Lezione 3
13 ottobre 2014
La ragione mediatrice tra fede e diritto
(Rapporto tra teologia e diritto)
La volta scorsa abbiamo posto la domanda: può la teologia, fondata sulla fede
e rivolta perciò alle cose del cielo, avere un qualche rapporto col diritto, frutto
della ragione umana e rivolto alle cose della terra? Cerchiamo ora di trovare una
risposta (che non sia quella che, in una facoltà cattolica, si è costretti a studiare
la teologia).
La domando agli studenti. Spazio al dibattito.
Le possibili risposte sono quattro: che non c’è nessun rapporto; che il
rapporto c’è perché sono entrambi fatti dagli esseri umani; che il rapporto c’è
perché sono entrambi opera della ragione umana; che il rapporto c’è perché la
teologia deve essere in grado di dare dei criteri normativi all’etica e, attraverso
di essa, al diritto.
La prima risposta sancirebbe una schizofrenia insostenibile il credente e
spesso criticata da non credente (che dunque non l’accetta nemmeno lui).
La seconda e la terza risposta richiamano alla differenza tra la fede e la
teologia, che è una riflessione razionale sulla fede.
La quarta risposta mette in luce che, oltre a essere collegati dalla loro origine
di fatto nella ragione, teologia e diritto lo sono anche da un vincolo normativo
che la prima, illustrando il punto di vista di Dio sul mondo, ha nei confronti del
secondo.
Cominciamo dal primo punto, la comune origine razionale. Per il diritto non
c’è bisogno di dimostrarla. Per la teologia sì.
La teologia ha bisogno della ragione. Nel suo sforzo di spiegare la rivelazione,
la teologia, proprio perché usa la ragione, attinge alla ragione nella sua forma
più elaborata, la filosofia. Un esempio è il concetto di transustanziazione, che
dipende dalla distinzione tra sostanza e accidenti scoperta da Aristotele. Anche
se in realtà di solito accade l’inverso: con la crescita di un individuo cambiano i
suoi accidenti e rimane identica la sostanza. È l’influsso della filosofia, attraverso
la teologia, sulla fede.
Reciprocamente, la ragione viene influenzata dalla teologia. Infatti
quest’ultima, pur partendo dalla rivelazione ed essendo volta a spiegarla, in
questo sforzo fa delle scoperte. Un esempio è la scoperta del concetto di persona
e della sua differenza dalla natura, che è stata fondamentale per tutta la nostra
civiltà e che ancora oggi è utilizzata da Engelhardt per giustificare l’aborto,
scoperta che è scaturita dal tentativo di spiegare come mai Gesù dica che il
Padre e lui sono una cosa sola senza cadere in contraddizione. È l’influsso della
fede, attraverso la teologia, sulla filosofia.
Dunque è la razionalità intrinseca al metodo teologico, con le sue implicazioni
filosofiche, a collegare la fede e la stessa teologia al diritto.
Spazio al dibattito.
In principio era il Logos
(Rapporto tra teologia e diritto: il fondamento del rapporto ragione-fede)
Ma questa mediazione teologica tra fede e diritto è davvero possibile?
Nell’opinione comune, in effetti, la fede è frutto di un’adesione che ben poco
ha a che fare con la ragione.
Spazio al dibattito.
Sed contra, Agostino (citato da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio) dice che
una fede che non sia pensata non è una vera fede. Oggi il rischio è reso più forte
da un ritorno a forme irrazionali e irrazionalistiche di religiosità.
La tradizione cattolica, a differenza del protestantesimo, ha sempre difeso
una concezione della fede che esige la congruenza tra fede e ragione. Anche sul
piano semplicemente umano, si crede a qualcosa perché si crede a qualcuno. Ma
per credergli devo avere qualche motivo, esplicito o implicito, per farlo.
Sono quelli che Tommaso d’Aquino chiama “preambula fidei”, preamboli
della fede, tra cui c’è sia l’esistenza di Dio che quanto riguarda la figura di Gesù
dal punto di vista storico-razionale. In realtà l’esistenza di Dio è stata ritenuta
razionalmente innegabile dalla stragrande maggioranza dei filosofi e la vicenda
storica di Cristo non è stata oggetto di studi critici e dissacratori se non a
partire dalla fine del Settecento (Reimarus).
Non molti sanno il Concilio Vaticano I che, nella Costituzione dogmatica Dei
Filius, definisce come dogma la conoscibilità razionale dell’esistenza di Dio. Va
chiarito, tuttavia, che il Concilio non dice che di fatto si arriva a Dio con la
ragione, ma solo che ciò è possibile in linea di principio. Come in molte certezze
umane, per es. quella che esista la Groenlandia, in cui si crede senza vedere, ma
nella fiducia che, se lo si volesse, se se ne avesse il tempo e le possibilità, etc., si
potrebbe verificare ciò che si crede. Altrimenti in base a che cosa si potrebbe
ritenere in qualche modo fondata la propria fede?
Quanto a Cristo, la sua vera identità ultimamente è stata oggetto di ampi
dibattiti, volgarizzati dal romanzo di Dan Brown Il codice da Vinci e dai libriintervista di Augias agli storici Pesce e Cacitti. Ma, da Reimarus ad oggi, si è
arrivato a dire perfino che non è esistito!
Perciò è strano che tanti credenti non si pongano il problema di una maggiore
consapevolezza critica. Così come lo è che tanti non credenti, invece di condurre
una vera ricerca, rifiutino a priori la fede spesso per motivi molto superficiali.
Agli uni dovrebbe balenare la domanda: E se non fosse vero? Ai secondi quella: E
se fosse vero?
Ma, se si va oltre la sfera dei “preamboli” della fede (giustificati, come si è
appena detto, dalla sua stessa struttura), come ammettere che la rivelazione che
viene da Dio sia esplorabile attraverso la ragione umana? La risposta la dà
ancora una volta la tradizione cristiana, di cui è un ultimo esempio il discorso di
papa Benedetto XVI a Ratisbona, dove egli notava (suscitando anche aspre
polemiche per una infelice citazione riguardante Maometto) che i cristiani non
possono permettersi di essere fondamentalisti, perché il loro è il Dio del Logos,
come dice il primo versetto del vangelo di Giovanni. Ora, “logos” in greco
significa appunto ragione, pensiero, parola in quanto segno verbale carico si
dignificato concettuale, discorso razionale. Cristo è il Logos, il Verbo, che non
può, in quanto tale, chiedere una fede cieca, irrazionale, fanatica. Vi è dunque
nella rivelazione biblica una sotterranea razionalità, che supera di molto quella
umana (la terza risposta data dagli studenti è valida), ma che è comunque in
qualche modo sulla stessa lunghezza d’onda di quella umana, a differenza di
quanto sostengono filosofi come Cartesio, convinto che Dio non sia vincolato alla
ragione e alla verità e possa fare l’assurdo. Per questo la teologia non è un
parlare a vuoto ed estrinsecamente del mistero rivelato, ma può in qualche
modo penetrarlo, ance se non fino in fondo. Ciò le consente di metterlo in
relazione con il sapere umano e, nel nostro caso, col diritto.
Spazio al dibattito.