell’istituito
L’istituito ha solo il godimento e la libera amministrazione dei beni che formano oggetto della sostituzione, può
compiere innovazioni e stare in giudizio e può alienare i beni solo in caso di utilità evidente e previa
autorizzazione dell’autorità giudiziaria (lo stesso vale per l’iscrizione di ipoteche). Si può dire che la figura del
fedecommesso è simile a quella dell’usufruttuario.
Le norme sul fedecommesso si applicano anche ai legati.
Se il de cuius vuole che venga controllata la corretta attuazione delle sue volontà può nominare un esecutore
testamentario o più esecutori (art. 700 c.c.).
L’esecutore testamentario può essere anche un suo erede o legatario di particolare fiducia.
Se l’esecutore testamentario accetta mediante una dichiarazione scritta resa nella cancelleria del giudice di pace e
annotata nel registro delle successioni, egli dovrà amministrare la massa ereditaria chiedendo il possesso all’erede
per non più di un anno. L’autorità giudiziaria può, però, prolungare la durata per un altro anno qualora ve ne sia la
necessità e sentiti gli eredi.
L’amministrazione avviene a nome dell’esecutore testamentario, ma gli effetti degli atti ricadono sulla sfera
patrimoniale dell’erede. Per il compimento degli atti di straordinaria amministrazione, invece, è necessaria
l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
In generale si può dire che l’amministrazione dell’esecutore testamentario è volta ad attuare la volontà del de
cuius, come l’adempimento dei legati o l’alienazione di immobili il cui ricavato dividere tra i vari chiamati.
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Quando manca in tutto in parte una disposizione testamentaria si apre la
successione legittima
che pertanto può anche convivere con quella
testamentaria
La successione legittima si ha anche qualora la disposizione testamentaria, pur
esistendo, sia nulla o annullata.
Quando si apre la successione legittima l’eredità si devolve agli eredi legittimi:
– al coniuge;
– ai discendenti legittimi e naturali;
– agli ascendenti legittimi;
– ai collaterali;
– ai parenti entro il sesto grado;
– ai fratelli e sorelle naturali;
– allo Stato.
La legge stabilisce l’ordine di chiamata e le quote in caso di concorso con il coniuge.
Per cui, per primi saranno chiamati i figli e i loro discendenti, tutti in parti uguali. Se, però, insieme ai
figli concorre il coniuge a questi spetta la metà del patrimonio se il figlio è uno (a questi va l’altra metà
del patrimonio. Mentre, se i figli sono più di uno allora al coniuge spetta 1/3 del patrimonio e ai figli i
2/3.
Se il defunto non ha lasciato figli, il patrimonio si devolve ai genitori o agli ascendenti, e ai fratelli e
sorelle (i fratelli e sorelle unilaterali prendono la metà della quota che spetta ai fratelli e sorelle germani
nati dagli stessi genitori). In caso essi concorrano con il coniuge a questi vanno i 2/3 del patrimonio.
In mancanza di figli, di genitori o di ascendenti, di fratelli e sorelle, al coniuge si devolve l’intera
eredità.
Se mancano il coniuge, figli, genitori o ascendenti, fratelli e sorelle, succedono i parenti entro il sesto
grado ad iniziare da quello di grado più vicino. Dopo di che succedono i fratelli e le sorelle.
Qualora il de cuius non abbia parenti entro il sesto grado l’eredità di devolve di diritto allo Stato. La
successione dello Stato è disciplinata dall’articolo 586 del codice civile e prevede la devoluzione
dell’eredità allo Stato nell’ipotesi in cui il de cuius, morto lasciando testamento, non abbia eredi
legittimi fino al sesto grado.
In tal caso l’acquisto opera di diritto e non può essere oggetto di rinunzia da parte dello Stato che deve
accettare con beneficio di inventario. Lo Stato risponde dei debiti ereditari e dei legati nei limiti del
valore dei beni acquistati.
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LA DONAZIONE
La donazione è il negozio giuridico col quale una parte, il donante,
intenzionalmente arricchisce l'altra, il donatario, disponendo di un proprio diritto
- o obbligandosi a disporne - senza conseguire un corrispettivo.
Ai sensi dell'art. 769 del codice civile, la donazione è un contratto: infatti per il suo
perfezionamento serve l'incontro delle dichiarazioni di entrambe le parti. Il codice del 1865
definiva la donazione come atto unilaterale e la accostava pertanto al testamento.
Da un lato troviamo la manifestazione di volontà di una parte di arricchire l'altra parte senza
corrispettivo, dall'altro lato troviamo la volontà del donatario di accettare l'arricchimento; trova
qui piena applicazione la regola secondo cui invito beneficium non datur, in origine posta a
presidio di una assoluta intangibilità della sfera giuridica di ogni individuo e ora - nell'attuale
ordinamento - rilevante solo nei limiti in cui il beneficio non rechi oneri o obblighi con sé (si
pensi alla donazione di un edificio e ai connessi oneri di manutenzione).
