Introduzione
Il delitto del Circeo nell’immaginario collettivo
italiano
di Consuelo Corradi
L’immaginario sociale di un paese è fatto di eventi e personaggi che hanno avuto un ruolo, talvolta involontario, nel modellare la storia recente. Non sono eventi storici in senso stretto,
non riguardano le élites politiche e non provocano mutamenti
epocali. Eppure concorrono a formare quella pasta di simboli,
narrazioni e nomi che plasma la memoria breve di un paese.
Sono passati trentacinque anni da quel settembre del 1975
quando venne commesso il “delitto del Circeo”. Oggi possiamo
dire che esso è rimasto nell’immaginario sociale italiano, in particolare nella storia recente delle donne. Il libro di Sara Mascherpa ha il grande pregio di ricostruire tale storia proprio
nell’ottica di quell’evento e dei suoi personaggi, gettando in
questo modo una nuova luce sul presente. Il delitto del Circeo è
stato uno degli spartiacque nel cammino di emancipazione delle
donne italiane; ma ha svolto questo ruolo perché, nel momento
in cui fu commesso, andò a intercettare correnti culturali e spinte verso il mutamento che già agitavano la nostra società sospingendola verso una migliore modernizzazione. Il clamore
provocato, la scala nazionale nella quale il delitto venne subito
riportato, il numero di commenti pubblicati dalla stampa si
spiegano, in parte, con l’efferatezza delle azioni. Quel terribile
fatto di cronaca e la spontanea ondata emotiva da esso sprigionata ebbero in realtà anche la capacità di sintetizzare alcuni
conflitti profondi che già scuotevano la società italiana, prestandosi così a varie “letture”: la lettura classista di una contrapposizione tra ricchi e poveri, quartieri borghesi e periferie
urbane; la lettura femminista di una contrapposizione tra uomini
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Introduzione
e donne, predatori e oggetti sessuali; e la lettura politica tipica
degli anni della post-resistenza, di una contrapposizione tra rossi e neri, fascisti e antifascisti. Fu per questo che alcune tra le
migliori penne della cultura e del giornalismo italiano
dell’epoca – tra le quali Italo Calvino, Pierpaolo Pasolini, Stefano Rodotà, Franco Ferrarotti, Dacia Maraini - si impegnarono
nell’agone della cronaca, con esiti diversi. Fu per questo spessore acquistato subito dal delitto nell’immaginario sociale di allora che i cinque protagonisti – due vittime e tre aggressori – diventarono non più solo persone, ma personaggi.
Da allora molte cose sono cambiate nella società italiana. La
lettura politica degli eventi appare oggi datata; la lettura classista conserva una parte di verità: l’incontro di Rosaria e Donatella con i tre assassini sembra ancora oggi l’incontro tra lo svantaggio della vita di periferia e il vantaggio dell’istruzione e dei
soldi, un incontro totalmente asimmetrico, sfruttato con ferocia
dai tre; la lettura femminista ha preso vigore nel tempo. Dal settembre del 1975, e ancora di più dall’anno successivo durante il
quale si tiene a Latina il processo, il delitto del Circeo ha saputo
rafforzare quell’onda di interesse nei riguardi della violenza
contro le donne che ancora oggi, soprattutto oggi, mantiene la
sua forza nell’opinione pubblica. Sono, sì, ancora oggi, cinque
volti tragici, ma il destino sociale si è ribaltato. Le vittime e in
modo particolare Donatella Colasanti hanno occupato un posto
di rilievo nell’immaginario femminile, offrendo negli anni e con
la testimonianza un contributo positivo all’emancipazione. La
sorte degli assassini è stata molto diversa: pur con vicissitudini
distinte l’uno dall’altro, a volte rocambolesche, ognuno di loro
ha rappresentato in modo vivido un’icona negativa di spietatezza e sopraffazione. La storia ha ristabilito la verità delle persone
e delle loro azioni.
Il libro di Sara Mascherpa ricostruisce con cura tutto questo
e, in conclusione, apre alcune piste di riflessione sullo studio
della violenza contro le donne, un fenomeno sociale rispetto al
quale la sensibilità dell’opinione pubblica è cresciuta. Se appare
infatti chiaro il filo rosso che lega quegli eventi alle campagne e
alle politiche sociali di oggi, altrettanto chiara è la necessità di
Introduzione
11
dotarsi di categorie interpretative e politiche di intervento che
tengano conto dei cambiamenti avvenuti: sappiamo che la violenza contro le donne si registra oggi in tutti gli strati sociali,
non solo tra le classi più umili; sappiamo che donne con elevati
livelli di istruzione e reddito non ne sono immuni; sappiamo
che la tradizionale divisione dei ruoli maschile-femminile è stata rimessa in discussione e, almeno in parte, anche superata. Per
questo, il libro si conclude formulando nuove letture del fenomeno sociale e nuove proposte di interventi. A questo riguardo,
il lavoro della ricerca empirica e dell’elaborazione teorica trova
ancora campo aperto.
Capitolo I
Il delitto del Circeo (1975)
1. La ricostruzione dei fatti
Roma, nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre del ’75, in via Pola, una strada di un tranquillo ed elegante quartiere borghese, vengono
ritrovate due ragazze nel bagagliaio di una Fiat 127, avvolte in sacchi
di plastica: una morta, l’altra quasi. I carabinieri sono arrivati sul posto solo perché una donna, che non riusciva a dormire, ha sentito dei
lamenti provenire da una macchina. Le due ragazze sono Rosaria Lopez, 18 anni, e la sedicenne Donatella Colasanti. Arrivata all’ospedale,
Donatella riuscirà a dare una prima testimonianza:
Mi avevano messo un laccio intorno al collo e tiravano, tiravano, e
poi vedendo che non riuscivo a morire mi hanno presa a sprangate
sulla testa e dicevano sempre: “Madonna, questa qui resiste troppo,
quand’è che muore? Casomai dopo gli diamo una pistolettata”.
Quando mi hanno messa nel portabagagli, hanno detto: “Finalmente
è morta”.
Poche ore dopo Donatella riesce a fornire particolari sufficienti per
individuare i responsabili: sono Gianni Guido, 20 anni, figlio di un dirigente bancario (la 127 era quella di suo padre), Angelo Izzo, 17 anni,
figlio di un ingegnere costruttore, e Andrea Ghira, 22 anni, anch'egli
figlio di un costruttore. I primi due vengono immediatamente arrestati,
mentre Ghira riesce a fuggire. Nessuno lo prenderà mai più.
Ma chi sono Guido, Izzo e Ghira? Loro stessi si definiscono fascisti.
Ghira, in particolare, teorizza il crimine come mezzo legittimo di affermazione sociale.
Questa breve sintesi dei fatti è tratta dal sito della trasmissione Rai “La storia siamo noi” (www.lastoriasiamonoi.rai.it).
Di seguito la ricostruzione della vicenda, così come viene
raccontata da Donatella Colasanti:
tutto è cominciato una settimana fa, con l’incontro con un ragazzo
all’uscita del cinema che diceva di chiamarsi Carlo, lo scambio dei
numeri di telefono e la promessa di vederci all’indomani insieme ad
altri amici. Con Carlo così, vengono Angelo e Gianni, chiacchieriamo
un po’, poi si decide di fare qualcosa all’indomani, io dico che non a-
14
Capitolo I
vrei potuto, allora si fissa per lunedì. L’appuntamento è per le quattro
del pomeriggio.
Arrivano solo Angelo e Gianni, Carlo, dicono, aveva una festa alla sua
villa di Lavinio, se avessimo voluto raggiungerlo… ma a Lavinio non
arrivammo mai. I due a un certo punto si fermano a un bar per telefonare a Carlo, così dicono; quando Gianni ritorna in macchina dice che
l’amico avrebbe gradito la nostra visita e che andassimo pure in villa
che lui stava al mare. La villa era al Circeo e quel Carlo non arrivò
mai.
I due si svelano subito e ci chiedono di fare l’amore, rifiutiamo, insistono e ci promettono un milione ciascuna, rifiutiamo di nuovo. A
questo punto Gianni tira fuori una pistola e dice: “Siamo della banda
dei Marsigliesi, quindi vi conviene obbedire, quando arriverà Jacques
Berenguer non avrete scampo, lui è un duro, è quello che ha rapito il
gioielliere Bulgari”. Capiamo che era una trappola e scoppiamo a
piangere. I due ci chiudono in bagno, aspettavano Jacques.
La mattina dopo Angelo apre la porta del bagno e si accorge che il lavandino è rotto, si infuria come un pazzo e ci ammazza di botte, e ci
separano: io in un bagno, Rosaria in un altro. Comincia l’inferno. Verso sera arriva Jacques. Jacques in realtà era Andrea Ghira, dice che ci
porterà a Roma ma poi ci hanno addormentate. Ci fanno tre punture
ciascuna, ma io e Rosaria siamo più sveglie di prima e allora passano
ad altri sistemi. Prendono Rosaria e la portano in un’altra stanza per
cloroformizzarla dicono, la sento piangere e urlare, poi silenzio
all’improvviso. Devono averla uccisa in quel momento.
A me mi picchiano in testa col calcio della pistola, sono mezza stordita, e allora mi legano un laccio al collo e mi trascinano per tutta casa
per strozzarmi, svengo per un po’, e quando mi sveglio sento uno che
mi tiene al petto con un piede e sento che dice: “Questa non vuole
proprio morire”, e giù a colpirmi in testa con una spranga di ferro. Ho
capito che avevo una sola via di uscita, fingermi morta, e l’ho fatto.
Mi hanno messa nel portabagagli della macchina, Rosaria non c’era
ancora, ma quando l’hanno portata ho sentito chiudere il cofano e uno
che diceva: “Guarda come dormono bene queste due”.
La stampa italiana dedica al delitto del Circeo ampio spazio
fin dall’inizio, dal giorno del ritrovamento del cadavere di Rosaria e di Donatella, la sopravvissuta; nei giorni successivi
l’attenzione dei mass media è costante, anzi cresce.
Non solo i quotidiani a diffusione nazionale ma anche i settimanali d’attualità («Panorama», «L’Espresso», «Il Mondo»,
«L’Europeo») se ne occupano, pubblicano approfondimenti, inchieste e articoli di commento, affidati alle firme più prestigiose
Il delitto del Circeo
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del giornalismo italiano. L’attenzione, la curiosità,
l’indignazione, lo stupore degli italiani vengono alimentati da
informazioni giornaliere.
Troviamo articoli dedicati al delitto del Circeo in prima pagina, nelle pagine di cronaca o in entrambe, corredati da foto,
quasi tutti i giorni, a partire dal 1° ottobre 1975 e per quasi tre
settimane, come riassunto nella tabella riportata in appendice, al
termine di questo capitolo.
La quantità di articoli pubblicati testimonia la straordinaria
attenzione che il caso del Circeo attira su di sé; i lettori ricevono
continuamente aggiornamenti, dettagli e novità su tutto ciò che
riguarda la vicenda.
I maggiori quotidiani italiani seguono, giorno dopo giorno,
le prime ricostruzioni dell’accaduto, dall’appuntamento a Roma
fino al ritrovamento delle ragazze nel bagagliaio dell’auto, descrivono minuziosamente le ore di terrore trascorse all’interno
della villa, le minacce, le sevizie e le violenze perpetrate contro
le due giovani. In base all’autopsia effettuata sul corpo di Rosaria, i medici legali stabiliscono che è morta per annegamento.
Articoli più o meno lunghi ragguagliano circa le indagini in
corso, il coinvolgimento e gli interrogatori di altri ragazzi, presunti complici e accusati di favoreggiamento; riferiscono della
latitanza di Ghira e del ritrovamento della sua auto ed anche
delle perizie relative all’assunzione o meno di stupefacenti (si
parla di eroina e di anfetamine) durante il festino nella villa.
Diversi giornalisti forniscono il ritratto dei colpevoli, la descrizione del quartiere Parioli - dove sono nati e cresciuti i tre
amici - e dell’ambiente che frequentano abitualmente; descrivono i locali e i bar in Piazza Euclide e in Piazza delle Muse, in
cui i “pariolini neri”, i “picchiatori fascisti”, autori di intimidazioni, di assalti e di pestaggi nei confronti di “studenti democratici”, solitamente si ritrovano. Raccolgono le dichiarazioni degli
amici dei colpevoli o degli abitanti del quartiere; elencano i loro
precedenti penali, le condanne che hanno già collezionato, nonostante la giovane età, e mettono in evidenza l’impunità di cui
hanno sempre goduto in passato.
