L’ARCHITETTURA ALTOMEDIEVALE DELLA PENISOLA IBERICA Luciano Serchia Le considerazioni di seguito esposte sulla cappella a croce equilatera di San Frutuoso di Montélios (circa metà del VII sec.) e sulla piccola chiesa cruciforme di Santa Comba di Bande (seconda metà del VII sec.) rientrano in una più ampia trattazione storica, artistica e architettonica degli edifici altomedievali della penisola iberica (dal VII secolo alla fine del X secolo) che sono pervenuti fino a noi e su cui la critica storiografica si è a lungo intrattenuta cercando di individuare i tratti di continuità e di discontinuità con il passato tardo antico, occidentale e bizantino. Chi scrive sta da tempo lavorando su questo specifico argomento, e nello scandagliare l’architettura altomedievale e tra le sue sedimentazioni artistiche ha individuato i sintomi di una nuova visione spaziale che si pone essenzialmente in termini di rottura nella misura in cui riesce a raggiungere una capacità espressiva culturalmente meno passiva e più reattiva nei confronti del passato romano e bizantino. I processi evolutivi di questo fenomeno sono stati misurati attraverso un’attenta lettura della composizione dello spazio architettonico altomedievale, delle sue modalità costruttive, dei materiali utilizzati e delle alterazioni dei modelli iconografici ereditati dalla tradizione tardo antica. L’analisi del significativo repertorio architettonico altomedievale iberico lascia infatti intravedere, più che altrove, l’affermarsi di un nuovo incedere, non ancora declinato con un lessico artistico unitario, ma tuttavia capace di assumere posizioni dialetticamente contrapposte, che in alcuni casi arrivano fin anche a mettere in discussione l’ordine architettonico classico. Si viene così a configurare un’architettura priva di elementi di raccordo, costituita da volumi semplici e giustapposti, dove l’articolazione del pilastro, l’assetto strutturale delle volte e le modalità interconnettive con i muri dambito danno luogo ad uno spazio dal respiro corto e raggruppato in compartimenti quasi separati. A parere di chi scrive, da questo momento prende avvio in tutta l’Europa occidentale, invasa dalle popolazioni barbariche, la formazione di un nuovo linguaggio con caratterizzazioni regionali autonome, che approderà, agli inizi dell’XI secolo, alle forme architettoniche stilisticamente compiute del romanico europeo occidentale. SAN FRUTTUOSO DI MONTÉLIOS (656?): UN PROBLEMA INTERPRETATIVO STORICO E ARCHITETTONICO La cappella di Montélios (dintorni di Braga, Portogallo) è stata riscoperta dagli archeologi nel 1897 e dichiarata monumento nazionale nel 1944. L’edificio è stato oggetto di molteplici studi, che hanno progressivamente ampliato il campo delle analisi e delle possibili interpretazioni, per lo più finalizzate a individuare, tra le intricate e sfuggenti vicende storiche, quelle tracce documentarie, dirette e indirette, che potessero meglio definire la sua effettiva epoca d’origine e i successivi interventi trasformativi. Unica nel suo genere in tutta la penisola iberica, questa singolare piccola cappella cruciforme è stata considerata dalla maggior parte degli studiosi un edificio visigoto del VII secolo e, da altri, una chiesa mozarabica del X secolo, ricostruita parzialmente nell’XI secolo. In particolare, C. M. Aguiar (1919), A. De Lacerda (1942), H. Schlunk (1947), Ferriera de Almeida (1962 e 1967), M. Gòmez Moreno (1966), J. de Moura Coutinho (1978) e H. Schlunk e T. Hauschild (1978), concordano nel ritenere l’edificio un mausoleo e comunque una struttura funeraria della seconda metà del VII secolo. M. S. Monteiro (1939) propose, per la costruzione dell’edificio, una cronologia interna all’XI secolo; mentre Ferriera De Almeida (1986), nel riconsiderare quanto da lui stesso sostenuto nelle sue precedenti pubblicazioni, ritenne più probabile una datazione compresa tra la fine del IX, inizio del X secolo. Per altri autori, come Da Silva (1958-1959), la fondazione della cappella risalirebbe alla seconda metà del VII secolo e la sua ricostruzione all’XI secolo. Per Azevedo (1965) la primitiva costruzione, che a suo parere incorporava anche un fonte battesimale, è di epoca visigota e la trasformazione in un mausoleo, con simulacro interno, dell’XI secolo. Per K. Kingsley (1980), l’impianto planimetrico è del VII secolo, mentre il restauro dell’edificio venne attuato alla fine dell’XI secolo o all’inizio del XII secolo. E, in fine, J. D. Dodds (1990) e M. L. Real (1995) concordano per una datazione al X secolo e un restauro-ricostruzione nell’XI secolo. Le difficoltà di inquadrare le fasi cronologiche della cappella derivano dai presunti numerosi rifacimenti che avrebbero interessato l’intero edificio o alcune sue significative parti in rapporto a varie vicissitudini storiche, non ancora sufficientemente chiare e dettagliate, che hanno coinvolto la città di Braga e il suo intorno territoriale, il monastero di Dumio e la stessa cappella di Montélios, di cui faceva parte. Quasi nulla si conosce della sua storia fino agli inizi del XII secolo (1102), quando l’arcivescovo di Compostela, D. Diego Gelmirez, trasportò le reliquie del Santo, dalla cappella, ove erano conservate, alla cattedrale galiziana. Se da un lato sembra che il monumento sia stato utilizzato per il culto cristiano anche dopo la conquista di Braga da parte dei musulmani nel 716, dall’altro deve essere ancora meglio precisata la portata dei danni inferti al monastero di Dumio dal visir Almanzor, del califfato omeyyade di Cordova, durante il suo transito verso Santiago di Compostela, nel 976, e dei conseguenti restauri che dovettero interessare la cappella di Montélios nel 997 e all’inizio dell’XI secolo. Non sono inoltre da trascurare le trasformazioni e le ricostruzioni subite dal monastero durante la Riconquista cristiana, nel corso della quale venne ristabilito il culto di San Frutuoso. Uno stato di relativa precarietà dell’intero complesso di Dumio è suggerito dai numerosi passaggi di proprietà, attestati da fonti scritte tra il IX e il XII secolo. Più chiare appaiono invece le vicende storiche successive. Nel XVI secolo, D. Diego de Sousa fece ricostruire il complesso conventuale che venne affidato ai Cappuccini Francescani. Tra il XVII e il XVIII secolo gli stessi Francescani portarono a compimento la seconda ricostruzione del complesso conventuale, nel corso della quale venne demolito l’intero braccio nord della cappella di Montélios per fare spazio all’impianto della nuova chiesa. La cappella venne così inclusa in una cappella più ampia, addossata sul fianco destro della chiesa in posizione sopraelevata (fig. 1). Nel 1897, l’architetto Ernesto Korrodi richiamò l’attenzione degli studiosi sull’antica cappella di Montélios e ne rappresentò graficamente le vestigia superstiti inserite nell’articolato palinsesto del rinnovato impianto architettonico. F. D. Almeida (1962) non lesinò parole di ironico rammarico nei confronti delle incisive trasformazioni attuate dai Francescani, che, a suo dire, avevano dato prova di “una maggiore sana distruzione” rispetto ai danni inferti alla cappella dai Mori conquistatori. In ultimo, nel corso dei discussi lavori di restauro del monumento, iniziati nel 1932 sotto la direzione dell’architetto S. J. Moura Coutinho e, successivamente, di A. Azevedo, furono rimossi i muri di più recente costruzione addossati ai paramenti originali della cappella, mentre le stratificazioni storiche giudicate incongrue furono sostituite con elementi architettonici in analogia con le parti dell’edificio ritenute originali. Stando a quanto sostenuto dallo stesso Moura Coutinho, il progetto di restauro venne elaborato tenendo in debito conto le sostruzioni murarie, i reperti archeologici e la vasta bibliografia specializzata, unitamente alle valutazioni comparative effettuate su un considerevole numero di monumenti simili, disseminati in tutta Europa. Ma le polemiche insorte tra la Commissione dell’Opera del Monumento di S. Fruttuoso, diretta dallo stesso Moura Coutinho, e un certo numero di storici portoghesi, in relazione alle effettive e predominanti caratteristiche stilistiche della cappella, portarono in un primo momento alla sospensione dei lavori e successivamente alla definitiva interruzione del restauro. M. M. Brito (2001), nel rianalizzare le varie fasi del restauro, è arrivato a sostenere che i lavori furono fortemente condizionati dalle ipotesi cronologiche e interpretative formulate dalla storiografia del tempo, per lo più convinta che ci si trovasse effettivamente di fronte ad un edificio cruciforme del periodo visigoto. Per Brito, quindi, nel restauro si adottarono soluzioni reintegrative conformi a questo modello storico interpretativo, in perfetta aderenza ai dettami del restauro stilistico-mimetico teorizzati da Viollet-le-Duc, a cui per altro gli stessi restauratori fecero espresso riferimento. La valutazione critica del materiale grafico e documentario prodotto nel corso del restauro ha infatti consentito a Brito di evidenziare che “l’arcosolio”, introdotto da Moura Coutinho nella parete esterna nord del braccio orientale della croce, sulla base dell’ ipotetico convincimento che la cappella fosse in origine un mausoleo-martyrium, non trova alcun riscontro nei rilievi planimetrici precedenti il restauro restituiti da Aguiar (1919) e da J. Vilaça (quest’ultima riprodotta da Camps Gazorla, 1940). Secondo Brito, neppure esisteva traccia del triforio che attualmente delimita l’accesso al braccio orientale della cappella, come documentano le fotografie pubblicate dallo stesso Camps Gazorla nel 1940, che in seguito furono anche attentamente esaminate da Schlunk e Hauschild nella loro pubblicazione del 1978. In conclusione, i restauri eseguiti nella terza decade del XX secolo hanno di fatto ulteriormente ingarbugliato il quadro interpretativo dei rifacimenti storici e dei ripristini architettonici e ciò ha impedito, per M. Á Utrero Agudo (2009), di identificare con certezza la forma originaria della cappella di Montélios e di stabilire una sequenza credibile delle sue fasi cronologiche costruttive. In altre parole, a parere di questa studiosa, l’assenza di dati certi, desumibili da sistematiche indagini archeologiche, non consente per ora di valutare l’effettiva attendibilità delle ipotesi cronologiche e interpretative sostenute dalla storiografia tradizionale, essenzialmente basate su referenze documentarie tratte dalla biografia di San Frutuoso, dalle attuali caratteristiche costruttive della cappella e dai confronti con l’architettura bizantina di tradizione romana: in sintesi, dalla forma cruciforme della pianta e dalla decorazione ad archi e triangoli ciechi che fregia le pareti esterne dell’edificio (fig. 2). La città di Braga, la romana Bracara Augusta, situata nella regione costiera della parte atlantica della penisola, rientra nell’ambito territoriale dell’antica Galleacia, la cui millenaria cultura celto-iberica si era sempre dimostrata refrattaria alla penetrazione romana e alle sue convenzioni sociali, culturali e religiose. L’atteggiamento di estraneità culturale e religiosa della regione si mantenne anche nei confronti del Cristianesimo e dei suoi monumenti paleocristiani, sorti ex novo nell’area nord occidentale della penisola tra la fine del IV e l’inizio V secolo, o ricavati da precedenti costruzioni tardo antiche. Né il successivo dominio dei Suevi (410-584), altrimenti denominati Suebi o Svevi, che elessero Bracara Augusta capitale del loro regno, poté modificare nella sostanza le radicate tradizioni indigene della Galleacia, anche in ragione del fatto che una consistente parte della popolazione dei Suevi mantenne inalterate le proprie credenze pagane, mentre solo una quota minoritaria aderì all’Ariananesimo. Dal 585, con la conquista visigota della Galleacia e la definitiva sconfitta dell’Arianesimo, cui diede un efficace contributo l’attività di predicazione e di proselitismo svolta da Martino di Braga (520-580), vescovo di Dumio dal 558, il Cattolicesimo poté diffondersi nell’intera regione, non senza il permanere di sacche pagane, sebbene circoscritte nelle piccole comunità rurali, o confinate nei territori più isolati. Nella Galleacia, quindi, più che in altre regioni della penisola iberica, il processo di integrazione sociale, culturale e religiosa tra i conquistatori e le popolazioni assoggettate fu caratterizzato da una faticosa e lenta evoluzione, affatto lineare, nonostante l’azione religiosa della Chiesa cattolica esercitata in tutti i ceti della popolazione locale. Nel corso del VII secolo, alcune eminenti figure del cattolicesimo iberico manifestarono apertamente e fattivamente il proprio sostegno alla causa dei poveri e degli schiavi, un gran numero dei quali viveva in uno stato di avvilente e mortifi- (fig. 1) - Complesso monastico di San Salvatore (XVII-XVIII sec.), Braga (Portogallo). Sul fianco destro della chiesa, in posizione sopraelevata, la cappella di San Frutuoso di Montélios (circa metà del VII sec.) (fig. 2) - Cappella di San Frutuoso di Montélios (circa metà del VII sec.). In primo piano la facciata del braccio ovest della croce equilatera. Il portale di ingresso è opera di rifacimento novecentesco cante precarietà economica e sociale. Le manifestazioni di solidarietà sociale di questi prelati non mancarono di suscitare delle ferme reazioni tra gli stessi apparati ufficiali della Chiesa e dei regnanti visigoti, come testimoniano alcuni episodi della vita di San Fruttuoso, cui è intitolata la cappella di Montélios. Fruttuoso, nativo della regione del Bierzo, diocesi di Astorga (provincia di León) e figlio di un condottiero visigoto, proprietario di estesi possedimenti, dimostrò fin da giovane un sincero interesse altruistico per i reietti della società visigota, a cominciare dai poveri e dagli schiavi che gravitavano intorno al proprio nucleo famigliare, a quali offrì il suo sostegno spirituale e materiale. Verso l’anno 625 venne educato nella scuola episcopale di Palencia, dove poté acquisire, al tempo del vescovo liturgista Conantius (Conâncio), di cui fu attento e devoto discepolo, una notevole cultura umanistica. Appena raggiunta l’età adulta e subito dopo la morte del suo maestro Conantius (639), Fruttuoso fece voto di vita monastica, dedicandosi alla fondazione di numerosi monasteri disseminati nelle regioni del Bierzo, della Galizia e di Cadice. Tra questi si annoverano: il monastero di Complute (Compludo), situato in una zona montana nei pressi di Verze (provincia di León); il monastero di Nono, intorno al quale venne costruito un apposito villaggio per ospitare i famigliari dei suoi numerosi seguaci; il monastero di San Pedro de Montes, situato in un aspra e isolata zona montana del Bierzo; e il monastero di San Salvatore di Montélios. In tutte le comunità da lui fondate furono imposte una “Regola comune”, rivolta ai membri laici associati ai monasteri, e una severissima “Regola dei monaci” che obbligava i confratelli a perseguire dei comportamenti virtuosi, censurando fin anche le devianze dei pensieri da una costante rettitudine spirituale. Nella Galizia altomedievale questa particolare e puntigliosa regola monastica ebbe un vasto e duraturo successo, tanto che perdurò per tutto il XII secolo. Nel 650, Fruttuoso intraprese un viaggio di pellegrinaggio a Siviglia e a Cadice, durante il quale maturò il proposito di proseguire verso l’Egitto, dove avrebbe voluto ritirarsi a vita eremitica. In due distinte lettere scritte nel 652 al re Recesvindo (653-672), figlio di Chindesvindo e cooregnante insieme al padre dal 649, Fruttuoso dichiarò il suo aperto sostegno alla causa dei prigionieri politici del regno visigoto, che ribadì nuovamente in occasione dell’VIII Concilio di Toledo (653). La sua posizione era condivisa anche da altri prelati della Chiesa iberica. Recimiro, vescovo e abate di Dumio (646-653), l’attuale Dume, località situata vicino Braga, si era spinto fino a dispensare parte delle risorse economiche della propria sede episcopale a favore dei bisognosi e per la liberazione degli schiavi. Per questo motivo, i padri conciliari, riuniti nell’VIII Concilio di Toledo, deposero Recemiro e insediarono Fruttuoso sulla cattedra vescovile di Dumio (653). Tre anni più tardi, nel corso del successivo X Concilio di Toledo (656), il conclave annullò gli atti di elargizione benefica sottoscritti da Recimiro e nominò Fruttuoso vescovo Metropolita di Braga, in sostituzione del deposto Potamio (653-656). Valerio del Bierzo (+ 695), monaco, asceta e discepolo di Fruttuoso, nella sua Vita Sancti Fructuosi, sostiene che il suo maestro aveva iniziato a costruire una cappella funeraria nel monastero di San Salvatore di Dumio, e che l’edificio venne completato prima della morte del Santo, avvenuta il 16 aprile del 665. Su questa fondamentale fonte scritta si è essenzialmente basata la storiografia contemporanea per datare la cappella cruciforme di Montélios alla seconda metà del VII secolo. L’ARCHITETTURA DELLA CAPPELLA DI SAN FRUTUOSO Se da un lato la biografia di Fruttuoso offre uno spaccato sul contesto sociale e religioso entro il quale il Santo si trovò ad operare, dall’altro si deve far rilevare che la città di Braga, come la più meridionale Lisbona, hanno fortemente risentito degli influssi artistici e culturali delle province vicine, in particolare della città di Mérida, centro di civilizzazione, prima romano e poi bizantino, e di stimolante e costante attività artistica. E’ pertanto all’interno di questo più ampio bacino territoriale, interessato da dinamiche sociali, politiche e culturali in evoluzione, che si possono individuare quei riferimenti artistici che portarono Fruttuoso a costruire la sua cappella funeraria, forse con l’intento di autocelebrare il suo apostolato cattolico, nelle terre di più recente evangelizzazione e conquista visigota. La chiesa conventuale (ora parrocchia di Real, S. Jerónimo), eretta dai Francescani nel XVII secolo quasi annichilisce la piccola cappella di san Frutuoso di Montélios, addossata sul suo fianco destro. L’ipotetica pianta