Enrico Cogno Jazz Inchiesta Italia Il jazz degli anni ‘50 e ‘60 Cappelli Editore Bologna, 1971 Introduzione Chi è l’uomo del jazz italiano? Un poeta o un artigiano della musica? Chi è il critico italiano di jazz? Un giornalista reduce dal Cantagiro? Un musicista fallito? Un esaltatore d'avanguardie per credo politico o un conservatore per inadeguatezza culturale? E per la folla, il jazz italiano cos’è? JAZZ INCHIESTA ITALIA, propone le risposte a questi nuovi interrogativi più con finalità di “informazione stimolante” che di trattazione dotta del fenomeno. E’ un racconto giornalistico formato dalle testimonianze di musicisti, critici, attori, studenti, tutte piastre di un mosaico alternate in modo solo apparentemente casuale, una sequenza che del jazz ha il ritmo e la visceralità. Prefazione Il jazz moderno è diventato un fenomeno complesso e multiforme, chi si dirama in varie articolazioni e che non teme all’occorrenza di accostarsi alla ricercatezza dell’arte moderna. Soltanto la presenza di qualche glorioso superstite può restituire ancora nella sua autenticità quel senso univoco di robusta ispirazione popolare che, più di quaranta anni fa, aveva attirato sul jazz l’interesse e la simpatia di quasi tutte le forze vive della musica contemporanea. Oggi anche il jazz percorre vie difficili, non meno difficili di quelle degli indirizzi più avanzati della odierna musica d’avanguardia. Ed è giusto che sia così: probabilmente sarebbe un errore volerlo mantenere a forza, come se fosse imbalsamato, su quelle posizioni di semplicità popolare di cui solo Armstrong e gli artisti della sua epoca conservano il segreto. Ma anche il jazz di oggi comprova la propria positività precisamente attraverso l’evoluzione che subisce: proprio perché alle sue origini c’erano la verità e la forza dell’ispirazione popolare, il jazz si dimostra capace di sopravvivere e di seguire un proprio destino artistico, che magari lo allontana dalle posizioni originarie. Ma non si vive senza trasformarsi, e anche chi è rimasto sentimentalmente attaccato alla nostalgia del jazz della sua giovinezza, anche chi ha perduto il contatto con la molteplicità degli sviluppi più recenti, così prolifici di nuove formule e nuovi stili, se fa tanto di accostarvisi, non tarda a riconoscere in questi sviluppi le conseguenze inevitabili dell’antico ceppo. E’ ancora l’antico incendio che alimenta le nuove fiamme, o fiammelle che siano, e anche nelle sue recentissime formulazioni il jazz resta tuttora una manifestazione genuina della musica del nostro tempo: senza avere spento l’originario impulso popolare, ne documenta le possibilità di affinamento e di evoluzione stilistica in accordo con il volgere dei tempi: basterebbe questo per fare del jazz un capitolo insostituibile nella musica moderna. Massimo Mila Feeling: tocco, sensibilità, sentimento. E’ scritto sui dizionari, ma la gente del jazz non usa tradurlo. Dice: il jazz è feeling (o è swing, è blues) come chiave di un codice che sconfina in campi semantici che un dizionario non riporta. Parlando (o scrivendo) di jazz, è importante far rivivere un tratto spontaneo, non mediato, che proceda sul piano dell’emotività più pura (pulsazione, fremito, mixage di sentimenti tra il lirico e il disincantato), un modo di rendere jazz le parole, di usare un segno in sintonia con i problemi degli uomini che del feeling ne hanno fatto un modo di vivere. Il jazz è compromissione e comprensione: per parlarne serve compromettersi con chi lo produce e capirne il perché. Le biografie da sole non servono a questo. Per sensibilizzare anche il fruitore meno attento serve scoprire la seconda parte di ogni musicista. Si sa qualcosa sempre e soltanto della prima, quella che va dallo strumento in avanti, mentre dell’altra (quella che tira fuori dall’ oggetto le note, le idee, i suoni della rabbia, dell’amore, la poesia, la vita) l’uomo, insomma, la gente, l’uomo, lo conosce sempre troppo poco o troppo tardi. Il jazz in Italia, ha avuto molti giudici e pochi testimoni. Ora che serve affermarlo (a fianco dei fenomeni della cultura ufficiale) come musica di poesia e non di consumo, serve, paradossalmente, la tecnica del consumo, non quella della poesia: una inchiesta rivolta a scoprire l’ambiente e la problematica di chi produce il jazz, di chi lo giudica e di chi lo ascolta. Il tutto impregnato di feeling, fatto con discorsi grintosi, diretti a stimolare oltre che a informare. Negli anni ’70 una storia (in senso tradizionale) del jazz soddisferebbe chi infila i libri sugli scafali con amore feticistico e lascerebbe insensibili quelli che, di una musica viscerale come il jazz, vogliono un documento che ne analizzi la sfera sociale ed umana. Vivere il jazz al di fuori di questo contesto significherebbe esaminarlo spogliato della sua caratteristica più importante. Così l’uomo del sassofono sarà del fianco del vigile urbano, il critico di fronte alla fioraia, lo studente con il programmatore RAI: un collage che tenderà a creare un habitat in cui le testimonianze (non i giudizi) cercheranno di distinguere i buoni poeti dai buoni artigiani, sul piano dello stimolo emozionale. Nel jazz la saggistica, caricata di feeling (denominatore comune per questo dialogo) può sconfinare e fondersi con la narrativa, può vivere di ricordi e da questi, operando per sintesi, trasformarsi in ricerca. Non potrebbe, trattandosi di jazz, non essere racconto di vita. “Dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo” “Per andare dove, amico?” “Non lo so, ma dobbiamo andare” On the road Jack Kerouac Incontro Enrico Intra alla Galleria del Corso, a Milano. “Libro bianco sul jazz italiano: uomini e problemi nostri. Il tuo pensiero?” “Viviamo, vedi in un momento di crisi per la fusione (o lo scontro) di una civiltà nuova contro una vecchia e decadente. Del jazz si ha un’immagine superata, del negro sudato che suona in una “cave”: no! Servono suoni che rispecchino la nostra società. Non un discorso alla moda, ma un discorso attuale. L’unica salvezza contro le imposizioni della moda è la ricerca di un linguaggio personale. Serve il coraggio di cercare una strada propria.” “L’hai trovata?” “Almeno la cerco.” “Come definiresti il jazz, oggi?” “Come da sempre: musica, musica totale. Questo fatto probabilmente non è accettato da chi vive dicendo ai miei tempi… Molti confondono (hanno confuso) i propri momenti belli del passato con la musica di quei momenti e quando si guardano attorno (si sono guardati attorno) hanno rifiutato la realtà e si sono ributtati nel mondo dei loro ricordi, non accorgendosi dell’effetto deformante del tempo. Per questi il jazz è già morto da anni” “Com’è il modo del jazz italiano?” “Ammalato.” “Di cosa?” “Di ignoranza, di un provincialismo ottuso, spaventoso.” “Di jazz si può vivere?” “Vivere e morirne (per fame).” “Non pensi che il così poco ampio respiro del jazz in Italia sia dovuto ad un centro compiacimento di tutti noi, jazzmen, nel considerarci un’èlite?” “Qualunque forma d’arte parte da un’èlite e parla ad una èlite, quest’ultima intesa come crema di un qualunque strato sociale, anche del più basso.” “Una forma per fare del jazz e riempire ugualmente lo stomaco potrebbe essere il dilettantismo?” “Con i risultati che il dilettantismo italiano ha fornito? Assolutamente no. Il dilettante deve soddisfare solo se stesso e lo fa principalmente copiando. Si suona addosso e se ne compiace.” “E il professionista?” “Ha un impegno. E’ compromesso. Ha degli obiettivi da raggiungere. La salvezza (e la fatica) del professionista passano attraverso la consapevolezza. Il dilettante si auto-assolve con la clausola della buona fede. Al professionista la buona fede non serve a salvarlo da certi impegni che si è preso operando, aprioristicamente, una scelta. Oltre a raggiungere certi risultati, è importante esaminare come questi sono stati raggiunti. “Nella tua musica, ad un certo punto si è avvertita una rottura: hai cambiato strada. Perché? “ “Ero obbligato a creare degli standard, non c’era più improvvisazione.” “E la coerenza?” “Detesto la coerenza. L’uomo ha il dovere di cambiare la sua opera, se crede, dopo un’ora. Questo è sentirsi vivi, operare proiettati nel presente–futuro. Questo può avvenire con fratture nette, oppure con l’inserimento graduale di nuovi stimoli. Recentemente ho affrontato questo problema per la mia Messa d’Oggi:con una chiesa allineata e rispettosa della tradizione quale abbiamo sarebbe stata improduttiva una rottura brusca, una uscita violentata dai canoni. Ho preferito socchiudere, e non spalancare, una porta arrugginita.” “Il risultato?” “I valori reali delle cose li decide il tempo.” “Questi stimoli nuovi li raccogli dalla musica che ascolti?” “Ascolto pochissimo la musica degli altri .” “Proposte: cosa fare per smuovere la situazione?” “Portare l’educazione musicale nelle scuole. Non quando è tardi, come avviene adesso. Inoltre occorre agire presso l’ente radiotelevisivo affinché i programmi non continuino ad essere modellati sui risultati del grande spettro, l’indice di gradimento. Basterebbe, per vergognarsi, fare un confronto con i programmi delle altre nazioni europee. Sia la musica classica sia il jazz devono essere inseriti nei grossi spettacoli, quelli diretti al grande pubblico. Sino a che andranno in onda sul terzo programma convinceranno solo gente già convinta.” “Quale via d’uscita vedi per il jazz, al di fuori della Rai?” “Nei giri che ho fatto in Italia per conto della Gioventù Musicale ho notato un grande interesse proprio nei giovani. Anche tra gli operai, nei concerti presso le fabbriche. Loro, il jazz, lo vorrebbero seguire, ma non sanno come. Dove vanno a finire le centinaia di milioni che lo Stato destina ai programmi culturali? Ogni città dovrebbe avrebbe il suo teatro stabile di jazz. Il fatto è che di fondo, rimane (e siamo negli anni ’70!) ancora da risolvere il problema sociale e culturale italiano. Anche il cinema potrebbe trovare nel jazz un filone meraviglioso. Lo hanno fatto, in alcuni casi, sempre ottenendo ottimi risultati. La ricerca del rapporto musica–immagine è affascinante.” “Grazie. Biografia? “ “Niente! Enrico Intra vive. E’ vivo, basta.” Quattordici anni dopo di Dino Piana è rimasto uguale soltanto l’involucro, la parte che si vede quando uno conosce poco una persona. Dentro, è maturato, non lo conosco più. E’ esigente