16
Capitolo I
Durante il mese di ottobre, i lettori dei giornali ricevono notizie circa il sopralluogo nella villa del Circeo, che viene più
volte rimandato e vengono informati sull’elenco delle accuse
formulate contro i tre ragazzi e sulle manovre dei loro avvocati
difensori, manovre che possono spiegare le lungaggini circa
l’assegnazione del processo al tribunale di Roma o al tribunale
di Latina. Il conflitto di competenza territoriale si risolve a favore del tribunale di Latina, dato che il reato più grave,
l’omicidio volontario di Rosaria Lopez, è avvenuto a San Felice
Circeo, che si trova in provincia di Latina.
Infine, viene dato risalto alla polemica, che cresce di giorno
in giorno, circa il trattamento di favore, la speciale “protezione”
di cui hanno goduto i tre ragazzi, già accusati in precedenza di
reati simili e rimessi rapidamente in libertà.
I protagonisti: aggressori e vittime
I veri protagonisti di questa storia sono i cattivi; nei confronti dei tre ragazzi, colpevoli dell’omicidio di Rosaria e del tentato omicidio di Donatella, si concentra l’attenzione di quotidiani
e settimanali, per tentare di capire come sia stato possibile che
dei giovani, ricchi e privilegiati, si siano accaniti con tanta brutalità su due ragazze, povere e indifese.
Si domanda chi siano Cristina Mariotti, su «L’Espresso»1:
Li chiamano “i ragazzi della via Pola”. Abitano nello stesso quartiere,
sono andati nella stessa scuola, hanno tutti le stesse abitudini, le loro
famiglie si somigliano tutte l’una all’altra. Chi sono? Anormali, delinquenti comuni o i figli assassini di una classe corrotta?
Sono molti i giornalisti che tentano di fornire una risposta
esauriente a questo interrogativo. Per farsi un’idea dei tre pariolini neri, è indispensabile iniziare dai fatti ed analizzare il loro
recente passato.
1
1975.
C. MARIOTTI Io uccido, poi passa papà a pagare, in «L’Espresso», 12 ottobre
Il delitto del Circeo
17
Nell’articolo “Razza fascista”, apparso su «Panorama»2, troviamo il resoconto dei precedenti penali di Izzo e Ghira:
Andrea Ghira: arrestato nel 1973 per la rapina in casa di un ingegnere
di via Panama fu condannato a 8 anni. Dopo 18 mesi di carcere, 10
giorni prima dell’orgia del Circeo, era di nuovo a spasso grazie a un
provvedimento di libertà provvisoria. Prima della rapina aveva collezionato una sfilza di denunce: violazione di domicilio, lesioni personali, porto abusivo d’arma da fuoco, ricettazione, furto aggravato, sostituzione di persona. Il suo nome è inoltre da tempo segnalato tra gli
spacciatori di droga pesante negli ambienti neofascisti della capitale.
Per Angelo Izzo la specialità invece è sempre stata la violenza carnale:
il 2 marzo 1974, ancora studente del San Leone Magno, costrinse sotto la minaccia di una pistola una minorenne a subire atti di libidine. La
stessa sorte nove mesi dopo l’ha riservata a un’altra ragazza di 18 anni. Per tutti e due i reati Izzo è stato condannato nel maggio scorso a
due anni. Il regalo del giudice della condizionale, però, gli ha permesso, mercoledì primo ottobre, di partecipare al tragico festino del Circeo.
«L’Europeo»3 pubblica tre articoli, raccolti sotto un unico,
grande titolo La violenza ai Parioli: nel primo, dall’esplicito titolo Il privilegio e la legge, scritto da Giuliano Ferrieri, si afferma che ben ferme restando le responsabilità dei singoli colpevoli, altre e gravi ne vanno ricercate di ambiente e di costume, di politica e di omertà - posizione che, come vedremo in
seguito, viene sostenuta da numerosi ed autorevoli giornalisti e
scrittori.
Gli altri due articoli, invece, descrivono il quartiere romano
da cui provengono i protagonisti del criminoso festino nella villa al mare.
Duilio Pallottelli firma Ritratto di un quartiere, un lungo articolo in cui vengono descritte le frequenti azioni dei picchiatori
fascisti, continuamente attivi ai Parioli, e vengono intervistati
alcuni abitanti della zona: una signora che manda i suoi due figli in un istituto privato “fuori zona”, il giovane prete della par-
2
Razza fascista, in «Panorama», 16 ottobre 1975.
G. FERRIERI, Il privilegio e la legge; Duilio Pallottelli, Ritratto di un quartiere;
Claudio Lazzaro, Parla un pariolino, in «L’Europeo», 17 ottobre 1975.
3
18
Capitolo I
rocchia di San Bellarmino, alcuni studenti del Liceo Scientifico
Azzarita e del Liceo Classico Mameli. Ecco parte delle interviste:
una studentessa del liceo scientifico Azzarita (una delle scuole più
bersagliata dai fascisti) spiega: “All’interno di questo quartiere c’è una
doppia componente. Oltre ai ricchi ci sono i miserabili. Pensi ai figli
dei portieri, ai figli dei piccoli impiegati che sono finiti, per un motivo
o per l’altro, a vivere quassù. Tutta questa gente è irrimediabilmente
attratta dalle abitudini, dal modo di concepire la vita, dalla filosofia
dei ricchi. Specialmente le ragazzine.
Alle ragazze loro dicono: tu ti salvi perché sei una donna, quindi non
pigli botte. Però se vuoi stare con noi devi fare esattamente quello che
ti chiediamo. E chiedono di tutto, creda a me. Ogni tipo di porcheria,
ogni depravazione. Molte accettano. Non riescono a resistere al fascino dell’ambiente più elevato. Credono di fare un passo avanti. È un
po’ il caso della tragedia del Circeo, anche se quelle poverette non
abitavano ai Parioli, ma stavano in borgata. E per questi fascisti la
“borgatara” deve fare di tutto: è un giocattolo qualsiasi. Le donne del
loro stampo, invece, le trattano con tutte le cure e il rispetto possibili.
Le difendono con ferocia. Ho visto dei poveracci mandati all’ospedale
solo perché avevano lanciato un’occhiata troppo audace a una pariolina. Quindi siamo davanti al razzismo puro. I poveri maschi invece
vengono usati, quando sono accettati, come truppa d’assalto, come
carne da macello. E devono ubbidire.”
Oltre a questo scenario classista, presentato dalla studentessa
liceale, una seconda ragazza intervistata parla esplicitamente
dell’uso di stupefacenti:
Con la questione delle droghe bisogna starci attenti; qualcuno cerca di
giustificarli perché si drogano. Cercano anche di giustificare l’ultimo
orrendo delitto del Circeo con la scusa della droga. La droga è un fatto
marginale. Essi non sono violenti perché si drogano, sono semplicemente dei violenti che fanno uso di stupefacenti.
Colpisce la nettezza di giudizio: la droga non è che una scusa, è un elemento irrilevante per spiegare il tragico epilogo
dell’orgia nella villa del Circeo.
Sempre su «L’Europeo», in Parla un pariolino, il giornalista
Claudio Lazzaro racconta così la sua indagine conoscitiva nel
Il delitto del Circeo
19
quartiere romano, balzato improvvisamente alla ribalta della
cronaca:
A Piazza delle Muse siamo venuti per conoscere i pariolini, per capire
fino a che punto il contesto di questa piazza San Babila romana può
produrre gli incubi della nostra società: i delitti come quello del Circeo. Parlo con un gruppo di questi ragazzi. Hanno delle idee su quanto
è successo al Circeo. “I peggiori”, dicono, “sono quelli sotto i
vent’anni. La nuova generazione è la più cattiva. Hanno bisogno di
mostrarsi duri, se picchiano una donna poi se ne vantano. Devono emergere, farsi notare in qualche modo: passano su un gippone, in
gruppo, cantando inni fascisti, ma neanche sanno cos’è il fascismo.”
Tramite uno di questi ragazzi, il giornalista riesce a mettersi
in contatto con un vero pariolino, uno rappresentativo, che lo
riceve a casa sua, in Viale Parioli; ecco come si presenta il giovane: ha diciannove anni, alto, col fisico da lottatore agile. E
questo è un breve estratto della loro conversazione; il giornalista gli chiede:
i giovani pariolini sono in maggioranza di destra e hanno utilizzato la
violenza organizzata come mezzo di intimidazione politica?
“Certo in questa storia entra anche la violenza nera. Quella dei gruppi
di estrema destra, come Lotta di Popolo, ai quali erano stati collegati
alcuni degli imputati per il delitto del Circeo. Ma io non so fino a che
punto a vent’anni uno abbia la coscienza di giocarsi la pelle per
un’idea politica. Secondo me sono solo ragazzi che cercano di affermare la propria personalità con la forza.
Più uno è violento, più uno esiste. Conosco la formula: ‘Ma tu hai paura di fare una cosa del genere? Che uomo di merda?’
Sono sicuro che anche nella villa del Circeo questa formula ha funzionato: ognuno dei tre probabilmente temeva che l’altro lo considerasse
una cacasotto. Dopo il primo schiaffo ognuno picchiava più forte per
dimostrare che valeva di più.”
Se davvero, come afferma il vero pariolino, più uno è violento più uno esiste, i tre giovani hanno commesso violenze di
ogni tipo non solo per dimostrare la propria forza, la propria capacità di dominio ma, principalmente, per costruirsi un’identità,
per affermare la propria esistenza all’interno del gruppo, sotto
lo sguardo giudicante degli altri due, in un gioco al rialzo diffi-
20
Capitolo I
cile da interrompere. Chi tra loro, alla fine della trasferta fuori
città, si è dimostrato un vero duro? Chi ha dato prova di essere
il migliore dei tre?
Oltre agli articoli che si occupano dei colpevoli e
dell’ambiente da cui provengono, la stampa rivolge la propria
attenzione anche alle due ragazze: Rosaria, la vittima, e Donatella, la sopravvissuta, ricoverata in ospedale.
I giornalisti si recano alla Montagnola, quartiere povero e
periferico di Roma, dove abitano le due giovani, per incontrare i
familiari e i parenti della vittima e Nadia, l’amica di Donatella
che, con una scusa, aveva rifiutato l’invito dei “pariolini”.
Maria R. Calderoni, in Quando la periferia diventa un ghetto4, descrive così Rosaria e il suo mondo:
apparteneva a una famiglia di origine siciliana, di piccola borghesia
ministeriale. Il padre, settantacinquenne, impiegato del catasto, ora in
pensione fa un ritratto affettuoso di questa sua ultima figlia, “moderna, ma con un suo forte orgoglio, autonoma ma non scapestrata”. Oggi, in questa casa, la disgregazione si nota a occhio nudo, nelle due
stanzucce e nel corridoio-budello che la compongono, i muri stinti, i
mucchi di biancheria per terra, la specchiera rotta, le scarpe qua e là.
La disgregazione più acuta, tuttavia, non è negli oggetti; è nell’aria
stampata sui volti delle persone che abitano la casa: su quello della
madre, 59 anni, ma da venti in stato di abulica dissociazione mentale;
su quello della sorella Teresa, diplomata maestra elementare,
anch’essa in preda a squilibri psichici; su quello un po’ allucinato del
fratello Emanuele: come una barca malferma che sta in piedi a fatica,
che nessuno più s’è curato di raddrizzare. Tanto meno la spietata realtà di un quartiere dove ogni famiglia ha i suoi guai tangibili e cataloga
semplicemente come un “po’ matta” questa gente.
La Montagnola è un quartiere abitato da persone che hanno
tanti guai e difficoltà di ogni genere da affrontare ogni giorno;
Rosaria Lopez è una giovane ragazza che proviene da una famiglia molto numerosa - è l’ultima di otto figli - una famiglia
segnata dal disagio mentale, a cui nessuno offre un aiuto, né i
vicini troppo presi dai loro problemi né i servizi sociali assenti
4
1975.
M.R. CALDERONI, Quando la periferia diventa un ghetto, in “L’Unità”, 3 ottobre
Il delitto del Circeo
21
dal quartiere. Sono questi i primi elementi utili per ricostruire il
contesto in cui viveva Rosaria.
Così viene descritta fisicamente: piccola, minuta, ben fatta
ma non sconvolgente, mai truccata, vestiva “come tutti noi”,
jeans e magliette, un berretto sui capelli per le volate in motorino. E questa è la sua carriera scolastica e lavorativa: licenzia
media, un corso di formazione professionale, cassiera in un bar
per un po’ di tempo, quindi la ricerca di un lavoro qualsiasi.
È il ritratto di una ragazza che conduce una vita semplice,
modesta, conosciuta da tutti nel quartiere, nessun pettegolezzo,
nessuna maldicenza; qualche aneddoto, piuttosto, frammenti di
vita quotidiana:
Aveva fame di affetto: dai colloqui con i ragazzi del quartiere, con le
ragazze sue coetanee, viene fuori un ritratto semplice, persino banale.