originaria della cappella è stata ricostruita da José Vilaça e sostanzialmente confermata da Moura Coutinho e da F. De Almeida (1962), sulla base dei pochi ma significativi ritrovamenti archeologici e delle osservazioni effettuate sui muri perimetrali che hanno permesso di riconoscere come autentici il braccio sud (con l’esclusione degli stipiti del portale di accesso) e gran parte di quello ovest (escluso l’angolo di sud est, ricostruito nel corso dei restauri). A queste piante, ritenute sufficientemente attendibili da una buona parte della critica contemporanea, ci si riferisce per la descrizione delle sue caratteristiche architettoniche (figg. 3a, 3b). L’impianto a croce greca libera, inscritto in un quadrato, è ben delineato in pianta e in alzato. In lunghezza, i due assi longitudinale e trasversale misurano circa m. 12,60. I bracci sporgono dal quadrato centrale di circa 3,65 m, mentre le testate dei bracci della croce sono larghe circa m. 5,00 (fig. 4). La cappella si distingue per la muratura in blocchi di pietra perfettamente squadrati e apparecchiati a giunti molto stretti, come tutti gli edifici del tardo periodo visigoto. Ma, differentemente da questi, le pareti esterne dell’edificio presentano dei motivi architettonici appena rincassati nel muro, costituiti da archi a pieno centro, alternati a timpani triangolari, entrambi sostenuti da paraste, che avvolgono, con un ritmo serrato e continuo, l’intero perimetro degli alzati della croce greca. La porta d’ingresso, sormontata da un semplice architrave monolitico, ricostruito, insieme agli stipiti, nel corso del restauro novecentesco, è situata al centro della facciata occidentale, entro una riquadratura appena rincassata rispetto al piano sporgente della parete, esattamente come le due cuspidi triangolari disposte ai suoi lati. Il portale risulta quindi delimitato da una riquadratura leggermente più ampia che si arresta contro le due paraste che fungono da supporto alle due cuspidi contigue. Tutte le membrature architettoniche esterne, pur emergendo in leggero aggetto dal piano della parete di fondo, sorprendono per la loro incisiva e semplice impronta plastica. Ad una osservazione più attenta, il muro sembra articolarsi su un doppio registro: quello definito dalla serie di arcate e timpani triangolari, che affiora in primo piano; e quello soggiacente delineato dalla trama ortogonale dei blocchi di pietra, che, nell’invadere anche il disegno delle membrature architettoniche, riassorbe il loro risalto plastico nel reticolo geometrico del muro, il quale finisce così per essere percepito come un insieme unitario di pietra squadrata con le membrature architettoniche che sembrano scolpite su un blocco monolitico (fig. 5). (figg. 3a, 3b) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, ricostruzione planimetrica e spaccato assonometrico (fig. 4)- Cappella di San Frutuoso di Montélios, rilievo planimetrico quotato con evidenziate le ricostruzioni di restauro La tecnica di ricavare la decorazione architettonica dai blocchi di pietra già composti nella muratura ha tra i possibili punti di riferimento l’architettura siriana del V e del VI secolo, nel cui ambito furono impegnate maestranze che raggiunsero una notevole abilità nell’arte di comporre i muri di pietra sbozzata. L’esempio più significativo, giunto fino ai nostri giorni, è sicuramente il grande martyrium a croce greca di San Simeone lo Stilita a Qal’at Sim’an, presso Aleppo, opera realizzata tra il 480 e il 490 per volontà dell’imperatore d’Oriente Zenone, forse da architetti provenienti da Costantinopoli. Prescindendo dalla notevole differenza di scala architettonica che intercorre tra questo edificio e la cappella di Montélios, è utile osservare che gran parte dell’opera muraria e della decorazione architettonica dell’imponente edificio siriano segue il tradizionale procedimento di squadrare a piè d’opera i blocchi di pietra, insieme alla porzione di membratura architettonica facente parte del disegno complessivo della parete, e rifinendo, se necessario, il modellato architettonico direttamente sul muro in opera; vale a dire sottraendo il materiale eccedente con una operazione di tipo scultoreo. Questa tecnica di lavorazione venne preferibilmente praticata per realizzare le membrature di più semplice geometria e rilievo plastico, come le cornici che contornano le finestre delle fiancate e delle absidi di San Simeone lo Stilita. L’edificio presenta la muratura magistralmente eseguita, tanto che il reticolo squadrato e ortogonale dei blocchi di pietra delle pareti absidali tende quasi a scomparire, nonostante la difficoltà di sagomare la pietra seguendo la curvatura cilindrica delle pareti. Il modellato della decorazione architettonica acquista quindi maggior risalto nella misura in cui i singoli blocchi di pietra sono tanto più sbozzati a spigolo vivo e allettati con giunti stretti e precisi (figg. 6, 7). Lo stesso procedimento di eseguire l’ordito architettonico e decorativo dai blocchi di pietra già composti in opera secondo un disegno architettonico predefinito, venne probabilmente utilizzato nella tomba di Teodorico a Ravenna (526). Qui, i blocchi di pietra d’Istria della superficie cilindrica del secondo livello sono scolpiti con motivi architettonici costituiti da archetti, in rilievo appena pronunciato, che sormontano nicchie squadrate e rincassate lievemente nel muro. In ciascun blocco di pietra è ricavata una parte del modellato architettonico, per cui il disegno completo di una membratura architettonica appare come costituito da tante tessere di un mosaico dal modellato variamente articolato. La calotta che copre il monumento è addirittura ricavata da un solo blocco di pietra monolitica, e i rostri che sporgono dalla sua superficie estradossale, forse necessari per la posa in opera del pesante manufatto, si presentano come estrusioni disposte a raggiera, che tuttavia fanno parte di un unico pezzo scolpito (fig. 8). (fig. 5) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, particolare della facciata del braccio ovest. Si osservi l’elaborata cornice classicista del timpano e l’intaglio dei triangoli a rincasso nei conci di pietra granitica Questa tecnica di lavorare la pietra venne diffusamente praticata nella Siria del V e del VI secolo, come attestano gli edifici dell’antica Resafa o Rusāfa (poi, dal IV secolo, Sergiopoli), le numerose abitazioni e i magazzini delle tante “città morte”, di epoca bizantina, disseminate tra Aleppo, Antiochia e Apamea. In particolare, nella città morta di Sergilla, (fig. 9) gli edifici destinati ad usi profani sono tutti costituiti da blocchi di pietra calcarea, di dimensioni ragguardevoli e di colore ocra scuro rugginoso, apparecchiati a giunti stretti e, in alcuni casi, con i giunti verticali connessi tra loro da un dente di accoppiamento, nello stesso modo che ritroviamo nella tomba di Teodorico a Ravenna, dove i giunti delle ghiere degli arconi del piano terra presentano uno stesso dente di accoppiamento (figg. 8,10,11). L’ornato architettonico degli architravi delle porte di accesso, esterne ed interne, e delle numerose finestre centinate di molti edifici di Sergilla, in genere caratterizzato da morfemi relativamente semplici, è stato pressoché integralmente ricavato da un singolo (figg. 6, 7) - San Simeone lo Stilita (480-490), Qal’at Sim’an, presso Aleppo (Siria): vista del fianco sinistro del braccio ovest della grande croce. A destra, esterno dell’abside sulla testata orientale grande blocco di pietra, inserito nella trama squadrata dei muri (fig. 10). Tale caratteristica lascia supporre che buona parte di queste membrature siano state scolpite subito dopo la costruzione dei muri, come sicuramente lo furono le piccole feritoie arcuate che illuminano la parte alta di alcuni sottotetti, il cui intaglio interseca però, in modo del tutto casuale, la trama dell’apparecchio murario (figg. 10,12). Inoltre, le testate dei tetti degli edifici più rappresentativi sono concluse da timpani triangolari, che per foggia architettonica e per come sono declinate le modanature delle cornici, rammentano i frontoni che coronano le testata dei bracci della croce greca di Montélios. All’esterno, i segmenti di pietra di questi timpani sono scolpiti in rilievo, mentre all’interno presentano una superficie liscia, complanare alla parete e con i giunti obliqui perfettamente collimanti con i blocchi di pietra sottostanti (fig. 9). Soffermando l’attenzione sulla facciata del braccio d’ingresso occidentale della cappella di Montélios si noterà che le quattro paraste e le due cuspidi triangolari, che fregiano la parete, sono composte da un mosaico di blocchi di pietra squadrati con giunti orizzontali perfettamente allineati. In particolare, nelle due cuspidi triangolari, intagliate a rincasso su due corsi di pietra sovrapposti, i lati inclinati dei triangoli sono ottenuti dall’assemblaggio di tre blocchi di pietra, in ognuno dei quali è stato sottratto materiale lapideo per un tratto corrispondente ad un segmento dei lati degli stessi triangoli. Ne consegue che le maestranze di Montélios, nel comporre il muro, hanno dovuto assicurare sia allineamento dei segmenti obliqui, intagliati sui singoli blocchi, sia gli accoppiamenti dei giunti verticali e orizzontali con i blocchi di (fig. 8) - Tomba di Teodorico (526), Ravenna. Si osservi l’in- pietra vicini. Inoltre, nelle arcate cieche, presenti sui fianchi della croce, i profili delle singole arcate sono stati prevalentetaglio delle modanature nelle arcate del primo livello mente intagliati in un solo blocco di pietra; e questo forse per evitare errori di discontinuità tra i settori d’arco ricavati da (fig. 9) - Siria, resti della città morta di Sergilla (V-VI sec.) blocchi di pietra contigui. E’ quindi probabile che anche a Montélios i profili verticali delle paraste, quello inclinato delle cuspidi triangolari e quello curvilineo delle arcate cieche siano stati realizzati sottraendo il materiale eccedente dai blocchi di pietra già composti nella trama del muro, proprio per assicurare un perfetto allineamento delle membrature. Se così stanno le cose, acquista allora consistenza l’ipotesi che la tecnica costruttiva adottata negli edifici siriani a partire dal tardo IV secolo e ampiamente praticata nella stessa regione nel corso del V e VI secolo, sia approdata nella fascia atlantica della penisola iberica attraverso Mérida. (fig. 10) - Siria, resti della città morta di Sergilla (V-VI sec.). Si osservi l’architrave della porta e Il fatto poi che nella più tarda chiedella finestra scolpiti in un unico blocco di pietra calcarea sa mozarabica di Santa Maria di Quintanilla (VIII-IX secolo) le fasce decorate, in parte rimaste incompiute, che all’esterno solcano orizzontalmente le pareti dell’abside e i bracci del transetto, furono sicuramente scolpite dopo la costruzione dei muri in conci di pietra squadrata, lascia presumere che tale tecnica scultorea sia stata diffusamente praticata negli edifici iberici altomedievali ben oltre il VII secolo visigoto (figg. 13,14 ). (figg. 11, 12) - Siria, resti della città morta di Sergilla (V-VI sec.). A sinistra, muro con blocchi di Gli studiosi hanno spesso associato pietra calcarea squadrata con denti nei giunti di accoppiamento. A destra, nicchia con mo- la cappella di Montélios al mausodanature architettoniche scolpite su tre corsi di pietra calcarea leo di Galla Placidia di Ravenna, soprattutto per le strette relazioni intercorrenti tra il loro impianto cruciforme di ridotte dimensioni, per le assonanze formali e del volume della torre, impostata sul quadrato di incrocio, e per il modo in cui sono risolte alcune membrature architettoniche, come i frontoni triangolari che nascondono i tetti a capanna dei bracci della croce e la partizione ritmica delle superfici parietali esterne: a Ravenna scandite da arcate cieche su paraste e, a Montélios, da arcate e timpani triangolari ciechi su paraste. Per meglio inquadrare i possibili rapporti, strutturali e architettonici, intercorrenti tra i due edifici va intanto rammentato che, in linea generale, la pianta cruciforme è stata spesso adottata nei martyria tardo antichi, come l’Apostoleion di Costantinopoli (dopo il 335), la chiesa di San Babila di Antiochia (iniziata nel 379 circa), la basilica Apostolorum di Milano (consacrata nel 386), la basilica Virginum di Milano (397), costruita per volontà di San Simpliciano, subito dopo la morte di Sant’Ambrogio, e la chiesa di Santa Croce (425 circa) di Ravenna, collegata al mausoleo di Galla Placidia tramite un portico. L’impianto cruciforme dello stesso mausoleo andrebbe pertanto associato a questo tipo di martyrium, sebbene le sue ridotte dimensioni e, soprattutto, la sua specifica funzione di sepolcro riservato ai membri della corte imperiale, lo caratterizzano più propriamente come un edificio appartenente alla categoria dei mausolei imperiali, sorti a Roma e a Costantinopoli con dimensioni e forme centriche le più varie e in associazione ai martyria o alle basiliche funerarie (fig. 15). Secondo S. Gelichi e P. N. Piolanti (1995), il mausoleo di Galla Placidia risale alla metà del V secolo, cioè ad un momento posteriore alla costruzione della chiesa di Santa Croce, come dimostrerebbero le differenze riscontrate nella loro tecnica costruttiva e le diverse quote pavimentali intercorrenti tra i due edifici. La decorazione musiva del mausoleo di Galla Placidia, assente nella cappella di Montélios, nell’avvicinarsi agli stilemi bizantini, per come sono svolti i temi dei fiori stilizzati sui fondi colorati di blu delle volte a botte e del cielo stellato sulla superficie intradossale della cupola centrale, presenta, nel modellato delle figure di San Lorenzo e del buon Pastore, rispettivamente situate nella lunetta di fondo e sopra l’ingresso del sacello di Ravenna, un certo classicismo iconografico, attento al volume corporeo e alquanto estranea alle rappresentazioni ieratiche e prive di consistenza volumetrica degli esempi bizantini. In queste figure si intravede quindi una cifra stilistica che rimanda a maestranze formatesi in ambito romano occidentale. A. V. Ribera I Lacomba (2005) ha richiamato l’esempio ravennate soprattutto per contestualizzare, sotto il profilo cronologico, i resti archeologici della chiesa a pianta cruciforme di San Vicente di Valencia (V-VI secolo) e per sottolineare la diffusione in tutto il Mediterraneo del tipo architettonico cruciforme. Per A. Harris (2003) la cappella di Montélios va letta come una sorta di “revival dei mausolei cruciformi” del V secolo; mentre la distanza temporale di circa due secoli che la (figg. 13, 14) - Cappella di San Frutuoso di Montélios. Paramento murario esterno. A sinistra, cuspidi triangolari scolpite a rincasso su due filari di blocchi di pietra granitica; a destra, arcate pensili scolpite con la stessa tecnica di lavorazione separa dall’esempio ravennate denoterebbe l’aspirazione della popolazione locale a stabilire delle relazioni di continuità con popolazioni cristiane di altre aree geografiche attraverso la riproposizione di una stessa forma architettonica. Inoltre, questo studioso ha proposto per tutti gli altri edifici a pianta cruciforme della penisola iberica una datazione interna al VI secolo; ipotesi giustificata dalla presenza bizantina nel sud est della penisola, in accordo con quanto sostenuto da Thompson (1969) sull’influenza che la dominazione bizantina avrebbe esercitato su questa zona nella seconda metà del VI secolo. In fine, per M. Á. Utrero Agudo (2009) il mausoleo di Galla Placidia, pur rappresentando, sotto l’aspetto strettamente tipologico, un precedente cronologico della cappella di Montélios, se ne distanzia nettamente per le differenze formali e tecnologiche che intercorrono tra i due edifici. Per questa studiosa, infatti, il mausoleo di Galla Placidia si connota, in termini costruttivi, come un tipico edificio “romano”, caratterizzato da una cupola a vela sul quadrato di incrocio, costituita da mattoni di laterizio, disposti in corsi concentrici, e alleggerita sulla superficie estradossale da tubi fittili. Oltre alle differenze delle tecniche costruttive e dei materiali evidenziate dalla Utrero Agudo, nelle quali va anche annoverato l’impiego dei mattoni di laterizio nei muri di Galla Placidia e dei blocchi di pietra granitica squadrata in quelli di Montélios, si deve far rilevare una ulteriore significativa discordanza riguardante il modo in cui sono state concepite e articolate le arcate e i triangoli ciechi sulle pareti esterne (fig. 15) - Ravenna, mausoleo di Galla Placidia (prima dei due edifici, vale a dire uno dei motivi architettonici che apparenmetà del V sec.). In basso, planimetria del portico di temente più li accomuna (figg. 16,17). connessione con la chiesa di Santa Croce Nel mausoleo di Galla Placidia questo motivo riprende una consuetudine costruttiva dell’Italia settentrionale, ampiamente sperimentata negli edifici tardo antichi in muratura di laterizio. Infatti, secondo M. Mirabella Roberti (1979-1980), arcate cieche su pilastri compaiono già in alcuni tipi di edifici pubblici della pianura Padana, realizzati per lo più per scopi utilitari al tempo dell’imperatore d’Occidente Massimiano (250 circa-310). Ne sono testimonianza i due magazzini (Horrea), costruiti in muratura di laterizio alla fine del III secolo rispettivamente a Milano e ad Aquileia, e un’aula rettangolare situata nella stessa Aquileia, pure risalente al III secolo, trasformata all’inizio del V secolo nella basilica Apostolorum. Dal nord Italia il motivo si diffuse in Renania. Qui l’esempio più illustre è rappresentato dalla basilica costantiniana di Treviri (305-312), i cui muri sono irrigiditi da arcate cieche, sostenute da poderosi pilastri, connessi alle pareti esterne. Successivamente, lo stesso motivo venne utilizzato per irrigidire, all’esterno, le alte pareti in laterizio della basilica Virginum di Milano (397). In tutti questi edifici, le arcate cieche su pilastri o paraste, nell’articolare le pareti di laterizio con risalti plastici seriali, consentivano