Secondo alcune tesi, pur essendo la donazione un contratto, è inammissibile un preliminare di
donazione, vista la sua spontaneità, infatti sarebbe esclusa da un contratto volto a creare
l'obbligo di concludere una donazione. A ciò si è obiettato che la spontaneità dell'attribuzione
verrebbe anticipata dal contratto preliminare, non per questo elisa, sì che la sequenza
preliminare di donazione/atto definitivo di attribuzione continuerebbe a soddisfare i requisiti di
cui all'art. 769 C.C. Eguale contrasto accompagna la sorte della promessa di donazione.
Inoltre, non rientra nella categoria delle "donazioni" il negozio di dotazione delle fondazioni,
costituito per atto inter vivos.
Funzione (causa) della donazione
Il contratto di donazione sorge allo scopo di arricchire un altro soggetto: quindi elementi della
donazione
sono
lo
spirito
di
liberalità
e
l'arricchimento.
Lo spirito di liberalità (animus donandi) è, secondo la dottrina maggioritaria, la causa del
contratto, la quale, anche per la donazione, va distinta dai motivi, i quali per regola generale
restano al di fuori della convenzione. Arduo è, invece, definire siffatto spirito di liberalità in
quanto la dottrina e la giurisprudenza, pur condividendo la tesi che in esso risieda la causa del
negozio in parola, offrono di esso molteplici descrizioni. In via generale per spirito di liberalità
può intendersi l'intento altruistico di beneficiare il donatario. Di ciò un'eco negli atti notarili,
soprattutto di qualche decennio or sono, ove il donatario dichiara di accettare "con animo
grato",
quale
volontà
correlata
all'intento
altruistico
del
donante.
Altre tesi, di tipo oggettivistico, ritengono invece che la funzione della donazione consista
unicamente nell'attribuire un proprio bene ad altri senza conseguire un corrispettivo. Lo spirito
di liberalità, preteso dall'art. 769 C.C., non atterrebbe alla causa del negozio, ma servirebbe
solo a colorare l'intenzionalità dell'attribuzione non bilanciata economicamente dal
corrispettivo. È donazione anche l'arricchimento remuneratorio, cioè quello fatto per
riconoscenza, a fronte dei meriti del donatario o per speciale remunerazione (art. 770 C.C.).
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A differenza di quella ordinaria, la donazione remuneratoria è irrevocabile e non obbliga il
donatario a prestare gli alimenti al donante; comporta invece, a carico del donatario, la garanzia
dei vizi per l'evizione. Non è donazione la liberalità attuata in considerazione dei servizi resi al
donatario, se non eccede i limiti di una stretta proporzionalità, né la liberalità d'uso.
L'arricchimento
L'arricchimento è l'incremento del patrimonio del donatario e, come visto, si può realizzare
disponendo a favore di questi di un diritto oppure obbligandosi a una prestazione di dare
(cosiddetta donazione obbligatoria). Si discute se tale nozione debba essere intesa in senso
economico, oppure esclusivamente giuridico, quale attribuzione di un diritto. Accogliendo la
prima tesi, maggioritaria, ne deriva che, in ordine alla donazione modale, il modus non può, al
momento del perfezionamento dell'atto, essere di valore tale da depauperare per intero il valore
della donazione. La donazione è un negozio a titolo gratuito, vista l'assenza di un corrispettivo:
si consideri però come sia essenziale, per potersi parlare di donazione, che il donante si privi di
un proprio bene (depauperamento); una prestazione d'opera senza compenso importa un
mancato guadagno, non una diminuzione del patrimonio di chi esegue l'opera.
Donazione indiretta
Lo scopo di arricchire una persona si può raggiungere anche indirettamente, avvalendosi di atti
che hanno una causa diversa. In tali casi si parla spesso di donazione indiretta: il caso più
frequente è quello della vendita di una cosa a un prezzo inferiore al suo valore (negotium
mixtum cum donatione): tali negozi attuano sia la causa di scambio, sia quella donativa.
Rientrano tra le donazioni indirette anche i seguenti casi: il pagamento di un debito altrui (il
genitore che paga un debito del figlio), la remissione del debito (il creditore cancella un debito
al suo debitore), il procurare l'acquisto di un bene a un terzo o, intervenendo all'atto di acquisto
per pagare il relativo prezzo, o fornendo al terzo il denaro necessario per l'acquisto, o
apponendo al contratto di acquisto una clausola che comporti l'intestazione del bene a favore
del terzo che si intende beneficiare (contratto a favore del terzo). Oltre alla sproporzione
oggettiva fra le due prestazioni, serve che questa sproporzione sia voluta dalla parte che la
subisce, allo scopo di dar vita a una liberalità. Questo fine è necessario che sia noto alla
controparte.