Non c’è quasi niente da dire, una storia senza rilievi. Squarci significativi illuminano la sua ansia di andar via, di riscattarsi. “Aveva sempre fame, a casa sua non trovava mai nulla da mangiare”. “Io l’ho frequentata fino a due anni fa - dice uno studente seduto al bar in piazza ; andavamo in un prato dietro al Campidoglio e lì si parlava, si parlava. Aveva grossi problemi esistenziali e sentimentali: cercava un appoggio. E nemmeno aveva fama di “quella che tutti si fanno”,
tutt’altro.”
Gli amici la difendono, raccontano di lei con tenerezza e
semplicità, e definiscono calunnie le strane storie che girano sul
suo conto, dopo la sua tragica morte.
L’assurda fine di Rosaria (nuda, il viso massacrato, rinchiusa
dentro un bagagliaio, così come la mostrano alcune spietate
immagini), l’ha consegnata a curiosità malsane, a mormorii
morbosi che è facile riempire di insinuazioni. Dalle parole degli
amici e dei conoscenti emerge un ritratto che nulla ha a che fare
con una vita disordinata, con un comportamento frivolo o degradante, con frequentazioni compromettenti; piuttosto, viene
fuori tutto il contrario ed è per questo che, nel suo quartiere,
l’impressione è enorme; c’è in giro pietà, non scandalo; soprattutto, tra i ragazzi, c’è un grande e doloroso stupore.
22
Capitolo I
È difficile trovare una spiegazione convincente ed accettare
ciò che è successo, è difficile associare Rosaria, una ragazza
semplice e modesta, con un festino in una villa fuori città a base
di droga, sesso e violenza. Quello che è successo è quasi incomprensibile:
perché allora quella “leggerezza”, quell’imprudenza improvvisa, un
pomeriggio di lunedì, che sembra distruggere in un attimo questo ritratto di ragazza saggia? Di quale abbaglio è stata vittima? Quale verità è ancora da cercare? Rosaria, ragazza senza radici, forse è solo colpevole di aver affidato ad una spider lucente e ad un delinquente vestito da ragazzo-bene, il suo infantile sogno di rivincita.
La stampa racconta il dolore e lo sconcerto degli abitanti
della Montagnola, sentimenti che sono apparsi evidenti durante
il funerale di Rosaria.
Cristina Mariotti, in Io uccido, poi passa papà a pagare, ci
racconta come si presenta la Montagnola, la borgata in cui Rosaria viveva, il giorno del suo funerale: i muri della zona sono
tappezzati di manifesti mortuari, voluti dalla famiglia della vittima:
Nelle “partecipazioni di morte” che la famiglia Lopez ha voluto affiggere all’uso paesano sulle case della Montagnola, lo squallido rionedormitorio che nasce sulla Cristoforo Colombo poco più sotto del
quartiere modello dell’Eur, si legge che “Rosaria, 18 anni, è stata barbaramente uccisa dalla “Gioventù della Roma-bene”. Un’attribuzione
generica e quindi incompleta (della Roma bene e fascista sarebbe stato
più esatto) ma che serve a mettere in rilievo i connotati classisti di
questo delitto.
La distanza sociale e politica esistente tra i Parioli e la Montagnola, tra i pariolini ricchi, privilegiati e fascisti, e le borgatare, proletarie e povere, viene costantemente sottolineata nella
cronaca nazionale.
Queste sono le parole pronunciate dall’ex parroco della
Montagnola, don Pietro Orcelli, nel corso dell’omelia funebre:
Il delitto del Circeo
23
Da una parte questi straricchi pariolini che tutto possono e che tutto
hanno; fannulloni, privilegiati, debosciati, protetti dal denaro e da una
magistratura con sedimenti fascisti, gratificati sempre della libertà
provvisoria di una smaccata evasione fiscale, padroni di macchine e di
case. Dall’altra la gente dei quartieri di periferia per la quale c’è la fiscalizzazione di tutto e c’è la miseria e non ci sono le case. Quelli possono spendere, possedere ville, ammazzare, coltivare il sadismo... Sia
Rosaria a trenta anni dalla Resistenza a frenare il dilagare del fascismo
violento.
Il vecchio parroco mette in evidenza l’enorme distanza che
c’è tra due classi sociali, tra due quartieri, tra due veri e propri
mondi, presenti nella stessa città, territorialmente vicini ma, in
realtà, lontanissimi tra loro.
Ritroviamo considerazioni simili nell’articolo del sociologo
Gianni Statera che, su “Il Messaggero”5, scrive:
Quanto è accaduto nella villa di San Felice ha un significato emblematico: due mondi che solo fisicamente convivono in una città frammentata e profondamente dilacerata nel suo tessuto sociale, collidono
drammaticamente; e a soccombere è il mondo di chi vive in due stanze di periferia. I predoni si scoprono per tali, si scatenano contro il diverso, l’ “altro” per sesso, estrazione sociale, visione del mondo;
l’attitudine alla prevaricazione e alla sopraffazione che è dei padri si
fa, nei figli, determinazione irresponsabile alla umiliazione, alla distruzione, alla cancellazione dell’altro, sia esso il “rosso” o la ragazza
di periferia.
L’episodio, in sé esecrabile, insegna molte cose, insegna che la grassa
borghesia dell’incultura, dello scempio edilizio e della connivenza col
potere, produce mostri; che la disgregazione del tessuto sociale della
città ha raggiunto l’estremo limite.
La contrapposizione tra classi sociali che ci viene continuamente proposta, dal parroco durante il funerale di Rosaria, dai
giornalisti, dai commentatori, appare oggi un po’ datata. È davvero questa la chiave di lettura del delitto del Circeo? È la marxiana lotta di classe che ci spiega la morte di Rosaria? O è il mito fascista dell’uomo forte e autoritario, che disprezza le donne,
5
1975.
G. STATERA, I simboli falsi imposti dai mostri, in “Il Messaggero”, 4 ottobre
24
Capitolo I
che ci permette di capire il sequestro di due ragazze, le sevizie
protratte e l’intenzione dei tre “pariolini neri” di uccidere entrambe?
Queste interpretazioni “politiche” non sembrano avere retto
alla prova del tempo; leggendole oggi, appaiono decisamente
superate. Tuttavia, scorrendo gli articoli dedicati al delitto del
Circeo, troviamo continuamente questa interpretazione classista
e ideologica dei fatti.
2. L’interpretazione della stampa italiana
Oltre agli articoli di cronaca, rivolgiamo ora l’attenzione agli
editoriali che appaiono sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e anche sui settimanali di attualità, firmati dei più importanti giornalisti e scrittori italiani.
Iniziamo da tre articoli di Lietta Tornabuoni, Antonio Capranica e Stefano Rodotà, che presentano riflessioni piuttosto
simili tra loro.
Sul “Corriere della sera”, in prima pagina, compare
l’articolo Roma male, di Lietta Tornabuoni6, che descrive così i
tre colpevoli: “Ragazzi della Roma-male, figli di ricchi professionisti, facce carine, pullover alla moda, belle automobili, belle
case, belle estati: e, dietro, tutto il nero brulicare che può fare
d’un ragazzo un assassino”.
In questa descrizione ci sono i soliti elementi, che sono già
stati indicati in precedenza da altri giornalisti: la ricchezza,
l’appartenenza sociale e quella politica. La violenza fa parte
della vita quotidiana, le azioni organizzate dai gruppi di estrema
destra (a cui i tre pariolini appartengono), gli assalti e i pestaggi
continui contro gli avversari politici rendono abituale l’uso della violenza, che è considerata un mezzo di affermazione personale, un modo per emergere, per distinguersi dagli altri.
6
L. TORNABUONI, Roma male, in “Corriere della sera”, 2 ottobre 1975.
Il delitto del Circeo
25
L’arroganza dei soldi e il disprezzo per le donne, specialmente per
quelle più povere, viste come esseri senza volontà né sentimenti propri, come oggetti di divertimento da raccattare per strada, prendere,
costringere, violentare, massacrare di botte se fanno storie, se non ci
stanno oppure s’azzardano a ribellarsi.
Arroganza e disprezzo per le donne sono tratti distintivi della personalità di Angelo Izzo e di Gianni Guido, che già in precedenza si erano resi protagonisti di reati analoghi.
Il vuoto di vite velleitarie, torpide, trascinate nella noia, viziate dal
benessere, senza moralità. La furia irosa di chi non rispetta nessuno e
non ammette ostacoli alla propria prepotenza. E alla fine, magari, la
droga: per esaltarsi e darsi forza. Gli ultimi eredi della “dolce vita”
sono neri, e ammazzano. La crisi, la disgregazione della società,
l’arroganza del privilegio sociale, l’assenza di valori lascia spazio alla
violenza come valore assoluto.
La conclusione di Tornabuoni è il solito atto di accusa nei
confronti della società che si ritrova spesso nei commenti giornalistici ai fatti più eclatanti di cronaca nera. Il generico riferimento ad un sistema in crisi, disgregato e privo di valori sembra
essere un alibi che giustifica anche i gesti più efferati, come
quelli compiuti dai tre autori del delitto.
Sempre in prima pagina, su “L’Unità”, Antonio Capranica
titola il suo articolo di fondo Squadristi dal “fausto avvenire”
di assassini7:
Gli squadristi assassini di Rosaria Lopez hanno scelto il silenzio.
Un’autoaccusa evidentemente. Ma ancor più un ennesimo gesto di
spezzo verso le loro vittime, una arrogante riaffermazione di “superiorità” anche di fronte alla giustizia. L’impunità goduta dalla loro carriera di picchiatori sembra rassicurarli sui rigori di una legge che gli ha
sempre presentato il volto benigno di una paterna tolleranza. Il ghigno
sulle labbra di Izzo appena arrestato: “Che mi importa? Tra dieci anni
sarò fuori, potrò ancora andare a donne.” Il tranquillo conversare di
calcio coi carabinieri di scorta di Gianni Guido. Il commento degli
7
A. CAPRANICA, Squadristi dal “fausto avvenire” di assassini, in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
26
Capitolo I
amici del “giro” dei bar dei Parioli e di Corso Trieste “è stata pura
sfortuna”.
Compare subito, all’inizio dell’articolo, il termine impunità,
l’elemento principale della lettura dei fatti che viene proposta
da Capranica. Gli assassini non temono la punizione della giustizia, non hanno nessun dubbio sul trattamento di favore che
gli sarà riservato, per il semplice motivo che, in passato, i giudici sono già stati particolarmente comprensivi nei loro confronti. Nei mesi precedenti se la sono cavata con poco, anche
questa volta non andrà tanto male, di questo sono convinti Angelo Izzo e Gianni Guido, catturati immediatamente; il terzo
aggressore, Andrea Ghira, è latitante.
I due ragazzi arrestati non parlano, non è necessario, spetta
ai loro avvocati occuparsi delle accuse e gestire i rapporti con i
giudici; loro, i colpevoli, gli assassini, non hanno nulla da dichiarare, nulla da spiegare, e soprattutto nulla di cui pentirsi. Si
sentono intoccabili, protetti e appoggiati dai contatti giusti, dalle conoscenze che contano e fanno affidamento sulla compiacenza dei giudici, perché sono figli di una classe privilegiata
che vive, indisturbata, secondo regole diverse da quelle fissate
dalla legge:
i figli della borghesia parassitaria, sviluppatasi all’ombra del sacco urbanistico di Roma, sono i discendenti dei dignitari del regime mussoliniano, cresciuti nelle case agiate di Corso Trieste o dei Parioli. Il denaro, il lusso, le macchine e le ville autorizzano alla fiducia.
Secondo Capranica, i “pariolini” costituiscono una casta,
una classe sociale chiusa, che si distingue da tutte le altre per
nascita, per ricchezza, per privilegi goduti. Di conseguenza, il
trattamento riservato dai giudici ai membri della casta sarà un
trattamento di riguardo.
Non conta che proprio nell’ozio e nella noia di questa vita dorata maturino le aggressioni squadristiche, la torpida abitudine alla violenza
sui “diversi”, il disprezzo verso gli esclusi dalla propria casta reputata
“superiore”. (…) tutto si fa “oggetto”, da prendere, usare, gettare via.
Anche la sventurata ragazza povera e inquieta, a cui una sera, poco
Il delitto del Circeo
27
più di una settimana fa, Parboni Arquati offre un passaggio sulla sua
lussuosa “Citroen Pallas”. Se si rifiuta, se si oppone, c’è la violenza.
Questo il ritratto giornalistico di Giampiero Parboni Arquati:
amico e complice dei tre responsabili, è uno squadrista nero, 20
anni, anche lui rampollo della “Roma bene”, soltanto un anno
prima in una villa di Monte Porzio seviziò e violentò una ragazzina di sedici anni insieme al suo amico e camerata Angelo Izzo. L’ordine di cattura parla di ratto a fine di libidine8.