con il jazz, critico, consapevole. Ci ritroviamo in una Roma accaldata, luglio, mogli in vacanza, casa libera per sentire Roswell Rudd e Gato Barbieri nell’ultimo free; poi Miles Davis, gustato come un vecchio cognac, con i piedi sul tavolo. Prima, in trattoria, dopo quattro birre ghiacciate, eravamo riusciti a sentirci di nuovo amici, piemontesi emigrati senza rimpianti, immunizzati dai problemi del mondo grazie alla birra forte, felici, caldi e storditi per ricordare bene. Quattordici anni. Piana arrivò una domenica mattina (solita jam session al Circolo Torinese del Jazz) con il suo furgone rosso del Lyon’s Tea. Era triste o allegro a seconda di quante scatole di tè vedeva, povero Dino sbattuto sul lastrico da un giorno all’altro, lui con tutto quel jazz che gli rodeva dentro mentre prendeva gli ordini nelle drogherie. Timido, buono, la parlata ancora un po’ larga degli alessandrini, tirò fuori il suo trombone (suonavamo un blues, era di tiro, una specie di segno della croce prima di mangiare) e ci annientò, uno per uno, senza strafare; era una spanna sopra il migliore di noi. La ritmica aveva trovato quattro mani e dieci cuori in più, tutto bolliva, lo swing usciva dalla finestrella della cantina e rotolava sulla strada . Alla fine (chi ha il coraggio di chiudere un blues così in una jam? Durò due ore) non ci andava neanche di parlare perché i sei bravo o i Dio, che forza suonavano falsi quando stavamo per dirli. Venne a trovarci tutti i pomeriggi nel negozio dove Bob Brookmayer e Maynard Ferguson giravano per ore a tutto volume. Aveva sete di jazz e ne bevve da morire. Con la Coppa del jazz, ne ’60, lo conobbe il resto dell’ Italia. Il resto fu facile. Con dieci anni di successi, dischi, concerti (tutto è documentato sulla parete dei ricordi belli, quella dei ritagli, delle foto, delle locandine di tutto il mondo: la vendetta sul Lyon’s Tea dei tempi duri) Dino Piana è arrivato agli anni ’70 in tempo per aver importato tutta la lezione del jazz ed aver capito quanto poco sia servito fatto in questo modo. “Abbiamo copiato tutto, sempre. Abbiamo prefabbricato ogni cosa. Per molto tempo questo è andato bene: il piano gettava un accordo e si imbastivano sopra le idee, belle, rotonde, giuste in ogni nota, leziose. Ad un certo punto, sullo stesso accordo, si è sentito quanto fosse stancante , vuoto, mentre altre note, sempre giuste, sempre belle, sempre più leziose. Le cose da dire erano più grandi di un accordo, serviva più spazio”. Mi parla di Un frenetico sapore che ha registrato con Franco Tonani, una delle cose che ricorda con più simpatia fra tutta la sua produzione. Mi parla (nello stesso momento, è indicativo) di suo fratello, che ora dipinge con una certa convinzione e che nella pittura arriva a momenti di grande crisi e con l’ultimo quadro spesso capisce di dover annullare tutto quanto prodotto prima. In questo trovo Dino Piana cambiato dentro. Tra una forchettata e l’altra mi spiega i movimenti dei temi che ha inciso. Imita il trombone con la voce (il cameriere non ci fa caso, è il ristorante vicino alla Rai dove si va a mangiare all’uscita delle prove e di gente che suona senza strumento ne vede molta) e scopro che nell’ampiezza di questa musica (apparente agio, libertà, assenza di limiti) il rischio è grosso, stimolante: o suoni con la scintilla o smetti. Tre note di questo mare di libertà devono dire quello che trecento non riuscivano a dire in un chorus completo. O il bluff è totale o è totalmente assente. Parli di te stesso, ti scavi nello stomaco tutto il blues che hai accumulato, filtri lo swing per dire, in modo che non ti possa ingannare, tutto quello che hai imparato dal jazz. Devi strappare l’idea dal cervello di chi suona con te, prendere al volo la frase che qualcuno ha buttato e stenderla con ordine sul filo che ti sei teso davanti. Piana, adesso che è un professionista arrivato, quando passa negli uffici amministrativi Rai per ritirare una busta che gli ha risolto la vita spicciolata , da buono e semplice com’è, potrebbe anche sforzarsi di pensare che in quella busta esiste la risoluzione di tutti i problemi, anche quelli relativi alle cose che non ci comprano ai supermercati. Invece se li crea, o meglio, non svia i problemi che esistono per un musicista che voglia fare del jazz negli anni ’70. Lui che non è un teorico, che non potrà certo essere accusato di voler dire con la sua musica le stesse cose che potrebbe dire alzando un cartello di una marcia contestatrice, lui che potrebbe continuare a fare il suo onesto jazz come da quindici anni sta facendo e improvvisare con armonizzazioni perfette su giri complicati, vivere di rendita, insomma, lui sente la necessità di una nuova produzione, sente il bisogno di abolire le battute che costringono il discorso musicale, capisce che è proibito proibire. Una ricerca scomoda, non richiesta, stimolante. Questa capacità di vivere così intensamente il jazz, di buttarsi allo sbaraglio, mi fa pensare che sia tempo di dare al jazz italiano un valore che prima non ha mai avuto (e che non ha mai voluto o potuto avere). Sono sicuro, ora che ha imboccato le strade del mondo alla ricerca di stimoli nuovi, che il jazz potrà ricevere degli apporti significativi anche dai nostri musicisti, a patto che noi si sia i primi a credere in questo. Noi, musicisti e critici. Direi soprattutto i secondi. Rubo una frase a Alberto Rodriguez: “La critica deve diventare sempre più una scelta, individuale, politica, umana. E’ una vecchia questione, questa, già sostenuta da Baudelaire, Marx, Apollinaire e cento altri, ma che forse richiede una continua ripetizione. Bisogna cioè che il critico, e chi per professione e privilegio può scrivere ed essere intermediario, suggeritore e soprattutto formatore di coscienze, impari a schierarsi, ed insieme (sono due condizioni molto legate) a mettersi in crisi con la musica di cui segue parallelamente la vita.” Roma, 1971 Rava, fratello hai fatto troppa strada perché possa crederci. Per me hai ancora i capelli a spazzola, sei l’amico da chiamare con il cognome, come fanno i ragazzini a scuola. Per me Rava è quello che veniva con Belgrano (che tenerezza il Rosso che copiava Zoot Sims e “squadrava” anche il blues) la domenica pomeriggio, nel laboratorio di “ceramiche artistiche” di mio padre; ti nutrivi di Miles Davis per settimane, consumavi i dischi anche quando non c’era più una frase, un accordo, un fruscìo che non sapessi già a memoria. Per me Rava è quello che viveva, come tutti di noi (eravamo giovani borghesi, ma allora esserlo non ci sembrava così grave) nei negozi di dischi ad aspettare che arrivassero i long playing d’importazione, e con noi Franco Mondini, Maurizio Lama, Dino Piana, Raoul Marietti. Ecco, butti lì un po’ di nomi e ti viene un groppo in gola. Maurizio Lama era appena arrivato a Torino, ancora intatto il suo accento romano, un ragazzone buono più di tutti noi, un grande pianista poi distrutto nelle lamiere di un auto. Quando morì andai nel bagno a piangere (e l’ho fatto solo per mio padre). Voi due eravate inseparabili. Alla sera si provava (ti ricordi?), sere d’estate che a Torino ti fanno pensare a Pavese, con la collina che ti manda l’odore di terra bagnata, i ragazzini sino a tardi a correre sui viali e noi a rifare Gerry Mulligan e Chet Baker. Ho ancora le fotografie della Big Band di Pedro Brovarone, quel pazzesco incrocio di gente in gamba e di scarti musicali, cosa da libro Cuore, studenti, portalettere e muratori. Tu fingevi di leggere i pezzi (anch’io, quanto a questo); fingevamo di leggere, Rava, ma ci importava così poco sbagliare sempre le terzine e i trentaduesimi; il jazz l’avevamo nel corpo, non era sul leggio. Tu l’avevi piantato in modo così profondo da far male. Poi, per me la 46° Aerobrigata a Pisa, Servizi Operativi Generali: jazz, addio. E tu hai incominciato a fare sul serio. Ci siamo rivisti ad un concerto ed eri già un altro. Il primo disco per la collana del jazz della Centra era ancora intriso di californiano, ma era un passo importante. Il salto l’avevi già fatto: avevi rotto i flirts con le nostre amiche borghesi, lasciato l’azienda di tuo padre (non ci poteva credere, quando lo incontrai, anni dopo, non sapeva rassegnarsene). Con Gato Barbieri e Steve Lacy avevi già visto oltre la sponda del Po. Tu sei uno dei pochi, che non ha suonato altro che jazz. Non una stagione al mare da studente ( cha- cha- cha- contro vitto e alloggio per un mese a Castiglioncello) non un contratto ad Amburgo (dalle ventuno alle cinque, a St. Pauli, venti marchi, puttane e ubriachi) non una veglia a Capodanno (caffè dei musicisti: “uno libero per stasera, con vestito nero?”): mai. Soltanto jazz, prima dolciastro (Chet Baker ci sembrava tanto grande) poi Miles Davis (diceva molto di più : “ha cuore e cervello”). Davis drago, mostro scorbutico, furb’uomo che entra nelle porte aperte dai geni, butta due note (sordina alla tromba) e solleva un mondo di cose così belle da sembrare un po’ magiche (colore, piccole luci, bolle leggere) un mondo libero, libero. Cosa vuol dire per un italiano la libertà? Nell’arte, nella musica, ma anche soltanto libertà toutcourt. Oggi leggevo la risposta che Montanelli dava ad un collega, a questa domanda: “La libertà, per noi, consiste nel fare il comodo proprio. Questo è il concetto dell’anarchia, e l’italiano lo confonde con la libertà, che è invece possibile solo con l’autocontrollo.” Come reagisce un italiano di fronte ad una musica libera? Del jazz, io credo, possiamo farcene un alibi o una ragione di vita. Può essere una scusa per eludere e armonie di un giro troppo complicato o un modo per prendere coscienza della nostra posizione nel sistema. Tu, con i romani del free jazz, hai avuto il coraggio di fare la tua scelta: no alla jam session borghese, alla macchina di papà, all’azienda avviata. Avresti ugualmente potuto evitare di contaminare il tuo jazz con le canzonette, facilmente, senza merito, rimanendo nel tuo ambiente. Avresti potuto (meno facilmente, ma sempre senza merito) fare il free jazzman della domenica. Avresti potuto ancora inventare (lo fanno in molti, li conosco) scuse tecniche (“Adesso studio due ore al giorno, quando sarò a posto con lo strumento mi lancerò“) e avresti aspettato tutta la vita, spostandoti sempre in avanti il traguardo, in una stupida corsa che non avrebbe mai avuto