La donazione indiretta non soggiace a tutte le norme in tema di donazione, ma soltanto ad
alcune, soprattutto quelle in tema di riduzione e collazione. Non necessita della forma pubblica.
Per una parte della dottrina[1], la donazione indiretta rientra fra i negozi indiretti. Va in ogni
caso distinta dalla donazione simulata:
•
•
nella donazione indiretta il negozio apparente è quello effettivamente voluto, in quanto
non c'è differenza fra volontà e dichiarazione;
nella donazione simulata, invece, il contratto apparente non corrisponde alla reale
volontà delle parti, che fanno assumere la parvenza di un negozio oneroso alla loro
volontà di stipulare un contratto gratuito.
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Requisiti e disciplina
La "capacità di donare" è regolata dai principi generali: non possono donare i minori, gli
interdetti, gli inabilitati, gli incapaci naturali. Parziale eccezione è prevista per le donazioni
obnuziali (ovvero, quelle fatte a causa di matrimonio): sono valide se fatte con l'assistenza di
chi esercita la potestà (o la tutela o la curatela) le donazioni fatte nel contratto di matrimonio
dal minore o dall'inabilitato.
Le persone giuridiche possono donare se così è previsto nello statuto o nell'atto costitutivo, e
nei limiti di tali discipline.
La donazione è un atto personale del donante: perciò, la scelta del donatario o dell'oggetto della
donazione deve essere frutto dell’esclusiva volontà del donante, quindi non è una decisione che
può essere rimessa al rappresentante. Perciò, è nullo il mandato a donare quando attribuisce ad
altri proprio la facoltà di operare le anzidette scelte (articolo 778). È invece possibile rimettere
al mandatario la scelta fra determinate categorie di persone o la scelta dell'oggetto della
donazione fra più cose comunque indicate dal donante. In questi casi, dato che la donazione
richiede la forma per atto pubblico, visto l'articolo 1392 in tema di forma della procura, la
stessa forma sarà richiesta anche per la procura a donare.
Circa la "capacità di ricevere per donazione", c'è parallelismo con la normativa a tal riguardo
adottata per il testamento. Così, il figlio di una persona vivente al tempo della donazione, anche
se ancora non concepito, può ricevere; analogamente, possono ricevere le persone giuridiche
(al riguardo non è più richiesta l'autorizzazione amministrativa all'accettazione, essendo stato
abrogato l'articolo 17 del Codice civile). Si può donare anche a favore di un ente non
riconosciuto, senza che l'efficacia della donazione sia più subordinata alla richiesta di
riconoscimento (sono stati abrogati, infatti, gli articoli 600 e 786 c.c.). È ammessa la donazione
a favore di figli naturali non riconoscibili e, dopo l'intervento della Corte Costituzionale che ha
giudicato illegittimo l'articolo 781, sono ammissibili anche le donazioni tra coniugi. Non è
invece ammessa la donazione a favore del tutore (o del protutore) dell'incapace.
Oggetto della donazione
L'oggetto della donazione non può essere un bene futuro (art. 771 c.c.), mentre può essere
costituito da tutti i beni presenti nel patrimonio (infatti, l'obbligo del donatario di prestare gli
alimenti al donante supplisce adeguatamente lo stato di bisogno in cui quest'ultimo viene a
trovarsi). In quest'ultima ipotesi (donazione universale) si fa riferimento ai singoli beni che
compongono il patrimonio, essendo esclusa l'indeterminatezza dell'oggetto della donazione. Per
quanto riguarda la donazione dell'azienda, invece, si deve fare riferimento, ai fini della
determinazione dell'oggetto della donazione, non solo al valore dei beni che compongono
l'azienda, bensì anche al valore dell'avviamento; l'azienda non è infatti concepibile come
semplice insieme dei beni attraverso i quali l'imprenditore esercita l'impresa: questo insieme
non sarebbe "azienda" se non si tenesse conto della sua potenzialità produttiva, peraltro
connessa alle qualità personali dell'imprenditore. Non è ammissibile, dato il divieto di donare
beni futuri, la donazione di beni altrui. Secondo Andrea Torrente, la donazione di bene altrui,
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sebbene sia nulla per mancanza di un elemento essenziale del contratto, costituisce comunque
titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà (di beni mobili) ai sensi dell'art. 1153 c.c. Se
oggetto della donazione è una universalità patrimoniale, non si applica il divieto dell'art. 771 ai
beni che si aggiungono all'universalità successivamente al perfezionamento del contratto di
donazione, dal momento che questi beni rientrano nel concetto di unità funzionale o ideologica
che è appunto tipico dell'universalità. Se un contratto di donazione ha ad oggetto sia beni
presenti che beni futuri, la donazione è nulla soltanto rispetto a questi ultimi.