Ecco ricomparire un elemento fondamentale, utilizzato da
molti giornalisti, per spiegare il delitto del Circeo: il disprezzo
nei confronti dei diversi ovvero di coloro che non appartengono
alla “casta superiore”; gli esclusi, i diversi sono gli “studenti
democratici”, i “rossi”, le ragazze di borgata. Il disprezzo nutrito nei loro confronti porta, come inevitabile conseguenza,
all’aggressione e alla violenza. Se una donna, ad esempio, si
oppone alle richieste di un pariolino, viene umiliata, picchiata,
annichilita; perché una donna è un essere inferiore, che deve
sempre obbedire ed eseguire immediatamente ciò che le viene
ordinato di fare. Per un pariolino nero è inaccettabile una manifestazione di resistenza, una contestazione o un rifiuto da parte
di una donna.
Perché viene dato per scontato che il disprezzo porti, sempre
e comunque, all’aggressione e alla violenza? Perché viene considerato “normale” dividere le persone in esseri superiori e esseri inferiori? Perché, insomma, non si cerca di trovare delle spiegazioni meno superficiali, che vadano oltre la descrizione degli
eventi? Forse non spetta ad un giornalista trovare delle risposte
adeguate a casi di questo tipo ma quello che sorprende è il fatto
che la realtà venga presentata sempre nello stesso modo ovvero
che la chiave di lettura proposta sia continuamente lo scontro
tra fascisti ricchi e ragazze povere.
Stefano Rodotà, in Chi dà spazio ai teppisti9, amplia un po’
la visione delle cose e prende una posizione molto netta nei
8
9
S. CRISCUOLI , Arrestato un altro squadrista, in “L’Unità”, 5 ottobre 1975.
S. RODOTÀ, Chi dà spazio ai teppisti, in «Panorama», 16 ottobre 1975.
28
Capitolo I
confronti dei responsabili diretti e, soprattutto, indiretti del delitto del Circeo:
Non era certo necessario attendere il selvaggio assassinio di una ragazza romana per scoprire la matrice fascista di tanta delinquenza comune. Sono anni che le cronache registrano puntualmente questo fatto. Perché insisto particolarmente su questo punto, rischiando l’accusa
di voler esasperare l’interpretazione politica della vicenda che ha condotto alla morte di Rosaria Lopez? Perché ho l’impressione che molti
dei giudizi dati in questa occasione - mettendo l’accento sul denaro
facile, sul permessivismo dei genitori, sulla scuola incapace di trasmettere i valori - si preoccupino soltanto di spiegazioni generali, annacquando o facendo passare in secondo piano le responsabilità specifiche di persone o di organi dello Stato.
Rodotà ritiene insufficienti, insoddisfacenti le interpretazioni
incentrate in modo eccessivo sui protagonisti del massacro e
sull’ambiente nel quale sono cresciuti e suggerisce una visione
d’insieme più articolata e più complessa:
È vero. Quei bravi giovani borghesi sono stati abituati all’impunità
dall’aria che si respira in famiglie in cui l’evasione fiscale è la regola e
le fortune si edificano sulle speculazioni edilizie o valutarie. Ma essi
non hanno soltanto assorbito quasi inconsapevolmente questo abito di
vita, che li portava a ritenere valide solo le regole dettate dal loro capriccio o interesse: giorno dopo giorno, grazie alla benevolenza della
polizia e della magistratura, hanno sperimentato quell’impunità anche
in prima persona e hanno così finito col ritenere che essa avrebbe continuato a coprire qualsiasi manifestazione della loro vita violenta.
Anche per Rodotà, l’impunità è un elemento centrale per
comprendere il comportamento dei pariolini neri. Vengono
chiamate direttamente in causa la polizia e la magistratura, colpevoli di aver già favorito, in passato, gli assassini di Rosaria.
L’attacco di Rodotà si basa su fatti precisi:
Sulle imprese teppistiche di fascisti giovani e meno giovani, e sul fitto
tessuto di compiacenze pubbliche che le hanno lasciate impunite, esiste una documentazione tale che è inutile insistervi analiticamente ancora una volta. Basta ricordare che, all’indomani del delitto di Roma, i
membri del Cogidas (coordinamento genitori democratici e antifasci-
Il delitto del Circeo
29
sti) hanno con amarezza sottolineato come siano rimaste da anni inascoltate le loro circostanziate denunce delle violenze di cui erano stati
protagonisti proprio alcuni degli assassini di Rosaria Lopez. Ma servirà quest’ultimo episodio a cambiare, se non una mentalità, almeno alcuni comportamenti esteriori?
La vicenda del Circeo è emblematica nel mettere in luce gli
stretti rapporti esistenti tra magistratura e organizzazioni di estrema destra, tra magistratura e borghesi ricchi e ammanicati.
Rodotà non è il solo ad interrogarsi sulla situazione politica
e sociale italiana. Lidia Menapace, sulla prima pagina de “il
Manifesto”, analizza Il pubblico e il privato dei fascisti assassini10 ed afferma che l’immoralità (…) non è il frutto della permissività. L’immoralità ha un nome preciso: è la doppia morale
della prepotenza fascista coperta dalla solidarietà di classe, è
l’uso della donna come di un disprezzato strumento di eccitazione e di piacere. Anche in questo articolo tornano gli stessi
concetti, non c’è nulla di nuovo.
Infine, è senz’altro degno di interesse il dibattito a distanza
che si è svolto tra Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini; è
quest’ultimo a rappresentare la sola voce fuori dal coro della
stampa italiana.
Il lungo articolo di Italo Calvino, pubblicato dal “Corriere
della Sera” in prima pagina, è intitolato Delitto in Europa11 e
presenta una acuta analisi della situazione politica e sociale europea. Riguardo alla situazione italiana, la riflessione calviniana
è amara ma non cupa; egli ritrae una società in crisi ed, al tempo stesso, in cambiamento: questo periodo di crisi generale è
per l’Italia anche un’epoca di passi avanti importanti, nella legislazione, nella vita civile, nella coscienza sociale.
Seguiamo la sua riflessione a partire dal tragico fatto di cronaca del Circeo:
i responsabili della carneficina del Circeo sono in molti e si comportano come se quello che hanno fatto fosse perfettamente naturale, come
10
L. MENAPACE, Il pubblico e il privato dei fascisti assassini, in “Il Manifesto”, 7
ottobre 1975.
11
I. CALVINO, Delitto in Europa, in “Corriere della Sera”, 8 ottobre 1975.
30
Capitolo I
se avessero dietro di loro un ambiente e una mentalità che li comprende e li ammira. Per poco che riusciamo a capire, dobbiamo guardare le
cose in faccia e considerare l’esistenza di una società di mostri che
convive perfettamente con le strutture della nostra società attuale. (…)
I giornali hanno messo in rilievo che i protagonisti della vicenda appartengono all’ambiente dei picchiatori fascisti: c’era da aspettarselo.
È una parte della nostra società in cui il disprezzo per la donna e per le
persone di condizione sociale più modesta, la linea di condotta della
sopraffazione del più debole e del disprezzo di ogni senso civico,
[passa] da una generazione all’altra.
Anche nell’analisi calviniana è presente l’elemento del disprezzo nei confronti dei più deboli, donne e poveri, un disprezzo che fa parte di una precisa visione del mondo, che viene tramandata di padre in figlio, in cui il forte schiaccia il debole.
Il pericolo vero viene dall’estendersi nella nostra società di strati cancerosi; c’è una parte della borghesia italiana che vive e prospera e prolifera senza il minimo senso di ciò che appartenere a una società significa, come relazione reciproca tra gli interessi personali o di gruppo e
quelli della collettività. Dire che non c’è che un passo dall’atonia morale e dalla irresponsabilità sociale alla pratica di seviziare e massacrare le ragazze con cui si esce alla sera può sembrare una delle solite
generalizzazioni esagerate dei moralisti, però abbiamo sotto gli occhi
il curriculum e il linguaggio di questi giovanotti, campioni rappresentativi - si dice - della clientela di un bar molto frequentato dalla gioventù del loro ceto.
Con termini diversi da quelli usati da altri giornalisti, anche
Calvino afferma l’esistenza di una casta, di una classe privilegiata, chiusa su se stessa e attiva nel difendere i propri privilegi.
Le azioni compiute dai membri di una classe che si ritiene privilegiata e superiore sono irresponsabili ed amorali: usare, umiliare, picchiare i deboli e le donne è la conseguenza di un modo di
pensare e di vivere, che non ha niente a che fare con la convivenza civile, con l’appartenenza ad una comunità.
Criminalità politica e criminalità sessuale sembrano in questo caso definizioni riduttive ed ottimistiche. Probabilmente anche il fanatismo
politico più bruto è un gradino al di sopra delle capacità intellettive di
costoro. Così come mi pare certo che il sesso non interessa veramente
Il delitto del Circeo
31
questi [ragazzi]. Viviamo in un mondo in cui l’escalation nel massacro
e nella umiliazione della persona è uno dei segni più vistosi del divenire storico: a questi giovani romani sta a cuore solo dimostrare una
cosa ovvia: che i nazisti possono essere largamente superati in crudeltà in ogni momento.
L’intervento di Calvino sulle pagine del “Corriere della Sera” suscita, nei giorni successivi, un vivace dibattito; diversi
giornalisti riprendono le sue posizioni e replicano alle sue tesi.
Certamente la risposta più significativa è quella di Pier Paolo Pasolini, che indirizza a Calvino, dalle pagine de «Il Mondo», una delle sue “lettere luterane”12. Citando testualmente le
parole dello scrittore, Pasolini controbatte alle tesi calviniane:
Ho da ridire sul fatto che tu crei dei capri espiatori, che sono: “parte
della borghesia”, “Roma”, i “neofascisti”. Tu hai privilegiato i neofascisti pariolini del tuo interesse e della tua indignazione, perché sono
borghesi. La loro criminalità ti pare interessante perché riguarda i
nuovi figli della borghesia. Li porti dal buio truculento della cronaca
alla luce dell’interpretazione intellettuale, perché la loro classe sociale
lo pretende. Ti sei comportato - mi sembra - come tutta la stampa italiana, che negli assassini del Circeo vede un caso che la riguarda, un
caso, ripeto, privilegiato. Se a fare le stesse cose fossero stati dei “poveri” delle borgate romane, oppure dei “poveri” immigrati a Milano o
a Torino, non se ne sarebbe parlato tanto e a quel modo. Per razzismo.
Perché i “poveri” delle borgate o i “poveri” immigrati sono considerati delinquenti a priori.
Pasolini attacca duramente Calvino, lo accusa di razzismo,
sostiene che l’attenzione, non solo di Calvino ma di tutta stampa italiana, nei confronti del delitto del Circeo, dipende esclusivamente dall’appartenenza dei tre assassini alla classe borghese.
Lo stupore, l’indignazione, il tentativo di capire le ragioni di un
delitto così atroce derivano dalla classe sociale di appartenenza
dei tre giovani assassini. L’eccezionalità della notizia è questa.
Per Calvino, per la stampa italiana e per l’opinione pubblica, è
inaccettabile che tre giovani, ricchi, privilegiati, fortunati, tre
12
P.P. PASOLINI, Lettera Luterana, in «Il Mondo», 30 ottobre 1975.
32
Capitolo I
ragazzi che hanno avuto tutto dalla vita, come si usa dire, si trasformino in brutali assassini.
Questi tre pariolini non corrispondono all’immagine dello
stupratore violento; le aspettative nei loro confronti sono altre,
completamente diverse; la loro appartenenza sociale sembra inconciliabile con il reato che hanno commesso. In base ad un
pregiudizio diffuso, il ritratto del criminale è quello di un uomo
povero, ignorante, brutto e cattivo, che compie crimini di ogni
genere a causa della sua posizione ai margini della società, della
sua mancanza di mezzi di sussistenza. Nell’immaginario collettivo i borgatari, i proletari sono delinquenti ed assassini, i ragazzi per bene, educati ed agiati no. Secondo Pasolini, è questo
l’errore che commettono i giornalisti italiani ed anche Calvino,
osservare la società italiana e dividerla in buoni e cattivi in base
ad un banale pregiudizio classista.
Ebbene, i “poveri” delle borgate romane e i “poveri” immigrati, cioè i
giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito, quello che è
oggetto della tua “descrittività”. I giovani delle borgate di Roma fanno
tutte le sere centinaia di orge (le chiamano “batterie”) simili a quelle
del Circeo: e, inoltre, anch’essi drogati.
L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere,
infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico. (…)
L’impunità di tutti questi anni per i delinquenti borghesi e in specie
neofascisti non ha niente da invidiare all’impunità dei criminali di
borgata.