un arrivo. Invece sei partito: con una imboccatura così così, copiando Miles Davis, seguendo le mode, facendo tanti trilli quando non ti veniva l’idea, mai hai avuto la meravigliosa faccia tosta di comprometterti con il jazz. Non sei solo bravo, Rava, perché hai suonato a New York con Ruswell Rudd. Sei bravo perché hai saputo comprometterti sino al collo, lasciando le sabbie mobili di una vischiosa borghesia torinese per immergerti nella vita di jazzman, buttando fuori dalla tromba tutta la repulsione per questo nostro modo di vivere, soffocato dai non si può e non si deve della vita. Voglio dire, Rava, che essere un uomo del jazz (e dire qualcosa nel mondo) oggi è possibile anche per uno nato a Torino o a Roma, Merano, Caserta, Vercelli o Dovevuoi). Prima non sapevano si potesse dire qualcosa che qualche negro in America non avesse già detto. Non sapevamo o non c’erano i motivi per farlo, mancava forse la condizione ambientale perché ciò potesse accadere. O forse c’era tutto questo e non abbiamo (o non hanno, loro, quelli venuti prima, perché noi allora leggevamo Salgari) saputo scoprirlo. Siamo (e sono) stati sviati dai giudizi di imbecilli come Panassiè, che non ammetteva il jazz suonato dai bianchi, razzista alla rovescia. Siamo (e sono) stati coperti di nazionalismo ottuso che ci ha costretto ad intendere il jazz come un fenomeno negro che nasce e si coltiva, come un tubero, tra questo e quel parallelo. No. Il jazz non appartiene più al folclore americano, ma alla cultura del mondo. Accetto la tesi di Umberto Santucci, quando apre l’Enciclopedia Universale dell’Arte e traccia la differenza tra arte provinciale e arte periferica. La prima, pur ricevendo moduli e proposte originali dalla cultura della madrepatria, partecipa attivamente a tale cultura perché ne rielabora i moduli, tenendo conto della propria tradizione culturale e si realizza come arte fortemente influenzata da quella originale, ma al tempo stesso dotata di caratteri distintivi sufficienti a individualizzarla. L’arte periferica, invece, riceve passivamente i moduli che le giungono dai diversi centri culturali e, assolutamente priva com’è di risorse proprie, riduce presso questi stimoli in elementi cristallizzati ed esteriori. Tutto il jazz non americano deve essere considerato arte provinciale. Basta prendere coscienza di questa funzione del jazz suonato oltre un certo parallelo, basta non scadere nel discorso periferico. Basta voler vivere, intensamente, il jazz dal di dentro. Ti sei buttato, Rava, hai avuto il coraggio di essere un pazzo di vivere. Per questo, bravo. Roma. Giorgio Gaslini mi fa strada nel suo ministudio di via Gregoriana: lo spazio è tutto preso dal pianoforte, dal tavolo gonfio di spartiti. Sopra i pentagrammi è posato un foglio bianco, scritto con un pennarello rosso a grandi lettere: danza, poesia, ferocia. Gaslini si mette sempre davanti dei cartelli quando compone, per avere fissa, di fronte a sé, l’idea centrale della composizione che sta creando. Parliamo di questa idea dell’inchiesta (una conseguenza del mio bisogno di scrivere o parlare di jazz, che è come suonarlo: diverso è solo lo strumento) “E’ il momento giusto” – mi dice Gaslini – “per far prendere coscienza del fatto che il jazz incomincia ad essere accettato dagli ambienti della cultura. Da neorinascimentale quale sono, ritengo indispensabile affermare che il musicista d’oggi (ma soprattutto quello dei prossimi anni) deve essere un individuo al quale si possa chiedere sia un concerto di jazz, sia un brano di musica elettronica, o un balletto, o un’opera. Non è più accettabile lo specialismo, perché è il risultato di una visione settoriale dell’uomo, incompleta, non totale. E’ un frammentarismo sciocco di nascita centroeuropea. Io sono partito dal jazz, sulle barricate del dopoguerra, e nel jazz mi sono realizzato. Nel 1949 mi sono ritirato dalla scena pubblica per otto anni, per due motivi: andavo maturando delle sintesi successive più ampie, sia umanamente, sia musicalmente. Inoltre si trattava di decidere se entrare, o no, nel mondo del consumo. Quelli che sono stati al gioco sono entrati nel giro commerciale. Il bivio era: integrarsi o uscire. Io, tra le due soluzioni, ho scelto la terza. Mi sono ritirato in silenzio ed ho fatto delle sintesi mie per riproporle quando mi sono sentito pronto. Infatti nel ’57 sono uscito con Tempo e Relazione, la sintesi, appunto, delle nuove esperienze jazzistiche e di quelle della musica contemporanea, sintesi nate attraverso sei diplomi di conservatorio, attraverso Kenton e Stravinsky. Sono praticamente approdato alla dodecafonia senza accorgermene. Dopo, naturalmente, non ero soddisfatto, nel senso, che questi risultati raggiunti non risolvevano i problemi che erano principalmente di ordine esistenziale, oltre che musicale. Quindi sono venuto fuori con proposte staccate e con proposte sintetiche, come Totale 1 e 2. Poi mi sono orientato verso il teatro. Opere tascabili, opere da strada, come Un quarto di vita, ora richiesta a Broadway, sino a Colloquio con Malcolm X, che è un azione musicale, una forma di jazz- theatre. Ora sento che il discorso è maturo, sento che il jazz è un fatto culturalmente importante per quello che ha detto (e per come lo ha detto) negli ultimi anni” Salvatore Quasimodo di Gaslini ha scritto: “E’ uno degli interpreti più vivaci e profondi della voce contemporanea (non direi d’avanguardia nel senso specifico e decadente del termine) e si rivela autore degno di segnare la sua disperazione interna nella struttura della musica d’oggi.” Dopo Tempo e relazione, Gaslini ha pubblicato quaranta dischi. I più importanti: Oltre, Dall’alba all’alba, Nuovi sentimenti (che ha ricevuto le cinque stelle dal Down Beat), La stagione incantata, Grido, Jazz Microkosmos 1968 e 1969 e più recentemente, Africa. La formazione del quartetto è quella collaudata in infiniti concerti: Giorgio Gaslini, pianoforte, Gianni Bedori, sax tenore e flauto, Bruno Provetto, controbasso, Franco Tonani, batteria. Di Gaslini il registra ungherese Miklo Jansco ha scritto, dopo la sua collaborazione alla colonna sonora del film “Smetti di piovere” : “Secondo me, l’arte è un servizio, un servizio per il popolo. Ma fare questo servizio e rimanere degli innovatori, rimanere fedeli a se stessi, alla propria individualità, non è facile. Amico mio, a te è riuscito”. Gil Cuppini: “Mancava la spinta della critica. Si svegliano tutti, adesso che il jazz in Italia si è svegliato. Come si siamo arrivati, a questo momento? Facendo spesso la fame, per passione. La passione è la mia vita, che suono anche per due soldi, non quella di chi vive di rendita con i contratti alla Radio. Ricerca! Rivoluzione! Ma cosa vuoi rivoluzionare, se ancora dobbiamo assimilare la maggior parte del jazz che abbiamo ascoltato sino adesso! Io sono per l’evoluzione, non per la rivoluzione. Quando si è sovvertito un sistema non si è fatto altro che crearne un altro. Le avanguardie dovrebbero essere un punto di partenza e sono invece un punto di arrivo, per molti. Operare delle ricerche indirizzate verso la musica europea ci fa correre il rischio di copiarci da noi. Porta ad una stasi. Arriveremo a scoprire una musica di secoli prima. Il jazz è il prodotto di un connubio di razze, non solo di quella negra. I negri sono stati il medium che ha permesso l’inizio di un nuovo linguaggio musicale, ma la musica che hanno usato aveva, per l’aspetto armonico–melodico, già delle matrici europee. Adesso serve sviluppare l’essenza di questo discorso, perché ai musicisti (in particolare agli italiani) è mancata la base culturale per farlo. La ricerca che è utile oggi nel jazz è una ricerca orientata all’interno del jazz stesso, perché siamo andati molto avanti senza aver analizzato con la profondità necessaria le tappe precedenti. Non deve essere disconosciuto il valore del classico: dobbiamo dire cose nuove, ma passando attraverso quello che è già stato fatto. Mi sta bene il free-jazz per la sua libertà di espressione, ma non dimentichiamoci che ci sono cento, mille Ornette Coleman in Asia, e suonano così da sempre, perché usano un diverso modo tonale. Per il free-jazz il setaccio del tempo sarà inesorabile. Io amo comporre, più che suonare. Quando compongo trovo il modo di sviluppare una ricerca che è ancora vastissima, enorme, della quale non vedo un possibile esaurimento. Ne ho avuto la conferma con la prima parte di un’opera musicale che ho incominciato a concepire molti anni fa, A New Day, che è solo un aspetto di un discorso che ancora si sta sviluppando: è l’inizio, la genesi. E ‘ solo un nuovo giorno, non un giorno nuovo. Spiega musicalmente, il ciclo nascita-vitamorte: si apre il giorno, poi inizia il lavoro, poi ti assalgono i pensieri del giorno precedente, ti ritrovi nella routine, infine scoppia il tema d’amore. Questa suite è il primo punto di una intuizione che risale al 1958. La storia, per attrazione allegorica, di come il discorso sociale sia in contrasto con quello culturale. Si svolge nei grandi magazzini (un punto in comune di tutte le società del mondo: li trovi a Milano come ad Hong- Kong, a Vienna come a New York), luoghi dove puoi trovare di tutto, dai fazzoletti alle pentole, dalle scarpe alla cipria, ma non puoi fare all’amore. Un po’ la storia di Adamo ed Eva: quando Dio ha dato la donna ad Adamo, questa era come un manichino. Una donna che hai ma che non puoi avere. Eva è un manichino parlante: Adamo, cioè l’uomo, un uomo di oggi, è un jazzman. Ebbene in questa storia che io vivo musicalmente trovo modo di scoprire tante cose. Soltanto girando un accordo riesco a riproporre una cosa diversa da quella che ho appena annotato. Perché dovrei lasciare questa ricerca che è ancora così lontana dal punto di arrivo per farne altre, oggi che ancora devo finire di scoprire un discorso che ho iniziato molti anni fa? Molti giovani hanno preso una parte della tradizione, arrivando, a volte, a degli assurdi: l’altra sera (è un esempio banale, ma ha la sua morale) dopo un concerto a Medina con Romano Mussolini, un batterista beat mi ha domandato cosa fossero quelle cose che adoperavo, oltre alle bacchette che erano l’unico mezzo a lui noto per battere le pelli. Erano delle “spazzole” comuni, semplici brush. Ma non le aveva mai viste!” . Questi sono gli appunti che sono riuscito a prendere (non avevo con me il registratore) inseguendo per Milano il batterista Gil Cuppini, maglietta rossa, crocefisso hippy, zazzera nuova fiammante. Riscritti molto tempo dopo, sono slegati almeno quanto turbinosa è stata l’intervista. Di Gil Cuppini hanno il carattere prevaricatore, trascinante, convinto, assolutista: hanno la grinta di ha vent’anni di jazz da raccontare, iniziando dal 1° Festival di Parigi nel 1949: “Calò il sipario e Bird mi si avvicinò barcollando. Piangeva. Era in uno stato pietoso. Quando fu a pochi centimetri da me si afflosciò: lo afferrai, lo sostenni per cinque minuti. Ero commosso, atterrito, confuso: avevo tra le braccia Charlie Parker!