anche di ispessire adeguatamente la sommità del muro, offrendo così un più solido appoggio alla travatura lignea della copertura. Con il trasferimento della capitale dell’Impero d’Occidente da Milano a Ravenna (402), alcuni dei modelli architettonici e delle consuetudini costruttive padane e milanesi approdarono nella nuova capitale, come attesta la pianta a croce latina adottata nella chiesa di Santa Croce, derivata dall’omologo impianto della basilica Apostolorum di Milano e le stesse arcate cieche su paraste del mausoleo di Galla Placidia. Contemporaneamente, e nel corso del secolo successivo, la strategica posizione geografica di Ravenna favorì la penetrazione e la diffusione di modelli architettonici e artistici bizantini che si riflettono nelle chiese di San Giovanni Battista (424-434) e di Sant’Apollinare Nuovo (493-526) e fin anche nel modo di lavorare la pietra nella tomba di Teodorico (526). Qui, come abbiamo visto, lo scavo a basso e alto rilievo nel forte spessore della pietra, si sostanzia in un disegno d’insieme che, sebbene sia in parte contaminato da referenze ostrogoto-pannoniche, rivela un’impronta prevalentemente decorativa chiaramente debitrice di consuetudini costruttive siriane; mentre nel mausoleo di Galla Placidia, edificio più vecchio di circa un secolo della tomba di Teodorico, le arcate cieche su paraste mantengano ancora riconoscibile (fig. 16) - Ravenna, mausoleo di Galla Placidia (prima metà del V sec.). Si osservi la teoria di l’originaria funzione di irrigidimenarcate su paraste derivata da dai sistemi costruttivi padani del IV sec. to strutturale delle pareti di laterizio, diffusamente praticata negli edifici tardo antichi dell’Italia settentrionale. Nel corso del IV e V secolo questo motivo architettonico si diffuse in buona parte dell’Impero d’Oriente, assumendo sempre più una valenza decorativa, come mostra la teoria di piccoli archetti pensili che fregia l’arco di coronamento della calotta dell’abside centrale del martyrium di San Simeone lo Stilita (480-490), in Siria. Qui, il motivo funge da elemento di mediazione architettonica e decorativa tra la parte verticale della parete che sovrastava l’arcata con una delle falde del tetto di copertura dell’abside (figg. 18a, 18b). Il serrato rincorrersi delle arcatelle, impreziosite da una minuta e raffinata ornamentazione vegetale, che (fig. 17) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, scorcio prospettico da sud est. Qui, il tema delle si estende fin anche ad invadere arcate e delle cuspidi triangolari è declinato secondo modalità costruttive sirane la superficie delle lunette, imprime alla cornice di questo arco absidale un aggraziato movimento plastico, che esalta il magnifico dispiegamento delle imponenti membrature architettoniche. A sua volta, la cornice che corona all’esterno la stessa abside è costituita da piccole nicchie, o da profonde arcatelle, sostenute da pulvini su colonne addossate alla superficie cilindrica sottostante. Ogni nicchia, con archetto e soprastante cimasa (quest’ultima sosteneva il tetto conico), è ricavata da un solo blocco di pietra, disposto in forte aggetto rispetto alla curva della parete absidale. Dunque, anche in questo secondo caso le arcatelle hanno pressoché perso la loro originaria funzione d’irrigidimento strutturale della parete, divenendo esse stesse elementi formalmente risolti con intenti sostanzialmente decorativi (fig. 7). Con Giustiniano, il predominio culturale, stilistico e architettonico di Costantinopoli incominciò a dispiegare i suoi effetti su buona parte delle province dell’ex impero d’Occidente e, in modo particolare sulla penisola iberica, le cui province orientali e meridionali rimasero sotto il dominio bizantino dal 534 fino agli inizi del VII secolo; predominio culturale che nel San Fruttuoso riverberò forse i suoi effetti nel motivo delle arcate cieche su paraste, qui declinato, come abbiamo visto, secondo modalità realizzative manifestamente siriane e dunque lontane dall’archetipo padano e ravennate. Ulteriori punti di contatto con modelli siriani del VI secolo si ravvisano anche nella cornice che corona, senza soluzioni di continuità, la sommità dei bracci della croce equilatera, la quale, tramutandosi in timpani triangolari in corrispondenza delle testate, conferisce all’edificio una certa aurea classicheggiante. Questa cornice è arricchita, lungo il suo bordo inferio- re, da una stretta fascia minutamente scolpita a cesello con un motivo decorativo costituito da tre petali di giglio inscritti in semicircoli tangenti sui quali si innestano delle foglioline dalla forma lanceolata, che rammenta quello di analoghi manufatti concepiti a Mérida, uno tra i principali centri di produzione e di diffusione nel VI e VII secolo di questo tipo di decorazione architettonica (fig. 19). Negli alzati dei bracci della croce si passa dunque dal plastico risalto della cornice alla delicata vibrazione chiaro scurale della fascia scolpita, delimitata lungo il bordo superiore da un listello con fusi allungati e nel bordo inferiore da un torciglione e, da questa, alla ruvida parete di granito impostata su un piano leggermente più arretrato, sulla quale è ricavato, ad un livello leggermente più basso, il deciso intaglio rincassato della serie di arcate e di triangoli ciechi. Questa combinazione di elementi architettonici e decorativi mette insieme esperienze artistiche e tecniche costruttive di recente importazione nella penisola iberica: le decorazioni scolpite, mutuate o direttamente acquisite dai principali centri di produzione e i blocchi squadrati di pietra granitica, combinazione che si evidenzia, forse meglio che altrove, nella serie di arcatelle pensili, intercalate ogni due da triangoli, che sostiene la cornice di coronamento della torre, impostata sul quadrato d’incrocio. In corrispondenza degli angoli della torre, il serrato ritmo orizzontale della serie di arcatelle e triangoli pensili è interrotto da semplici pietre angolari disposte sullo stesso piano, che a loro volta sporgono appena dai conci angolari immediatamente sottostanti. Questi ultimi, sono separati dal restante paramento lapideo della torre da un sottile cordoncino con listello, che (figg.18a,18b) -San Simeone lo Stilita (480-490), Qal’at Sim’an, presso Aleppo (Siria). In alto, interno dell’abside orientale. In basso, particolare dell’arco di coronamento (fig. 19) - Cappella di San Frutuoso di Montélios. Particolare della cornice di coronamento dei timpani delle testate dei bracci della croce funge anche da elemento separatore dell’intero sistema decorativo del coronamento. Su ciascuno dei quattro lati, i due archetti pensili contigui, intersecati dagli assi mediani della torre, si tramutano in quattro piccole bifore, sostenute da colonnette invece che da mensole. Questo virtuosismo architettonico, consente contemporaneamente di preservare la continuità seriale degli archetti tutto intorno la torre e di illuminare l’interno del quadrato di incrocio. Inoltre, la forma trapezioidale delle mensole, su cui si appoggiano le arcatelle a ferro di cavallo, dilata l’impronta delle ombre portate sul paramento murario retrostante, sortendo degli effetti plastici più complessi e profondi rispetto alle filiformi sottolineature delle ombre segnate dai leggeri intagli delle arcate e dei triangoli ciechi sui paramenti lapidei dei bracci della croce. Il progressivo aggetto delle arcatelle pensili e della cornice di coronamento, quest’ultima articolata in tre distinti profili di modanature, e il sottile gioco dello sfalsamento dei piani delle membrature mitigano lo slancio verticale della torre. Nell’insieme emerge un sistema strutturalmente coerente e compositivamente equilibrato, che coinvolge l’intero impianto, nel quale si intravede una sapienza architettonica che lega le forme massicce e tetragone delle strutture fortificate con inserti decorativi più aggraziati; in altre parole fonde il sapere artistico orientale con il rude impalcato strutturale dei muri in blocchi di pietra granitica locale (fig. 20). Tra gli studiosi e i ricercatori si è discusso se i singoli archet ti e triangoli pensili che fregiano il coronamento della torre fossero in origine sostenuti da corte colonnette, appoggiate su piccole mensole di pietra sporgenti dalla muratura in corrispondenza del sottile cordone orizzontale che funge anche da linea di imposta delle quattro bifore. Una si fatta articolazione di membrature, qualora sia effettivamente appartenuta alla storia architettonica dell’edificio, andrebbe inquadrata in una fase medievale molto più tarda, del tutto estranea all’impianto visigoto del VII secolo. In conclusione, a Montélios le arcatelle pensili che coronano la torre e le arcate e i triangoli ciechi ricavati nello spessore dei muri perimetrali dei sottostanti bracci della croce equilatera hanno ormai definitivamente acquisito una nuova veste decorativa importata dall’oriente bizantino nel VI secolo, sebbene reinterpretata secondo i canoni costruttivi propri dalle maestranze visigote. Per altro verso, va fatto rilevare che i triangoli o cuspidi triangolari e gli archetti oltrepassati della torre di Montélios denotano delle congiunzioni stilistiche con i repertori architettonici e decorativi preromani e tardo antichi paleocristiani, occidentali e orientali. Da un lato, l’arco oltrepassato, probabilmente di origine nord africana o indigena, della parte meridionale della penisola, continuò ad essere utilizzato in epoca romana e dai visigoti, i quali ne reinterpretarono la formula conferendogli delle caratteristiche architettoniche del tutto au- (fig. 20) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, tonome; e in questa versione lo si ritroparticolare dell’angolo della torre lanterna va nelle arcatelle pensili della torre di Montélios; dall’altro, la disposizione alternata di arcate cieche a pieno centro e di triangoli riflette consuetudini desunte dal repertorio ornamentale tardo antico iberico romano, qui riproposto con una tecnica di lavorazione della pietra e con stilemi di derivazione bizantina. Dall’insieme di questi motivi traspare pertanto anche l’attitudine dei visigoti a reinterpretare il lascito culturale del passato con un disinvolto sincretismo stilistico. Arcatelle a pieno centro alternate a triangoli, bordate da cordoni e sostenuti da capitelli su colonnette, entro cui stanno conchiglie dal rilievo schiacciato e fortemente stilizzato, sono scolpiti, in sequenze ripetute, nella lastra di pietra calcarea, che probabilmente faceva parte di una transenna o cancello, risalente alla seconda metà del VI secolo, ora conservata nel Museo Visigoto di Mérida. Tra le colonnette con capitelli delle tre nicchie si alternano: motivi vegetali, costituiti da foglie di vite e grappoli d’uva, disposti a quinquonce, in quella di sinistra; motivi geometrici a riquadri, intersecato da corde disposte sulle diagonali, in quella centrale; e volatili affrontati entro riquadri contigui, in quella di destra. Nello stesso Museo, in un’altra lastra di cancello singola la conchiglia dall’intaglio geometrico invade anche lo spazio interposto tra le colonnette (figg. 21 e 22); mentre nel Museo Archeologico Nazionale di Madrid un’altra transenna, proveniente da Mérida, anch’essa della seconda metà del VI secolo, tra le colonnette con capitelli, presenta lo stesso motivo vegetale delle foglie di vite e grappoli d’uva disposti a quinquonce all’interno del timpano triangolare con conchiglia stilizzata. La decorazione scultorea di queste lastre, nell’unire temi geometrici, vegetali e figurativi, con effetti plastici tendenti al rilievo bidimensionale e all’astrazione geometrica, ripropone decorazioni desunte dai repertori dei metalli groffati e dei tessuti di seta dell’arte sassanide, molto probabilmente approdati nella penisola iberica attraverso Antiochia e Alessandria. Le edicole sono bordate da semplici cornici a torciglione dall’intaglio grossolano che frequentemente ritroviamo nelle imposte che delimitano le volte delle chiese visigote. Il loro dispiegamento sul piano della lastra è inquadrato ritmicamente dall’alternanza delle nicchie ad arcatelle e cuspidi triangolari, disposte come una sequenza di piccole edicole, nelle quali la presenza delle conchiglie sottolinea il significato sacrale e simbolico del luogo ove tali lastre dovevano essere collocate. Questa decorazione di motivi geometrici, vegetali e figurativi, pur essendo di superficie, non è mai un arredo monotono e ripetitivo, inserito nel complesso monumentale per capriccio inventivo e senza alcuna correlazione con lo spazio reale, ma è parte integrante dell’edificio in quanto ne sostanzia simbolicamente il carattere religioso o profano, sottolineandone il valore rappresentativo. Lo sviluppo geometrico delle bordure della serie di edicole ad arcate e triangoli delle transenne del Museo Visigoto di Mérida, mostra delle evidenti affinità con le arcatelle alternate a cuspidi che si rincorrono sulle superfici murarie esterne della cappella di Montélios. Sicuramente, le radici di questo repertorio ornamentale, come quello di tanti altri reperti dello stesso museo, rimandano all’oriente bizantino, ma qui si avverte un nuovo sentire artistico proteso a delineare, nella scultura di superficie quasi lineare, una essenziale interazione di contrasti plastici con le rudi strutture murarie dell’organismo architettonico visigoto. D‘altra parte, un analogo tipo di ornamentazione architettonica ricorre con una certa frequenza in altri edifici dell’Europa occidentale alto medievale. Cuspidi triangolari sono presenti, con analoghi intenti decorativi e coloristici, sulla testata sud del battistero di Saint Jean di Poitiers (VI e VII secolo); mentre nel battistero di Lomello (VII secolo), vicino Pavia, delle piccole nicchie, strette e lunghe, situate ai lati delle finestre centinate del tamburo, sono concluse da elementi triangolari. In Germania, nella Torhalle di Lorsch (774?), edificio facente parte del complesso abbaziale di San Nazario, il motivo delle cuspidi triangolari assume una valenza ornamentale più integrata con la partizione architettonica. Qui infatti, le pareti del secondo livello, sostenute da un portico a triplice arcata, sono scandite da paraste ioniche scanalate, sormontate da veri e propri timpani triangolari. Altrettanti intenti decorativi si ravvisano inoltre nelle piccole cuspidi triangolari, interconnesse a strette e lunghe paraste, che fregiano il secondo livello del campanile già facente parte della scomparsa chiesa abbaziale carolingia di Farfa (IX secolo), sita in provincia di Rieti (Italia centrale). Benché incompleto, questo elenco di edifici indica chiaramente il grado di diffusione che il motivo delle arcatelle e delle cuspidi triangolari ebbe nell’architettura altomedievale dell’Europa occidentale. Limitato alla sola serie di arcatelle pensili o su paraste, il motivo fu in seguito applicato su vasta scala geografica per definire le partizione delle superfici murarie esterne (figg. 21, 22) - Merida (Spagna), Museo Visigoto. Lastre di transenne (seconda metà del VI, inizio VII secolo) degli edifici romanici. Più in generale, si può affermare che questo motivo, lascito dell’eredità classica e tardo antica, si è evoluto nei singoli contesti regionali altomedievali grazie agli impulsi creativi generatisi nei nuovi regni barbarici. A Montélios quindi, le differenze formali che intercorrono tra gli archi e i triangoli che fregiano il coronamento della torre e quelli che scandiscono le superfici esterne dei bracci della croce evidenziano una particolare fase di ibridazione stilistica messa in atto dai barbari invasori nei paesi dell’Europa occidentale. Se nel suo insieme l’impianto cruciforme della cappella di Montélios deriva dai marthyria del V e VI secolo occidentali e orientali, i nuclei satellitari, situati alle tre estremità dei bracci della croce, sono concepiti come dei piccoli mausolei imperiali a pianta circolare e a doppio guscio, connessi al quadrato di incrocio attraverso schermi di triplici arcate (fig. 23). Per cercare di comprendere le radici più profonde del particolare innesto dei nuclei satellitari ai bracci della croce di Montélios occorre richiamare l’attenzione su un altro importante complesso monumentale bizantino: l’Apostoleion di Costantinopoli, ricostruito da Giustiniano nel 550 ad est del preesistente mausoleo di Costantino (335 circa). Lo schema planimetrico di questo grande edificio a croce greca, la cui pianta ci è nota solo attraverso la sua ipotetica ricostruzione, pur derivato dagli impianti dei martyria imperiali, deve essere annoverato, per le sue specifiche caratteristiche architettoniche, tra gli edifici con cupole in asse, come la grande basilica di San Giovanni di Efeso, ricostruita nel VI secolo con pianta a croce latina più ampia rispetto alla basilica-martyrium preesi(fig. 23) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, vista dell’abside dal braccio ovest. Si stente. I quattro bracci della croce e osservi la sovrapposizione di visuali determinata dalgli schermi di triplici arcate che delimil quadrato centrale dell’Apostoleion itano il quadrato di incrocio giustinianeo erano infatti articolati in cinque quadrati entro cui si innalzavano altrettante cupole su pennacchi sferici. Quattro pilastri liberi, posizionati in corrispondenza di ogni vertice dei cinque quadrati, assicuravano il sostegno dell’imponente impalcato. Inoltre, i pilastri periferici dei quadrati situati nei quattro bracci della croce, erano separati dai muri perimetrali da un corridoio o deambulatorio che correva tutto intorno l’edificio, senza soluzioni di continuità, per garantire la circolazione interna. I cinque ambiti spaziali della croce erano quindi totalmente autonomi e interconnessi tra loro da grandi arcate. Il mausoleo di Costantino, di pianta circolare e con nicchie squadrate ricavate nello spessore del muro, conformemente ai mausolei dinastici imperiali romani del IV secolo, era connesso alla testata terminale del braccio principale del martyrium giustinianeo, in