La forma della donazione
Circa la forma, la donazione richiede sempre l'atto pubblico a pena di nullità
(art. 782 c.c.), sia quando ha per oggetto immobili sia mobili, alla presenza di due
testimoni.
La ratio è far riflettere il donante sulla gravità della scelta che compie (tanto è vero che questa
forma solenne non è richiesta per le donazioni di modico valore aventi ad oggetto beni
mobili: la modicità va valutata anche in base alle condizioni del donante). Quando la
donazione ha per oggetto beni mobili, l'atto deve contenere la specificazione del loro valore. Il
valore dei beni mobili può risultare anche da nota a parte, purché sottoscritta dalle parti e dal
notaio. Non è necessaria l'indicazione di eventuali pertinenze incluse nella donazione. Se
oggetto della donazione è una universitas, secondo la dottrina maggioritaria è sufficiente
indicarne il valore complessivo. Se oggetto della donazione è l'azienda, posta la rilevanza
dell'avviamento, la specificazione dei beni che la compongono appare superflua: secondo
Andrea Torrente conviene infatti specificare complessivamente il valore dell'azienda, incluso il
valore di avviamento. Anche gli elementi accidentali devono risultare dall'atto pubblico. La
donazione può avere per oggetto la nuda proprietà con riserva di usufrutto a vantaggio del
donante. La legge notarile impone la presenza di due testimoni; se l'accettazione della
donazione non avviene contestualmente alla formulazione dell'offerta, deve pervenire al
donante nelle forme della notificazione previste dal codice di procedura civile. Non è prevista
la presenza dei testimoni per l'accettazione, se questa non è contestuale alla formulazione
dell'offerta.
La donazione si perfeziona con l'accettazione.
Fino al perfezionamento, è ammessa la revoca dell'offerta; è altresì ammessa la revoca
tempestiva dell'accettazione, che costituisce certamente un atto recettizio. È ammessa
l'irrevocabilità convenzionale dell'offerta. La donazione di beni di modico valore (donazione
manuale) è valida anche se manca l'atto pubblico (art. 783 c.c.): in questa ipotesi, infatti, la
donazione si perfeziona con la effettiva tradizione del bene. Fuori del caso di dolo del donante,
la dottrina si è posta la questione circa la tutela dell'affidamento del donatario con riferimento
alla buona fede del donante: secondo Andrea Torrente, posto che la donazione, anche se
modale, non è un contratto a prestazioni corrispettive, il donatario non ha alcun interesse
negativo alla stipula del contratto in quanto non è tenuto ad attività esecutive anticipate. Ne
consegue l'impossibilità di configurare una colpa in contrahendo a carico del donante.
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Elementi accidentali del contratto
La donazione può essere sottoposta a condizione. La condizione può essere sospensiva o
risolutiva. Esempio di donazione sottoposta a condizione sospensiva è la donazione obnuziale.
Altra condizione che può afferire alla donazione è quella di reversibilità: è una condizione
risolutiva, con la quale si stabilisce che i beni tornino al donante se il donatario o i suoi
discendenti muoiano prima del donante. Il patto di reversibilità (art. 791 c.c.) deve risultare dal
contratto e deve riguardare solamente il donante: il patto di reversibilità a favore di un terzo si
considera non apposto. Se si verifica la condizione risolutiva di cui al patto di reversibilità, i
beni oggetto di donazione devono tornare al donante con l'eccezione dei beni acquistati a titolo
originario (cioè per usucapione).
La donazione obnuziale
Sottoposta a condizione sospensiva mista è la donazione fatta con riguardo a un futuro
matrimonio (obnuziale, art. 785 c.c.). In tal caso, poi, la donazione non è un contratto ma un
atto unilaterale, quindi non è necessaria l'accettazione del donatario. La condizione è la
celebrazione del matrimonio: la nullità del matrimonio fa cessare gli effetti della donazione con
efficacia retroattiva (la separazione personale e il divorzio sono dunque irrilevanti, bensì rileva
solo l'annullamento, ex art. 785, comma 2), eccezion fatta per il matrimonio putativo (lo scopo
dell'eccezione è la tutela dei figli nati durante il matrimonio putativo).
La donazione modale
È possibile gravare la donazione con un modus: esso limiterà l'arricchimento del donatario
imponendogli l'esecuzione di una prestazione a vantaggio del donante o di soggetti terzi (art.