“ In quell’occasione, sul palco erano schierati tre batteristi: Max Roach, Kenny Clarke, e lui Gil Cuppini, al suo primo (e forse più bello) di molti successi in venti anni di jazz. ”Facciamo un disco o un concerto a Roma, o comunque facciamo qualcosa insieme alla radio. E’ stata realmente una grande esperienza, quella seduta di fiati alla radio, e tu suonasti veramente in modo meraviglioso, quando finalmente riuscimmo a farti suonare! Il tuo spirito è molto sviluppato e bellissimo. Nunzio, e questo è il modo in cui si crea la musica. Sono convinto ora, che sentimenti, come l’amore, la comprensione, il rispetto e la gentilezza devono resistere..” (Sonny Rollins) ”Scriverò volentieri le note di copertina per il tuo disco, Nunzio: tu sai che sei uno dei miei musicisti preferiti..” ( Dizzy Gillespie) “Vedi, queste sono le cose che contano per me”: Nunzio Rotondo ha cercato queste lettere in tutti i cassetti di casa. Me lo avevano descritto scorbutico, chiuso, inavvicinabile (“il suo telefono ce l’ho, ma non ti posso dare il numero, oppure non dirgli che te l’ho dato io”) ed è invece un personaggio dolce, caldo, ha l’umanità di chi a provato a mangiare le patate lesse e basta, pur di fare soltanto del jazz. E’ molto timido, si. Non sposta l’orologio sull’ora legale, non scrive il suo nome sulla porta, non lo vedi ai concerti (ma quando ci va si entusiasma come un bambino ed è un piacere vederlo sciolto di piacere nello swing). Parla poco, ma solo quando l’argomento non lo interessa. Adesso ci accade spesso di passare la serata al telefono a parlare di jazz. Rotondo non vive che per la musica e questa frase che, così, è retorica e abusata, si scopre che è la sola giusta per definirlo dopo che lo si è conosciuto. Non gli interessa veramente niente altro. Vive di jazz. Le tentazioni le ha avute (“Maestro, un programma speciale per lei, poi due canzonette e qualche vedette, ecco l’assegno”) e lui avanti a patate lesse, a scrivere gli argomenti fischiettando perché il pianoforte era un lusso, a scoprire nuove sonorità, un linguaggio sempre più suo (e non fuori del tempo). Suonava già del jazz quando non sapeva neppure cosa fosse. Il vibrato, lo swing, li scoprì quando imparava la musica all’Accademia di Santa Cecilia, da solo. Improvvisare era una necessità, un modo liberatorio con il quale realizzarsi. “Fare del jazz è una cosa talmente bella e completa che ti da tutto. Tu dovresti riuscire a far capire, con le tue parole, che il jazz è la cosa più bella che ci sia”. E’ il discorso di un innamorato. Lo ripete. “Devi riuscirci: trova il modo per dire che il jazz è la cosa più bella.” Se bastassero le definizioni. E’ un fatto di pathos. Un blues lento, in quattro battute, è rivelatore. La prima volta che Miles Davis (è uno dei pochi che Rotondo ascolta) suonò a Milano, Roberto Capasso cercò di fare le presentazioni. Miles ascoltò le frasi che magnificavano Nunzio Rotondo. Mano tesa ad attendere una stretta che non ci fu: Davis voltò le spalle e li lasciò a guardarsi imbarazzati. Più tardi Rotondo riuscì a suonare ed alla fine del blues, sempre senza una parola, Miles lo abbracciò. Un abbraccio lungo e commosso. Gli altri impacciati ridevano e applaudivano. Si scambiarono la tromba. Miles scosse la testa e disse a Nunzio di buttare quel bocchino, gli consigliò il suo. Un abbraccio ancora e se ne andò. Quattordici anni dopo, Miles è di nuovo in Italia e Rotondo è raggiante al pensiero di rivederlo. E’ al Sistina di Roma, nel camerino, pantaloni di lucertola nera, sciarpa hippy. Cammina, muto, davanti e dietro. Una pantera. Una signora dice a Rotondo di lasciar perdere tanto è imbestialito, morderebbe anche sua madre. Rotondo si appiattisce in un angolo, buono e zitto. Che momento infame, ma fa sempre così? Adesso che porto i baffi e i capelli lunghi, non mi riconosce, dopo quattordici anni. Ma che aspetto a fare? Miles Davis esce, gli passa davanti, lo guarda male e tira dritto. Poi si volta e torna indietro. Gli occhi tondi adesso ridono, si tocca il labbro (il bocchino, ricordi my brather?). Si abbracciano di nuovo per un minuto. Miles Davis e Nunzio Rotondo non si parlano, non si scrivono. Si riconoscono a distanza di anni sul filo del blues,in quattro battute rivelatrici. In quella prima sera a casa di Rotondo, con Walter Cianfrocca che stemperava con il suo humour da simpatico romanaccio il contatto con l’estraneo che raggela Nunzio, ho capito che Rotondo è un ricercatore istintivo. Non si pone la ricerca come problema, ma come soddisfazione del proprio bisogno di essere, domani, diverso da oggi. “Sento di non aver detto tutto.” Si troverà poi a dire, lui sulla via Cassia a Roma, le stesse cose che qualche altro musicista sta dicendo a New York o a Parigi. Non ha un giradischi funzionante in casa (i bambini li trovano deliziosi come giocattoli) e ascolta pochissimo la musica degli altri. Eppure riesce sempre a suonare le cose che si suoneranno domani. Mi ricorda Julian Cortazar ne “Il precursore”, quando descrive gli ultimi anni di Charlie Parker: “Suonavano con piacere, senza nessuna impazienza e il tecnico del suono dava segni di contentezza di là dal finestrino come un babbuino soddisfatto. E proprio in quel istante, quando Johnny (è lo pseudonimo con il quale viene indicato Charlie Parker) era come sperduto nella sua letizia, di colpo smise di suonare e lasciando andare un pugno non so a chi, disse: “Questo lo sto suonando domani”. I ragazzi rimasero di stucco, due o tre soli continuarono per qualche battuta, come un treno che tarda a frenare e Johnny si picchiava la fronte e ripeteva: “Questo l’ho già suonato domani, è orribile, Miles, l’ho già suonato domani questo!”. E non riuscivamo a distoglierlo in nessun modo da quesa idea. Dopo d’allora tutto andò male. Johnny suonava senza voglia e desiderando solo di andarsene (a drogarsi di nuovo, disse il tecnico del suono, morto di rabbia), e quando lo vidi uscire , barcollando e con la faccia color cenere, mi domandai se sarebbe durato ancora molto.”) Charlie Parker, the Bird, impazzì sopra l’idea di stare suonando quello che aveva già suonato domani. Ci morì sopra. Era uno di quelli che voltano le pagine della storia del jazz (e dopo di loro non si può più suonare come si suonava prima). Nunzio Rotondo suona alla Nunzio Rotondo e al di là dell’apparente pleonasticità dell’affermazione, non rimane (per capire che non è un pleonasmo) che chiedersi per quanti altri in Italia si possa dire, con sincerità, la stessa cosa. Arrigo Polillo, direttore di Musica Jazz, critico per jazz del GIORNO e di PANORAMA, vicechairman della Divisione Critici e Giornalisti per l’Italia della Federazione Europea del Jazz. Coautore dell’Enciclopedia del jazz (1953), nel 1958 ha pubblicato il volume Il jazz moderno: musica del dopoguerra, nel 1961 Il jazz d’oggi e nel 1968 Conoscere il jazz. “Anni fa, Gigi Campi, oggi manager della orchestra di Clarck e Boland, ma da parecchi anni mecenate del jazz in Germania, mi mise una pulce nell’orecchio parlando del sole italiano (era, me lo ricordo benissimo, una bellissima giornata): “Ma come si fa a fare del jazz con un clima come questo?” – mi disse- “Per fare del jazz – non ricordo esattamente le parole, ma il senso era questo- bisogna essere infelici, vivere in qualche grande, brutta e fredda città come quelle nostre in Germania, come quelle svedesi, e come naturalmente, New York e Chicago.” Era una battuta, ma nemmeno poi tanto. Al fondo c’è una verità incontestabile: il jazz è espressione di una certa cultura – in senso sociologico – ad anche di una certa classe sociale. Nel suo processo di internazionalizzazione – che ha incontrato dei limiti, naturalmente – ha potuto attecchire e talvolta prosperare solo là dove ha trovato un humus culturale favorevole. E’ questo il caso dell’ Italia? Probabilmente no . Qui – anche a prescindere dal cielo azzurro e dal sole splendente di cui parlava Campi – certe angosce, certi disadattamenti sono (per il momento almeno) abbastanza rari; certi atteggiamenti e certi comportamenti, altrove serenamente accettati, sono ancora ritenuti fuori dalla norma. Così il musicista di jazz italiano si trova fin dall’inizio nella necessità di far violenza all’ambiente, che non lo aiuta minimamente; non può – salvo casi eccezionali – considerare il jazz quale fonte esclusiva del proprio reddito, deve anzi – per vivere- cercare di scordare il più possibile il jazz, il suo spirito, le sue regole. I più sono professionisti della musica leggera, mentre come musicisti di jazz non possono che essere dilettanti, nel senso più nobile del termine. Dilettanti, perché si dedicano al jazz soprattutto per amore, e con scarso profitto economico; dilettanti perché per loro – quasi tutti loro- il jazz costituisce purtroppo soltanto un diletto, una lieta vacanza. Il fatto che, in epoca recente, le occasioni di vacanza siano notevolmente aumentate, non muta la sostanza delle cose: soprattutto non basta a far sentire i nostri musicisti dei jazzmen a tempo pieno. Parlo dei musicisti professionisti, naturalmente, perché i veri dilettanti, quelli che in Italia si dedicano soprattutto al jazz tradizionale, a questo status non hanno mai aspirato. Entro i limiti che si sono prefissi i nostri dilettanti sono felici: quando prendono in mano uno strumento è per fare del jazz. Questa situazione, determinata dall’ambiente, è all’origine di tutte le difficoltà che i nostri musicisti di jazz incontrano sulla loro strada e che non sempre superano facilmente. Spiega certi loro atteggiamenti, l’amarezza di molti, l’aggressività di alcuni (che si traduce magari nell’animosità verso i critici, o verso gli appassionati, definiti nella migliore delle