allineamento con il suo asse longitudinale. In fine, un altro mausoleo a croce equilatera, di dimensioni relativamente più piccole di quello costantiniano, sporgeva dal fianco occidentale del braccio sinistro della grande croce giustinianea. Il mausoleo costantiniano era interconnesso al muro di testata del braccio longitudinale della grande croce secondo una disposizione assiale già sperimentata a Roma nel complesso monumentale costituito dal mausoleo a pianta circolare di Sant’Elena e dalla limitrofa basilica funeraria (IV secolo), uniti appunto tra loro tramite la facciata della stessa basilica (fig. 24). Tale disposizione presenta delle evidenti affinità omologiche con l’impianto planimetrico della cappella di Montélios. Se infatti si astrae dalle indubbie differenze di scala architettonica, si vedrà che la fusione dei satelliti a pianta circolare con i tre bracci della croce equilatera di Montélios può essere interpretato come il risultato di un processo di saldatura di cui si scorgono i prodromi nelle modalità connettive stabilite tra il grande martyrium cruciforme giustinianeo e il preesistente mausoleo costantiniano. La combinazioni dello schema dei martyria a pianta cruciforme con quello della pianta circolare e a doppio guscio delle chiese tardo antiche, occidentali e orientali, segnala anche qui il livello di assimilazione-reazione raggiunto dalla cultura architettonica visigota nei confronti del portato culturale romano-occidentale e bizantino durante il regno di Toledo. All’interno della croce di Montélios, il braccio orientale e quelli trasversali, nord e sud, di eguale estensione, sono conclusi da absidi a ferro di cavallo; mentre il braccio occidentale presenta un semplice ambiente quadrato, coperto da una volta a botte e con la parete di testata solcata verticalmente da due paraste che inquadrano la porta d’ingresso. I quattro bracci della croce sono divisi dal quadrato di incrocio da grandi archi a pieno centro oltrepassato, sui quali sono impostati i muri della torre. Questi archi sormontano delle triplici arcate (trifori), foggiate a ferro di cavallo, sostenute da capitelli tardo corinzi su due colonne libere, costituite da materiale lapideo eterogeneo (marmo, granito e pietra calcarea) e con l’arco centrale più ampio dei due laterali. Ogni triplice arcata giace su un piano sensibilmente più arretrato (fig. 24) - Costantinopoli, ricostruzione ipotetica della rispetto alla grande arcata che la pianta dell’Apostoleion di Giustiniano (VI sec.) sormonta. Nel suo insieme, questa disposizione, nel sottolineare la preminenza gerarchica degli assi principali della croce rispetto alle altre linee proiettanti di riferimento, sollecita un movimento percettivo convergente verso il centro e ascendente verso l’alto (figg. 25, 26). (fig. 25) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, scorcio dal basso verso l’alto dei trifori e del quadrato di incrocio (fig. 26) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, vista dell’abside attraverso lo schermo delle triplici arcate Il sistema delle triplici arcate era solitamente utilizzato nelle basiliche funerarie romane, come quella dell’Apostolorum di Roma (IV secolo), poi dedicata a Santo Stefano, e più in generale per delimitare gli ingressi ai mausolei, spesso conclusi con un’abside, costruiti a ridosso delle fiancate delle stesse basiliche. Nell’ Apostolorum di Milano, imponente basilica a croce latina con transetto tripartito (consacrata la prima volta nel 386), le triplici arcate, di eguale ampiezza, separano la navata dai bracci laterali, che in origine avevano appunto la funzione di cappelle funerarie riservate ai membri della corte imperiale. E’ quindi ipotizzabile che i fornici tripartiti che separano i nuclei satellitari dal quadrato d’incrocio del San Fruttuoso di Montélios siano stati realizzati proprio con questo specifico significato architettonico e simbolico. Il motivo delle triplici arcate ricorre anche nella chiesa a pianta centrale di San Vitale di Ravenna (546-548), incluso in grandi nicchie semicircolari distribuite sui lati del nucleo ottagonale, sia nel deambulatorio, sia nel matroneo superiore. Qui però i trifori svolgono una funzione filtrante e compenetrante tra il guscio interno e quello esterno, sfondando le pareti dei nicchioni con archi giacenti su una superficie cilindrica, a dimostrazione di un sapere architettonico più evoluto e distante da quello messo in atto nel San Fruttuoso. Sempre a Ravenna, le triplici arcate a tutto sesto che fregiano, al secondo livello, i lati dell’impianto ottagonale del battistero Neoniano (400-458 circa), presentano delle più strette similitudini con i trifori del San Fruttuoso di Motélios. In questo caso, però, le colonne a tutto tondo sostengono tre arcate a pieno centro, con quella centrale, più ampia delle due laterali, che inquadra una finestra la cui centina di coronamento, essendo impostata più in basso rispetto alle arcate laterali del triforio, attenua notevolmente la gerarchia delle forme imperniata sull’asse centrale, infondendo all’insieme un carattere più propriamente decorativo, del tutto privo di quell’attributo architettonico e simbolico che invece abbiamo riconosciuto ai trifori di Montélios. Quattro imposte di pietra calcarea con decorazione di tipo corinzio fregiano, alla stessa altezza dei capitelli su colonne libere dei trifori, le solide murature angolari del quadrato d’incrocio. Rispetto alla soluzione adottata nella contemporanea chiesa cruciforme di Santa Comba de Bande, non lontano da Braga, dove le lineari imposte degli arconi che delimitano il quadrato d’incrocio negano lo schema compositivo dell’ordine architettonico classico, riducendosi a semplici e sottili cordoni con profondi intagli obliqui, disposti in senso alternato, qui le imposte si traducono in alte fasce decorate che replicano, sia nella forma, sia nella disposizione, la foglia d’acanto corinzia dei capitelli contigui, come se si trattasse di risolvere la connessione con il muro tramite un pilastro addossato alla parete. Ma nel quadrato di incrocio di Montélios i pilastri sono assenti o, per meglio dire, i muri d’ambito sono articolati come dei pilastri molto larghi sulla cui facciata principale convergono, tangenzialmente, le curve discendenti delle grandi arcate e quelle delle arcatelle laterali dei trifori sottostanti. In definitiva, il pilastro si trasforma in “pilastro-parete” e le fasce delle imposte, decorate con foglie corinzie, (fig. 27) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, particolare dell’angolo di nord (fig. 28) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, partiest del quadrato di incrocio. Si osservi la fascia corinzia che funge da limposta colare della connessione della triplice arcata nord al svolgono un ruolo di mediazione nei punti di contatto delle varie membrature architettoniche presenti nel quadrato d’incrocio (figg. 27, 28). A giudicare dai numerosi pilastri e paraste che si conservano nei musei Provinciali di Merida, Badajoz (Spagna centro occidentale) e Beja (Portogallo centro meridionale), caratterizzati da una molteplicità di temi decorativi, geometrici e vegetali, che invadono, senza soluzioni di continuità, le loro superfici piane, l’architettura visigota della seconda metà del VI e del VII secolo fece ampio uso di questo elemento architettonico e strutturale per sostenere arcate di porticati o per articolare i divisori e le pareti degli interni o negli stipiti dei portali. Alcuni di questi pilastri presentano, sulla faccia esposta principale, delle colonnette scolpite a basso rilievo, i cui capitelli lambiscono i collarini che delimitano l’ornamentazione a foglia corinzia della parte superiore degli stessi pilastri. Nel caso di alcuni pilastri visigoti del VII secolo, reimpiegati nelle porte d’ingresso alla cisterna dell’Alcazabe di Mérida, i capitelli delle colonnette scolpite sulla faccia principale oltrepassano il limite dei sommoscapi delle facce contigue, percorrendo l’intera altezza del pilastro (figg. 29 e 30). La singolarità di questa ricorrente soluzione ornamentale lascia supporre che la colonna corinzia continua a vivere nel panorama artistico visigoto non più come autonomo ordine architettonico, ma solo come elemento ornamentale assorbito all’interno di un altro sostegno strutturale, senza più alcuna correlazione compositiva con l’ordine architettonico classico anche sotto il profilo della coerenza ornamentale. Nel pilastro visigoto l’invariante architettonica dell’ordine è declassata a semplice ornamentazione che può essere sviluppata facendo coesistere l’ornamento colonnetta-capitello su una delle sue facciate insieme alla foglia d’acanto della tradizione corinzia sulle altre facciate, contro ogni regola dei rapporti definiti tra base, colonna e capitello dell’ordine corinzio. Si assiste cioè ad uno sfaldamento della tradizione nel quale l’ordine architettonico viene evocato in un altro contesto strutturale ma solo in termini ornamentali, o scomposto per parti distinte e separate che possono essere riutilizzate come elementi di reimpiego, soprattutto il capitello, o se scolpiti appositamente, come fasce ornamentali inserite tra i corsi orizzontali dei paramenti di pietra disposte su uno o più livelli paralleli, in un ordine apparentemente casuale, come nel caso di Santa Maria di Quintanilla (VIIIIX secolo). E’ quindi evidente il tentativo dell’architettura visigota di fondere insieme apparati della tradizione classica con schemi strutturali e architettonici che non hanno più nulla a che vedere con questa tradizione. In definitiva, su questo specifico punto, se nel quadrato di incrocio di Bande l’eversione dell’ordine architettonico si mostra più evidente, a Montélios la dipendenza dai modelli bizantini della soluzione adottata nel quadrato di incrocio è ancora sommessamente presente. Come si è visto, le imposte corinzie collegano tra loro le grandi arcate del quadrato d’incrocio con le arcatelle laterali dei trifori, producendo un’efficace sintesi architettonica e decorativa. In questa combinazione, le due colonne libere, posizionate all’incirca lungo il prolungamento dell’arco a ferro di cavallo che conclude in pianta l’ambito spaziale dei satelliti periferici, qualificano le triplici arcate non solo come schermi filtranti, ma anche come snodi spaziali sui quali si impernia l’apparente, seppure parziale, compenetrazione tra i bracci nord, est e sud e il quadrato di incrocio. E in questo senso si simula da vicino una delle caratteristiche spaziali che solitamente è presente negli impianti centrici bizantini costruiti al tempo di Giustiniano. La torre che si eleva al di sopra dei bracci della croce è conclusa da una cupola emisferica in mattoni di laterizio su quattro pennacchi sferici con mensole o peducci di forma triangolare. Una cornice scolpita con motivi analoghi a quelli delle cornici esterne delimita l’imposta della cupola. Le quattro bifore che si aprono sugli assi principali mediani, appena al di sotto di questa cornice, illuminano l’interno del quadrato d’incrocio, diffondendo la luce fino a lambire, in dissolvenza, i trifori che schermano gli ingressi ai bracci della croce. Un’altra cornice, scolpita con gli stessi motivi di quella superiore, interrompe la piatta uniformità delle pareti di pietra squadrata, che si estende tra la chiave di volta delle grandi arcate e i peducci su cui si innestano i pennacchi sferici (fig. 31). Alcuni studiosi hanno sostenuto che il disegno degli elementi troncoconici che pendono dal vertice triangolare inferiore dei peducci, presenti dei tratti stilistici più arabi che visigoti; e ciò implicherebbe, almeno per questa parte dell’edificio, una datazione tra il X e l’XI secolo. D’altro canto, è stato osservato che la tecnica orientale delle strutture voltate in mattoni di laterizio, adottata nella costruzione della cupola che copre il quadrato d’incrocio e nella volta a botte (figg. 29, 30) - Mérida (Spagna) cisterna dell’Alcazabe. Pilastri visigoti del braccio occidentale dell’edificio, sia stata utilizzata (VII sec.) di reimpiego nella penisola iberica in una fase relativamente precoce, come dimostrerebbero i resti monumentali di Centcelles (VI secolo) e di Marialba. Per M. Gomez Moreno (1943-1947), si tratta sostanzialmente della stessa tecnica utilizzata nella costruzione delle volte, a crociera e a botte, che coprono rispettivamente il quadrato di incrocio e i bracci della chiesetta cruciforme di Santa Comba de Bande (VII secolo). All’interno, la torre di Montélios si presenta con un respiro spaziale spoglio ed essenziale che fa da contrappunto al (fig. 31) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, scorcio dal basso verso l’alto della copertura a cupola su pennacchi sferici del quadrato di incrocio. Si osservi la cornice che delimita le lunette sulle pareti d’ambito della torre in una posizione intermedia tra i pennacchi e le grandi arcate sottostanti variegato dispiegamento di linee rette e curve delle membrature architettoniche disseminate tutto intorno. Va infatti rammentato che i grandi archi che sostengono i muri della torre presentano un impianto a sesto oltrepassato di circa 1/3 del raggio; le arcate a ferro di cavallo dei trifori oltrepassano il diametro orizzontale di una misura variabile da 1/3 a circa ¼ del raggio; mentre la curva arcuata a ferro di cavallo della pianta delle absidiole satellitari oltrepassa il diametro orizzontale di poco meno di 2/3 del raggio. La luce che penetra dalle quattro bifore irradia la superficie intonacata della calotta sommitale e, nello spiovere verso il basso, interagisce con il debole lucore che a stento penetra dalle piccole feritoie situate negli emicicli absidali. Le molteplici traiettorie luminose diffuse all’interno dell’invaso dispiegano sui piani sfalsati delle triplici arcate e degli arconi che le sormontano degli sbattimenti chiaroscurali, che smuovono plasticamente i diaframmi architettonici, creando l’illusione di uno spazio più profondo all’ingresso dei corpi satellitari. Appena superato lo schermo delle triplici arcate dei tre bracci nord, est e sud, lo spazio assume una configurazione alquanto più complessa, resa percepibile dalla multiforme traiettoria di linee determinata dell’affollato dispiegamento di membrature. Se le ipotesi ricostruttive di José Vilaça e di Moura Coutinho (1932) sono attendibili, qui i corpi a pianta circolare si presentavano come dei piccoli organismi a doppio guscio, costituiti da un deambulatorio anulare, coperto da piccole volte a botte, e un nucleo centrale coperto da una cupoletta sostenuta da un giro di quattro colonne libere, posizionate ai vertici di un quadrato, nei due bracci trasversali, e da sei colonne libere ai vertici di un esagono, nel braccio dell’abside orientale (figg. 32 , 33). Va tenuto presente che un fregio con semicerchi tangenti, entro cui stanno motivi floreali simili a quelli delle altre cornici della cappella, recuperato nel corso del restauro, corre tutto intorno gli emicicli absidali in corrispondenza della linea che separa le pareti di granito dalle imposte delle volte anulari crollate. Inoltre, va rammentato che i tre nuclei satellitari si presentano allo stato attuale con le sole basi delle colonne libere che delimitavano i tre nuclei centrali, mentre tracce, vagamente intellegibili, di una volta a botte anulare si conservano in corrispondenza dell’attaccatura del braccio nord. L’esuberante curvatura dell’impianto planimetrico dei corpi satellitari nord, est e sud sembra conferire alle absidiole una pianta circolare quasi conclusa; e che questa fosse l’intenzione degli artefici lo si potrebbe arguire dal giro di colonne libere posizionate intorno ai loro nuclei centrali che replicano, in forma semplificata, la disposizione dei martyria a pianta centrale e, in scala notevolmente ridotta, quella dei grandi organismi bizantini a doppio guscio del V e del VI secolo. Se infatti seguiamo lo schema compositivo dei volumi scalati dal centro verso gli ambienti periferici, la cupoletta dei nuclei centrale delle tre absidiole doveva ergersi in posizione dominante rispetto alla volta a botte che copriva i rispettivi corridoi anulari, evidentemente impostata ad una quota più bassa (si veda la ricostruzione assonometria di José Vilaça) (fig. 3b). Ma all’esterno, la gerarchia dei volumi non è più percepibile in quanto nascosta dai timpani triangolari delle testate dei bracci della croce e dai tetti a doppio spiovente. E ciò porta a considerare che gli artefici di Montélios si trovarono nella condizione di fondere tra loro due distinte tipologie di martyria: quella ad impianto anulare e quella a croce equilatera, (fig. 32) - Cappella di San Frutuoso di Montélios, abside sud. Le quattro basi di colonne sono posizionate lungo il perimetro interno dell’originario deambulatorio anulare (fig. 33) - Cappella di San Frutuoso di Montélios. Nell’abside est sei colonne delimitavano il perimetro interno del deambolatorio anulare mostrando così una forte propensione ad innovare. L’operazione fu sicuramente facilitata dalle modeste dimensioni dell’edificio che resero anche possibile trasformare la copertura del tipo architettonico a doppio guscio in un più semplice tetto a due falde. All’interno, il risultato conseguito, specie nella complessa articolazione satellitare delle absidiole, non riesce tuttavia a raggiungere una sintesi spaziale coerente. Alla semplice stereometrica geometria del braccio occidentale e del quadrato di incrocio, si contrappone l’affollato spazio dei nuclei a pianta circolare dei bracci trasversali e orientale, separati dal quadrato centrale dalle triplici arcate. La sovrapposizione delle visuali e l’intersecazione dei volumi degli impianti centrali bizantini, sono qui declinati ad una scala così ridotta che la disseminazione di membrature architettoniche all’imbocco dei satelliti sortisce l’effetto di stemperare il respiro spaziale centrico e simmetrizzante che si voleva evocare. In questo impianto cruciforme si delineano infatti due distinte componenti percettive: quella definita dal