793 del codice civile). Il modus non può impoverire del tutto il vantaggio attribuito dalla
donazione, altrimenti ne resterebbe travolta la stessa funzione del contratto qui in disamina;
l'onere, infine, non è un corrispettivo dell'attribuzione (la donazione non è un contratto a
prestazioni corrispettive). In caso di inadempimento dell'onere per causa imputabile al
donatario-debitore, il donante può agire per la risoluzione del contratto soltanto se la
risoluzione è prevista nel contratto stesso; si tratta di un'ipotesi di impugnazione di negozio
giuridico per una sopravvenuta circostanza. È esclusa la possibilità del risarcimento dei danni a
favore del donante. Se invece l'inadempimento dell'onere dipende da causa non imputabile al
donatario-debitore, si ha semplicemente estinzione dell'obbligazione modale. In concreto può
non essere agevole determinare, di là dalle espressioni adoperate dalle parti, se il modus
ridonda in un vero e proprio corrispettivo. Ipotesi di incerta qualificazione possono
determinarsi quando la prestazione imposta al donatario sia comunque economicamente
significativa: la corrispettività dovrebbe in ogni caso escludersi quando le due prestazioni
hanno valori irriducibili l'uno all'altro, pur considerando le oscillazioni del mercato per la
determinazione del valore di ognuna. Le parti, possono tuttavia apporre la clausola di
risoluzione della donazione per l'eventualità che il modus rimanga inadempiuto. In questo caso
appare difficile negare (ma per una parte della dottrina questa conclusione non è condivisibile)
che la donazione preveda prestazioni corrispettive tra loro: ne consegue che in simili ipotesi
potrebbe ricorrere un negotium mixtum cum donatione. Secondo Torrente è necessario fare
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riferimento non tanto all'entità dell'onere quanto piuttosto all'intenzione delle parti: se lo scopo
che si intende realizzare mediante l'onere è preminente rispetto allo scopo di donazione, è
evidente che non si è di fronte a una donazione, bensì a un altro negozio le cui norme
specifiche dovranno materialmente prevalere su quelle della donazione, a prescindere dalla via
formale scelta dalle parti.
Inadempimento del contratto
Vista la gratuità del contratto, l'inadempimento del donante è regolato meno duramente rispetto
a quello del comune debitore: il donante inadempiente risponde per dolo o colpa grave (art. 789
c.c.).
Analogamente la garanzia per l'evizione, per poter funzionare, deve essere espressamente
promessa, altrimenti il donante risponde solo se è in dolo o, a prescindere dall'elemento
soggettivo della responsabilità, se si tratta di donazione modale o rimuneratoria. In queste due
ultime ipotesi, infatti, la legge impone la garanzia per l'evizione (art. 797 n. 3 c.c.): questa è
dovuta fino alla concorrenza dell'ammontare degli oneri o dell'entità delle prestazioni ricevute
dal donante. Il donante risponde dei vizi della cosa solo in caso di apposito patto o di dolo.
Invalidità
La disciplina dell'invalidità della donazione è più affine a quella del testamento che a quella del
contratto. Così, come per il testamento, l'errore rende annullabile la donazione se il motivo
risulta dall'atto ed è stato il solo che ha indotto a compiere la liberalità (art. 787 c.c.). Nelle
norme generali, invece, il motivo illecito rileva quando ha avuto valore determinante ed
esclusivo, ed è comune a entrambe le parti. Per donazione e testamento il codice è meno
rigoroso, quindi è necessario che il motivo illecito (contrario a norme imperative, ordine
pubblico o al buon costume) abbia avuto rilevanza esclusiva e determinante, ma non serve che
sia comune a entrambe le parti: basta che risulti dall'atto (art. 788 c.c.). La disciplina
dell'invalidità della donazione per motivo determinante illecito ha massima importanza con
riferimento alla donazione rimuneratoria: questa sarà invalida quando la rimunerazione è
riferita a un fatto illecito (es: rimunerazione per omicidio). Sono in ogni caso punite come reato
le remunerazioni a pubblici ufficiali e impiegati anche se riferite a atti di ufficio già compiuti
(artt. 318 e 320 c.p.). Anche per la donazione, come per il testamento, la nullità è sanabile e
suscettibile di conferma, in deroga al generale divieto. L'art. 799 c.c. dispone che,
indipendentemente dalla causa di nullità della donazione, gli eredi o gli aventi causa del
donante non possono far valere la nullità di cui erano a conoscenza se, dopo la morte del
donante, confermano la donazione o vi danno volontaria esecuzione. La conferma costituisce
un separato negozio giuridico che è dunque sottoposto alle norme in materia di negozi
giuridici: essa non potrà quindi essere illecita. L'originaria illiceità della donazione non
travolge la successiva conferma: secondo la dottrina maggioritaria, l'unico aspetto di illiceità
della donazione che sopravvivrebbe alla morte del donante sarebbe quello relativo al buon
costume (ma questa deduzione è divenuta teoricamente meno forte dopo l'abolizione dell'art. 31
delle preleggi). Per chi, come Andrea Torrente, aderisce a questa interpretazione sistematica, il
contrasto di uno degli elementi della donazione con il buon costume impedirebbe comunque la
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successiva conferma. Un atto di donazione può essere impugnato dagli eredi entro dieci anni
dalla morte del donante.
