Fascino ed evoluzione del giornalismo scientifico Un’analisi che mette a confronto la comunicazione scientifica negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Italia. Quando si parla di comunicazione della scienza, vengono subito in mente dei vecchi professori barbuti, intenti a tenere delle noiose lezioni in polverose università per ricchi studenti dalla carriera assicurata. Tuttavia, specialmente negli ultimi anni, la divulgazione di tematiche scientifiche è diventata un’attività sempre meno irregimentata, andando a incrociarsi e a sovrapporsi con altri settori del giornalismo tradizionalmente più popolari. E questo, fondamentalmente, per due ordini di ragioni: da un lato, il crescente interesse dell’opinione pubblica, in tutto il mondo, per argomenti percepiti giustamente come vicini alle attività quotidiane; dall’altro, la remuneratività della scienza, in termini culturali ed economici, per chi opera professionalmente nel campo dei media. Senza tirare in ballo personaggi noti (almeno in Italia), come Piero Angela e Giorgio Celli, è chiaro che, rispetto a diversi decenni or sono, il divulgatore scientifico è oggi una figura più affascinante, a cavallo tra il mondo dello spettacolo e quello della ricerca, e in quanto tale sembra godere dei privilegi di entrambi i profili. Ma la realtà è ben diversa: coloro che lavorano ogni giorno per la diffusione di argomenti utili al progresso dell’umanità sono, nella maggior parte dei casi, giornalisti o scienziati spinti da una passione che li fa guardare oltre gli stipendi (bassi) e i riconoscimenti ufficiali (pochi). Benché l’avvento di Internet abbia apportato dei cambiamenti radicali anche in questo settore, rimangono ancora molti i difetti della comunicazione scientifica. C’è però anche la faccia positiva della medaglia: la pubblicazione e l’accesso ai materiali originali e alle notizie, resi molto più facili dalla rivoluzione del web, hanno migliorato la conoscenza diffusa dei temi scientifici. Soprattutto a livello del cittadino medio, il contributo più importante è venuto dai siti e dai blog, gestiti da professionisti dell’informazione o da semplici appassionati, che si sono impegnati e si impegnano tuttora nel rendere fruibili a tutti contenuti di difficile comprensione. Non parleremo della comunicazione scientifica interna a laboratori e centri di ricerca, bensì di quella, spesso etichettata come superficiale ma in realtà altrettanto utile, rivolta all’audience comune. Proveremo inoltre a tracciare una sintetica descrizione di questa branca del giornalismo scientifico, così come si presenta nella nazione più avanzata, almeno dal punto di vista quantitativo: gli Stati Uniti. L’intenzione è quella di proporre in seguito un confronto tra il panorama statunitense e quello di altri due paesi, la Gran Bretagna e l’Italia; nella speranza che una maggior consapevolezza dei pregi e difetti del proprio Paese, in questo specifico ambito, serva per incrementare la qualità dell’informazione scientifica fornita ai cittadini italiani. Ma per far ciò è innanzituttto necessaria un’introduzione, che metta in luce quantomeno le tendenze generali. È ormai chiaro a tutti come le tecnologie della comunicazione e dell’informazione (comunemente definite ICT) incidano profondamente sulla divulgazione di contenuti di ogni tipo. Tuttavia, l’importante posizione da esse occupata nella storia della scienza è un argomento non altrettanto risaputo. Soprattutto nella fase di strutturazione degli scambi, della natura e della circolazione delle informazioni, coincidente con la fine del XVI secolo e i decenni immediatamente successivi, la tecnologia ha giocato un ruolo decisivo. A quell’epoca, la vita scientifica in Europa era in un momento di grande fermento: è nel Settecento che iniziano a nascere dei centri propriamente scientifici. Nonostante la fioritura delle accademie e la moltiplicazioni delle figure di studiosi illustri fossero al tempo fenomeni presenti sull’intero continente, le redini della situazione