braccio occidentale, dal quadrato di incrocio e dall’abside orientale; e quella che si coglie lungo i bracci trasversali nord e sud. Per approdare al nucleo centrale dell’abside orientale, punto focale terminale dell’asse longitudinale, bisogna seguire un percorso frammentato, filtrato dal volume cubiforme del braccio occidentale e da quello più alto, ma altrettanto cubico, del quadrato di incrocio. Si determina così una scomposizione del sistema assiale longitudinale in tre corpi quasi autonomi tra loro; e lo stesso accade lungo l’asse trasversale. Solo all’interno del quadrato di incrocio, il sistema dei corpi satellitari torna percettivamente in equilibrio, ristabilendo per così dire una prospettiva centrica a simmetria trilaterale. Come si è già accennato, i nuclei centrali delle due absidi nord e sud erano delimitati da un giro di quattro colonne libere, disposte ai vertici di un quadrato; mentre quello dell’abside orientale era circoscritto da sei colonne libere, disposte ai vertici di un esagono irregolare, come rappresentato nella pianta di Moura Coutinho ed esattamente nell’attuale disposizione delle basi delle colonne (figg. 32 e 33). Il diverso numero e la diversa disposizione delle colonne nei satelliti trasversali rispetto a quello orientale producono dei significativi scostamenti percettivi. Le quattro colonne dei due satelliti trasversali, perfettamente allineate con le due colonne libere delle corrispettive triplici arcate, determinavano una fuga prospettica convergente sull’asse centrale, scandita sul passo di tre colonne per parte. Conseguentemente, l’osservatore, situato al centro dei bracci della croce, non aveva l’immediata percezione di come si configurassero esattamente i nuclei satellitari trasversali, ma era costretto a superare lo schermo delle triplici arcate per acquisire la piena consapevolezza del loro sviluppo planimetrico anulare. Differentemente, traguardando dal quadrato di incrocio verso l’abside orientale, si coglieva una prospettiva diversamente articolata sull’asse longitudinale; e questo perché solo quattro colonne, due per parte rispetto all’asse, erano tra loro allineate, rispettivamente le due della triplice arcata di separazione, e le due dell’esagono irregolare a queste più vicine; mentre le altre quattro colonne, posizionate nei restanti vertici dell’esagono, configuravano una diversa simmetria bilaterale rispetto all’asse longitudinale: più larga quella intercettata dalla coppia di colonne sull’asse principale trasversale dell’absidiola, e più stretta quella della coppia di colonne più prossime alla parete di fondo della stessa absidiola. In definitiva, su questo versante si percepiva un’infilata di colonne in leggera sovrapposizione, che tuttavia conferiva allo spazio una più accentuata convergenza prospettica, apparentemente più profonda, in ragione del fatto che le ultime due colonne dell’esagono satellitare, nel serrare il quadro prospettico della piccola finestra aperta nel muro absidale, creavano l’illusione di una fuga più lunga. Questo gioco di proiettanti prospettiche, più larghe e più strette, sollecitava un ingannevole distorsione dei parametri spaziali reali, percepibili lungo l’asse longitudinale, rispetto a quelli delineati sull’asse trasversale, attenuando così gli effetti della simmetria trilaterale rispecchiata nei tre bracci della croce. In conclusione, nella cappella di Montélios vi è una sorta di ostentata rappresentazione di caratteristiche architettoniche e decorative derivate da modelli e consuetudini costruttive ravennati, orientali e iberico-romane che, all’esterno assumono connotati di un rigore quasi classico e, all’interno, presentano una più complessa elaborazione spaziale d’impronta costantinopolitana. I nuclei periferici di tre dei quattro bracci della croce furono concepiti come dei “tempietti” a doppio guscio, agganciati al quadrato d’incrocio con corte e compenetrate visuali prospettiche, sottolineate da un virtuosismo eccedente e ridondante, dai tratti architettonici tardo antichi frammisti a elementi premonitori di un nuovo incedere spaziale. Si può così affermare che gli artefici della cappella di Montélios si avvalsero di referenze stilistiche e tecniche costruttive di antica e più recente tradizione, prevalentemente orientali, grazie anche allo sfilacciamento della tradizione culturale tardo antica occidentale, particolarmente avvertito nella fascia atlantica della penisola iberica, che ha favorito il manifestarsi di atteggiamenti culturali oscillanti tra formule artistiche passivamente acquisite e altre espressioni artistiche stimolate da atteggiamenti culturali e politici più reattivi. Dunque, nel solco della tradizione culturale tardo antica, a Montélios si concretizzarono delle soluzioni ibridative, significativo sintomo di una visione stilistica non definita nella sua autonomia, ma in costante evoluzione. Bibliografia C. M. Aguiar, A Capella de S. Fructuoso em S. Jeronymo de Real, Braga, Porto, 1919; M. S. Monteiro, São Frutuoso uma igreja mozárabe, Braga, 1939; E. 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Questa strada venne costruita durante l’impero di Vespasiano e di suo figlio Tito, fra il 69 e l’81 d.C., per favorire gli scambi commerciali con l’entroterra della Galleacia. Al tempo dell’imperatore Diocleziano (fine del III secolo d.C.), Antonino Caracalla descrisse la principale rete stradale romana nella penisola iberica, indicando anche i nomi delle principali città e degli edifici più importanti, allora esistenti, interessati dai singoli tracciati stradali e le distanze intercorrenti tra essi. In questo itinerario la Gallaecia era attraversato da quattro arterie stradali: la n° XVII, che univa Braga alla città di Astorga attraverso Chaves (Aquae Flaviae) e Braganza; la n° XVIII, detta appunto la “Via (fig. 1) - Santa Comba de Bande, Orense (Spagna), vista da nord (fig. 2) - Santa Comba de Bande, Orense (Spagna), vista ovest da est Nova”, menzionata con l’appellativo di “Iter alio Itinere a Bracara Austuricam”; la n° XIX che univa Braga alla stessa città di Astorga, seguendo però un percorso alternativo più interno che toccava le località di Tuy, Ira Flavia e Lugor; e la n° XX che univa Braga con La Coruña (Brigantium), attraverso la località di Caldas de Reis (Aquis Celenis), più vicino alla costa atlantica, per confluire, subito dopo Astorga, nella strada romana n° XIX. Il sistema compositivo dell’impianto cruciforme del piccolo edificio monastico di Santa Comba di Bande, sicuramente derivato dai martyria tardo antichi e bizantini, di stessa tipologia, risponde all’idea dello spazio compartimentato; segue cioè una modalità aggregativa degli ambienti e dei volumi esterni all’un tempo separati e accentrati che connota anche altri edifici religiosi della penisola iberica, costruiti nel VII secolo dai visigoti, ma con caratteristiche tipologiche totalmente diverse, come ad esempio quello di Santa Lucia del Trampal del VII secolo (Alcuéscar provincia Càceres), dove la strozzatura a collo di bottiglia che divide le navate dalla testata orientale si pone contemporaneamente come punto di separazione e di congiunzione fra l’area riservata ai fedeli, nel corpo occidentale, e quella riservata ai chierici e ai presbiteri della comunità dei monaci, nel corpo orientale. Nell’impianto cruciforme di Santa Comba di Bande il quadrato di incrocio svolge così la duplice funzione di unire gli ambienti allineati sull’asse longitudinale (i bracci occidentale e orientale e l’abside orientale), e di separarli attraverso l’inserimento di transenne e velari. Uno stesso modulo aggregativo caratterizzava pure i due bracci trasversali, intorno ai quali furono aggiunti nel corso del tempo degli ambienti monocellulari destinati a specifiche funzioni monastiche. Si tratta in definitiva di un sistema aggregativo che rende, se possibile, ancor più evidente la parcellizzazione dello spazio interno e il processo d’ibridazione dello schema cruciforme posto in essere dalla piccola comunità di monaci insediatisi nel villaggio di Baños de Bande nella seconda metà del VII secolo. Non bisogna infatti dimenticare che, sul finire del VII secolo, tante piccole comunità di monaci raggiunsero i recessi montuosi e le valli più nascoste dei territori sottoposti al dominio dei visigoti, favorendo la diffusione di questo modo di concepire e articolare lo spazio architettonico, il quale mantenne i suoi fondamentali paradigmi strutturali e architettonici anche nei due secoli successivi, principalmente nelle Asturie, per poi tornare ad affermarsi nei territori dell’area centro settentrionale della penisola iberica progressivamente sottratti alla dominazione dei Mori, ma in questo caso arricchiti da attributi derivati dai repertori architettonici e decorativi omayadi andalusi (figg. 1, 2, 3, 4). Santa Comba de Bande è stata attentamente studiata dagli archeologi spagnoli. Nel 1932 l’architetto Alejandro Ferrán diresse dei significativi interventi di restauro, nel corso dei quali furono rimossi dei consistenti strati di depositi, accumulatisi per circa 50 cm di spessore all’interno della chiesa e per oltre un metro all’esterno. All’esterno, la rimozione del terreno superficiale portò allo scoperto le tracce di cinque piccoli ambienti quadrati, quattro dei quali addossati, due per parte, sui fianchi del braccio occidentale della croce e del portico anteposto alla facciata, e uno sul fianco sud del coro. Tutti questi corpi di fabbrica, unitamente all’ambiente preesistente all’attuale sagrestia, addossato sul fianco nord dello stesso coro, formano un grande rettangolo di 16,0 m. di lunghezza per 12,0 m. di larghezza, entro cui si inscrive l’impianto cruciforme, con l’esclusione del corpo dell’abside, che sporge da questo perimetro sul versante orientale. Nel suo insieme, il rettangolo era suddiviso in dodici comparti di pianta sostanzialmente quadrata: cinque dei quali formano i quattro bracci della croce e il nucleo centrale, e gli altri sette una costellazione di spazi ausiliari distribuiti tutt’intorno la croce. Il corpo dell’abside presenta una pianta decisamente rettangolare, con il lato corto più stretto della maglia quadrata entro cui sono inscritti gli altri ambienti. Le fotografie della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento mostrano un ambiente sovrapposto al vano rettangolare dell’abside, a quel tempo accessibile unicamente dalla piccola finestra centinata che ora sormonta l’arco d’ingresso alla stessa abside, ambiente rimosso nel corso del restauro evidentemente perché giudicato estraneo all’originario impianto della chiesa. La sua demolizione comportò una sensibile riduzione dell’altezza dei muri del corpo orientale e un conseguente abbassamento della linea di colmo del tetto a due falde che attualmente collima con la quota della soglia della finestra centinata sovrapposta all’arco che delimita l’ingresso dell’abside (fig. 4). Gómez Moreno, che aveva seguito gli scavi superficiali effettuati all’interno e all’esterno dell’edificio, ne pubblicò gli esiti nel 1943-1944. Da questo momento la pianta della chiesa, in precedenza ritenuta una croce libera (Lampérez, 1908), fu inclusa dalla maggioranza degli studiosi tra le chiese a croce inscritta e così venne rappresentata da Schlunk e Hauschild (1978). In altre parole, l’impianto cruciforme dell’edificio, allungato sull’asse longitudinale dal portico di ingresso ad ovest e dall’abside a est, e contornato da sei ambienti collaterali, venne interpretato dalla critica contemporanea come l’anello di congiunzione tra la cappella di San Fruttuoso di Montélios (Braga), di impianto rigorosamente cruciforme ed equilatero, e la chiesa monastica di San Pedro de la Nave, quest’ultima (fig.3) - Santa Comba de Bande, Orense (Spagna), vista da nord est punto di arrivo del processo di fusione tra lo schema cruciforme e quello basilicale. Successivamente, Caballero Zoreda (1980) ritenne di individuare nel palinsesto architettonico di Bande una fase visigota (VII secolo) circoscritta ai bracci nord, est e sud della croce, compresi gli angoli del quadrato di incrocio, e una fase “asturiana” (IX secolo) comprendente l’abside a terminazione piatta, il portico d’ingresso sul lato ovest e i sei ambienti disposti ai lati della croce. Per Caballero Zoreda rientravano in questa seconda fase anche gli elementi decorativi della chiesa e in particolare due dei quattro capitelli facenti parte dell’arco di accesso all’abside, da lui appunto definiti “asturiani”. L’edificio originario tornò pertanto ad essere considerato tra gli impianti a croce libera. Nel 2004, Caballero Zoreda, insieme ad Arce e Utrero, riconsiderarono la prima ipotesi costruttiva e cronologica formulata dallo stesso Caballero nel 1980, includendo questa volta nell’impianto a croce libera dell’e(fig. 4) - Santa Comba de Bande, Orense (Spagna), vista da est sud est dificio originario anche l’abside e il portico, spostando però la data di costruzione dell’intera struttura cruciforme al IX secolo. Le ipotesi sulla tradizionale datazione dell’edificio al VII secolo si basano principalmente su una fonte storica tarda e su considerazioni di carattere stilistico e prove indiziarie che solo in parte convergono tra loro. La fonte storica presa in considerazione da tutti gli studiosi è il Cartulario de Celenova, redatto nella prima metà del XVII secolo e pubblicato per la prima volta da López Ferreiro nel 1898. In uno dei documenti trascritti nel Cartulario, risalente al 982, si riferisce che nell’anno 872, Alfonso III (866-910) incaricò suo fratello, il nobile Odoario, di ripopolare la regione di Chaves e che quest’ultimo, nel donare a suo cugino e diacono Odoíno (o Odoyno) i versanti vallivi del fiume Limia, comprendente la contrada di Bande, gli impose di provvedere al ripopolamento di quel territorio e al restauro della “chiesa molto antica di Santa Comba Vergine e Martire” e della chiesa di Santa María, supponendo che queste due chiese fossero state abbandonate 200 anni prima (nel testo originale: “iacebant in exqualido de ducentis annis aut plus”). Dunque, attenendoci a quanto riferito nel documento, le due chiese sopra indicate sarebbero state abbandonate intorno al 672; e ciò implica che la loro costruzione risalirebbe almeno a qualche tempo prima. Nello stesso documento di Celanova si riferisce anche di un restauro di Santa Comba de Bande avvenuto presumibilmente nell’872. Il Cartulario lascia chiaramente intendere che Alfonso III si preoccupò di accompagnare il processo di ripopolamento dei territori sottratti al dominio musulmano con interventi restaurativi di queste come di altre chiese citate nel testo, avendo probabilmente l’obiettivo di ristabilire i legami identitari, sociali e religiosi fondati e radicatisi nelle contrade abbandonate nel corso del precedente regno visigoto e a tutto vantaggio della coesione politica del nuovo regno. Sul Cartulario di Celanova, studiosi come H. Schlunk (1947), Camps Cazorla (1963 [1935]), Gòmez Moreno (1966) e Hauschild (1978) fondarono le proprie argomentazioni per sostenere l’appartenenza della chiesa di Santa Comba de Bande al periodo visigoto (VII secolo). Questi studiosi riconobbero nel paramento di pietra sbozzata, nella pianta cruciforme attorniata da ambienti, nella copertura voltata completa, nella decorazione scultorea e nell’arco a ferro di cavallo all’entrata dell’abside dei sicuri riferimenti strutturali, architettonici e decorativi di quella fase storica, ulteriormente supportati da proposte comparative con alcune caratteristiche architettoniche della vicina cappella di San Fruttuoso di Montélios (seconda metà del VII secolo). Puig I Cadafalch (1961), Camòn Aznar (1963) e Ferreira (1986) invece, contestarono l’attendibilità cronologica del documento di Celanova e ipotizzarono per la chiesa di Bande un diverso quadro di riferimento storico architettonico, spostandone la data di costruzione alla seconda metà del IX o all’inizio del X secolo: Puig, basandosi su una diversa lettura interpretativa dello stesso documento di Celanova; Camòn, incentrando le sue argomentazioni sugli aspetti decorativi della chiesa; e Ferriera proponendo dei riferimenti comparativi con Montélios e la chiesa di Lourosa (inizio X secolo), situata nelle vicinanze di Oliveira do Hospital (Portogallo). Altri studiosi, con l’intento di confermare la fondatezza cronologica indicata nel Cartulario, proposero delle nuove ipotesi sulle fasi trasformative dell’edificio, basate essenzialmente su argomentazioni di carattere tipologico. Per Sales (1900) l’abside venne aggiunta in occasione del restauro eseguito intorno all’872. Palol (1968; 1991) ritenne possibile, anche se in termini dubitativi, che i muri, le volte in laterizio e le cornici scolpite delle imposte, da lui giudicate mozarabiche, furono integralmente ricostruiti nello stesso restauro dell’872. Su posizioni analoghe si attestano gli studi condotti da Núñez (1978) e da J. Fontaine (1978), che riconoscevano nella coppia di capitelli che guarda verso ovest un’indubbia fattura tardo antica; mentre ritenevano che l’altra coppia di capitelli che guarda verso l’interno dell’abside, caratterizzata da uno schematico intaglio delle foglie d’acanto, presentasse delle strette affinità stilistiche con i capitelli del successivo periodo asturiano (inizio IX secolo). Caballero (1980; 1991) e K. Kingsley (1980), con differenti argomenti, indicarono nel restauro dell’872 l’occasione in cui venne sostituita una supposta preesistente abside visigota con quella attuale. Le dispute sulle origini della chiesa di Santa Comba di Bande, argomentate con riferimenti diretti e indiretti al documento di Celanova, di fatto non hanno consentito di raggiungere alcuna certezza circa la sua presunta data di costruzione. Alcuni storici hanno ad esempio sostenuto che nel documento, il riferimento ai duecento anni trascorsi dall’abbandono della chiesa vada interpretato come una generica allusione al tempo trascorso dall’invasione musulmana, piuttosto che all’effettiva data di costruzione della chiesa; e questo per offrire argomenti