Revoca
La donazione, come ogni contratto, può sciogliersi solo per le cause previste dalla legge. In due
casi ne è ammessa la revoca: ingratitudine del donatario e sopravvenienza di figli. La revoca
non è ammessa per le donazioni obnuziali e quelle remuneratorie. La revoca è frutto di
un'iniziativa unilaterale del donante, che ha infatti il diritto potestativo di togliere efficacia alla
donazione nei casi previsti. Diverso è il caso dell'azione revocatoria, la quale richiede la frode
ai creditori, i quali sono i soli legittimati ad agire. La sentenza che pronuncia la revocazione
condanna il donatario alla restituzione dei beni: non pregiudica i terzi che hanno acquistato
diritti sulla cosa donata prima della proposizione della domanda, fatti salvi gli effetti della
trascrizione della domanda stessa.
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ADEMPIMENTI IN SEGUITO ALLA MORTE DI
UNA PERSONA
La successione relativa ad una persona fisica si apre nel giorno della sua morte
e nel luogo del suo ultimo domicilio.
• Comunicazione dei Comuni
Il Comune provvede di comunicare automaticamente il decesso agli enti
previdenziali
• Rapporti con le banche
Le banche chiudono automaticamente tutti i rapporti in essere con il defunto.
• Pubblicazione dell’eventuale testamento
Testamento olografo: chiunque è in possesso di un testamento olografo deve
presentarlo a un notaio per la pubblicazione
Testamento segreto o pubblico: la pubblicazione avviene dal notaio avuto la
notizia della morte del testatore o su richiesta di chiunque possa avere
interesse
In ambedue i casi il notaio deve dare notizia della pubblicazione agli eredi e
legatari dei quali conosce il domicilio o la residenza.
Il notaio trasmette poi il testamento, dopo la registrazione, alle autorità
competenti (Tribunale).
La nullità del testamento può essere sanato mediante conferma (espressa o
tacita) delle disposizioni testamentarie.
• Accettazione o rinuncia all’eredità
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• Apertura delle cassette di sicurezza
L’apertura avviene in presenza di un notaio o in presenza di un funzionario
dell’Agenzia delle Entrate.
• Dichiarazione di successione
La dichiarazione di successione deve essere presentata entro 12 mesi dal
decesso. Non sussiste obbligo di presentare la dichiarazione di successione se
- l’eredità è devoluta al coniuge e ai parenti di linea retta del defunto
- l’attivo ereditario non supera l’importo di € 100.000,00
- l’asse ereditaria non comprende immobili.
• Richiesta del Certificato di eredità
Il Certificato di eredità viene rilasciato, su istanza degli interessati, da parte
del Tribunale e certifica lo stato di erede (e le relative quote spettanti) e/o lo
stato di legatario. Il certificato di eredità serve comunque per le trascrizioni
degli immobili al libro fondiario.