ipotesi, esterofili) e le ritrosie di altri. Forse si può dire che il musicista di musica leggera e di jazz italiano recita un ruolo pienamente accettato socialmente, ma è insoddisfatto della musica che fa (non fosse altro perché suona solo episodicamente ciò che più gli piace); mentre, al contrario, il suo collega americano, che fa soltanto del jazz, è soddisfatto della musica che fa, ma non è affatto pienamente accettato dalla società dominante. Altrove in Germania, in Francia, in Scandinavia, dove il jazz è certo più prospero che da noi, la situazione dei jazzmen è più simile a quella che si riscontra in America che a quella esistente in Italia. Peculiare, e certo fra le meno felici, è poi la situazione dei nostri jazzmen se si tiene conto dell’importanza nel costume italiano, dell’invadenza tracotante, dei caratteri della musica leggera nostrana, che nelle sue forme più tipiche – e quindi più congeniali all’indole degli italiani- è quanto di più lontano dal jazz si possa immaginare. Se non si dimentica tutto questo, i nostri migliori musicisti di jazz- quelli di livello internazionale, come si usa dire – appaiono degli eroi, o poco meno. E si può anche comprendere chi, sentendosi appunto eroe, finisce per sopravvalutarsi. Naturalmente, chi ama di profondo amore il jazz, anche quello italiano, non può non rammaricarsi per l’esiguo numero di questi musicisti. Una gran parte di loro è sulla breccia da quindici, vent’anni. Veterani di tante battaglie, solo da poco tempo riescono a dar concerti in numero sufficiente per essere incoraggiati ad allargare il loro repertorio e a far qualche esperimento, che però i discografici troppo raramente documentano. Ora (continua Arrigo Polillo) – all’inizio del 1971 – molti di loro sono impegnati a fondo: pare anche si sia finalmente spezzato quel circolo vizioso che si era determinato fino ad epoca recente (i musicisti non si impegnavano perché non avevano un pubblico, ed il pubblico non li seguiva perché troppo pochi fra loro si impegnavano) e che aveva messo il nostro jazz in una pericolosa situazione di stallo. Ora non c’è che approfittare del momento, ed augurarci che anche i giovani, oggi in gran parte impegnati nei complessi rock, vogliamo unirsi ai loro fratelli maggiori che hanno scelto la difficile strada del jazz. E’ il solo nome delle nuove leve che mi hanno citato tutti i musicisti, senza nessun accento polemico, un nome usato come bandiera, come diploma di maturità: Franco D’Andrea, il delfino del jazz italiano. La prima volta che lo incontrai (mi aspettava per l’intervista sotto casa) mi resi conto che il delfino non avrebbe potuto essere diverso (maglione dolce vita, accento interregionale, figlio della provincia, educato, più giovane dei suoi anni, colto e sensibile, delicatissimo nella stretta di mano- un oggetto prezioso , quella destra, una cineseria sottile e fragile, pensavo alle tazze di porcellana trasparenti), la somma e l’espressione più giusta dei musicisti italiani di jazz. La serata fu fantastica, parole sino a notte, dischi sottovoce, appunti e registrazioni per un buon profilo. L’esperienza jazzistica di Franco D’Andrea è incominciata in modo vero con Gato Barbieri al Clubino di Roma. Prima, autodidatta a Merano (vita provinciale senza sbocchi) il rapporto con il jazz era solo un modo per respirare: il mondo di Louis Armstrong, tra due i muri della musica seria e di quella leggera, costituiva l’attrattiva logica per un diciottenne alla ricerca del nuova, del libero, dal momento universalistico, al di fuori di quella problematica sociale che solo più tardi può essere avvertita come implicita nel binomio musica-società. Una cosa alla quale D’Andrea poté arrivare attraverso gli studi ed un processo di maturazione di tipo fisiologico. Con Gato Barbieri venne sottoposto a verifica tutto quello che aveva imparato: fu in fondo un processo di riascolto (con mente ed orecchie nuove) di tutto quello che il jazz aveva sino a quel momento prodotto. Per D’Andrea, suonare in quel periodo, significò smontare pezzo per pezzo il meccanismo di questa musica e ricostruire tutto da capo: un processo, questo, di simbiosi in chiave umana, senza chiacchiere, senza scambi di opinione se non a livello musicale e strumentistico. Una precedente intervista, raccolta da Alberto Rodriguez per Musica Jazz, n. 4, 1969, riporta il significato che Franco D’Andrea è riuscito a dare fenomeno della riproposta dei modelli originali da parte dei jazzmen non appartenenti al mondo americano. “L’influenza più forte all’inizio l’ha esercitata su me Bill Evans. Era una influenza tremenda. Entro l’ambito jazzistico Evans stava esplorando, come nessuno aveva fatto, tutte le possibilità del dominio tonale. Per un certo periodo ciò mi è apparso come il risultato più ampio che potesse raggiungere, ed ho creduto che non si potesse suonare in modo diverso. Con Gato però ho capito che non potevo imitare Bill Evans, e subirne l’influenza, per tutta la vita. Gato allora suonava in modo molto legato allo stile di Coltrane ed in un certo senso aveva anche lui il mio stesso problema. Bisogna dire, tuttavia, che la musica di Gato non era copiata da quella di Coltrane. Lui mi ha insegnato una cosa di straordinaria importanza: che il jazz è soprattutto umanità e partecipazione. Queste due qualità facevano si che la musica di Gato possedesse una sostanza che la differenziava in modo significativo da quella di Coltrane. Anche con Gato si suonavo pezzi modali, ed anch’io, seguendo lo stesso procedimento di McCoy Tyner, ho cominciato ad armonizzare per quarte sovrapposte e nello stesso tempo a liberarmi dal condizionamento di Bill Evans. Ma c’era un altro aspetto che arricchiva l’esperienza con Gato. Lui comunicava agli altri qualcosa di impalpabile ed insieme di molto concerto. Il suo approccio con la musica era fondato su una straordinaria sincerità. Suonare diventava quindi, per tutti noi, un dare senza inibizioni. Per la prima volta io riuscivo a suonare rimuovendo una serie di conflitti interni, di blocchi psichici che sino ad allora mi aveva impedito una espressione libera ed anche una ricerca spregiudicata. Il jazz non era più una formula da applicare matematicamente, ma diventava esperienza vitale, in cui l’obbiettivo principale era liberarsi e comunicare. La musica diventava allora veramente un’esperienza collettiva, non per una èlite, ma per il grosso pubblico. Non credo che una musica popolare ci costringerebbe a diminuire o sacrificare l’impegno, la libertà della ricerca e della sperimentazione, portandoci verso il commerciale: non bisogna avere complessi in questo senso. Il jazz ha bisogno, a mio avviso, di mantenere certi suoi valori originali: lo swing è di certo il più importante di questi valori. Cerco di fare una musica che recuperi l’umanità integrale dell’individuo, nei valori della sensibilità, soprattutto. Non vogliono fare una musica d’evasione che separi artificiosamente il momento artistico e quello reale. Per questo cerco un rapporto col pubblico, voglio realizzare una musica comunicante, come ha fatto Archie Shepp, anch’io cerco di farlo, in un certo senso, secondo differenti termini formali. Come musicista e come uomo mi sento al centro di una crisi. E’ con la gente che io voglio fare i conti: la mia preoccupazione è di fare una musica che reintegri l’uomo in se stesso, che colleghi i visceri con la testa e che possa servire a qualcosa. La crisi di crescenza che sta attraversando il jazz ci ha portato a risolvere i problemi intellettuali a scapito del discorso viscerale. Nel jazz italiano, ad esempio , c’è un disco molto importante: Dall’alba all’alba di Giorgio Gaslini, dove si avverte che il ricercatore è arrivato a combustione, è entrato profondamente nella realtà con il ragionamento, non con le budella. I popoli del terzo mondo stanno facendo invece affluire al filone europeo quella musicalità brada e selvaggia, viscerale, di cui siamo carenti. Io adesso continuo a lavorare sulla base di un idea di tonalità che rimanga come centro tecnico ed emotivo, cercando di costruire una materia melodica che abbia richiami alla musica popolare. Trovare forme che abbiano una loro razionalità interna ma che permettano anche un approccio budellare con il pubblico. Il ritmo è un elemento a cui io credo molto, proprio per le implicazioni umane e reali che esso comporta.” Alberto Rodriguez, giornalista, vive a Cagliari dove è redattore della Rinascita Sarda. Collabora a Musica Jazz e ad altre riviste. “Che cos’è il jazz italiano? Chi sono i musicisti più significativi e qual è il loro valore? Quale opinione si può esprimere sul jazz italiano? Domande elementari ed insieme così generali, alle quali è terribile rispondere. Mi viene in mente un’intervista fatta ad Arrigo Polillo in televisione, durante un programma di Renzo Arbore: Polillo (che scrive e parla di jazz quotidianamente da venticinque anni) aggredito di brutto con la domanda “Che cos’è il jazz” (questione, posta in questo modo, vecchia ed inutile) non ha saputo combinare, lì per lì, una risposta soddisfacente. Ed è comprensibile: quando ha riproposto la stessa domanda ai lettori della sua rivista, Musica Jazz, dando loro il tempo di riflettere e di ragionare, le risposte giunte in redazione sono state altrettanto insoddisfacenti e generiche. Definire in modo sistematico e universale è infatti impossibile. Resta solo la possibilità di descrivere o di compiere valutazioni relative, fondate su una premessa ideologica, o politica (o anche solo di gusto). Ma per far questo occorre lo spazio necessario per svolgere, in modo più possibile chiaro, un discorso che, coinvolgendo problemi di estetica, di comunicazione, di linguistica, ed insieme di psicologia, di sociologia, ed anche di politica, possa essere autenticamente critico; diventi quindi uno strumento utile per il giudizio della massa dei fruitori, e non una opinione impressionistica, generica, isolata, espressa alla buona o magari con pretese d’importanza. Anche parlare del cosiddetto jazz italiano, in termini valutativi comporta le stesse difficoltà definitorie. Per questo motivo trovo utile fare un discorso di pura testimonianza, un discorso in cui il critico diventa partigiano e militante così come lo è il musicista. Devo confessare invece che questo problema delle definizioni è una spina che crea molta confusione, e