di sostegno all’ipotesi che l’edificio possa risalire ad un qualunque momento compreso tra la conquista visigota del regno Suevo della Galizia (585) e la fine del VI secolo. Per altri specialisti del settore, i mattoni di laterizio delle volte della chiesa risalirebbero addirittura all’epoca romana. Più recentemente, L. Caballero, F. Arce e M. Á. Utrero (2003), hanno sottoposto ad un attento vaglio critico il documento di Celanova, in correlazione sia a quanto sostenuto dalla storiografia precedente, sia avvalendosi dei risultati conseguiti dalle analisi archeologiche e di termoluminescenza eseguite sull’edificio. Per questi studiosi la ricostruzione della storia della chiesa di Bande non può essere basata su un documento scritto di cui non è mai stata indagata la genesi, né valutate le modalità di trasmissione dei contenuti del testo nel corso del tempo. A loro parere il Cartulario venne scritto fondamentalmente per accreditare, in tarda fase (prima metà del XVII secolo), i trascorsi storici del monastero di San Miguel de Celanova (cittadina situata ad una trentina di chilometri a nord ovest della chiesa di Bande). Per questi studiosi si tratterebbe quindi di un testo nel quale vennero raccolte varie fonti documentarie, manipolate e interpolate nei secoli precedenti probabilmente per dirimere le rivendicazioni di proprietà dei vari possedimenti ereditati a vario titolo dal monastero di Celanova. Non meno pertinente è l’osservazione di M. Á. Utrero (2009) sugli argomenti trattati dalla storiografia tradizionale in relazione al documento di Celanova, che a suo parere hanno totalmente trascurato la seconda chiesa citata nel testo, dedicata a Santa María; mentre la chiesa di Santa Comba è stata acriticamente identificata con l’attuale chiesa cruciforme di Bande, evitando qualsivoglia approfondimento. Per questa studiosa si è solo considerato che la “Santa Comba Vergine e Martire”, citata nel testo, fosse da identificare con la martire iberico romana decapitata a Sens, in Francia, nel 273, piuttosto che con l’omonima santa mozarabica uccisa a Cordova nell’853. Il che equivarrebbe a spostare in avanti di circa due secoli e mezzo la data di costruzione dell’edificio. Per Caballero, Arce e M. Á. Utrero (2003), la storiografia tradizionale ha di fatto portato in evidenza un solo e fondamentale quesito: se cioè l’attuale chiesa di Bande debba ritenersi un unico organismo originale o se invece sia il risultato di un processo di trasformazione che ha fuso insieme due distinti edifici altomedievali, il primo visigoto e il secondo mozarabico. Per rispondere a questo fondamentale interrogativo, in occasione dell’ultimo restauro delle coperture dell’edificio, è stato eseguito il rilievo fotogrammetrico di tutte le superfici murarie, sulla base del quale è stata effettuata, con scientifica sistematicità, l’analisi archeologica-stratigrafica degli alzati e dell’apparato fondale. I dati raccolti, anche avvalendosi dei risultati acquisiti nel corso della campagna di scavo diretta da Gómez Moreno (1942-1943), hanno portato i tre ricercatori ad escludere l’ipotesi che ci si trovi di fronte ad un duplice organismo, avendo essi stessi accertato che l’abside e il braccio orientale della croce sono tra loro coevi, come dimostrano l’omogeneità dell’apparecchio murario, l’assenza di giunti di accoppiamento e le connessioni dei sodi murari, costituiti da doppi blocchi di pietra. Inoltre, non sono state rilevate discontinuità strutturali tra i muri perimetrali della croce e le volte di laterizio; mentre le prospezioni archeologiche effettuate nell’abside hanno portato allo scoperto delle tracce dell’originario pavimento in coccio pesto (opus signinum) e l’impronta dell’altare. Per i tre ricercatori, anche le fondazioni del portico d’ingresso fanno parte dell’originario organismo architettonico; ad eccezione dei suoi muri di elevazione, i quali, pur impostati sul primitivo impianto fondale, furono sicuramente ricostruiti in un secondo momento. Quindi, per i tre ricercatori, la fabbrica originale (prima fase) si conserva in gran parte “dalle fondazioni alle volte e dall’abside al portico d’ ingresso”. Dalle indagini stratigrafiche è tuttavia emerso che in momenti successivi furono ricostruite diverse parti del paramento murario esterno dell’edificio, in particolare alcuni dei tratti più bassi dei muri dei bracci occidentale e orientale e le loro falde di copertura e alcuni tratti delle zone murarie più alte, quest’ultimi per far fronte a probabili crolli causati dalla spinta delle volte. L’approfondito studio stratigrafico dei paramenti e dei sodi murari ha consentito ai tre ricercatori di individuare, oltre alla prima fase, ulteriori sei fasi costruttive e ricostruttive, riguardanti la struttura cruciforme e i sei ambienti addossati ai suoi lati. Nella seconda fase (“epoca altomedievale”), fu ricostruita la testata del braccio nord, nel corso della quale si diede luogo alla costruzione dell’ambiente contiguo anteriore e al rifacimento delle connessioni strutturali con il fianco ovest dello stesso braccio. Risalgono alla seconda fase anche gli altri ambienti addossati ai lati della croce e una prima ricostruzione del portico. Nella terza e quarta fase (“epoca medievale”), venne ricostruito il paramento esterno del braccio ovest della croce. L’assenza di immorsature tra la parete sud di questo braccio e i muri dell’ambiente limitrofo anteriore ha infatti indotto i tre ricercatori ad ipotizzare che tale paramento sia stato ricostruito in un momento successivo alla seconda fase, entro cui si colloca la costruzione dell’ambiente in argomento. Per i tre ricercatori, va anche ricondotto in questo stesso intervallo temporale, il rifacimento del braccio nord; e ciò porterebbe a considerare possibile un secondo crollo che dovette coinvolgere la chiesa e gli ambienti laterali. Inoltre, in occasione della seconda ricostruzione, venne inserito un soppalco nel braccio nord e conseguentemente venne chiusa la porta intercomunicante con l’attiguo ambiente anteriore. Alla fine della quarta fase medievale risale invece la sopraelevazione del pavimento e dei muri perimetrali del “coro” e le attuali pitture parietali all’interno dell’abside. Nella quinta fase (“epoca moderna”) si costruirono: l’attuale “sagrestia”, sul lato nord est della croce, la cui area di sedíme era occupata dall’ambiente qui addossato in epoca altomedievale (seconda fase); e una cappella funeraria sul lato sud ovest della chiesa, come recita un’iscrizione del XVII secolo, conservata in loco, e nella stessa posizione dell’ambiente altomedievale precedentemente demolito. Nella sesta fase si costruirono il campanile a vela (XIX secolo), situato alla sommità del portico d’ingresso, e il basso contrafforte in pietra addossato alla parete nord del braccio occidentale della croce, in corrispondenza della congiunzione con l’attigua parete del portico. Nella settima fase (inizi del XX secolo) fu demolita la cappella funeraria del XVII secolo, addossata ai lati sud e ovest della croce (figg. 5, 6). In conclusione, per i tre studiosi, le varie ricostruzioni hanno interessato le pareti esterne dei muri della chiesa , ma non quelle interne; e ciò ha consentito di salvaguardare le volte di copertura. Inoltre, le imposte delle volte, il fregio che corre orizzontalmente lungo i muri dell’abside e i due capitelli dell’arco rivolti verso l’abside furono appositamente scolpiti nello stesso momento. Pertanto, tutti questi elementi fanno parte dell’edificio originario, ad esclusione dei due capitelli che guardano verso ovest, ritenuti di epoca romana, dunque pezzi di reimpiego inseriti nella compagine dell’arco che inquadra l’accesso all’abside nel corso della prima fase costruttiva (figg. 7, 8). I tre ricercatori hanno inoltre osservato che l’accesso all’abside era originariamente sbarrato da una transenna e che un’altra transenna e un velario, discendente dall’alto, schermavano l’arco del quadrato d’incrocio che introduce nel braccio orientale della croce, conformemente alla liturgia del tempo. In ultimo, i dati acquisiti dalle analisi di termoluminescenza fatte seguire dai tre ricercatori sui mattoni di laterizio delle volte dell’edificio daterebbero l’intera struttura “alla seconda metà dell’VIII secolo”, intervallo temporale, questo, che si allontana dalla tradizionale datazione della chiesa al VII secolo visigoto, né corrisponde alla cronologia riconducibile alla fase di ripopolamento (IX, inizio X secolo), come viceversa ha controbattuto una parte della critica storiografica. I tre ricercatori, basando il proprio convincimento sulla convergenza dei dati raccolti, mostrano così di credere che i manifesti influssi orientali, a loro dire trasmessi alla chiesa di Bande dalla cultura omayade della penisola iberica, spostano la data di costruzione di questo edificio più verso l’architettura asturiana del IX secolo. In conclusione, se la particolareggiata analisi archeologica degli alzati della chiesa di Bande ha consentito di accertare che le strutture murarie dell’edificio sono costituite da una parete esterna e una interna di grandi blocchi di pietra, tuttavia tale analisi non chiarisce se e con quali modalità le due pareti sono interconnesse tra loro. L’accertamento dell’eventuale presenza di interconnessioni muraria è in questo caso fondamentale per valutare se i numerosi crolli e rifacimenti, individuati e minuziosamente elencati dai tre ricercatori, abbiano potuto interessare solo ed unicamente le (fig. 5) - Santa Comba de Bande, in primo piano il portico di ingresso ricostruito in epoca medievale (fig. 6) - Santa Comba de Bande, interno del portico di ingresso, lato sud. (fig. 7) - Santa Comba de Bande, particolare della monofora sul lato sud della torre lanterna (fig. 8) - Santa Comba de Bande, schemi grafici della pianta, degli alzati e delle rstituzioni assonometriche pareti esterne, preservando così l’integrità delle volte in laterizio che ricoprono i bracci della croce e la torre lanterna. Come si vedrà più avanti, almeno la volta a botte del braccio sud della chiesa è stata sicuramente ricostruita in età tardo medievale. Ciò lascia presumere che nel crollo venne coinvolta anche la compagine muraria interna del braccio meridionale della chiesa di Bande, evidentemente interconnessa con un qualche marchingegno alla parete esterna. A tale proposito va rammentato che nella chiesa visigota di San Pedro della Nave (fine del VII secolo), situata in provincia di Zamora (Spagna centro-settentrionale), un certo numero di blocchi di pietra dei due paramenti murari è interconnesso con grappe di legno (o biette), conformate a coda di rondine, proprio per garantire un maggiore grado di resistenza della compagine muraria alle sollecitazioni statiche e dinamiche. Questo sistema di ancoraggio richiama quello che venne ad esempio utilizzato nel tempio di Baal di Palmira, in Siria, del I secolo d.C., dove colate di piombo o, in alternativa, grappe di ferro connettono tra loro i blocchi squadrati di pietra calcarea delle murature. Questa tecnologia era del resto applicata in tutto il mondo romano occidentale e orientale e la si ritrova anche negli edifici lusitani in pietra del VI e VII secolo. Sostenere quindi che nella chiesa di Bande i crolli hanno interessato unicamente il paramento murario esterno, senza fornire alcuna informazione sulle possibili modalità interconnettive eventualmente presenti tra un blocco di pietra e l’altro e tra i due paramenti dell’esterno e dell’interno, lascia notevolmente perplessi; soprattutto se consideriamo la frequente reiterazione dei crolli così come sequenziati dai tre ricercatori nel corso del tempo. Utile per l’indagine sarebbe stato sovrapporre i rilievi fotogrammetrici delle pareti esterne della chiesa con quelli delle corrispondenti pareti interne, in modo da individuare una qualche relazione geometrica e strutturale tra i filari dei blocchi di pietra esterni e quelli interni ed anche per verificare l’eventuale presenza di blocchi di pietra aventi una funzione di cucitura dell’intero spessore murario. Dall’analisi di questi specifici elementi si sarebbe potuto stabilire, con un maggiore conforto scientifico, se i crolli abbiano effettivamente interessato il solo paramento esterno, e quindi argomentare, se del caso, una diversa fenomenologia e cronologia degli eventi registrati. Nel 2009, M. Á. Utrero, la stessa studiosa che ha seguito, insieme a L. Caballero e F. Arce, la campagna archeologica nel complesso di Bande, ha pubblicato un saggio sulle chiese cruciformi del VII secolo nella penisola iberica, nel quale conferma che la stratigrafia archeologica degli alzati di Bande dimostra che l’attuale struttura cruciforme è il risultato di almeno due fasi: nella prima venne costruito l’edificio a croce libera con un’abside rettangolare e poco dopo venne aggiunto l’ambiente nell’angolo nord est; mentre i restanti cinque ambienti addossati alla croce furono aggiunti in un momento successivo (seconda fase). Differentemente dalla chiesa, coperta fin dall’origine con volte, tutti e sei gli ambienti collaterali furono coperti con un tetto in legno. Pertanto, la chiesa primitiva corrisponde esattamente all’impianto attuale, eccezion fatta per la sagrestia nell’angolo di nord est, opera di “epoca moderna”. Nel saggio della Utrero sono anche riportati i risultati delle analisi di termoluminescenza concernenti i mattoni di laterizio delle volte della chiesa di Bande, che chiariscono meglio le fasi cronologiche dell’intero sistema voltato. Tali risultati attestano: un intervallo temporale compreso tra il 570 e il 778 per i mattoni di laterizio della volta a botte dell’abside; un intervallo temporale compreso tra il 560 e l’808 per quelli della volta a botte che copre il braccio orientale, prossimo all’abside; un intervallo temporale compreso tra il 559 e il 799 per quelli della volta del braccio nord; un intervallo temporale compreso tra il 1310 e il 1424 per quelli della volta del braccio sud; e, in fine, un intervallo temporale compreso tra il 582 e l’804 per i mattoni di laterizio della volta a crociera del quadrato di incrocio. Poiché la datazione degli elementi decorativi della chiesa è correlata ai dati forniti dall’analisi della termoluminescenza, compresa quella inerente i due capitelli corinzi definiti di “tipologia asturiana”, la data di costruzione dell’edificio dovrà ora arretrarsi al VII secolo, escludendo definitivamente la datazione al IX secolo, come invece avevano sostenuto Caballero, Arce e Utrero nel 2004. Per meglio chiarire il fondamentale aspetto della cronologia dell’edificio è opportuno valutare, in termini rigorosamente matematici, i dati forniti dall’analisi della termoluminescenza. Se calcoliamo la media mediata complessiva degli intervalli temporali sopra riportati si ottiene una datazione corrispondente all’anno 682 circa. Ma per valutare il il grado di dispersione degli intervalli temporali registrati dall’analisi della termoluminescenza vanno confrontati gli scarti quadratici medi delle due serie delle datazioni, le più antiche e le posteriori, attinenti i singoli intervalli temporali rispetto alla loro media. Questa verifica indica che la serie delle datazioni seriori è molto più stabile di quella delle datazioni posteriori; ciò significa che la prima serie è più convergente, meno oscillante e conseguentemente più attendibile dell’altra. In definitiva, il valore medio della datazione ottenuto dalla serie seriore è meno volatile rispetto all’altro e dunque corrobora, in buona sostanza, le ipotesi cronologiche avanzate dalla storiografia tradizionale che circoscrivono alla seconda metà inoltrata del VII secolo la data di costruzione dell’impianto a croce libera della chiesa di Bande. La datazione dei mattoni di laterizi della volta a botte del braccio meridionale della croce si discosta nettamente da tutti gli altri: il valore medio determinato dall’intervallo temporale stabilito dalla termoluminescenza corrispondente infatti all’anno 1367. Ciò può solo significare che furono utilizzate dei mattoni di laterizio fabbricati nel tardo medioevo per ricostruire questa volta. Va perciò segnalato che la sua fase ricostruttiva non è stata in alcun modo rilevata dall’analisi stratigrafica effettuata dai tre ricercatori nel 2003-2004 e che tale mancanza attenua notevolmente la pretesa di chi vuole eleggere l’analisi dell’archeologia dell’architettura a disciplina storicamente esaustiva e dirimente le ipotesi interpretative basate sulla documentazione scritta e sulla comparazione stilistica. Questa disciplina va assunta come una componenti tra le varie linee di ricerca, senza rivendicare alcun primato scientifico rispetto alle altre discipline storiche, dovendo mantenere, per quanto possibile, un profilo più integrato e intersecato con gli altri profili interpretativi. Questo atteggiamento è proprio quello assunto da M. Á. Utrero (2009) quando ha riconosciuto che i dati raccolti attraverso l’analisi della termoluminescenza confermano la tradizionale datazione visigota della chiesa di Bande. Inoltre, per questa studiosa, le indagini archeologiche degli alzati del complesso di Bande dimostrano anche che nessuno degli ambienti associati all’impianto cruciforme appartiene alla costruzione originaria e che pertanto l’insieme della struttura cruciforme e dei sei ambienti collaterali non può costituire un precedente da collegare, sotto il profilo omologico, allo schema di (fig. 9) - Santa Comba de Bande, rilievo planimetrico quotato dell’impianto (fig. 10) - Santa Comba de Bande, testata del braccio meridionale della croce San Pedro de La Nave, cancellando di fatto il processo evolutivo tracciato dalla storiografia tradizionale che vedeva in questo rapporto la genesi e il punto di approdo della fusione dell’impianto cruciforme con quello basilicale nella penisola iberica. La distanza tipologica che intercorre tra i due edifici, sottolinea questa studiosa, si misura anche per la presenza nel San Pedro de La Nave di resti archeologici di un presunto “spazio occidentale” e quelli di un probabile battistero