• Divisione della comunione ereditaria
Il Comune provvede di comunicare automaticamente il decesso agli enti
previdenziali
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LA DICHIARAZIONE DI
SUCCESSIONE
FRONTISPIZIO E PRIMA PAGINA
- dati anagrafici del defunto
- asse ereditaria
- firma del dichiarante
- albero genealogico
- documenti allegati
Certificato di morte
Stato di famiglia storico
Copia testamento
Dichiarazione sostitutiva
Estratti tavolari
Estratti catastali
Dichiarazione delle banche
QUADRO A
- dati degli eredi e legatari
QUADRO B1
immobili e diritti reali immobiliari – vanno indicati i valori catastali rivaluti
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Per la prima casa
Per tutti gli altri fabbricati appartenenti ai
gruppi catastali A,C (escluse A/10 e C/1)
Per i fabbricati del gruppo B
Per i fabbricati A/10 e D
Per i fabbricati C1 ed E
Per i terreni non edificabili (agricoli e
non)
rendita catastale non rivalutata x 115,5
rendita catastale non rivalutata x 126
rendita catastale non rivalutata x 176,40
rendita catastale non rivalutata x 63
rendita catastale non rivalutata x 42,84
reddito dominicale non rivalutato x
112,50
Prospetto dei coefficienti per la determinazione dei diritti di usufrutto a vita e delle
rendite (o pensioni) vitalizie calcolate al saggio di interesse legale del 0,20%
Anno di riferimento:
Età Usufruttuario
da 0 a 20
da 21 a 30
da 31 a 40
da 41 a 45
da 46 a 50
da 51 a 53
da 54 a 56
da 57 a 60
da 61 a 63
da 64 a 66
da 67 a 69
da 70 a 72
da 73 a 75
da 76 a 78
da 79 a 82
da 83 a 86
da 87 a 92
da 93 a 99
Coefficiente
475,00
450,00
425,00
400,00
375,00
350,00
325,00
300,00
275,00
250,00
225,00
200,00
175,00
150,00
125,00
100,00
75,00
50,00
2016
% Usufrutto
% Nuda Proprietà
95,00
5,00
90,00
10,00
85,00
15,00
80,00
20,00
75,00
25,00
70,00
30,00
65,00
35,00
60,00
40,00
55,00
45,00
50,00
50,00
45,00
55,00
40,00
60,00
35,00
65,00
30,00
70,00
25,00
75,00
20,00
80,00
15,00
85,00
10,00
90,00
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QUADRO B2
- azioni
- titoli
- quote di partecipazione non quotate – va indicato il valore contabile
QUADRO B3
- aziende (ditte individuali)
QUADRO B5
- beni trasferiti a titolo oneroso negli ultimi sei mesi
QUADRO C
- donazioni e liberalità effettuate dal defunto agli eredi e legatari
QUADRO D
- passività
BENI NON DA DICHIARARE
•
•
•
•
•
•
Aziende trasferite con patto di famiglia
Veicoli iscritti al PRA
Assicurazioni sulla vita
Riunione dell’usufrutto alla nuda proprietà, in seguito al decesso
dell’usufruttuario
Crediti derivanti dal rapporto di lavoro del defunto
Denaro, gioielli e mobilia (vengono valutati forfetariamente al 10 % del
valore globale netto imponibile dell’asse ereditario)
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LIQUIDAZIONE DELL’IMPOSTA DI SUCCESSIONE
La liquidazione dell’imposta di successione avviene a cura dell’Agenzia delle
Entrate.
Il pagamento deve avvenire entro 60 gg dalla notifica.
Si può chiedere la rateizzazione per un periodo massimo di 5 anni. La
autorizzazione alla rateizzazione è subordinata alla presentazione di idonea
garanzia (ipoteca, fideiussione bancaria, ecc.).
L’imposta di successione viene calcolato applicando le seguenti aliquote e
franchigie
ALIQUOTE
4%
4%
6%
EREDE o LEGATARIO
FRANCHIGIA per
ciascun beneficiario
• coniuge
• parenti in linea retta
• portatore di handicap grave
L.(104/1992)
• fratelli e sorelle
• altri parenti fino al 4° grado
6%
• affini in linea retta
• affini in linea collaterale fino al 3°
grado
8%
• altri soggetti
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€ 1.000.000
€ 1.500.00
€ 100.000
L’AUTOLIQUIDAZIONE DELLE IMPOSTE
CATASTALI E IPOTECARIE
L’imposta catastale e ipotecaria devono essere autoliquidate e pagate prima della
presentazione della dichiarazione di successione. A tale fine bisogna allegare alla
dichiarazione di successione il prospetto di calcolo e copia del Mod. F23
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DICHIARAZIONE SOSTITUTIVA DI ATTO DI NOTARIETA’
(per uso successione)
All’ Agenzia delle Entrate
Direzione Provinciale di _____________________
Ufficio Territoriale di _______________________
OGGETTO: Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà
Il/la sottoscritto/a _______________________________ nato/a a
_________________________________ Prov. _____ il _____ / ______ / ____________ e
residente a ______________________________________ Prov. _______ via/piazza
__________________________________________________ n. ______________ Tel.
________________ codice fiscale _________________________________,
Consapevole delle sanzioni penali, nel caso di dichiarazioni non veritiere, di formazione
o uso di atti falsi richiamate dall’ art. 76 del citato d.p.r.
DICHIARA
Che in data _____ / _____ / ________________ a ________________________________
prov. _________ è deceduto/a il/la sig./ra _________________________________________
nato/a il ________ / _______ / _____________ a
_______________________________________________ prov. ________ codice fiscale
____________________________________________________, la cui ultima residenza era
nel Comune di ______________________________________________ prov.
______________ senza lasciare disposizioni testamentarie, e che pertanto, oltre a me
dichiarante, risultano eredi legittimi i signori
(cognome e nome)
(codice fiscale)
(data e luogo di
(grado di parentela)
nascita)
Dichiaro di essere informato, ai sensi e per gli effetti di cui all’ art. 13 del d.lgs.