furono presto prese in mano dalla Royal Society, la celebre istituzione londinese nata nel 1660 che esercitò per molto tempo una vera e propria leadership nella produzione e nella diffusione del sapere scientifico. L’abilità dei suoi presidenti si manifestò anche nella pubblicazione, a partire dal 1665, dei “Philosophical Transactions”, il periodico (tuttora pubblicato) che oltre a solidificare la reputazione di questo campo allora nascente, stabilì gradualmente gli standard retorici ed epistemici che si sarebbero imposti nella letteratura scientifica. Questa premessa, strumentale alla comprensione dell’impatto che una transazione tecnica (in quel caso, la stampa a caratteri mobili e le pubblicazioni periodiche che ne derivarono) può avere sulla comunicazione, anche in ambito scientifico, ci riporta al presente, caratterizzato dal successo definitivo di Internet nel panorama mediatico mondiale. Se, da un lato, le innovazioni nelle ICT sembrano offrire ai ricercatori nuovi strumenti di comunicazione, più economici e rapidi, dall’altro alcune caratteristiche storiche delle pubblicazioni scientifiche minano l’applicabilità di alcuni dei vantaggi più importanti che la Rete porta potenzialmente con sé. La trasformazione vissuta dal campo scientifico negli ultimi quindici anni è per molti tratti simile a quella che ha investito le altre branche della cultura: un mercato di opere intellettuali (con degli autori, dei distributori e degli acquirenti di varia natura) convive ormai con un sistema di pratiche di scambio e divulgazione che, sebbene variegato, conserva alcuni tratti tipici del passato. Anche in esso, l’avvento del digitale ha però favorito lo sviluppo di un sistema alternativo, che districandosi al di fuori del mercato ufficiale, inizia a incidere anche sulla sua struttura e, non soltanto economicamente, sull’intero campo. È, però, ancora fortissimo il controllo esercitato dai grandi editori sulle stampe scientifiche: secondo i dati di un white paper pubblicato nel settembre 2006 su commissione dell’Association of Learned and Professional Society Publishers, un’associazione internazionale costituita da più di 300 editori non profit di quaranta Paesi, gli editori commerciali raccoglievano il 64% delle pubblicazioni, con la quota restante suddivisa per lo più tra le associazioni scientifiche (30%) e le università (4%). Il documento fornisce una serie di dati interessanti – benché ormai vecchi di un lustro – anche di natura economica. A partire dal giro d’affari dell’intero settore dei giornali STM (scientifici, tecnici, medici) in lingua inglese, che all’epoca ammontava a cinque miliardi di dollari. Ma, il punto per noi più interessante è quello in cui si afferma: “The development of online electronic versions of journals has revolutionised scientists’ access to the literature. Over 90% of STM journals are now online, and in many cases their publishers have retrospectively digitised earlier hard copy material back to the first volumes. More content is available to more users than at any time in history while the cost of use of each article is falling to well below one euro. The industry has made this possible through the application of sustainable business models and the collective investment of hundreds of millions of euros in electronic developments”. Niente di strano, dunque, se quello della comunicazione scientifica online diventa, all’inizio del nuovo millennio, un mercato su cui investire. E niente di strano se i detentori del potere provano a riprodurre, nel nuovo ambiente del web, teoricamente libero e democratico, le classiche gerarchie, cercando di tutelare la propria posizione dominante persino nel passaggio al digitale. Quale però, in questo panorama in continua tensione tra la ricerca del profitto degli editori commerciali e il perseguimento della conoscenza di quelli indipendenti, il contributo dei siti e dei blog esterni a queste categorie professionali? Hanno davvero un peso, nella società dell’informazione, coloro che