situato nel versante nord-est dell’edificio (Caballero e altri,1997), strutture assenti a Montélios, a Bande e negli altri edifici portati come esempi comparativi dalla storiografia tradizionale tra i quali va citata per le sue evidenti divergenze formali e strutturali la chiesa di Santa Croce di Nona (Istria), proposta da Gòmez Moreno (1906). Si tratta di un edificio cruciforme datato al IX secolo e oltre, le cui caratteristiche architettoniche si allontanano decisamente dai modelli presi a riferimento dagli altri studiosi (archi ciechi in facciata, crociera coperta da una cupola su trombe e i bracci da “quarti” di sfera sopralzati, uno dei quali corrisponde all’abside maggiore, fiancheggiata da due absidi minori). Come abbiamo visto, le presunte caratteristiche asturiane dei due capitelli corinzi e del motivo a “torciglione” delle mensole di appoggio dell’arco hanno alimentato, in alcuni esponenti della critica storiografica, la convinzione che tra le fasi trasformative dell’impianto di Bande andava anche annoverata la ricostruzione dell’abside nell’ IX secolo. Questa fallace convinzione comporta una revisione critica dell’intero ragionamento impostato sulle affinità stilistiche dei due capitelli. La prospettiva di parentela che li voleva avvicinare all’architettura asturiana va infatti diametralmente rovesciata, considerando ora i due capitelli di Bande come espressioni anticipatrici dei modelli asturiani e dunque veicoli di formazione di una particolare tradizione stilistica, rielaborata e definita nel IX secolo nella Spagna settentrionale. Il che dimostra ancor meglio quanto le maestranze visigote fossero propense a ricercare soluzioni architettoniche capaci di esprimere delle nuove soluzioni spaziali e decorative, assorbendo e rielaborando, con sorprendente capacità propositiva, i modelli artistici ereditati dal recente passato. In ultimo, nulla di storicamente e archeologicamente documentato indica quale possa essere l’epoca di costruzione della cella sovrapposta all’abside; si dovrà solo prendere atto che questo corpo, forse realizzato proprio in occasione dei rifacimenti eseguiti nell’872, venne giudicato, nel 1932, parte estranea all’impianto originario della croce e quindi rimosso (fig. 8). Allo stato attuale, del complesso conventuale si conservano: la chiesa, il portico di ingresso e la sagrestia addossata alla parete orientale del braccio nord del transetto. All’esterno, l’aspetto cruciforme dell’edificio appare quindi molto più evidente di quanto non lo fosse in precedenza (figg. 1,2,3). Se si esclude il portico di ingresso e l’abside, la croce greca della chiesa si inscrive in un quadrato di 12 m. di lato; mentre, se si aggiunge il portico e l’abside, l’asse longitudinale della croce raggiunge complessivamente i 19 m. di lunghezza (fig. 9). I muri sono costituiti da grandi blocchi di granito di colore grigio malva, squadrati in modo irregolare e apparecchiati a giunti sfalsati, quasi privi di malta di allettamento. All’interno, il forte spessore della muratura dei bracci della croce (circa 90 cm.), riduce la larghezza degli ambienti, che in pianta assumono così un’impronta moderatamente rettangolare, specie quelli disposti sull’asse longitudinale. Il nucleo centrale della croce mantiene invece un impianto quadrato (4 m. di lato). Il trattamento rustico delle pareti esterne, per altro prive di elementi decorativi, è messo ancor più in evidenza dall’andamento frastagliato delle ghiere di alcune finestre, dove si alternano conci di pietra a grandi mattoni di laterizio disposti di taglio (figg. 7,10). All’interno dell’edificio, il paramento di pietra appare relativamente più curato. I quattro archi a ferro di cavallo, che delimitano il quadrato d’incrocio e che oltrepassano di ¼ del raggio il diametro orizzontale, sono connessi ai muri d’ambito con grande maestria e in modo tale che i conci delle ghiere, sbozzati e accoppiati con precisione, confluiscono sulle pareti in perfetta continuità con la trama dei muri. I punti d’insorgenza delle ghiere sono segnalati da sottili segmenti di (fig. 11) - Santa Comba de Bande, il braccio nord dal quadrato di incrocio (fig. 12)- Santa Comba de Bande, angolo di nord est del quadrato di incrocio (fig. 13) - Santa Comba de Bande, vista del quadrato di incrocio e del braccio ovest. La lunetta su questo lato della torre lanterna è priva di finestra. Si osservi la cornice toroidale con intagli obliqui alternati che delimita i pennacchi della volta a crociera cornice in pietra che risvoltano sui quattro angoli del quadrato di incrocio. Il profilo toroidale di queste cornici è arricchiti da profondi intagli obliqui che a tratti alterni cambiano verso di inclinazione. Le quattro arcate, così orchestrate, conferiscono al quadrato d’incrocio una solida ed armonica semplicità, perfettamente intonata all’ascetica austerità monastica del luogo. Qui, infatti, gli elementi decorativi sono ridotti all’essenziale rispetto alla più esuberante decorazione delle fasce decorate con foglie corinzie che mediano i punti di contatto dei trifori, sormontati da arconi, del San Fruttuoso di Montélios (seconda metà del VII secolo). Inoltre, l’intaglio delle cordonature, dal profilo obliquo alternato, si allontana decisamente dal modello canonico del cordone classico, pure presente, con altra combinazione, nelle cornici esterne della cappella di Montélios. Sembra cioè di assistere ad una sorta di mutazione che, nello smembrare gli elementi del lessico architettonico classico, riutilizza una delle sue parti smembrate, la cornice, tramutando la formula canonica del cordone con intagli obliqui continui del repertorio tardo antico, occidentale e bizantino, in intagli obliqui alternati, manifestando così un diverso orientamento della plastica ornamentale visigota (figg. 11, 12 ,13). La torre lanterna, coperta da una volta a crociera di mattoni di laterizio, si eleva al di sopra dei tetti dei bracci della croce di una misura sufficiente a dare spazio alle tre piccole finestre centinate che garantiscono l’illuminazione dell’interno (il lato della torre che si affaccia sul braccio occidentale ne è sprovvisto). Una cornice, identica a quella che delimita le imposte delle sottostanti arcate, corre orizzontalmente tutt’intorno le pareti, alla stessa altezza della soglia delle finestre e dei punti angolari che segnano l’insorgere delle unghie della volta a crociera. Gli intagli obliqui di queste cornici, ad inclinazione alternativamente invertita, animano il rude paramento di pietra circostante di sottili vibrazioni chiaro-scurali, costantemente mutevoli. Ognuna delle quattro pareti della torre è delimitata, verso il basso, dalla curva estradossale delle arcate del quadrato d’incrocio e, verso l’alto, dall’unghia delle volta a crociera sottesa dalla cornice a “torciglione”. Ogni unghia è costituita da mattoni disposti di taglio, allineati in righe perpendicolari ai rispettivi muri d’ambito. In prossimità delle diagonali, le righe di mattoni si incontrano ortogonalmente, determinando un motivo a spina pesce che frammenta la linearità delle spigolature in tanti piccoli segmenti aventi un andamento zigzagante. Nel suo insieme, la superficie intradossale della volta a crociera appare come disarticolata in una molteplicità di linee, il cui incerto parallelismo, dovuto alla difficoltà di assemblare dei mattoni di fattura molto irregolare (in media: 47 cm. di lunghezza per 39 cm. di larghezza e 7 cm. di spessore), si unisce allo scomposto vagare delle due linee diagonali. L’approssimativa disposizione dei mattoni di laterizio che affiora dalla superficie concava delle unghie contrasta visibilmente con il regolare dispiegamento dei blocchi di pietra che rivestono i tetragoni muri della torre, esalando il conflitto determinato dal disinvolto accostamento di due tecniche diverse: quella dei blocchi di pietra squadrata e quella delle volte in laterizio (figg. 13, 14). (fig. 14) - Santa Comba de Bande, copertura con volta a crociera di mattoni di laterizio della torre lanterna. Si osservi l’approssimativa disposizione della rigata di mattoni all’interno delle unghie (fig. 15) - Santa Comba de Bande, vista dei bracci trasversali della croce da est verso ovest (fig.17) - Santa Comba de Bande, parete interna dell braccio nord della croce. Si osservi la ghiera in mattoni di laterizio intercalata al paramento di pietra della parete (fig. 16) - Santa Comba de Bande, in primo piano uno scorcio del braccio ovest della croce Il dissonante accostamento di pietra granitica e di mattoni di laterizio di colore rossiccio si ripete anche tra i muri e le volte a botte che coprono i quattro bracci della croce, dove però i mattoni, disposti di costa, e i giunti di allettamento moderatamente spessi seguono linee parallele più regolari. Ogni superficie cilindrica delle quattro volte a botte risulta così contraddistinta da rigide traiettorie parallele di mattoni che si interrompono bruscamente contro gli archi del quadrato di incrocio, in un verso, e contro le testate interne dei bracci della croce, nel verso opposto. Lo stesso “torciglione” ad intagli obliqui alternati presente nei punti di insorgenza delle quattro arcate che delimitano il quadrato d’incrocio sottolinea anche l’imposta di queste volte a botte, ma ad una altezza da terra sensibilmente più alta. Sicché le convergenti prospettiche sottese da queste diverse linee proiettanti, sommate alla netta interruzione delle rigate dei mattoni di laterizio che solcano le superfici intradossale delle volte a botte nei bracci della croce, rendono ancor più evidente l’aggregazione per accostamenti monocellulari dei volumi interni (figg. 15, 16, 17). Nella chiesa cruciforme di Bande, la pietra granitica, quasi ciclopica, utilizzata negli alzati, contrapposta ai mattoni di laterizio delle volte e delle finestre centinate situate nelle testate dei bracci trasversali e orientale della croce, dove i massicci conci squadrati di pietra degli stipiti sono disinvoltamente giustapposti al ventaglio di mattoni delle arcatelle, ha sollecitato e continua a sollecitare degli interrogativi tra gli studiosi. Questo palinsesto architettonico e strutturale è stato infatti letto da alcuni studiosi come la palpabile (fig. 18) - Santa Comba de Bande, braccio orientale della croce (fig. 19) - Santa Comba de Bande, arco a ferro di cavallo di ingresdelimitato dall’arco di ingresso all’abside so all’abside sostenuto da coppie di colonne testimonianza del sincrono confluire di due consuetudini costruttive trasposte dal mondo orientale siriano, per l’apparecchio murario di pietra, e da quello tardo antico romano occidentale, per l’impiego del laterizio; mentre, per altro verso, alcuni altri studiosi hanno tratto dalla lettura di questo palinsesto la convinzione che l’edificio sia stato edificato in un periodo ben posteriore al VII secolo o che la chiesa e gli ambienti ausiliari siano tra loro cronologicamente distinti. L’impacciato sviluppo di linee direttrici che intesse il sistema architettonico di Bande si evidenzia ulteriormente nel braccio orientale della croce, dove i tre livelli dei piani d’imposta, rispettivamente segnalati dalla quota intermedia della cornice dell’arcata del quadrato di incrocio, da quella, più alta, della volta a botte e da quella, più bassa, delle cimase che sostengono l’arco oltrepassato di ingresso all’abside, determinano delle fughe prospettiche sostanzialmente divergenti rispetto alla focale incentrata sulla finestrella situata nel muro di fondo della stessa abside. Le divergenze prospettiche delle proiettanti stabilite dalla sequenza di arcate e di volte a botte disseminate lungo il percorso di avvicinamento verso l’abside, si accentuano ulteriormente se rapportate alla fuga prospettica discendente che intercetta le tre finestre rispettivamente situate sulla parete della torre lanterna, la più alta, sulla parete di accesso all’abside, posizionata ad un’altezza intermedia, e sulla parete di fondo della stessa abside, la più bassa. La mancata correlazione delle fughe prospettiche deriva di una visione spaziale che concepisce l’edificio cruciforme come un aggregato di corpi monocellulari, accostati tra loro senza alcun elemento architettonico di mediazione. Una tale visione sembra quindi manifestare un certo distacco dal sistema compositivo legato all’ordine architettonico della classicità romana, occidentale e orientale, dove la colonna, con relativa trabeazione, fungeva da elemento coordinatore e commisuratore dello spazio interno ed esterno. Infatti, gli archi del quadrato d’incrocio di Bande non sono sostenuti da colonne con capitelli, ma da semplici cornici di imposta incorporate nei muri, allo stesso modo delle cornici che delimitano l’insorgere della volta a crociera nella torre lanterna e delle volte a botte nei bracci della croce. Queste cornici sono trattate come dei semplici fregi decorativi, decontestualizzati dall’ordine classico; e in questa loro nuova veste ricordano solo vagamente l’originaria funzione strutturale e decorativa assolta dalla trabeazione. Un’analoga decontestualizzazione si osserva anche in altri edifici visigoti, come nella chiesa di San Pedro de la Nave (fine del VII secolo), dove le cornici, oltre a delimitare le imposte di archi e volte, si prolungano sulle pareti accentuandone gli aspetti decorativi, o come nella chiesa di Santa Maria di Quintanilla de las Viñas (fine VII, inizio VIII secolo), dove i fregi, replicati su più livelli nelle pareti esterne della testata orientale dell’edificio, acquisiscono una valenza esclusivamente decorativa. L’estirpazione del fregio dall’ordine architettonico segna quindi un passaggio chiave nel processo di abbandono dei modelli trasmessi dal mondo antico greco e romano, che guarda ancora più a oriente, al mondo iraniano, come sembrano attestare i motivi scultorei della stessa Santa Maria di Quintanilla, da alcuni studiosi accostati ai repertori iconografici e iconologici sassanidi. Tutto questo si accompagna a una nuova visione dello spazio concepito come un aggregato di volumi elementari, per lo più privi di elementi architettonici interconnettivi, i quali sono in genere caratterizzati da soluzioni formali e strutturali più complesse e da un livello tecnico-costruttivo più evoluto. Le linee direttrici, strutturali, architettoniche e decorative, dispiegate sulle superfici murarie del braccio orientale della croce di Bande s’interrompono contro la parete che delimita l’ingresso dell’abside, denunciando in questo modo una perentoria soluzione di continuità spaziale. Su questa parete infatti, l’impaginato architettonico è orchestrato come se ci si trovasse di fronte ad un organismo a se stante, quasi separato dal resto del complesso. Il varco nel possente muro di pietra (circa 90 cm. di spessore) è costituito da un solido arco a ferro di cavallo che oltrepassa il diametro orizzontale di 2/7 del raggio, vale a dire di una misura appena inferiore ad un 1/3 (numero frazionale solitamente utilizzato nel dimensionamento dell’arco visigoto). L’arco è appoggiato su mensole di granito modanate, sul solo lato frontale, da una fascia sbalzata, arricchita dal ricorrente motivo del “torciglione” ad andamento obliquo alternato. Ogni mensola, sporgente dal muro secondo una disposizione ricorrente in altri edifici visigoti, è a sua volta sostenuta da due colonne monolitiche di marmo (di recupero) con capitelli di tipo corinzio. E’ sintomatico che le colonne con capitelli, prive di trabeazione, siano presenti solo all’ingresso dell’abside, come se qui si volesse rimarcare l’importanza liturgica del luogo e che il disimpegno dei carichi che gravano sull’arco sia contemporaneamente affidato alle mensole connesse ai muri d’ambito e ai capitelli e non esclusivamente alle colonne con capitelli. Qui, l’ordine architettonico, spogliato dei suoi riferimenti classici, diviene elemento connotativo isolato, circoscritto alla parete, e non correlato alle membrature del braccio orientale del coro e tanto meno alla disposizione delle cornici dispiegate all’interno dell’abside (figg. 18, 19, 20). I tratti architettonici più caratteristici di questo portale si possono (fig. 20) - Santa Comba de Bande, coppia di colonne dell’arindividuare: nell’armonico oltrepassamento dell’arco, i cui punco dell’abside, a destra il capitello di recupero ti di insorgenza, interferendo con una parte delle mensole di imposta, esaltano l’effetto di chiusura del settore curvilineo; nelle corte coppie di colonne, che bilanciano, con la loro disposizione assiale longitudinale, l’incombente massa del muro superiore; e nei motivi architettonici formati dalle due spalle murarie e dalle due mensole, che ricompongono la continuità della tessitura della parete. In definitiva, questo portale, piccolo di dimensioni e con un’armonica ghiera priva di chiave, come in quasi tutti gli archi visigoti, se guardato da un punto di vista concettuale, con le sue colonne appena distanziate dalle spalle del muro, equivale ad una transenna traforata restituita in una forma più monumentale. In altri termini, il portale scherma parzialmente due distinte aree della chiesa, conformemente alla logica compositiva dello spazio compartimentato altomedievale e secondo una logica divisoria analoga a quella svolta dai trifori che schermano gli ingressi ai bracci della croce della cappella di Montélios. L’intensa luce che penetra all’interno del braccio orientale della croce attraverso la finestra centinata che sovrasta l’arco d’ingresso e il tetto dell’abside, crea delle radenti e suggestive increspature chiaro scurali sulle superfici dell’involucro lapideo interno, contribuendo ad esaltare l’effetto di cesura spaziale che si determina lungo l’asse longitudinale proprio in corrispondenza della parete divisoria dell’abside, sebbene qui, tale effetto sia controbilanciato dallo sfondamento plastico provocato dal più tenue chiarore diffuso dalla finestrella situata sulla parete di fondo della stessa abside. Come si è già accennato, nel 1932 venne demolita la cella, priva di luce diretta, sovrapposta al corpo dell’abside. L’attuale