196/2003, che i dati personali raccolti saranno trattati, anche con strumenti informatici,
esclusivamente nell’ ambito del procedimento per il quale la presente dichiarazione viene resa
e che potrò accedere ai dati che mi riguardano chiedendone la correzione, l’ integrazione e,
ricorrendone gli estremi, la cancellazione o il blocco.
______________________________________, ________
_______________________________________
(Luogo e data)
(Firma)1
1
Firmare dinanzi all’impiegato addetto oppure se presentata da altra persona, inviata per posta o via fax,
allegare fotocopia di un documento di riconoscimento valido ovvero autenticare la sottoscrizione
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LA MORTE DEL LAVORATORE
Adempimenti del datore di lavoro
Art. 2122 CC - Indennità in caso di morte
In caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli artt. 2118 e
2120 devono corrispondersi al coniuge, ai figli e, se vivevano a carico del
prestatore di lavoro, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo
grado.
La ripartizione delle indennità, se non vi è accordo tra gli aventi diritto, deve farsi
secondo il bisogno di ciascuno.
In mancanza delle persone indicate nel primo comma, le indennità sono attribuite
secondo le norme della successione legittima.
T.F.R. e indennità sostitutiva del preavviso
A norma dell’art. 2122 del CC il TFR e l’Indennità sostitutiva del preavviso
vengono acquisiti dagli aventi diritto come diritto proprio e non come diritto
successorio. Pertanto il datore di lavoro non può compensare eventuali crediti con
le indennità. Hanno diritto a percepire il TFR e l’indennità di preavviso
- il coniuge
- ai figli
- ai parenti entro il 3. grado ed affini entro il 2. grado, se questi vivevano a
carico del dipendente.
In mancanza di queste persone, le somme sono suddiviso secondo le disposizioni
testamentarie (C.Cost. 19/01/1972 n. 8) o, in difetto, sulla base della successione
legittima.
Al coniuge divorziato
1. non passato a nuove nozze e
2. titolare di un’assegno di divorzio
spetta il 40 % dell’indennità totale riferibili agli anni in cui il rapporto di lavoro è
coinciso con il matrimonio (art. 12-bis c. 2 Legge 898/70)
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Il datore di lavoro deve assegnare le somme agli aventi diritto in base ad accordi
preventivi tra i medesimi o, in difetto, in base alla decisione del giudice che
ripartisce le somme secondo il bisogno di ciascuno.
I beneficiari devono presentare al datore di lavoro i seguenti documenti:
- stato di famiglia storico
- certificato di morte del lavoratore
- atto notorio che attesti lo stato di convivenza di parenti ed affini
- copia del testamento e, in caso di successione legittima, atto notorio
- delibera del giudice tutelare nel caso di presenza di figli minori.
Trattamento previdenziale e fiscale delle indennità
Il T.F.R. è esenti da contributi previdenziali.
Le ritenute sono effettuate in base al specifico sistema di tassazione separata.
Adempimenti del datore di lavoro
Per le indennità di cui all’art. 2122 CC il datore di lavoro predisporrà un cedolino
(LUL) apposito intestato al defunto. La tassazione avviene in capo al defunto.
Ricevuto la documentazione necessario predisporrà un cedolino per ogni avente
diritto pagando a ciascuno la percentuale di spettanza.
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Gli altri compensi maturati e non pagati
Agli eredi devono essere corrisposti i normali compensi maturati dal lavoratore,
vale a dire la retribuzione dell’ultimo mese, i ratei delle mensilità aggiuntive
nonché l’indennità per ferie, permessi e ROL non godute.
I beneficiari devono presentare al datore di lavoro i seguenti documenti:
- stato di famiglia storico
- certificato di morte del lavoratore
- atto notorio che attesti lo stato lo stato di erede
- copia del testamento e, in caso di successione legittima, atto notorio
- delibera del giudice tutelare nel caso di presenza di figli minori.
Trattamento previdenziale e fiscale delle indennità
I summenzionati compensi sono soggette ai contributi previdenziali con i criteri
ordinari e per competenza.
Le imposte sono a carico degli aventi diritto. Il regime di tassazione da applicare
agli eredi è quello della tassazione separata.
Adempimenti del datore di lavoro
Il datore di lavoro predisporrà un cedolino (LUL) per il mese del decesso,
esclusivamente per il calcolo dei contributi previdenziali. Azzererà su tale
cedolini l’imponibile fiscale, le ritenute e il netto da pagare.
La tassazione avviene in capo agli eredi. Pertanto il datore di lavoro, una volta
ricevuto la documentazione summenzionata predisporrà per ogni erede un
cedolini applicando alla quota spettante le imposte. Trattandosi di tassazione
separata, nella maggior parte dei casi, si applicherà l’aliquota minima del 23 %.
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