Proseguendo con il confronto tra ricchi e poveri, tra borghesi
fascisti e borgatari, Pasolini sostiene che l’impunità di cui tanto
si parla a proposito dei tre pariolini neri, protetti dal privilegio
sociale e da una magistratura compiacente, è la stessa impunità
che viene goduta anche dai criminali di borgata; per fare un esempio, cita il caso dei fratelli Carlino, di Torpignattara, che
godevano della stessa libertà condizionale dei pariolini.
La tesi sostenuta da Pasolini è certamente spiazzante.
Il delitto del Circeo
33
Come abbiamo visto in precedenza, giornalisti di diverse testate hanno continuamente posto in contrapposizione i Parioli e
la Montagnola, hanno descritto l’ambiente di provenienza, benestante e fascista, degli aggressori mettendolo in netto contrasto con la miseria e lo squallore del quartiere-dormitorio delle
due ragazze.
Dopo tutti questi monotoni articoli, ci troviamo di fronte al
paragone pasoliniano. Tra tutti i giornalisti e gli scrittori che
hanno commentato i fatti del Circeo, Pasolini è l’unico che pone
a confronto i Parioli e le borgate romane per affermare che non
esistono sostanziali differenze tra i due contesti sociali. Posti
vicini l’uno alle altre, egli vede affinità invece di differenze,
similitudini invece di fratture abissali, elementi comuni invece
di mondi estranei l’uno agli altri.
Criticando le tesi espresse da Calvino e dalla stampa italiana,
Pasolini cambia prospettiva, propone un punto di vista nuovo,
abbandona la contrapposizione ricchi-poveri, parioliniborgatare e ci offre una descrizione, originale e sconcertante,
delle periferie delle grandi città e dei loro abitanti. Squarcia il
velo di indifferenza che circonda il mondo proletario e, confrontando il modo di agire dei ricchi con il modo di agire dei
poveri, afferma che non c’è alcuna differenza, perché ci troviamo di fronte alla stessa violenza, alla stessa crudeltà, alla stessa
impunità.
La tesi pasoliniana è una vera e propria voce fuori dal coro,
destinata a rimanere tale; non ci sono stati commenti o discussioni a partire dalle sue considerazioni, nessuno ha raccolto la
sua provocazione. Eppure, a più di trent’anni di distanza
dall’episodio del Circeo, l’articolo di Pasolini, pubblicato pochi
giorni prima del suo omicidio, avvenuto il 2 novembre 1975, è
l’unico che ha ancora qualcosa da dirci oggi.
Dopo aver letto sempre le stesse parole, dopo aver analizzato
interpretazioni ripetitive e poco convincenti in innumerevoli articoli, Pasolini ci presenta una realtà nuova, disturbante, in cui
ricchezza e privilegio, fascismo e disprezzo non trovano posto.
La società tratteggiata dallo scrittore è una società pervasa dalla
violenza, dal sadismo, dal sesso brutale, indipendentemente
34
Capitolo I
dall’appartenenza di classe. Non ci sono ambiti circoscritti, situazioni straordinarie, nelle quali la violenza si scatena, al contrario, la violenza è una presenza quotidiana, abituale sia tra i
borgatari che tra i borghesi.
Anche se non nomina le donne, Pasolini intuisce la sistematicità e la diffusione del fenomeno della violenza contro le donne, fenomeno completamente ignorato dalla società italiana e
denunciato con forza soltanto dal movimento femminista.
3. Una chiave di lettura diversa: la violenza sulle donne
Ad eccezione di Pasolini, dagli articoli selezionati emerge
un’interpretazione politica del delitto del Circeo piuttosto ripetitiva.
È un lungo articolo di Dacia Maraini, intitolato La violenza
contro le donne: una costante nel tempo. Rosaria e Donatella13,
a darci una lettura dei fatti completamente diversa dalle precedenti, dato che tutta l’attenzione della scrittrice è rivolta verso le
donne.
Il punto di vista di Maraini, le spiegazioni fornite ed i giudizi
espressi, i concetti e i termini usati non sono neppure confrontabili con le opinioni che abbiamo considerato finora, perché ci
troviamo di fronte ad una prospettiva radicalmente diversa.
Oggi l’Italia è in pianto per la giovane Rosaria seviziata e uccisa. Tutti
si scagliano con uguale fervore contro i delinquenti fascisti chiamandoli “bruti”, “mostri”, “assassini senza cuore”. La televisione dedica
una trasmissione speciale a questo fatto di sangue. I giornali e i rotocalchi fanno a gara a chi spreca più parole per lunghi articoli indignati
e sentimentali. (…) A leggere i vari interventi però si avverte dappertutto una preoccupazione nascosta ma costante e monotona: che la ragazza fosse vergine e che si sia opposta con tutte le sue forze, non tanto contro la violenza assassina dei ragazzi, quanto contro il sesso in sé
e per sé.
13
D. MARAINI, La violenza contro le donne: una costante nel tempo. Rosaria e Donatella, in “Paese sera”, 11 ottobre 1975.
Il delitto del Circeo
35
Per la prima volta, un lungo articolo a tutta pagina si occupa
delle due ragazze, in particolare della vittima, Rosaria Lopez,
che è posta al centro dell’attenzione e dell’analisi. Ai tre aggressori non viene dedicato spazio; tutto quello che è successo
in quella villa fuori città ha portato alla morte di Rosaria ed è
questo il fatto fondamentale da indagare e da capire.
Secondo Maraini, la curiosità degli italiani nei confronti della ragazza uccisa si concentra ossessivamente su un unico dettaglio: la sua verginità. È necessario essere sicuri che Rosaria
fosse vergine per poterla compiangere. Solo in questo caso, gli
italiani sono disposti a commuoversi per lei e a condannare i tre
assassini, che volevano costringerla ad avere rapporti sessuali
con loro. Rosaria ha veramente lottato, ha fatto di tutto per preservarsi, si è opposta in tutti i modi ai tentativi di violenza sessuale?
Tutti insistono su questa faccenda della “purezza”, della “pulizia” che
naturalmente sono fatti puramente fisiologici, senza rendersi conto di
quanto sia offensivo tutto questo per le due ragazze. Nessuno dice della morta che era buona, intelligente, onesta, forte, indipendente, allegra. Si insiste tetramente sulla sua verginità. Insomma l’Italia intera
non vuole mettere mano al fazzoletto se non dopo essersi rassicurata
che c’è stato un attentato alla virtù e all’innocenza, due cose che sono
dimostrabili, secondo l’opinione pubblica, solo con la verginità.
La verginità, valore fondamentale nella cultura cattolica e
nella società italiana, diventa l’elemento discriminante per stabilire chi sia veramente responsabile per ciò che è accaduto:
soltanto se Rosaria è vergine, e di conseguenza virtuosa e innocente, la colpa ricade interamente sui tre aggressori.
A questo punto Maraini solleva un dubbio per provocare il
lettore:
E se si fosse trattato di due ragazze che non tornavano a casa prima
delle otto? Se si fosse trattato di due diciottenni che facevano l’amore
con chi volevano e quando volevano perché faceva loro piacere? Quale sarebbe stata la reazione? Si sarebbe scatenata la stessa indignazione nazionale?
36
Capitolo I
Oppure si tratta di una indignazione “condizionata” dalla garanzia che
tutto è a posto: la ragazza è buona perché pura e difende la sua purezza. I ragazzi sono cattivi perché insidiano questa purezza. Tutto normale insomma. Solo imprevisto: la morte.
La forte reazione dell’opinione pubblica dipende solo e soltanto dal fatto che Rosaria si è comportata come doveva comportarsi: ha difeso la propria verginità, ha combattuto contro i
bruti che volevano fare sesso con lei. È andata a finire male, i
mostri non sono stati teneri, l’hanno massacrata di botte, seviziata per ore, violentata e uccisa. La sua strenua resistenza, la
sua ostinata opposizione le sono costate la vita ma il suo onore
di ragazza rispettabile è salvo.
Maraini si dice certa di una reazione radicalmente diversa da
parte dell’opinione pubblica nel caso in cui Rosaria non fosse
stata vergine; dubbi, sospetti, insinuazioni, domande assillanti
avrebbero inevitabilmente fatto la loro comparsa: come essere
sicuri che non fosse consenziente? Chi può affermare con certezza che non sia stata lei a provocare i ragazzi? Probabilmente
aveva accettato l’invito alla festa con l’intenzione di spassarsela
con uno di loro o forse con tutti e tre e poi, all’improvviso, aveva cambiato idea.
Il fatto stesso di non essere casta e pura avrebbe gettato su di
lei un pesante discredito, l’avrebbe esposta a giudizi malevoli e
a critiche severe e l’avrebbe trasformata da vittima in parte in
causa. Una ragazza così giovane con precedenti esperienze sessuali è indubbiamente una poco di buono, questa è la condivisa
certezza da cui nascono i dubbi e le insinuazioni che diventano
rapidamente giudizi severi e critiche feroci nei confronti della
ragazza sfacciata.
Rosaria non può raccontare, non può difendersi, non può
confermare o negare fatti e circostanze; per lei parla l’autopsia
eseguita dai medici legali, che certifica la sua verginità e le ripetute sevizie inferte su di lei dagli assassini.
Rosaria è, quindi, da compatire e da onorare; come si giudicano, invece, tutte le altre ragazze, quelle che, non essendo vergini, sono automaticamente delle poco di buono? Se una ragaz-
Il delitto del Circeo
37
za non illibata esce la sera, va a ballare, conosce un ragazzo carino e gentile e si allontana con lui; se i due si baciano ma, dopo
i primi baci e le prime resistenze da parte di lei, la ragazza viene
aggredita dallo sconosciuto, viene picchiata e costretta ad avere
un rapporto sessuale, come si valuta la situazione? Di chi è la
colpa?
La scrittrice riferisce quello che succede regolarmente nelle
questure italiane: quando una donna si presenta di fronte ad un
poliziotto e dichiara di essere stata aggredita, nel giro di pochi
minuti la donna violentata diventa l’imputata, domanda dopo
domanda si trasforma nell’accusata: il suo comportamento presente e passato, le sue frequentazioni, il suo stile di vita vengono messi in discussione, indagati e giudicati. In tutto questo, la
responsabilità dell’aggressore diventa un dettaglio di scarso interesse, a causa della diffusa convinzione che se una donna viene aggredita è perché se l’è andata a cercare; se così non fosse,
non sarebbe stata violentata.
Rosaria è stata uccisa, Donatella è stata ridotta in fin di vita:
il loro è un caso straordinario, fuori dalla norma, che ha scosso
l’opinione pubblica italiana. Maraini ritiene necessario andare
oltre il delitto del Circeo e chiedersi che cosa succede abitualmente a tutte le altre, alle ragazze e alle donne italiane, né vergini né poco di buono, che vivono nelle città italiane: le donne,
giovani e meno giovani, come si relazionano con gli uomini?
Che tipo di rapporti hanno con i maschi?
A questo punto viene spontaneo chiedersi quanto siano sincere le lacrime di tutti questi italiani che d’altra parte non battono ciglio di
fronte alle migliaia di casi di violenza che si compiono ogni giorno
sulla donna. Se permettete, io a questa indignazione nazionale, a questo fiume di lacrime, non ci credo, anzi un poco me ne vergogno come
di una manifestazione di ipocrisia dei miei connazionali. (…) Quello
che nessuno ha detto è che la violenza sulle donne è un fatto quotidiano, comune, di massa. Nessun giornale ha parlato di questa violenza
continuata, atroce, muta, ricattatoria, sottile, abituale che viene compiuta sul corpo e sull’anima delle donne. Una violenza che si consuma
nelle famiglie, nei luoghi pubblici, nelle camere da letto, nelle strade,
nei giardini pubblici.
38
Capitolo I
Nonostante le dimensioni del fenomeno, il silenzio è profondo: non se ne interessano i mezzi di informazione, non se ne
preoccupa la società civile, non ne parlano le donne direttamente coinvolte. Ecco allora che, per rompere il silenzio, il movimento femminista decide di scendere in piazza, più volte nei
giorni successivi al massacro del Circeo; questo è il resoconto
di una manifestazione che si è svolta a Roma:
le ragazze intervenute hanno parlato delle proprie esperienze quotidiane di violenza. Sono venute fuori cose inquietanti, nascoste, brucianti: ragazze di quattordici anni violentate dal padre, compagne aggredite e picchiate dai compagni di uno stesso gruppo politico, mogli
picchiate a sangue dai mariti, ragazze inseguite e aggredite per la strada, bambine insidiate da amici di famiglia e parenti prossimi, sorelle
sottomesse con la forza da fratelli maggiori, fidanzate brutalizzate da
fidanzati gelosi, eccetera.
Le testimonianze forniscono un quadro d’insieme sconcertante; queste sono le conclusioni della scrittrice:
la violenza sulla donna è un esercizio quotidiano, così antico e abituale che non ce ne stupiamo più. Le donne poi non denunciano quasi
mai le violenze subite, per paura, per complicità, per amore, per un
malinteso senso del pudore, nonché per la solita scarsa fiducia in se
stesse e nel mondo.