si occupano di scienza non per mestiere ma per desiderio di informare (retribuiti o meno che siano per farlo)? Del resto, se così non fosse, non si spiegherebbe la pubblicazione, all’inizio del 2012, di un articolo di The Guardian, in cui si afferma sin dal sottotitolo che “se i reporter scrivessero le loro storie nel modo in cui alcuni scienziati vorrebbero, poche persone leggerebbero contenuti scientifici”. Non è un atto d’accusa, ma la semplice constatazione di come, per divulgare adeguatamente la scienza presso il lettore comune, sia necessario un cambio di prospettiva rispetto al materiale originale dell’esperto. Il Sorpasso del Daily Mail La settimana scorsa gli addetti ai lavori non hanno parlato d’altro: un quotidiano online incentrato su gossip e notizie leggere ha fatto le scarpe al NYT. Secondo i dati diffusi da comScore infatti, a dicembre 2011 il Mail Online avrebbe sorpassato The New York Times per numero di utenti unici, diventando il quotidiano online con la maggior penetrazione al mondo. Le ragioni del sorpasso sono molteplici. Da un lato Eileen Murphy, del quotidiano newyorkino, ha contestato la metodologia di comScore e sottolineato con un certo distacco come, a prescindere dall’attendibilità dei dati, il Mail Online non venga comunque considerato un concorrente. Dall’altro lato, l’introduzione del paywall ha avuto ovviamente un suo ruolo con un andamento piatto delle visite e del numero di utenti che hanno avuto accesso al sito del NYT. Su cosa si fonda la crescita che ha portato al sorpasso, quali i fattori e quale l’impatto del successo del quotidiano popolare inglese? In generale non è una novità che un taglio editoriale “leggero” attragga una fascia di utenti importante. Lo confermava già uno studio condotto all’inizio del 2011 che collocava TMZ, sito di notizie con un fortissimo orientamento al gossip, nella top ten delle fonti d’informazione più citate e ne forniva ulteriore prova, se necessario, Zeitgeist 2011 identificando le tendenze delle informazioni più ricercate con la tredicenne Rebecca Black al primo posto. Tendenza che è stata molto ben sfruttata dal Mail Online il quale, se gli va riconosciuta la capacità di produrre contenuti adatti per entrambi i lati dell’oceano, ha dimostrato una attenzione ad attirare pubblico attraverso i titoli dei propri articoli giocando proprio sul terreno del gossip, dei paparazzi e border line anche sulla salute. Un orientamento spregiudicato che spesso è sconfinato nel plagiarismo o peggio. Insomma i fattori distintivi del quotidiano online inglese non sembrano facilmente replicabili vuoi per scelte editoriali che in pochi, tra i player che arrivano originariamente dalla carta, si sentono di perseguire per etica professionale, vuoi per le continue difficoltà legali ed i costi che questo approccio molto spregiudicato richiede. Al di là dei principi etici trascurati, per usare un eufemismo, tanta spregiudicatezza paga? L’aver ottenuto un tale volume di visite e visitatori che vantaggi ha concretamente portato al gruppo, Associated Newspapers, che controlla il Daily? Secondo i dati disponibili la risposta pare proprio essere no. Associated Newspapers infatti ha visto calare i propri profitti operativi complessivi, nonostante la concomitanza di opportunità generata dall’uscita dal mercato di News of the World, e non si attende una crescita significativa dal digitale sotto il profilo economico, riponendo le proprie speranze più nelle Olimpiadi Londinesi come fonte di ricavo. Pare insomma che sorpasso sia un concetto ben distinto da quello di successo. Se il tentativo di, un modello di business sostenibile per la versione online dei quotidiani, e più in generale dei giornali, pare fondamentalmente concentrarsi, ad oggi, sui volumi, sulle quantità di traffico, di accessi al sito web, anche il caso del Mail Online dimostra la necessità di rivedere il teorema puntando al coinvolgimento dei lettori più che a grandi audience e scarsi ricavi. La linea editoriale dei giornaliè