rende più difficile l’esercizio del giudizio critico, in una formulazione organica, chiara e coerente. Quale testimonianza si può dunque portare sul jazz italiano? Rispondendo a botta calda, e dall’angolazione geograficamente provinciale in cui io vivo, mi viene da dire che il jazz italiano si comincia a farsi sentire negli anni ’50. Certo chi vive a Roma o a Milano, ed ha passato da tempo la quarantina, giudicherà eretica questa affermazione. Gli torneranno infatti alla mente gli anni sacri in cui andava ad ascoltare nelle cantine gli amici che suonavano sul giro di blues, ed in cui la comunità dei jazzofili (allora gli appassionati si chiamavano così) si sentiva addosso il destino di una minoranza esclusa ed una condizione neo-carbonara. Ma a mio avviso questi sono episodi che competono alla storia del costume e non veramente ad una cronaca minimamente storica della vita musicale, nel nostro caso, jazzistica. Negli anni ‘50 si ha la prima generazione di musicisti di jazz con un minimo “assetto professionale”. E’ la generazione che poi verrà assestandosi negli anni ’60 e che comprende in sostanza pochi nomi: Basso, Valdambrini, Volontè, Masetti, Cuppini e, più in là, Nunzio Rotondo e pochi altri. Negli anni ’60 viene ad aggiungersi un altro gruppo di giovani musicisti, sempre con forte accentuazione di professionalità: Dino Piana, Franco D’Andrea, Franco Tonani, Giovanni Tommaso. Il jazz italiano ufficiale mi sembra sia tutto qui. E non c’è, a mio avviso, problema se per caso in questo elenco qualcuno si sentirà dimenticato. I nomi indicati sono emblematici di tutto un atteggiamento musicale, di un certo modo di suonare il jazz. Ad essi possiamo aggiungere un altro piccolo nucleo di musicisti che, con diverse qualità anche strumentali, si è coagulato a Roma, provenendo da località diverse, ed ha tentato, qualche anno fa, le prime esperienze free: mi vengono in mente i nomi di Giancarlo Schiaffini, di Marcello Melis, di Enrico Rava, del discusso Mario Schiano, di Ivan Vandor (che si è mosso piuttosto nell’ambito di Nuova Conoscenza) e poi di Franco Mondini (un musicista che risiede a Torino e che ha trovato una nuova strada, pur essendo cresciuto insieme alla generazione dei Piana e dei Tonani). Il jazz italiano è sempre stato una musica priva di cultura, a lontano rimorchio delle esperienze americane. L’unica eccezione si può ritrovare forse, in Giorgio Gaslini, che si è qualificato come musicista aperto agli stimoli della musica contemporanea esterna al jazz. E’ innegabile che in Italia ci sono stati e ci sono jazzmen di qualità (penso ad esempio Franco d’Andrea) che hanno cercato agganci ampi, sia con le esperienze americane che europee, cercando di assimilare dentro una ricerca che, dopo molti tentativi, approdasse ad una autonoma espressione musicale. Non si può riscontrare, tuttavia, nei nostri musicisti, la capacità di inventare forme nuove, di cercare una collocazione originale nell’ambito non solo del jazz ma della musica in generale. I musicisti italiani non hanno mai seriamente lavorato sull’esperienza musicale, studiandone in modo finalizzato il ritrovamento di un proprio linguaggio, le forme storiche e stilistiche, lo sviluppo strutturale. Per questo il jazz nel nostro paese è sempre stato una musica di imitazione. Anche nel campo cosiddetto free si è avuto lo stesso fenomeno. I musicisti che iniziarono con il “Gruppo Romano Free jazz”, ad esempio, non sono mai riusciti a superare lo stadio del puro rifiuto del vecchio jazz, per arrivare alla definizione di un nuovo discorso musicale. E’ mancata la coscienza (altri diranno la capacità inventiva, o il fondo culturale) del nuovo tipo di lavoro da svolgere per individuare una serie di ipotesi formali (quello che volgarmente si dice stile) dotate di coerenza interna, di una struttura precisa e riconoscibile. Il free italiano si è quindi limitato ad una fuga travolgente (a volte persino folkloristica) dalla tonalità e dalle angustie del giro armonico; ha finito poi con trasformarsi in un modo (incolto e sprovveduto) di ripercorre le esperienze genericamente aleatorie e già molto datate, che la musica contemporanea aveva compiuto, ed in parte superato, da anni. Mentre il free in America compiva una evoluzione quotidiana (almeno se pensiamo a Shepp, che dopo il primo stadio di puro rifiuto, in cui la materia musicale veniva accumulata in modo informale, è andato precisando i termini di un nuovo modo di far musica, di una nuova struttura formale dove i modi del blues e l’atonalismo si mescolavano originalmente) i nostri musicisti free non hanno mai superato l’assemblage caotico e privo di scheletro strutturale dei suoni. Molti a questo punto obietteranno: eppure ci sono musicisti italiani che “suonano bene”. Certo, anche a me è capitato di sentire Franco D’Andrea con Keith Jarrett, con Gato Barbieri, con Dino Piana, e poi ancora Gianni Basso, o che so, Franco Mondini, suonare “bene”, spesso anche in modo originale, non imitavo. Sono però eccezioni, episodi isolati, dovuti a maestria strumentale, a quello che i musicisti chiamano “ buon feeling” o, se derubiamo il linguaggio sportivo, giornate di “buona vena” o di “ buona forma”. Mancano tuttavia, a mio modo di vedere , le testimonianze in disco che provino l’esistenza di una autentica invenzione musicale, di un linguaggio originale, di nuove ipotesi formali. Vi sono precise ragioni che spiegano questa carenza del jazz italiano. La maggioranza dei musicisti che suonano jazz non sono jazzmen a tempo pieno. Per vivere sono costretti a fare un altro lavoro, che spesso toglie loro la libertà di diventare musicisti diversi da ciò che attualmente sono. Quasi tutti si trovano infatti obbligati alla routine dalle prestazioni nella grande orchestra RAI o dei turni nelle sale dove si incide la musica leggera. L’ambiente che frequentano è quindi quello artigianale e buontempone dei sidemen , dove mai si discute, mai si lavora intorno ad ipotesi musicali, ma magari ci si racconta barzellette negli intervalli tra una incisione e l’altra. Quali stimoli possono derivare da una vita in cui la musica diventa soprattutto esercizio strumentale, ed in cui i musicisti entrano nell’ordine di idee che campa meglio chi ha più capacità tecnica sia sullo strumento che sulla lettura del pentagramma? La maggioranza dei musicisti italiani non ha mai studiato seriamente la musica, e chi ha studiato ha dovuto seguire i corsi burocratici e stantii dei nostri Conservatori, da cui, come è noto, i giovani studenti escono con un brevetto di più o meno alibi strumentisti, ma con una preparazione culturale ed una coscienza musicale generiche ed insufficienti. Ma vi sono anche spiegazioni più profonde. Se consideriamo la situazione dei musicisti negri americani che suonano, ad esempio, free jazz (ma quanto è poco chiara e poco utile questa etichetta) scopriamo che essi vivono dentro una specifica condizione ambientale, culturale e politica. La loro consistenza culturale è bene identificabile e deriva dal loro status esistenziale (essere negri del ghetto, minoranza all’interno di una società repressiva e sfruttatrice); le loro idee, oltre che da questa esperienza sociale, sono determinate dalla giovane tradizione politica che ha identificato i termini di una nuova cultura ed una musicalità negra (da Malcom X a Le Roy Jones, a Eldrige Cleaver ai Black Panthers). Qual è invece l’ambito culturale in cui si identifica il musicista italiano di jazz? E’ facile rispondere: l’ideologia e la visione del mondo piccolo-medio borghese, priva di agganci culturali, di riferimenti se non quelli del qualunquismo e del rifiuto della politica. Potrà sembrare ad alcuni che inquadrare il problema in questo modo costituisca una testimonianza demagogica, o accodata alla moda gauchista . Non è così. La musica come altre espressioni cosiddette artistiche, riflette in modo vivace e stretto l’ambiente sociale, la situazione socio-culturale che la produce. E’ un concetto, questo, accettato da tutti gli storici dell’arte ed ampiamente acquisito dalla storiografia. Se noi pensiamo ai musicisti italiani, al loro status ed alla loro cultura, li scopriamo agganciati all’etica piccolo borghese, privi di impegno, di scelte ragionate, se non quelle quotidiane legate ad una sopravvivenza che sia la più comoda e quieta possibile. Ma vi sono altre spiegazioni. Ancor più degli anni ’50 e ’60, oggi i musicisti italiani appaiono slegati dal loro tempo, perché dopo il 1968 (e le profonde scosse sociali che ne sono derivate sia in Europa che in America) il mondo è venuto assumendo un nuovo ritmo di sviluppo. Tutto è stato nuovamente messo in questione, dalle gestioni autoritarie dello stato, alla scuola, alla cultura. Il processo di proletarizzazione crescente, che ha accomunato alla classe operaia gli strati intermedi (tecnici, professori, piccoli professionisti, ecc.) ha creato una massa di persone che ha perso coscienza del proprio stato subalterno. La cultura ufficiale e la cultura borghese (ma anche quella tradizionale di sinistra, diciamolo per chiarezza) hanno subìto un colpo pesante. Rapidamente sono scomparsi tutta una serie di artisti (scrittori, musicisti, pittori, cineasti) considerati come pietre miliari intramontabili. La nuova cultura, rivoluzionaria, che sarebbe dovuta emergere da questi profondi rimescolamenti, solo in parte è venuta fuori. La letteratura, la pittura, il cinema riflettono questa crisi, in cui due modi opposti si trovano a confronto. E’ comprensibile, quindi, come, in campo jazzistico, non sia riuscito ad emergere saldamente un nucleo alternativo contro la generazione di musicisti classici degli anni ’60. Ciò è avvenuto, in parte, in America e solo qualche traccia si è avuta in Europa; in Italia dopo i timidi tentativi romani (ed anche milanesi) di free, la nuova generazione di musicisti non è riuscita a farsi avanti. I giovani hanno cercato di percorrere la strada del free jazz erano troppo poco agguerriti, privi di consistenti contenuti, senza solide basi, per poter riuscire ad emergere, ed elaborare un linguaggio adeguato. Non era, d’altra parte, un‘impresa facile. Di fronte all’esplodere della nuova situazione politica, di fronte alla crisi delle ideologie gestite dalle istituzioni politiche e culturali tradizionali, anche nuclei densi, ben agganciati all’industria ed alla moda culturale (penso al Gruppo ’63, all’avanguardia letteraria italiana riunita intorno a Quindici ed all’editore Feltrinelli) hanno dovuto gettare le armi, senza che altre generazioni di scrittori venissero a rimpiazzarle. Dopo la data emblematica del maggio parigino si è anzi, da più parti, ricominciato a parlare della “morte dell’arte”, della necessità che ogni operazione intellettuale si ponga solo finalità politiche. Ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano. Ad accrescere l’isolamento culturale dei musicisti viene poi l’isolamento culturale della critica jazzistica. I critici italiani (e la cosa riguarda tutti, con minor o maggior responsabilità) hanno ereditato gli atteggiamenti metodologici dei colleghi americani ed europei, e quindi tutte le carenze: in Italia si è avuta una letteratura critica attenta soprattutto alla ricostruzione fedele e cronologica del fenomeno jazzistico ed alla esatta elencazione dei reperti discografici . E’ mancata invece la prospettiva sociologica e l’analisi specificamente stilistica nella considerazione e nella valutazione della musica jazz. Si possono riconoscere nella critica italiana i limiti di un fondo culturale tipicamente crociano, così come in quella europea il taglio è stato generalmente idealistico. I critici italiani ci sono formati in gran parte su autori americani che, trascurando quasi completamente di formulare una rigorosa trama di criteri estetici, hanno affrontato il jazz in termini monografici, lavorando intorno alla raccolta di una enorme massa di notizie e di dati. Hugues Panassiè, che è stato uno dei primi responsabili dell’orientamento critico europeo, ha aggravato la situazione. Le sue opere considerano il jazz in termini addirittura feticistici (e freudiani) con una esaltazione irrazionale del musicista negro, dell’anima e del soul negro, intesi come unici depositari dello specifico jazzistico, della jazzità. Anche Andrè Hodier, che negli anni ’60 ha avuto in Italia ed in Francia una certa fortuna critica, pur muovendosi sul piano di una analisi e di una descrizione prevalentemente tecnico- musicale, non esce dai limiti dell’indagine di Panessiè né da un atteggiamento universalistico e magicomitico nella valutazione delle opere di jazz. E l’elenco potrebbe continuare. Con questa pesante eredità, la critica italiana solo negli ultimi anni ha tentato di staccarsi dalle promesse idealistiche per affrontare un discorso sul jazz legato ad una consapevolezza di metodo e ad una analisi il più possibile legata (oltre che alla prospettiva storicistica) all’individuazione delle caratteristiche semantiche del linguaggio jazzistico, per poi risalire alle ipotesi di significato. I risultati sono, però ancora informi. Resta da dire, tra l’altro, che l’estetica musicale, è, rispetto ad altre estetiche (mi si perdoni il linguaggio generico) in una situazione di maggiore difficoltà. La lingua musicale non si presenta infatti (poiché non è così referenziale) ad essere descritta come la lingua letteraria o cinematografica. Lo sforzo del critico musicale, per arrivare ad un discorso chiaro, plausibile, rigoroso, è quindi faticoso ed assai duro. Ma vi è una colpa nella critica italiana, nei confronti dei musicisti, che difficilmente può trovare scusanti. Non è una critica militante, capace di affiancarsi alle esperienze di un determinato gruppo di musicisti, condividendole, tentandone una teorizzazione ed una spiegazione ed insieme proponendo linee varianti o indicazioni di ricerca. E non è militante anche perché al rigoroso impegno culturale (e, perché no, ideologico) proprio di ogni critica militante, ha sempre sostituito il disimpegno aristocratico o perfino qualunquista. Se i musicisti ci fossero trovati di fronte una critica aggiornata, schierata, combattiva (ma su fondo culturale e non su pregiudizi), forse sarebbero rimasti più stimolati. Non sarebbe stato possibile cambiare la mentalità professionale dei vari Basso-Valdambrini, però certo i giovani musicisti sarebbero diventati degli autentici interlocutori, e sentendosi seguiti, stimolati, avrebbero, forse, ricercato di più.” Franco Cerri è uno smussatore d’angoli, un gentiluomo old fashion, un conversatore incantevole, un chitarrista sofisticato, un personaggio piacevolissimo che si può immaginare in tutte le situazioni tranne che attaccato ai muri di tutta Italia immerso vestito nell’acqua e biologicamente deterso. Lo incontro di pomeriggio, sul palcoscenico del Sistina, durante la prova del suo concerto romano con Martial Solal. Gli lascio nell’orecchio l’eco di alcune domande (la situazione del jazz in Italia com’era, com’è, come sarà; chi è jazzisticamente Franco Cerri?) che gli impediranno di dormire, nonostante la stanchezza, nell’intervallo prima del concerto. Dopo il concerto, tutti a cena, con il piacere addosso dei bis sinceri e del buon successo decretato dai quattro gatti presenti alla serata. “Io non sono mai stato tenero con i critici mancati e gli impresari da serie B, ma devo dire che vi sono delle scusanti per quello che in Italia non si è fatto a favore del jazz. Mancava praticamente tutto quello che serve per fare bene del jazz, dai locali, all’ambiente (nel senso di atmosfera), alla preparazione della critica. In più, in Italia siamo malati di esterofilia e quindi noi musicisti siamo stati spesso boicottati, messi da parte e, sempre poco seguiti. Da parte nostra abbiamo fatto ben poco per cambiare questa situazione , studiando poco, creando l’alibi dei vittimismo, scannandoci tra di noi. Le eccezioni ci sono, come sempre, ma il quadro della situazione generale è pressappoco questo. Adesso le cose stanno anche qui cambiando, gradatamente, per una maggior consapevolezza della critica che si è spostata su binari di maggior obiettività e soprattutto perché un gruppo di musicisti, raggruppati sotto la U.I.M.J (Unione Italiana Musicisti di Jazz) ha incominciato ad alzare la voce.” Che è, jazzisticamente, Franco Cerri? “Un Petersoniano, anzi, un Petersonista, legato al modo melodico-armonico e ad una concezione tradizionale del jazz. Non sono riuscito ad accettare il free-jazz proprio per l’atteggiamento dissacrante mostrato nei confronti della tradizione. In Italia posso ammirare sconfinatamene solo Franco D’Andrea, un pianista (anzi, un musicista) che si fa largo prepotentemente perché la sua è musica libera, ma legata alla tradizione. Il suo discorso mi affascina perché trattiene, anche se solo per un capello, il passato musicale, nel quale inserisce degli stimoli nuovi. Una via molto, molto giusta. In altre parole, riesco ad apprezzare chi ha continuato a progredire stilisticamente, senza voltare la schiena al jazz. Quello che conta, è che il jazz oggi sia un linguaggio internazionale accettato in tutti gli ambienti. Sbagliano gli impresari quando organizzano (per essere alla page) solo concerti di free- jazz. So che la critica oggi vuole solo questo, ma è un grosso errore. Sono state superate molte forme tradizionali senza che fossero state fruite completamente. Non è vero che non c’è ricerca, se non a livello dell’ultima moda, perché il musicista matura strada facendo, scopre delle cose (arricchito dall’esperienza) ed è ingiusto che il frutto di questa ricerca venga sciupato solo perché questa non segue i sentieri della nuova avventura. Perché vogliamo sciupare il risultato di questa maturazione? Forse è vero, che io fossi sollecitato da un bisogno di sopravivenza, sul piano spirituale e materiale, più spinto di quanto oggi non sia il mio bisogno (forse grazie a Bio Presto), la mia ricerca sarebbe più appariscente, perché approderebbe a fenomeni evidenti. Oggi non ho questo tipo di sollecitazione: quindi smusso gli angoli, arrotondo il sound del mio quartetto, cerco delle soddisfazioni timbriche che nascono però da una ricerca (inserita nell’ambito della tradizione e del classicismo) che mi rifiuto di veder buttata nella spazzatura.” Franco Cerri ( Milano, 29 gennaio 1926) 1943: muratore e ascensorista ( per vivere) durante la guerra; 1944: guitto tra imbonitori e ballerine; 1945: la chitarra è uno svago, con lezioni prese da Radio Londra che trasmette Eddie Lang e Charlie Christian; 1949: suona con Django Reinhardt all’Astoria Club, Milano; 1951: con Sandro Bagaglini, Vittorio Paltrinieri, Alberto Pizzigoni e Rodolfo Bonetto forma il suo primo complesso; 1955: in Norvegia alla scoperta del jazz scandinavo; 1957: Taverna Messicana, Milano: nuovo complesso con Livio Cerveglieri, Renato Sellani, Giorgio Buratti, Gianni Cazzola e Nicola Arigiliano. Qui suona con Chet Baker, Bud Shank, Claude Williamson, Billie Holiday, Gerry Mulligan, Lars Gullin, Lee Koniz, Buddy Collette ed il Modern Jazz Quartet; 1959: inizia a comporre musiche per shorts pubblicitari; 1960: rappresenta l’Italia a Berlino nella European Jazz All Stars; 1963: partecipa al Festival di Comblain-La-Tour; 1966: due concerti alla Philarmonic Hall di New York come solista; 1970: con Angelo Arienti forma un duo di chitarre e ritmica. Franco Tonani, prima di parlare di jazz, vuole sgombrare il campo delle idee distorte che le definizioni, le sigle, le etichette hanno messo nella mente di molti. “Basta con la parola jazz, con la parola pop, o beat o rock, se ciò che doveva servire da codice per una chiara classificazione è stato scambiato per uno stemma corporativo. Esiste la musica, un fenomeno totale, universale. Jazz è una parola superata: la musica oggi, può essere intesa soltanto come fenomeno sociale di portata mondiale. Se tuttavia vogliamo continuare ad usare queste definizioni in funzione di codice, possiamo dire che jazz può riassumere la funzione di elemento catalizzatore degli interessi musicali dell’uomo anche in senso umano, sociale e politico. La musica (lo è sempre stata, ma oggi lo comprendiamo con chiarezza) è socialità. Lo sforzo degli uomini in questi anni, e lo attestano i fatti, è la ricerca di una forma politica universalistica che possa servire da abito comune a tutti gli uomini del mondo. Nell’ambito di questa ricerca si fanno proprie le esperienze delle altre civiltà, non copiandole, ma vivendole (o rivivendole) come fenomeno di arricchimento del proprio patrimonio culturale. Il jazz, in questa ricerca, è la forma musicale più rappresentativa, riuscendo a svolgere la funzione di comune denominatore proprio per le caratteristiche del suo