Nell’articolo di Dacia Maraini sono presenti molti spunti interessanti: il delitto del Circeo viene interpretato in base alla divisione dei ruoli sessuali e alla strenua difesa dell’onore da parte della vittima; gli italiani vengono criticati perché giudicano le
donne e le dividono in buone e cattive in base al loro comportamento sessuale; i poliziotti vengono accusati di mettere in difficoltà le donne stuprate che intendono denunciare i loro aggressori; infine, vi è la denuncia, forte e chiara, del fenomeno
della violenza contro le donne, che è un fenomeno costante e
molto diffuso in tutta la società ma completamente ignorato.
È altrettanto interessante, in questo articolo, quello che non
c’è: nulla, assolutamente nulla di ciò che altri giornalisti e altri
Il delitto del Circeo
39
scrittori hanno detto e ripetuto, trova spazio nelle riflessioni di
Maraini.
Ci troviamo di fronte ad un nuovo modo di interpretare la
realtà, ad un nuovo modo di vedere il mondo: quello che conta è
il punto di vista delle donne. È Rosaria la protagonista della vicenda, è lei la figura emblematica che ha colpito l’opinione
pubblica, è lei la ragazza, violentata e uccisa, che può rappresentare tutte le altre donne che vengono aggredite, picchiate,
abusate e violentate quotidianamente dagli uomini.
Il massacro del Circeo segna profondamente l’immaginario
collettivo italiano e le prime a rendersene perfettamente conto
sono le femministe, intenzionate ad utilizzarlo come caso paradigmatico per far emergere, in tutta la sua drammaticità, il fenomeno, scomodo e disturbante, della violenza contro le donne.
4. Il processo a Latina
Il delitto ed il processo per i fatti del Circeo rappresentano,
per il movimento femminista, un’occasione imperdibile per richiamare l’attenzione dei mezzi di informazione e dell’opinione
pubblica sul ruolo che le donne occupano all’interno della società italiana. Un evento così forte, così scioccante rappresenta
un’ottima occasione per denunciare il profondo squilibrio di potere esistente nei rapporti uomo-donna, per mettere in evidenza
la posizione di inferiorità in cui tutte le donne vivono e sono costrette a vivere dagli uomini, per denunciare l’atavico dominio
maschile che tutte le donne subiscono in ogni ambito della vita
quotidiana, dentro e fuori casa, un dominio che spesso si trasforma in violenza.
La giornalista e scrittrice radicale Maria Adele Teodori, nel
1977, pubblica un saggio dal titolo molto esplicito Le violentate, nel quale ricostruisce i casi di stupro e di violenza verificatisi
in Italia nell’arco di un anno e mezzo. La reale entità del fenomeno è difficilmente misurabile, a causa della totale assenza di
dati e di statistiche ufficiali. Di conseguenza, i casi di cronaca e
i processi per stupro rappresentano gli unici elementi concreti a
40
Capitolo I
cui poter fare riferimento per avviare un più ampio discorso
della condizione femminile nella società.
Per presentare il caso del delitto del Circeo, l’attenzione della giornalista si concentra su ciò che succede in aula, durante il
processo, e sulla presenza e sul ruolo giocato dalle femministe:
imponente è lo schieramento degli avvocati, una ventina, sia per gli
imputati che per la parte civile, assiepati su due banchi. Ma più imponente è la partecipazione femminista. L’eco del delitto del Circeo non
si è mai spento. Anzi. A parte le polemiche ad alto livello socioantropologico, già nel sit-in del 5 ottobre in piazza Navona, qualche
giorno dopo il delitto, le femministe romane avevano definito un crimine politico l’uccisione di Rosaria e l’avevano commemorata in modo inedito, narrando pubblicamente al microfono le loro esperienze
quotidiane di violenza14.
Durante il processo, le femministe si presentano regolarmente in aula, numerose e attente, per seguirne lo svolgimento; sono
scatenate, vogliono far sentire la loro voce, urlano e scandiscono slogan, sia per le strade di Latina sia dentro l’aula:
ed eccole, alle nove, arrivare in corteo al tribunale di Latina, con cartelli e slogan: “Guido, Izzo, Ghira sono normali, sono il prodotto dei
valori patriarcali”, invadere l’aula, scavalcare le transenne. (...) Nella
gabbia degli imputati c’è Angelo Izzo. Gianni Guido ha preferito restare in carcere. Il terzo, Andrea Ghira, è latitante. (...) Qualcuna grida
“assassino” ed “ergastolo”. Izzo ne approfitta dopo un’ora per chiedere di rientrare in carcere. Non si sente “sicuro”. (...) l’avvocato Rocco
Mangia chiede che il processo si celebri in un’altra città, per
“l’eccezionale turbamento dell’ambiente... per le inammissibili aggressioni morali e minacce di violenze fisiche... per l’atteggiamento
aggressivo del pubblico e della stampa che ha trasferito la piazza in
questa sede”, cosicché Angelo Izzo, “ridotto in stato di terrore, è stato
costretto ad abbandonare l’aula”15.
Il clima all’interno dell’aula del tribunale è sicuramente insolito, sconcerta gli avvocati della difesa e gli imputati stessi;
gli attacchi nei confronti degli imputati sono continui, al punto
che Izzo - unico accusato presente - preferisce uscire dall’aula.
14
15
M.A., TEODORI, Le violentate, Sugar, Milano 1977, pp. 26-27.
Ibidem.
Il delitto del Circeo
41
È difficile mantenere il silenzio in aula, le femministe urlano,
insultano, interrompono spesso, facendo sentire continuamente
la loro presenza; sono furiose e determinate a trasformare questo processo in un processo storico, questa vicenda in una vicenda epocale. Il loro obiettivo è riuscire a determinare un radicale cambiamento di mentalità nell’opinione pubblica ed anche
riuscire a modificare la legge sulla violenza carnale, considerata
dalla legge italiana un delitto contro la morale e non contro la
persona.
Gli autori del delitto sono descritti in questo modo:
i seviziatori, quale atteggiamento hanno? Non è mai cambiato dal
primo giorno: ironia, sguardi di sfida, indifferenza. Angelo Izzo parla
di una ragazzata, di un atto di cui non hanno saputo valutare le conseguenze e accusa: “Donatella mente sapendo di mentire”16.
Dal comportamento che ha e che continua ad avere, appare
evidente che Izzo, uno dei responsabili della morte di Rosaria
Lopez, dello stupro e delle sevizie ai danni di Donatella Colasanti, non ritiene di essere davvero in pericolo, non crede di rischiare una condanna pesante. Delegittimando la testimonianza
della ragazza sopravvissuta, sminuisce i fatti e definisce una
ragazzata la orribile serie di azioni violente e brutali, commesse
con spietata crudeltà da lui e dai suoi due compari, con la precisa intenzione di uccidere entrambe le ragazze.
Gli avvocati della difesa e i tre colpevoli sembrano non rendersi conto che questa volta il processo andrà diversamente, che
la compiacenza della magistratura, il trattamento di favore nei
loro confronti, che in passato c’è stato, in questo caso non ci sarà. Durante il processo le cose andranno in modo differente perché responsabili e vittime, avvocati della difesa e dell’accusa,
giudici e medici legali si trovano nell’occhio del ciclone, sono
protagonisti, loro malgrado, di un evento mediatico.
L’attenzione dell’opinione pubblica, dei mezzi di comunicazione di massa e del movimento femminista è ostinatamente puntata su di loro. Non è possibile mettere a tacere gli avvocati
16
Ivi, pag. 28.
42
Capitolo I
dell’accusa, attenuare i capi d’imputazione, insabbiare il procedimento. Il delitto del Circeo non è un delitto come gli altri, non
lo è mai stato, fin dall’inizio. Questa volta l’indifferenza,
l’arroganza, il disprezzo dei colpevoli verso le vittime non serviranno; questa volta non ci sarà nessuno dalla loro parte, non ci
sarà nessuno disposto a prendere esplicitamente le loro difese.
Come è già stato fatto in processi analoghi, gli avvocati della
difesa utilizzano questo tipo di argomentazioni: “Donatella non
vi dico che è stata incauta ad andare con degli sconosciuti, non
vi diremo che tutto questo non sarebbe avvenuto se la famiglia
l’avesse tenuta un po’ più a freno...”17 nel tentativo di addossare
parte della colpa alle ragazze, colpevoli perché, invece di starsene tranquille a casa, vanno in giro in cerca di avventure e accettano inviti dagli sconosciuti.
Questa volta, in aula, non ci sono solo Izzo, Guido e Ghira
da una parte e Donatella e Rosaria dall’altra; questa volta non si
tratta solo di giudicare e condannare tre ragazzi ricchi e violenti,
protagonisti di un festino dall’esito tragico, si tratta, piuttosto,
di lanciare un segnale chiaro e privo di ambiguità a favore di un
cambiamento, di un nuovo modo di considerare casi come questo. Ecco le parole degli avvocati di parte civile:
questo è un delitto di gruppo con la sola filosofia della violenza come
valore su cui costruire un ordine nuovo. È l’ideologia del pestaggio
come mezzo di persuasione violenta. La violenza è l’attacco alla persona, alla dignità. (...) Noi siamo qui per Donatella, ma anche per
qualcosa di più. È la società che ci interroga e vuol vedere come si
chiude questo capitolo... Vi chiediamo nell’interesse di Donatella e di
tutto il paese, in nome della cultura, di tutte le donne e dei cittadini di
tutte le classi, di giudicarli rifiuti del genere umano18.
Viene richiesta una condanna non solo penale nei confronti
dei colpevoli ma anche e soprattutto una condanna morale, un
giudizio severo e senz’appello: i tre assassini devono essere
considerati come rifiuti del genere umano e come tali devono
17
18
Ivi, p. 30.
Ivi, pp. 28-30.
Il delitto del Circeo
43
essere giudicati. Questa presa di posizione della giustizia italiana riguarda non solo il caso particolare di Donatella e Rosaria
ma anche tutti i casi che vedono una donna vittima della violenza maschile. Il movimento femminista e le donne italiane di tutte le classi sociali, di tutte le età, di tutte le città, accomunate dal
semplice fatto di essere donne, attendono l’esito finale di questo
processo e si aspettano una condanna esemplare. La decisione
che il giudice deve prendere riguardo ai tre pariolini neri rappresenta, per le femministe e per l’opinione pubblica, una tappa
fondamentale di un lungo cammino verso un cambiamento nel
modo di considerare la violenza esercitata degli uomini contro
le donne.
L’arringa finale del pubblico ministero, Vito Giampietro,
dura più di tre ore; la pena richiesta è l’ergastolo, per tutti e tre
gli imputati:
basta leggere le cinquanta pagine delle perizie e degli interrogatori
per accorgersi che questo processo abbia una sola soluzione netta e
precisa: l’ergastolo (...) non vi è follia negli imputati; il delitto è lucido, freddo, attuato per un fine ben predeterminato, con una violenza
scatenata, gratuita, irrefrenabile19.
Dopo il processo, il giornalista Giuseppe Marrazzo intervista
il Pm Giampietro: “Lei non ha avuto esitazioni a chiedere
l’ergastolo?”, il Pm: “Assolutamente”, Marrazzo: “Non le è
passato per la mente neanche per un momento il bisogno di una
perizia psichiatrica di tre giovani che uccidono in quel modo?”,
il Pm: “Assolutamente no”, Marrazzo: “Perché?”, il Pm: “Perché li ritengo del tutto sani di mente”20.
Secondo l’accusa, non è la follia la chiave interpretativa del
delitto, non è la pazzia che può spiegare tutto quello che è successo. I tre ragazzi, responsabili della morte di Rosaria, non sono malati di mente perché hanno agito con freddezza e lucidità;
erano consapevoli delle loro azioni e delle conseguenze a cui
19
Ivi, pag. 28.
Queste dichiarazioni sono tratte dal sito www.lastoriasiamonoi.rai.it, 1975: Il
massacro del Circeo, l’omicidio Pasolini.
20
44
Capitolo I
avrebbero portato. La morte di entrambe le ragazze era
l’obiettivo finale a cui volevano giungere, al termine della serata. I tre pregiudicati dovevano eliminarle perché soltanto la loro
morte poteva garantirgli di non essere nuovamente accusati per
reati di questo genere.
Dopo aver chiuso i due corpi nel bagagliaio della Fiat 127 e
averli riportati a Roma, i tre assassini , con l’aiuto di altri complici, li avrebbero fatti sparire; le due ragazze sarebbero scomparse nel nulla. Non c’è follia, non c’è raptus omicida, anzi, al
contrario, il piano è stato studiato, organizzato e attuato con estrema precisione. Tutto quello che è avvenuto, durante le lunghe ore trascorse dall’incontro a Roma fino al ritorno in città,
non è altro che la fredda esecuzione di un piano escogitato in
precedenza, che prevedeva un macabro obiettivo finale da raggiungere.