finestra centinata che sormonta il suo arco d’ingresso garantiva l’accesso al vano sopraelevato. Una cella simile a quella di Bande è pure presente nella chiesa visigota di San Pedro de la Nave (fine del VII secolo), che descriveremo dettagliatamente più avanti, e in alcune chiese del successivo periodo asturiano, come San Julian de los Prados (830), dove però l’accesso è collocato all’esterno e non all’interno dell’edificio. Sono state avanzate varie ipotesi, tutte con qualche fondamento ma sostanzialmente prive di riscontri documentari o archeologici, sull’effettiva funzione svolta da queste celle. Si è infatti sostenuto che potessero servire per l’espletamento delle funzioni ascetiche dei monaci, o per ospitare i viandanti, od anche come deposito delle suppellettili sacre o del “tesoro”, oppure che tali ambienti, sempre posizionati al di sopra dell’altare maggiore, servissero anche da casse di risonanza e di amplificazione dei canti e delle orazioni durante lo svolgimento del rituale liturgico visigoto. Nelle celle delle due chiese sopra richiamate furono rinvenuti degli spezzoni di corda, forse testimonianza di probabili ambienti campanari, ma la pressoché totale mancanza di dati storici e architettonici certi sulla conformazione delle torri campanarie degli edifici preromanici iberici non offre alcun sostegno a quest’ultima ipotesi. Qualunque fosse la funzione della cella sopraelevata di Bande, quel che appare evidente è che la sua presenza conferiva al profilo longitudinale dell’edificio un aspetto architettonico significativamente diverso dall’attuale. E’ probabile che questo ambiente sia stato costruito in una fase cronologica successiva e che la distribuzione equilatera e simmetrica dei corpi della croce greca, imperniata sull’asse verticale della torre lanterna, venne di fatto alterata con l’accrescimento in altezza del volume della testata orientale. (fig. 21)- Santa Comba de Bande, vista dall’interno dell’abside verso il braccio ovest La piccola abside, dall’impianto planimetrico più lungo che largo, è coperta da una volta a botte con generatrice longitudinale, la stessa delle volte a botte del braccio orientale. Ed è forse questa la componente strutturale e architettonica che gerarchicamente sostiene il percorso che dal portico d’ingresso conduce fino all’abside. La preminente direttrice vettoriale longitudinale è ulteriormente ribadita dall’andamento della stretta e piatta cornice in pietra calcarea, di colore avorio, che delimita l’imposta della volta e che gira, senza soluzioni di continuità, intorno alla finestra centinata posta al centro della parete di fondo. La cornice è incisa a bisello con girali di tralci di vite da cui pendono grappoli d’uva alternati a foglie. I bordi sono delimitati da un sottile listello che separa anche un segmento di cornice da quello contiguo. E’ evidente che si tratta di un’incisione realizzata in laboratorio, forse prodotta in serie, e inserita nelle pareti dell’abside senza alcuna correlazione con la tessitura del paramento lapideo sottostante. I girali di tralci di vite inseriti nella cornice che sormonta l’arcatella della finestra absidale si interrompono bruscamente in corrispondenza di alcuni giunti di accoppiamento tra un settore di cornice e l’altro; e ciò segnala la difficoltà di adattare il pezzo scolpito in laboratorio in questo specifico contesto architettonico (figg. 21, 22, 23). Per alcuni studiosi, questa decorazione rammenta l’austera arte toledana, mentre altri vi ravvisano una certa impronta “classica”, molto più antica di altre cornici simili sparse nella zona di Toledo. Questi divergenti giudizi stilistici sottendono un diverso orientamento cronologico: nel primo caso, teso a sostenere l’ipotesi che l’abside sia stata aggiunta in una fase successiva alla nascita dell’organismo cruciforme e, nel secondo caso, per accreditare l’ipotesi che i bracci della croce e l’abside siano stati realizzati congiuntamente e in un periodo che addirittura risalirebbe alla fine del VI secolo, come dimo- (fig. 22)- Santa Comba de Bande, parete di fondo dell’abside. La cornice che borda, senza soluzioni di continuità, la monofora riprende un analogo motivo siriano del V secolo (fig. 23)- Santa Comba de Bande, particolare della cornice con girali vegetali che delimita l’imposta della volta a botte dell’abside strerebbe l’assenza di grandi fasce decorate che in genere sottolineano l’imposta delle volte delle chiese visigote costruite intorno alla fine del VII secolo. La finestra centinata, situata nella parete di fondo dell’abside, è parzialmente tamponata nella sua parte inferiore e protetta, nella sua parte superiore, da una gelosia in pietra traforata da semicerchi sovrapposti in file sfalsate (fig. 24), mentre le figure affrescate che compaiono sulla superficie intradossale della volta e sulla parete di fondo, ai lati della finestra, sono sicuramente di epoca medievale molto più tarda (fig. 22). Il corpo dell’abside, pur nella sua spoglia semplicità, rompe lo schema dell’impianto cruciforme bizantino, divenendo il punto di convergenza focale dell’intero sistema spaziale gravitante sull’asse longitudinale. E la sottile cornice che corre tutt’intorno i tre lati est, nord e sud dell’ambiente accompagna l’occhio del visitatore verso la conclusione del percorso frammentato. A ben vedere, questa fascia decorata, apparentemente quasi trascurabile, connota l’abside di un attributo avente un valore esplicativo dello spazio interno, configurandosi come una sorta di elemento di sutura posto a sigillo di una operazione compositiva permeata di componenti eclettiche. Il modo in cui è stata dispiegata sulle pareti dell’abside rivela l’indubbia influenza esercitata dall’architettura bizantina, specialmente siriana, probabilmente acquisita attraverso Mérida e Braga. Cornici continue che disegnano sulle pareti tratti rettilinei orizzontali, connessi a settori arcuati che girano intorno a finestre centinate, ricorrono infatti nel martyrium cruciforme di San Simeone lo Stilita (480-490) a Qal’at Sim’an, presso Aleppo, e nei molti edifici, per lo più del VI secolo, della città morta di Sergilia (situata a nord est di Latakia, in una zona desertica e pietrosa), e in tante altre “città morte” della Siria. Questo tipo di (fig.24)- Santa Comba de Bande, particolare della finestra cornice ha dunque un’origine siriana, in una fase in cui venivano dell’abside, parzialmente schermata dalla gelosia a semprogressivamente allentandosi i legami con la classicità romana icerchi sfalsati occidentale, e benché ancora preservi la sua specificità di ornamento architettonico, può tuttavia essere ricompreso nella più generale categoria dei fregi decorati che nell’oriente iraniano, siriano e copto egiziano furono definitivamente sradicati dall’ordine architettonico classico. Dunque, in definitiva, la cornice dell’abside di Bande, pur strettamente imparentata con gli omologhi motivi siriani, svolge la stessa funzione architettonica e decorativa che si è ravvisata nelle altre cornici che sottolineano le imposte degli archi e delle volte all’interno della chiesa e in altri edifici tardo visigoti, asturiani e mozarabici. In seguito, questo motivo venne frequentemente utilizzato per decorare le superfici esterne e le finestre delle absidi delle chiese romaniche dell’Europa occidentale, specialmente nella forma abbreviata costituita da una curva semicircolare e da due brevi tratti rettilinei, per approdare, in tempi più recenti e con numerose variazioni tematiche, negli edifici dell’eclettismo ottocentesco e del primo Novecento europeo. Possiamo dunque tornare a considerare la chiesa di Bande come un edificio che si rapporta tipologicamente all’impianto rigorosamente cruciforme della vicina cappella funeraria di San Fruttuoso di Montélios (Braga), avendo tuttavia ben presente che le fasi costruttive degli ambienti collaterali sono successive all’edificio principale. La trasformazione dell’impianto centrico in uno spazio più ampio e articolato venne molto probabilmente attuata per risolvere dei problemi funzionali legati alla vita del piccolo monastero. I due ambienti addossati ai lati del portico d’ingresso dovevano essere utilizzati come ricovero dei viandanti e dei pellegrini, in quanto accessibili direttamente dall’esterno attraverso i tre varchi arcuati praticati rispettivamente sulla facciata e sui fianchi dello stesso portico. Questi ambienti erano inoltre collegati con l’interno della chiesa, tramite il portale arcuato situato sulla testata del braccio occidentale della croce, in asse con il varco centrale del portico. In chiesa si accede anche da una porta situata sulla mezzeria della testata del braccio sud della croce, la cui forma e dimensione, non riconducibili all’impianto originario, ne denunciano l’appartenenza ad una fase più tarda. A loro volta, i due bracci trasversali e il braccio del coro disimpegnavano i quattro ambienti addossati alle pareti esterne della croce, delineando così un circuito percorribile solo dall’interno. Due porte mettevano in comunicazione i bracci trasversali del transetto con i due ambienti addossati alle loro pareti occidentali; mentre altri due varchi situati nei muri laterali del coro lo collegavano agli altri due ambienti del versante orientale. Quindi, in origine si entrava in chiesa solo dall’ingresso praticato nella testata del braccio occidentale. Il quadrato d’incrocio, perno architettonico del sistema, assumeva quindi anche la funzione di disimpegno dei percorsi interni del complesso: rispettivamente verso i due ambienti addossati ai muri occidentali dei bracci del transetto, forse spazi di accoglienza per i fedeli, e verso gli altri due ambienti del versante orientale, accessibili solo dal coro e, per questo motivo, probabilmente utilizzati per il servizio liturgico e forse anche come abitazioni riservate ad alcuni membri della comunità dei monaci. Per ovviare a questa circolazione forzata attraverso il quadrato d’incrocio è probabile che almeno i due ambienti ausiliari, addossati alle pareti occidentali dei bracci trasversali della croce, fossero collegati con l’esterno da altre porte, di cui però non resta alcuna traccia. In questo modo, si sarebbe garantita la separazione dei percorsi interni, riservati ai monaci e al clero, dagli altri spazi accessibili ai fedeli. Gli alzati del piccolo complesso monastico, inscritti in un rettangolo, suddiviso in un reticolo di figure geometriche squadrate, dovevano presentare una più complessa articolazione volumetrica. La croce equilatera, costituita dalla navata d’ingresso, dal coro e dai due bracci trasversali, imperniati ne quadrato d’incrocio, riflette indubbiamente lo schema compositivo della cappella funeraria di San Fruttuoso di Montélios. Va però evidenziato che a Bande il rapporto intercorrente tra l’altezza della torre lanterna e quella degli alzati dei bracci della croce è di circa ½, mentre a Montélios lo stesso rapporto è pari a circa; e questo comporta che a Bande il ridotto slancio verticale della torre ha condizionato anche la dimensione dei volumi dei bracci della croce, ora coperti da tetti a due falde. Ma i due sistemi si differenziano anche per altri significativi elementi: a Bande, i volumi del portico, sul versante occidentale, e dell’abside, su quello orientale, prolungano sensibilmente l’asse longitudinale dell’edificio rispetto a quello trasversale, scostandosi notevolmente dal perfetto schema a croce equilatera di Montélios; inoltre, a Bande, i corpi addossati alle pareti esterne della croce e sui fianchi del portico, nascondevano il volume cruciforme, determinando di fatto una diversa configurazione del complesso, coperto con una molteplicità di falde, la cui giacitura e orientamento non è possibile ricostruire in modo attendibile. Quindi, la disposizione e articolazione d’insieme dei volumi di Bande doveva restituire un immagine molto distante dalla lineare copertura a due falde dei tetti di Montélios, qualunque fosse la loro effettiva configurazione. Si può solo ragionevolmente supporre che l’intero organismo cruciforme, compreso il portico d’ingresso e l’abside, fossero coperti con tetti a due falde e la torre lanterna con un tetto a quattro spicchi . Con il successivo inserimento dei quattro ambienti ausiliari addossati ai bracci della croce, la disposizione delle coperture mantenne probabilmente lo stesso assetto, con le due falde dei bracci trasversali estese sui lati fino a coprire i quattro ambienti addossati; vale a dire con un tetto simile a quello che attualmente copre il braccio nord e la sagrestia addossata all’angolo nord orientale (fig. 3). E già questo basterebbe per sostanziare una rimarchevole differenza tra i due edifici cruciformi. Ma le differenze non si riducono solo a questo. A Bande, l’illuminazione interna del coro e dell’annessa abside è conseguita per mezzo della progressiva riduzione dell’altezza dei volumi. Il profilo longitudinale è stato congeniato in modo tale che la linea di colmo del braccio orientale è impostata appena al di sotto della finestra della torre che guarda ad oriente, e quella del tetto che copre il volume dell’abside ad un livello appena inferiore alla finestra ricavata nel muro della testata orientale del coro, anche se in questo caso i due livelli interferiscono parzialmente tra loro (figg. 1, 2, 3, 4). Gli ambienti costruiti intorno alla chiesa, entro una maglia regolare, di fatto determinarono un sistema di circolazione interna di tipo labirintico, che interferiva in vario modo con i bracci della croce. In questo sistema s’intravede una certa tendenza a disarticolare lo schema biassiale ed equilatero dell’impianto cruciforme, depotenziandone l’invarianza centrica con l’allungamento e il frazionamento del canale comunicativo longitudinale e la conseguente ramificazione dei percorsi interni. In definitiva, con l’aggiunta dei corpi satellitari nelle fasi costruttive successive all’impianto cruciforme, ma tra loro temporalmente vicine, si avvia il processo dissolutivo dello schema centrico e biassiale dell’edificio che acqui- sisce una nuova e ambigua dimensione spaziale, particolarmente avvertita nell’approssimativo rapporto che intercorre tra l’affastellato aggregato dei volumi esterni e lo spazio interno della croce. Entrando dalla porta del braccio occidentale si percepisce fin da subito l’impronta dominante del disegno cruciforme. A prima vista, stando al centro del quadrato di incrocio, la profondità di campo lungo l’asse longitudinale corrisponde esattamente a quella del campo trasversale; e questo perché il muro sostenuto dall’arco a ferro di cavallo su corte coppie di colonne addossate alle pareti, che delimita l’ingresso all’abside, interrompe le proiettanti prospettiche alla stessa distanza di quelle che si infrangono sulle pareti interne dei muri di testata dei bracci trasversali della croce. Ma questo primo effetto spaziale equilatero è immediatamente contraddetto dalla sequenza di ambienti gravitanti sull’asse longitudinale, che dilatano ulteriormente la profondità del campo visivo, introducendo una netta differenziazione rispetto alla direttrice trasversale (figg. 4, 8, 15). A loro volta, i due bracci, occidentale e orientale, si differenziano tra loro per il modo in cui sono risolte le connessioni con il portico d’ingresso, da un lato, e con l’abside, dall’altro. Questa diversa disposizione è sottolineata dagli effetti prodotti dalla luce, che nel braccio occidentale è filtrata dal portico di ingresso, lasciando in penombra il soffitto voltato; mentre nel braccio orientale, spiove direttamente dall’alto del muro, che delimita l’accesso all’abside, increspando le pareti laterali e la superficie voltata con radenze chiaroscurali. Inoltre, la luce diffusa dalla finestrella dell’abside promuove sulle superfici più basse degli ulteriori sbattimenti tonali frammisti alle ombre portate dalle membrature architettoniche del portale. A tutto questo si aggiunge l’ulteriore combinazione di effetti luminosi causati dalla sequenza delle tre finestre rispettivamente posizionate: nel muro della torre lanterna, nel muro di chiusura del braccio orientale e nel muro di fondo della stessa abside. L’asse proiettante che unisce queste tre finestre e che segue una traiettoria discendente verso la parete di fondo dell’abside, nel rendere esplicito lo scalare delle masse, innesca anche dei sorprendenti effetti di compenetrazione tra un ambiente e l’altro (figg. 4,16). Sono pertanto tutte queste diverse referenze percettive dispiegate sull’asse longitudinale che sostanziano la preminenza gerarchica del braccio orientale rispetto a quello occidentale. In definitiva, nella chiesa di Bande iI modello cruciforme bizantino viene sottilmente messo in discussione attraverso l’organizzazione gerarchizzata dell’asse longitudinale rispetto a quello trasversale e del braccio orientale rispetto a quello occidentale. Nonostante la rigida compartimentazione dello spazio, rispondente al rituale liturgico visigoto e alla conseguente giustapposizione dei volumi, l’edificio raggiunge delle stimolanti interconnessioni interne, anche grazie agli effetti compenetrati veicolati dalla luce. Si tratta sostanzialmente di fattori innovativi, non sufficienti a delineare una piena rottura dai modelli architettonici classici, romani e bizantini, e dalle loro tecniche costruttive, ma tuttavia capaci di delineare, nell’agitato magma culturale altomedievale della penisola iberica, dei processi evolutivi che, in questa fase storica, non sono ancora stati contaminati dalla produzione artistica scultorea omayade come è stato invece convintamene sostenuto dai più recenti contributi critici. Bibliografia M. Sales e Ferré, Santa Comba de Bande, Boletín de la Comisión Provinciale Monumentos Históricos-Artísticos de Orense, I/14, 1900. pp. 245-248; M. Gómez Moreno, San Pedro de la Nave. Iglesia visigoda, Boletin de la Sociedad Castellana de Excursiones, II, 1906, p. 367; M. Gómez Moreno, Iglesias mozárabes. Arte español de los siglos IX al XI, Madrid, 1919; M. 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