influenzata dalla pubblicità F o n t e : q u a l i nfo.it È quanto emerge dalla ricerca compiuta dal Gruppo di lavoro su “Qualità dell’ informazione e pubblicità” del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti Italiani insieme al LaRiCA1 dell’ Università di Urbino Carlo Bo, dall’équipe di ricerca costituita da Giovanni Boccia Artieri, Luca Rossi e Stefania Antonioni. Come spiega Pino Rea, coordinatore del gruppo di Lavoro del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti “Qualità dell’informazione e pubblicità” nonchè Consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti e coordinatore di Lsdi, nell’intervista che segue, lo studio analizza il complesso rapporto tra informazione e pubblicità alla luce delle trasformazioni e delle evoluzioni che lo hanno caratterizzato negli ultimi decenni. Mettendo in luce la necessità di un adeguato programma formativo per le giovani generazioni di giornalisti insieme ad una campagna di rilancio dei principi etici. Quello che in particolare emerge dalla ricerca è che nella teoria funziona tutto benissimo: i giornalisti italiani conoscono perfettamente le linee teoriche di comportamento etico che regolano il rapporto tra giornalismo e pubblicità. Il 73% infatti afferma che sia importante evitare di fornire informazioni, consigli o giudizi in favore degli inserzionisti, il 63% di fornirli all’editore e il 66% ad un gruppo politico o sociale. Ma nella realtà concreta solo il 50% si sente di affermare che di fatto la pubblicità non influisca sulla linea editoriale dei giornali. Dati interessanti che non sorprendono più di tanto un settore, quello della stampa, che per anni ha vissuto della pubblicità e che dunque ha sempre fatto fatica a mantenere distinte la parte redazionale da quella commerciale. Ma che in futuro potrebbero cambiare viste le evoluzioni in corso e dunque il calo della pubblicità sulle testate cartacee e sua migrazione sul web. Nel frattempo però per capire più da vicino modalità e tecniche della ricerca che verrà presentata al Circolo della Stampa il prossimo 27 gennaio, abbiamo fatto qualche domanda a Pino Rea. Come è composto il campione di giornalisti e testate che sono state analizzate? “Si tratta di una una indagine esplorativa condotta durante l’estate 2011. I dati sono stati raccolti attraverso un questionario online ‘’autosomministrato’’ su un campione di 101 giornalisti italiani. Le testate sono state selezionate per rappresentare il più ampio panorama possibile delle redazioni italiane, che sono state contattate via email a luglio e poi, nuovamente, a settembre 2011. Il questionario era composto da 32 domande a risposta multipla – che il gruppo di ricerca del LaRiCA (composto da Giovanni Boccia Artieri e da due giovani ricercatori, Luca Rossi e Stefania Antonioni) ha analizzato con il software PSPP – e 2 domande a risposta aperta che sono state analizzate qualitativamente. Le testate sono state scelte fra le seguenti tipologie: quotidiani nazionali, regionali, locali (divisi per macroaree geografiche: nord, centro, sud e isole), free press, settimanali, mensili. Mentre per le testate online ‘’native’’ il questionario è stato inviato in maniera non mirata a tutte le redazioni”. È interessante che per quanto riguarda la commistione tra pubblicità e lavoro redazionale il sondaggio rilevi una maggiore doppiezza tra livello teorico e realtà proprio nelle testate online. Condividi questo risultato? A che cosa credi sia dovuto, forse al fatto che nelle testate online c’è un maggior numero di giornalisti giovani e con meno esperienza? “Non è un dato che meraviglia. Nelle redazioni tradizionali, cartacee, il rapporto di trasmissione dei valori professionali e deontologici (oltre che delle pratiche) fra generazioni si è ridotto al minimo. Nelle redazioni online praticamente si è azzerato. L’ impressione è che la debolezza strutturale ed economica del settore determini anche una sotto-valutazione del lavoro giornalistico e che fra le linee guida manchi completamente