Prosegue così l’arringa finale del pubblico ministero:
È una manifestazione anomala di esercizio del potere: vero, effettivo,
reale. Non di quello scritto e codificato, ma di quello del forte sul debole, dell’armato sull’inerme, del ricco sul povero, del maschio sulla
femmina, del maschio dei Parioli sulle ragazze delle borgate. Rosaria
e Donatella non sono per loro veri e propri esseri umani, sono un
qualcosa di meno, a metà tra il paria e l’oggetto. Qualcosa con cui
giocare e poi gettare, eliminare. Da questo solco scaturisce il fatto scatenante. Uccisero solo per assicurarsi l’impunità.
Non si trattava di ammazzare due simili, non avrebbero tenuto lo stesso comportamento con ragazze del loro ceto e quanto vi è in loro di
brutale e di bestiale s’indirizza sulla sottospecie21.
Non solo il delitto è stato organizzato bene ma, soprattutto,
le vittime sono state scelte con cura, con una attenzione particolare. Non potevano essere prese due ragazze appartenenti alla
stessa classe sociale dei tre assassini; per divertirsi, per sfogarsi,
per picchiare e uccidere era necessario andare a caccia di due
borgatare, non proprio due esseri umani ma qualcosa di meno,
come afferma il Pm. Prendere, usare ed eliminare, questo è lo
schema che intendevano seguire, ed hanno seguito, i tre parioli-
21
M.A. TEODORI, op. cit., pp. 28-29.
Il delitto del Circeo
45
ni. Il fatto che Donatella sia sopravvissuta è l’imprevisto che li
ha incastrati, perché anche lei, come Rosaria, doveva morire.
Nell’arringa finale, il Pm amplia l’interpretazione data dalla
stampa ovvero richiama i concetti, abbondantemente ripetuti dai
giornalisti, della ricchezza e della provenienza sociale degli assassini ma mette in evidenza anche le convinzioni che i tre hanno nei confronti delle ragazze: sono povere, sono borgatare e,
per questo, diverse, inferiori a loro; nei confronti delle due ragazze, metà donne e metà oggetto, si esercita il potere
dell’uomo forte, ricco, armato, che gioca, usa e abusa di loro a
proprio piacimento. Terminato il gioco, non resta che disfarsi
dei giocattoli, gettarli via.
I capi d’imputazione nei confronti degli accusati sono: omicidio volontario, tentato omicidio, ratto a fine di libidine, violenza carnale continuata, detenzione di arma da fuoco. La sentenza del 29 luglio 1976 conferma la richiesta di ergastolo per
Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira, ancora latitante.
Al momento della lettura della condanna, in un aula stracolma, la reazione delle femministe è di gioia incontenibile, applausi irrefrenabili, urla entusiaste. Per le strade di Latina risuona il grido: “per le donne morte non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto”. Il movimento femminista - la sua lotta contro il potere maschile e le leggi maschiliste - esce vittorioso e
rafforzato dall’aula del tribunale di Latina ed è pronto a dare
battaglia in altre aule di tribunale, nelle università, nelle fabbriche, per le strade, in ogni luogo pubblico.
La vicenda giudiziaria e umana dei tre assassini e di Donatella Colasanti, la ragazza superstite, merita di essere raccontata.
Ne riprenderò il resoconto più avanti, nel terzo capitolo.
5. L’onda lunga del delitto del Circeo
A partire dagli anni Sessanta, all’estero, in particolare negli
Stati Uniti e in Gran Bretagna, il fenomeno delle donne maltrattate (battered women) viene studiato da sociologi, psicologi e
giuristi; nel corso degli anni Settanta e Ottanta gli studi, le rivi-
46
Capitolo I
ste accademiche e l’attenzione dell’opinione pubblica verso
questo tema aumentano continuamente. Le istituzioni pubbliche
finanziano centri di ricerca, che svolgono regolarmente la raccolta di dati statistici e studiano l’evoluzione del fenomeno, ed
aprono diversi servizi di ascolto e di assistenza rivolti alle vittime di violenza. Ad oggi, la letteratura scientifica disponibile
in inglese su questo tema è vastissima e le esperienze attive sul
territorio, in Europa e non solo, sono molteplici e innovative.
In Italia, a partire dal delitto del Circeo e dal processo svoltosi nel 1976, soltanto i gruppi femministi ed alcune giornaliste
“impegnate” politicamente iniziano a parlare di violenza contro
le donne e gettano un po’ di luce su un fenomeno molto diffuso
ma, al tempo stesso, nascosto e taciuto. A loro va riconosciuto il
merito di aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica italiana su una realtà scomoda, del tutto ignorata dagli studiosi e dagli accademici, dai mass media e dalle istituzioni.
In Italia un tema come questo viene considerato “femminile”
e, di conseguenza, viene trattato esclusivamente da donne: scrittrici, giornaliste, avvocate, esponenti e militanti politiche.
Continuo, quindi, ad utilizzare articoli, interventi e saggi
non-accademici, dato che, in italiano, non viene pubblicato nulla di scientifico e di specifico sulla violenza contro le donne
praticamente fino agli inizi degli anni Novanta.
Premessa l’assenza di studi accademici e di saggi firmati da
uomini, a parte rarissime eccezioni, analizzo altri materiali
dell’epoca caratterizzati da due tratti immancabili: chi scrive è
una donna ed è schierata politicamente a sinistra. Restando in
ambito italiano, si tratta di una scelta obbligata.
In una lettera pubblicata su “Il Manifesto”, pochi giorni dopo il massacro del Circeo, intitolata La violenza dell’uomo sulla
donna è, di per sé, un fatto politico22 , il Collettivo Femminista
di via Cherubini di Milano sostiene una tesi simile a quella di
Pasolini: la particolare attenzione suscitata dal delitto del Circeo e l’ampio spazio che ha trovato sulla stampa italiana non
22
Collettivo femminista di Via Cherubini, La violenza dell’uomo sulla donna è, di
per sé, un fatto politico, in “Il Manifesto”, 12 ottobre 1975.
Il delitto del Circeo
47
sono dipesi dalla particolare crudeltà e spettacolarità
dell’accaduto ma, piuttosto, dalla provenienza sociale degli assassini, figli della ricca borghesia romana, e dalla loro appartenenza ai gruppi fascisti.
I giornalisti hanno interpretato questo episodio di violenza
carnale sulle donne come un “fatto politico”, condannando la
violenza fascista.
Il Collettivo Femminista non accetta questa interpretazione
dei fatti e, così come ha denunciato anche Dacia Maraini, sostiene che: molti fatti simili di violenza carnale sulle donne accadono ogni giorno ma vengono confinati nella cronaca nera.
La stampa italiana non ritiene degni di nota e di interesse gli
stupri che le donne subiscono con preoccupante regolarità. Oltre
alla mancanza di attenzione nei confronti del fenomeno della
violenza carnale, il Collettivo Femminista critica la spiegazione,
superficiale e riduttiva, che di solito viene data:
L’uccisione di una donna, le aggressioni che le donne subiscono quotidianamente restano quasi sempre “fatti privati” dove agisce il “caso”
(“è toccato a lei ma poteva accadere a chiunque”) o gli “imprevisti” di
una società che ha le sue disfunzioni (il solito maniaco, un disadattato,
ecc.).
È opinione comune, è risaputo che ci sono uomini pericolosi
in giro, maniaci sessuali o disadattati, che scelgono a caso una
donna tra le tante, la aggrediscono e la stuprano. Sono cose che
succedono e le donne farebbero bene a stare più attente quando
vanno in giro da sole, magari la sera, perché lo fanno a loro rischio e pericolo.
Se questa è la lettura della realtà, di conseguenza, la società
italiana non ritiene di trovarsi di fronte ad un fenomeno preoccupante, che costituisce un problema di ordine pubblico e che
merita di essere considerato e valutato nella sua gravità perché
danneggia tutti i cittadini. L’opinione pubblica e le istituzioni
sembrano, piuttosto, accettare tutto questo come qualcosa di abituale, di inevitabile, che fa parte della quotidianità. Nelle pagine di cronaca nera, la stampa si limita a registrare il susse-
48
Capitolo I
guirsi di singoli episodi violenti, così come registra gli incidenti
stradali o i furti in appartamento, senza stupirsi o interrogarsi.
Definendo la violenza carnale un fatto privato, il Collettivo
Femminista vuole sottolineare la profonda distanza che esiste
tra ciò che si verifica sulla scena pubblica ed è noto all’opinione
pubblica e ciò che, al contrario, avviene ai margini dell’ambito
pubblico e tra le mura domestiche e che, quindi, non merita attenzione, rimanendo nascosto, celato. Le violenze inflitte alle
donne sono vicende private, che riguardano le persone direttamente coinvolte, l’uomo aggressore, che solitamente resta impunito, e la donna stuprata, che non denuncia la violenza subita,
ed anche, in ambito domestico, il marito brutale e la moglie picchiata. Il quartiere e la città in cui si verificano gli stupri e i
maltrattamenti in famiglia e, più in generale, la società civile ed
il governo italiano non si sentono chiamati in causa, anzi sono
del tutto indifferenti verso la sofferenza delle vittime e
l’impunità dei responsabili.
Dato il disinteresse della società, dei partiti politici e delle istituzioni pubbliche verso le donne che subiscono violenza, il
movimento femminista avverte l’esigenza di far emergere dal
silenzio, di portare alla luce del sole vicende intime e personali
che hanno e devono avere un peso e una rilevanza per tutta la
società italiana. Non si tratta di prestare attenzione ad un singolo caso ma, al contrario, si tratta di denunciare l’ingiustizia su
cui si fondano i rapporti tra gli uomini e le donne, di svelare lo
squilibrio di potere che caratterizza la società italiana e che porta, come conseguenza, all’agire violento dell’uomo contro la
donna. Di seguito, le tesi sostenute dal Collettivo Femminista:
Noi diciamo:
- Che la violenza carnale è solo l’aspetto più vistoso di una violenza
che le donne subiscono quotidianamente.
- Che questa violenza nasce dal dominio che l’uomo ha consolidato
storicamente nei suoi rapporti con la donna.
- Che si tratta di un rapporto di potere che consente possibilità di esprimersi e affermarsi a un sesso solo, con conseguente cancellazione,
o comunque limitazione, dei bisogni dell’altro sesso.
Il delitto del Circeo
49
Il rapporto tra uomini e donne è profondamente segnato dalla violenza; la struttura gerarchica, che regola i rapporti tra loro,
si fonda sulla superiorità e sul dominio dell’uomo nei confronti
della donna. Le relazioni tra i sessi sono caratterizzate da un antico e radicato squilibrio di potere: da sempre l’uomo esercita il
proprio potere sulla donna, ricorrendo anche alla violenza fisica; da sempre la condizione della donna è una condizione di inferiorità e di sottomissione.
Inoltre, nella società italiana il potere maschile è esclusivo:
soltanto agli uomini è data la possibilità di esprimersi, di affermarsi, di essere protagonisti sulla scena pubblica; alle donne
spetta un ruolo secondario, subalterno, vivono confinate in casa
e subiscono una forte limitazione nella possibilità di affermarsi
e di realizzarsi. I bisogni maschili devono essere sempre considerati e soddisfatti, i bisogni femminili sono inascoltati, insoddisfatti o addirittura cancellati. La società italiana è una società
costruita esclusivamente a misura d’uomo, in cui la presenza
della donna è considerata marginale, se non irrilevante.
Continuando nell’analisi della contrapposizione tra ambito
pubblico e ambito privato, il Collettivo Femminista afferma che
la violenza che nasce dal dominio dell’uomo sulla donna è di
“per se stessa” un fatto politico.
In questa affermazione, l’aggettivo “privato” viene utilizzato
come contrario dell’aggettivo “politico” e politico equivale a
pubblico.
Come abbiamo visto in precedenza, la stampa italiana utilizza l’aggettivo “politico” come sinonimo di “ideologico”, facendo riferimento ad una ideologia fascista per descrivere gli
assassini ed il loro comportamento.
Ora ci troviamo di fronte ad un uso diverso degli stessi termini; per capire meglio il punto di vista femminista, riportiamo
le affermazioni del movimento femminista romano:
(rifiutiamo) di accettare la divisione fra il sociale e il privato operato
dalla società maschile per ghettizzare le donne. Una politica ben precisa che viene esercitata sia a livello ideologico di massa per cui il matrimonio, la sessualità, i rapporti interpersonali, il lavoro domestico
50
Capitolo I
non sono problemi politici, sia a livello individuale, per cui lo stupro e
la violenza di cui siamo oggetto vengono minimizzati e tollerati23.
Il matrimonio, la sessualità, il lavoro domestico – temi che
approfondirò in seguito - fanno parte della vita privata, sono
elementi della vita individuale di mariti e mogli ma non hanno
un peso politico, così come lo stupro e la violenza rientrano tra i
possibili comportamenti di un marito geloso verso una moglie
disobbediente e non vengono criticati o condannati.
Nella società italiana, le vicende familiari, domestiche si
svolgono lontano da occhi indiscreti, lontano dalla strada, insomma nel chiuso della quattro mura di casa e fuori dalla scena
pubblica, sociale. I rapporti tra i coniugi, che siano sereni e affettuosi oppure burrascosi e violenti, riguardano i coniugi stessi
e nessun altro. Non sono ammesse interferenze esterne. Paura e
vergogna impediscono alle donne di confidarsi, di raccontare ad
altri le difficoltà che hanno nel rapporto di coppia; inoltre, in
base al vecchio adagio “tra moglie e marito non mettere il dito”,
chi conosce la coppia (parenti, amici, vicini di casa, colleghi,
ecc.) evita di esprimere giudizi o di dare consigli. Salvare le apparenze, fingere che vada tutto bene è un atteggiamento molto
diffuso, basato sull’ipocrisia e sulla mancanza di comunicazione.
Per opporsi a questo stato di cose, un celebre slogan femminista recita: “il personale è politico”, tutto ciò che è privato deve essere anche pubblico; il movimento femminista ritiene cruciale abolire la separazione tra personale e politico, tra privato e
pubblico: tutto ciò che avviene nella vita privata delle persone
deve diventare tema di interesse pubblico, politico, non deve
rimanere chiuso tra le mura domestiche ma deve, al contrario,
entrare a far parte della discussione pubblica ed essere preso seriamente in considerazione dalla società, dai cittadini e dai partiti politici.
23
AA.VV., Donnità. Cronache del movimento femminista romano, Centro di documentazione del Movimento Femminista Romano, Roma 1976, p. 6.
Il delitto del Circeo
51
È necessario, quindi, suscitare un dibattito e dare vita a discussioni in piazza, nelle scuole e nelle università, nelle fabbriche, in tutti i luoghi pubblici, per sottrarre al silenzio e all’oblio
temi privati, legati alla vita personale delle donne, al fine di
renderli di rilevanza pubblica, temi come, ad esempio, il lavoro
domestico, il divorzio, l’aborto, ed anche la violenza contro le
donne. La separazione tra sfera privata e sfera pubblica deve essere messa in discussione:
la privata oppressione subita da ogni donna diventa oggetto centrale di
riflessione, assume il significato e il senso di una grande questione
collettiva. (...) La “rivoluzione copernicana” consisteva dunque
nell’assumere come momento essenziale il dato soggettivo, personale
del vissuto femminile24.
Le donne devono uscire dalle loro case, dove sono state tenute prigioniere per secoli, devono organizzarsi in gruppi e appropriarsi dello spazio pubblico, delle piazze, delle strade, da
cui gli uomini le hanno sempre escluse; devono unirsi e farsi
sentire, devono condividere le proprie esperienze individuali
con altre donne, prima di tutto per rendersi conto che esistono
problemi specifici, comuni a tutte loro e poi per trasformarli in
temi di interesse collettivo. Spetta alle donne, quindi, porre domande a se stesse ed anche alla società e ai partiti politici; raggiunta la consapevolezza dei bisogni e delle esigenze femminili,
è fondamentale che le donne facciano sentire la propria voce - a
partire dalla famiglia in cui vivono fino ai vertici del governo
italiano - e pretendano risposte adeguate alle loro richieste.
Non è più ammissibile che venga ignorata metà della popolazione italiana: i problemi delle donne sono problemi che toccano le vite private delle singole donne e che, al tempo stesso,
riguardano l’intera società.
La condizione della donna in Italia, così come viene denunciata dal Collettivo Femminista, è questa: le donne sono “quotidianamente” uccise, picchiate, insultate, costrette a prostituirsi,
24
G. CRAINZ, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Donzelli, Roma 2005, pp. 509-510.
52
Capitolo I
messe in condizione di soggezione e di paura, e quindi segregate nelle case. Le donne vivono nella paura e nella soggezione,
sono al servizio di uomini che dispongono di loro, dei loro corpi, delle loro vite e che usano la violenza come strumento di
controllo e di dominio, come mezzo per sottometterle e per costringerle all’obbedienza. Le donne devono obbedire, sempre,
agli uomini altrimenti sono guai. Non si tratta della vita sfortunata di una ristretta minoranza, povera e disadattata, svantaggiata ed emarginata, al contrario, questa è la realtà esistenziale di
tutte le donne italiane, indipendentemente dall’età,
dall’estrazione sociale, dalla provenienza, dal livello culturale;
la condizione di inferiorità rispetto agli uomini riguarda tutte le
donne, senza distinzioni. Di conseguenza:
La presa di coscienza di questo sfruttamento, che ci riguarda direttamente in quanto donna, ma che è presente in tutte le situazioni sociali
(famiglie, fabbrica, scuola, ecc.) ha fatto nascere il movimento delle
donne.
A noi donne interessa oggi una lotta che non salti più la violenza che
passa sui nostri corpi.
L’impegno del movimento femminista è sia politico sia pratico; in altre parole, oltre a denunciare pubblicamente
l’esistenza del fenomeno della violenza, i gruppi femministi si
fanno carico del problema concretamente, vogliono offrire aiuto
alle vittime e decidono, quindi, di creare sportelli di assistenza
legale, di aprire case delle donne e centri anti-violenza, nelle
principali città italiane, per aiutare chi ha subito uno stupro e
per accogliere le mogli che fuggono da mariti pericolosi ed
hanno bisogno di un rifugio.
Come già detto, in Italia sono esclusivamente le donne ad
occuparsi di donne. Di fronte al disinteresse delle istituzioni
pubbliche e dei partiti politici e in seguito all’ennesimo caso di
stupro, il movimento femminista si organizza e reagisce; in particolare, il Movimento di Liberazione della Donna (MLD) apre
degli sportelli antiviolenza, dei punti di ascolto e di assistenza a
Roma, Torino e Milano.
Il delitto del Circeo
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Di seguito, riporto parte del comunicato che annuncia
l’apertura di uno sportello anti-violenza a Roma, nel 1976, dopo
il diciassettesimo caso di stupro avvenuto nella capitale:
Siamo sicure che questo numero è una minima parte delle donne violentate, perché moltissime vogliono evitare con il silenzio le altre infinite violenze che subirebbero denunciando il fatto: la violenza degli
interrogatori e delle visite ginecologiche quando si presentano al
commissariato. Infatti, per la mentalità e l’atteggiamento maschilista i
cosiddetti tutori della legge e della giustizia mirano solo a scoprire se
la donna ha provato anche un solo attimo di piacere, per scagionare il
violentatore.
Quando poi “i fatti” vengono riportati dai giornali, subiamo
l’ennesima violenza della distorsione scandalistica che troppo spesso
mette in risalto particolari assolutamente irrilevanti che non servono a
mettere in giusta luce la violenza subita o a ritrovare lo stupratore,
bensì a rendere la donna, ancora una volta, oggetto sessuale.
Infine, dopo che avvengono questi tristi fatti abbiamo “bellissime” indagini sociologiche da parte degli intellettuali di sinistra, che ci spiegano per l’ennesima volta da dove ha origine la violenza della nostra
società e perché sono le donne che la subiscono. Non vediamo però
mai un gesto per risolvere il problema, oltre quello della denuncia.
L’MLD denuncia l’immobilità di tutta la sinistra a partire dai grossi
partiti storici per finire agli stessi extraparlamentari (...)
Il Movimento di Liberazione della Donna ha formato un collettivo di
donne “contro la violenza carnale”; invitiamo quindi tutte coloro che
sono state stuprate, picchiate e violentate anche dagli stessi mariti a
rivolgersi all’MLD, via del Governo Vecchio 36, ogni mercoledì pomeriggio. Offriamo assistenza gratuita legale: con le donne dalla parte
delle donne25.
È importante, in questo comunicato, prendere in considerazione lo slogan finale - con le donne dalla parte delle donne perché permette di leggere l’intero comunicato in una precisa e
specifica prospettiva: il MLD propone una nuova visione del
mondo, che si basa sulla teoria della differenza sessuale.
Essa è il principio teorico fondamentale che permette al movimento femminista di interpretare la realtà circostante: esistono
due sessi, il maschile e il femminile, distinti e differenti; nella
25
M.A. TEODORI, op. cit., pp. 183-184.
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Capitolo I
società italiana gli uomini detengono il potere politico, economico, culturale e sociale ed esercitano, quotidianamente e ovunque, il loro dominio sulle donne.
È da questa visione del mondo che deriva la spiegazione che
le femministe danno al fenomeno della violenza contro le donne: gli uomini esercitano quotidianamente il loro tradizionale
potere nei confronti delle donne e l’esercizio di questo potere
include anche l’uso della violenza.
Il movimento femminista critica questa struttura sociale, che
prevede una distribuzione del potere nettamente a sfavore delle
donne, e si mobilita per l’emancipazione femminile, per ottenere il riconoscimento dei diritti civili delle donne.
Al tempo stesso, data la totale mancanza di servizi rivolti alle vittime, il MDL ritiene necessario un proprio intervento attivo per fornire assistenza legale e per offrire una concreta via di
fuga dalla violenza alle donne in difficoltà.
Le case di accoglienza e i centri antiviolenza, creati e gestiti
da gruppi femministi alla fine degli anni Settanta e nel corso
degli anni Ottanta in varie città italiane, sono considerati lo
strumento veramente utile, il mezzo indispensabile per assistere
tutte coloro che hanno bisogno di un aiuto pratico e immediato.
I centri antiviolenza sono organizzati in base al principio
delle differenza sessuale: in una società dominata dagli uomini,
occorre creare dei luoghi femminili pensati e organizzati esclusivamente da donne e destinati ad accogliere altre donne. Gli
uomini non possono entrare in questi spazi, a loro è vietato
l’accesso. Escludere gli uomini è considerato un atto necessario,
per dare vita ad un posto diverso dagli altri, caratterizzato dalla
totale assenza maschile e dalla esplicita presenza femminile ovvero un posto gestito in modo autonomo da un gruppo di donne,
senza alcun intervento maschile. Solo a queste condizioni sia
coloro che lavorano nel centro che coloro che vi vengono accolte possono esprimersi in modo libero e autentico.
Nei centri antiviolenza, il metodo di intervento si basa principalmente sul contatto e sulla relazione tra donne: le operatrici
del centro si occupano e si prendono cura delle vittime di violenza. È fondamentale, per una donna che telefona, che chiede
Il delitto del Circeo
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consiglio, che arriva al centro antiviolenza, trovarsi di fronte ad
un’altra donna che sia in grado di ascoltarla, di comprenderla e
di sostenerla, evitando di esprimere giudizi. La relazione da
donna a donna permette di instaurare un rapporto positivo, di
fiducia e di rispetto, decisivo per affrontare il difficile percorso
di uscita da una situazione di violenza e di maltrattamento.
Alla ricerca delle cause
Negli anni Settanta, in Italia, non esistono ricerche o statistiche che prendono in considerazione i casi di stupro che si verificano annualmente, mancano completamente dati e analisi specifiche. Tuttavia, la cronaca quotidiana registra numerosi casi di
violenza carnale, soprattutto nelle grandi città e a Roma in particolare.
Secondo la giornalista radicale Maria Adele Teodori, nel
1975 i casi di stupro in Italia sono stati 11.000, uno ogni 40 minuti. Il dato, però, non è attendibile a causa della mancata denuncia del reato; sono pochissime, infatti, come è già stato detto, le donne che trovano il coraggio di recarsi al commissariato
per denunciare la violenza subita.
Lo stupro, da intendersi come l’aggressione e la violenza
carnale subiti da una donna ad opera di uno sconosciuto in un
luogo pubblico, è considerato un “reato minore” da un dirigente
della Buoncostume di Roma (ricordiamo che la Buoncostume è
il reparto della pubblica sicurezza addetto alla sorveglianza e alla repressione dei reati contro la pubblica morale) ed è un reato
minore anche secondo i procuratori generali che per
l’inaugurazione dell’anno giudiziario, nel loro discorso stracolmo di cifre e delitti come un catalogo ben confezionato, non
hanno mai menzionato lo stupro26.
Oltre all’incerto dato quantitativo, oltre alla frequenza dei
casi, elevata ma difficile da quantificare, occorre iniziare ad
ipotizzare i motivi alla base del fenomeno. Stando alle opinioni
26
Ivi, p. 61.