la dimensione del dover essere. In questo senso la Ricerca indica in maniera netta la necessità di un grosso lavoro di formazione delle giovani generazioni di giornalisti (che ormai i capi delle redazioni non riescono più a svolgere)”. Come pubblicità, per i siti online, si è presa in analisi anche quella di facebook, google, Liquida e altri o solo quella tradizionale? “Il questionario riguardava la pubblicità in generale presupponendo che l’ informazione giornalistica sia in antitesi con il messaggio ‘’pubblicitario’’, nel senso più ampio del termine”. Alla luce dei cambiamenti radicali che hanno e stanno caratterizzando il mondo pubblicitario e dell’informazione, il codice deontologico che regola il rapporto pubblicitàlavoro redazionale non deve essere rivisto e aggiornato? “I risultati del sondaggio lo confermano con nettezza: il 54% del campione interpellato, infatti, ritiene che le norme deontologiche che regolano ora il rapporto informazione/pubblicità debbano essere riviste”. Cosa farete ora con i dati di questa ricerca? “Venerdì 27 gennaio a Milano, al Circolo della Stampa, presenteremo pubblicamente la Ricerca e una delle relazioni (affidata a Michele Urbano, consigliere nazionale dell’ Ordine e coautore dello studio) ha per titolo proprio: ‘’Rivedere le norme etiche?’’. Poniamo questo problema a tutto il Consiglio nazionale dell’ Ordine, che sarà chiamato ad affrontare la questione in una delle sue prossime riunioni. Nel frattempo imposteremo anche la seconda fase della ricerca, quella dedicata all’ emittenza radiotelevisiva, che ha delle sue specificità e andava analizzata separatamente”. Per saperne di più: qualinfo.it www.lsdi.it Slow News: un decalogo per consumatori di notizie Schweizer Journalist Nr. 12/2011 +1/2012 “Spegnete la TV se ne sapete di più del presentatore” Dalla costa occidentale dell’America giunge, transitando per l’Italia, un salvagente per tutti i consumatori di notizie che rischiano l’annegamento nell’oceano dell’informazione. Nel suo nuovo libro “Slow News” (finora pubblicato solo in italiano da Sironi a Milano, la versione americana è programmata per il 2012) Peter Laufer, nominato recentemente professore di giornalismo all’Università dell‘Oregon, e da sempre uno spirito libero tra i giornalisti investigativi americani, ci invita ad un approccio maggiormente critico nei rapporti con i media. Il suo manuale di istruzioni racchiude 30 suggerimenti – tra cui alcuni così facili da seguire e azzeccati che funzionerebbero anche in uno spettacolo di cabaret. Per esempio: “Spegnete la TV quando ne sapete di più del presentatore”. Altri consigli racchiudono delle perle di saggezza filosofica: “Corriamo il pericolo di non sentire la storia a causa del rumore di fondo”. Laufer giustamente si chiede: “Se non siete coinvolti personalmente in una notizia, è proprio cosi importante che siate tenuti al corrente minuto per minuto di un certo evento che si sta svolgendo a mille miglia da voi?” Molto raramente una notizia è così importante per la nostra immediata esistenza da dover conoscere momento per momento qualunque cosa sappiano (o non sappiano) i canali di informazione. E prosegue: “Conoscevate la principessa Diana di persona? Probabile di no. Dunque, a meno che non abbiate di meglio da fare nella vita, perché è necessario sorbirsi ogni minuscolo dettaglio e speculazione sull’incidente che l’ha uccisa?” I fornitori di notizie gradirebbero tenervi agganciati 24 ore al giorno e cercheranno dunque di convincervi del contrario, promettendo di fornirvi aggiornamenti ancor sensazionali dopo la pubblicità. È assolutamente necessario resistere a queste sollecitazioni. Con garbo Laufer ricorda a noi, consumatori bulimici di notizie, “di masticare prima di inghiottire” e ci invita ad assumere un atteggiamento più attivo: ” Se permettiamo al mormorio costante delle notizie – o peggio, a un mormorio di simil-notizie – di intimidirci, di farci credere che non c’è nulla che possiamo fare per cambiare le cose, che tutto quello che ci succederà è che avremo notizie e ulteriori notizie, allora ci meritiamo ciò che abbiamo.” Laufer si augura che il nuovo anno riservi tempi migliori e porti una maggior partecipazione. Traduzione dall’originale tedesco “Slow News für überfütterte Konsumenten” a cura di Alessandra Filippi Meno lettori, più appassionatiper il giornalismo di domani Corriere del Ticino, 24.01.2011 Con l’inizio del nuovo anno retrospettive, previsioni e riflessioni si rincorrono. Soprattutto nei media, ambito in costante fermento. Ed è interessante vedere come le opinioni di due personaggi molto competenti, diversi per età e cultura giornalistica siano in realtà complementari e restituiscano un quadro di insieme molto fedele di quello che oggi avviene nel giornalismo e nella professione. Horst Pöttker, tedesco, classe 1944, è professore, sociologo, studioso dei media e pubblicista. Clay Shirky, classe 1964, è professore e scrittore statunitense, blogger, considerato un guru dei nuovi media. Secondo entrambi la crisi che stiamo vivendo nel mondo dell’informazione è culturale prima che economica. Non v’è dubbio ormai – dice Pöttker sulla Neue Zürcher Zeitung – che il giornalismo così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi sia volto al termine. Continuerà ad esistere come professione al servizio dell’opinione pubblica perché non possono esistere società moderne senza un giornalismo libero e indipendente ma esso dovrà ripensarsi e rivalutarsi. Il giornalismo sta perdendo la sua esclusiva funzione di informare. I media mainstream non detengono più il controllo delle fonti e dunque le notizie passano veloci attraverso molteplici canali di comunicazione. In questo contesto il giornalista non può più essere visto come un osservatore distaccato e disinteressato. Nell’era dell’informazione digitale giornalisti e media sono sempre di più al centro degli avvenimenti, da osservatori diventano attori di ciò che accade, influendo su quella realtà che hanno il compito di comunicare. Poi, come spiega Shirky in un post sul suo blog (tradotto in italiano e commentato da Antonio Rossano su LSDI) c’è il problema della sostenibilità e dei nuovi modelli di business in un momento di forte crisi della pubblicità. Partendo dal fallimento del paywall integrale adottato dai londinesi Times e Sunday Times e arrivando ad elogiare il sistema a «soglia di accesso» introdotto dal New York Times dove il lettore può fruire gratuitamente di un certo numero di contenuti (circa 20 articoli al mese) Shirky si dice convinto che una delle cause fondamentali della ormai endemica crisi dei giornali, sia l’incapacità di editori e giornalisti, di staccarsi dal vecchio modello economico della carta stampata. Non è più sostenibile la logica dei quotidiani che vedono il lettore come un cliente e le notizie come un prodotto, del giornale come un «pacchetto» generalista in grado di soddisfare qualsiasi tipo di esigenza. I giornali devono puntare alla creazione di contenuti originali e di qualità, dedicarsi a quei lettori che sono disposti a sostenerli. D’altra parte, sostiene Pöttker la pubblicità non è l’unica fonte di entrata, ci sono sempre i ricavi dati dalle vendite. E perché questi diano soddisfazione è necessario mettere al centro i lettori e la qualità del giornale. Secondo Shirky bisogna dare più importanza a motivazioni non commerciali, come la lealtà, la gratitudine, la dedizione alla missione, un senso di identificazione con il giornale, il bisogno di preservarlo come istituzione piuttosto che come business. Perché il giornalismo e la professione giornalistica sopravvivano ai grandi cambiamenti che stiamo vivendo l’unica via, per Pöttker, è adattarsi ai cambiamenti culturali e storici. Come? Rinunciando ad un giornalismo di massa e mettendo il lettore e le sue esigenze al centro: per Shirky il 2012 sarà l’anno in cui vedremo i giornali premiare i lettori più appassionati e fedeli, quelli disposti a pagare, che ne determineranno la sopravvivenza, siano essi cartacei o digitali.