linguaggio, estremamente moderno, ma radicato nella rinnovata sensibilità delle masse, alla luce dei problemi comuni e perciò schivo da arroganze settarie ed intellettuali. Non dimentichiamo Platone: “Le arti possono essere deleterie ai fini di una socialità perfetta”. A lungo abbiamo considerato le espressioni artistiche come un fenomeno a se stante, quasi un secondo abito umano, una possibilità dell’uomo di elevarsi sull’uomo, riducendo così l’arte ad una intensità metafisica. Considerando che l’arte ha poca importanza ai fini dell’evoluzione sociale dell’uomo (la vera determinante è la politica) si può dire che questa forma musicale possiede tutte le doti per essere compendiata nel moderno contesto politico-culturale. Il jazz può utilizzare qualunque forma folkloristica; può allo stesso tempo, sfruttare e influenzare ogni forma di musica popolare. Tutto ciò presuppone perciò che il musicista sia in grado di mandare avanti il suo discorso con disponibilità per una ricerca ampia e approfondita, sia sul piano formale e compositivo. Al di fuori di questa linea si potranno produrre opere magari di ottimo livello estetico, ma nullo più. In Italia, a mio avviso questa esigenza è stata sentita in special modo da Giorgio Gaslini, soprattutto in alcuni dischi, come Nuovi Sentimenti e Africa, per il quale ho realizzato la parte ritmica. A mio avviso anche nel mio disco Un frenetico sapore con Dino Piana, Gianni Basso, Franco D’Andrea e Bruno Tommaso, questo stimolo di rinnovamento si è concretizzato con convincente chiarezza.” Presentazione al disco Un frenetico sapore di Franco Tonani: Il jazz è swing il jazz è feeling il jazz è musica universale è il linguaggio dello spirito che ha fuso le diverse espressioni popolari in una dimensione nuova e reale il bisogno di esprimere artisticamente i problemi comuni, il benessere industriale la divinità delle macchine, la crisi dell’intellettuale l’alienazione ai sistemi, la pianificazione dell’uomo. I giovani sono beat. Loro swingano la paura, la felicità, il progresso. Parlano colori di poesia. Il tempo che respira faticosamente le spoliazioni dello spirito la fame la pace dei popoli e la giustizia sociale. L’amore è la fede nell’uomo, il riscatto dalla servitù, il sacrificio dei grandi poeti, oltre i confini del tempo e dello spazio. L’arte è il pensiero libero, è l’edificazione della cultura, incitamento all’unita degli uomini. Il jazz è la nostra musica, il nostro folclore moderno. È lo spirito che anima le composizioni di questo disco, con le sue canzoni di città e di sagra paesana. L’impronta indelebile dei maestri del jazz, l’incitamento alla scoperta del mondo attraverso la cultura popolare. A Renzo Nissim, uomo di cultura, pittore, inconfondibile “voce dell’America” degli anni del dopoguerra, programmatore, radiofonico e vecchio innamorato del jazz, ho chiesto: perché ci si accosta al jazz. “Se ne avverte la sincerità. La fruizione è istintiva. La protesta del blues è, in sostanza, un grido ed un grido si avverte. Viene raccolto da chi è disposto ad accostarsi ad un fenomeno antiretorico, quindi viene solitamente percepito da una èlite. Spesso, per questo, la passione per il jazz diventa un fatto snobistico. La massa è legata alla retorica, quindi poco attratta da un tipo di musica quale il jazz. La riprova di questo si ha analizzando le caratteristiche dell’affermazione del jazz nei vari paesi del mondo: si è affermato ovunque con grande profondità e ridottissima estensione.” Interrompo le prove di Giorgio Albertazzi (in un teatrino fuori mano, utile per metter su gli spettacoli: Anna Proclemer e Gabriele Ferzetti mi guardano male, sono in ritardo con le prove, non è un bel momento per un’intervista) ma lui parla volentieri di jazz (mi sorprende un poco, anzi, quando prima di rispondere, mi chiede se alludo al jazz vero, puro, non a “ quello manipolato”) ed il discorso viene fuori liscio ed interessante. “Il jazz è un momento di fondo della cultura moderna, soprattutto per il ritmo che ha dato alla nostra concezione del mondo. Il cinema per esempio, ha fatto tesoro del jazz: anche il teatro moderno considera il jazz. Questo che stiamo vivendo, è un momento molto particolare, perché si tende all’integrazione delle diverse forme di spettacolo. Si tende tutti ad uno spettacolo totale in cui compaiono sullo stesso livello parole, musica, ballo, ecc. In fondo tutti avremmo voluto, a suo tempo, aver firmato, pur con tutti i suoi limiti, un’opera come Hair, anche se poi è uno spettacolo fatto per i mass-media, o per i borghesi, in ogni caso”. Gli riporto la mia impressione (di spettatore deluso) sul risultato di Slaveship di LeRoi Jones, andato in scena nel Premio Roma 1970, in cui le musiche di Archie Shepp avevano perso quasi completamente la loro validità jazzistica. L’aderenza all’effetto scenico (perfetta) era andata a scapito dal contenuto della musica, forse anche perché mal eseguita. “Purtroppo questo è il limite di quando si mette della musica in uno spettacolo. Per quanto sia, la musica raramente tende all’espressione totale.” Chiedo, in tal caso, quale sia il possibile sbocco del jazz nei confronti del teatro, specialmente oggi che viviamo in Europa un momento elettrizzante, che sarebbe bene non sciupare. Chiedo, in sostanza, se gli uomini di spettacolo sono consapevoli e pronti ad accettare il fenomeno jazz come entità culturale da salvare. Quali, in sostana, i rapporti futuri tra il jazz ed il teatro? “Io penso si possano nutrire delle speranze, in questo senso. Personalmente sto pensando ad uno spettacolo tratto da un testo classico (completamente rivisto) che avrà una partecipazione musicale jazz, in cui la musica cercherà di avere appunto una funzione espressiva totale. Io penso che non si riuscirà più a prescindere dal fatto che il jazz è entrato talmente nell’inconscio collettivo e che si avrà sempre più l’impressione di averlo addosso in ogni momento. Ricordo, ad esempio, che una volta mi trovai in difficoltà nel ricreare il mondo di un personaggio di Ibsen, negli Spettri, un mondo quindi assolutamente lontano (storicamente) dal jazz, ma pieno di analogia da un punto di vista esistenziale. Non riuscivo a trovare il modo, ricordo, di rappresentare questo canto nostalgico del personaggio per una Parigi vista utopisticamente come un paese di artisti, di gente libera, anarchica. Non riuscivo a cogliere il metro giusto per trasmettere il dramma di questo uomo. Mancava l’idea coerente che legasse il tutto e la scoprii, per caso, ascoltando Charlie Parker. Compresi che quel personaggio era the Bird e lo riproposi cosi, completamente, dall’inizio alla fine: avevo trovato un mondo jazz di recitare. Oggi il jazz, è vero, non compare nel teatro come aspetto funzionale, operante da un punto di vista musicale, ma la contrazione e la ritmica del jazz sono insite in tutte le manifestazione teatrali moderne. Appare come patrimonio dell’uomo, che si è arricchito appunto di un ritmo che gli ha permesso di abbandonare quel tanto di strascicato, di vecchio, di inutile che si sentiva nella vecchia recitazione.” Giorgio Azzolini riesce a “parlare senza accento la lingua internazionale del jazz moderno” secondo una bellissima nota di Demètre Joakimidis. Novantadue traversate di Atlantico, due anni in Germania, studi serissimi sul contrabbasso con Godoli a Firenze (“Per fare delle musica bisogna saper suonare”) Azzolini, antidivo, professionista serioso, della musica ha il culto di chi suona per consapevolezza e non per casualità. Il curriculum è di quelli che si mandano volentieri per i cataloghi dei concerti: inizia a Milano con il trio Enrico Intra, poi con il quintetto di Basso e Valdambrini: infine è bassista in quasi tutte le formazioni, combos o big-band: quindici LP, infiniti 45 giri, cinque dischi da “leader” tra i quali Crucial Moment (inciso nel 1968) ha ricevuto l’Oscar dalla critica quale miglior disco italiano. Ispirato da Red Mitchel, da Ray Vinnegard e da Ray Brown sugli inizi, Azzolini ha poi trovato un suo pulsare ritmico, tanto rigoroso quanto disposto a lanciare gli strumenti che accompagna. I discorsi musicali di Azzolini, condotti con l’archetto, svelano la sua natura di jazzman che dello swing conosce l’importanza ma, anche, la necessità di non renderlo l’unico elemento caratteristico di un contrabbassista jazz. Ama i piccoli complessi (What’s happening? con Franco D’Andrea e Franco Tonani dice quando il trio lo attragga più della big-band) ma nella grande formazione riesce a trovare il fuoco giusto per sorreggere le sezioni dei fiati. Il suo modello espressivo rimane comunque quello di un contrabbassista che galvanizzi con il suono, non con l’atteggiamento, la musica di un piccolo complesso. Giorgio Azzolini lotta per suonare solo del jazz; rifiuta, quando può, le convocazioni televisive nelle orchestre commerciali. Parliamo del futuro del jazz italiano nella sua casa milanese. Azzolini ha trascorso la mattinata negli studi della Rai ad accompagnare Dora Musumeci (tre ore di blues fuori quadratura, di swing finto, di jazz da strapazzo: la musica della Musumeci è buon jazz solo per gli incompetenti funzionari televisivi, dice) ed il discorso è un po’ amaro. “Mancano i rincalzi. Non esistono i locali per fare del jazz, manca la possibilità di suonare. Leggi cosa scrive questo critico sul jazz italiano.” Sono le note di copertina di Whas’s happening?, dove Joachin-Ernest Berendt, dopo aver detto che Azzoloni è uno dei migliori contrabbassisti da lui ascoltati in Europa, confessa che “resterà sempre un mistero il fatto che i brillanti jazzisti italiani non trovino maggior riconoscimento. Nel jazz americano, i jazzmen italo-americani si pongono subito dopo i negri e i musicisti d’orgine ebraica. Nessun altro popolo ha dato al jazz americano rappresentanti cosi validi come l’Italia. In Europa però, soprattutto in Italia, i musicisti jazz italiani sono quasi completamente sconosciuti.” Qui, in via Tagliamento (tram che sferragliano in strada, appartamento lindo, i dischi in ordine, la moglie gentile che prepara il caffé) Giorgio Azzolini è contornato da vicini che lo chiamano maestro solo il giorno dopo che ha accompagnato Gianni Morandi a Canzonissima. Di lui e del suo jazz, dell’Azzolini vero, non sanno niente. Forse perché potrebbe essere, indifferentemente, un ragioniere delle Assicurazioni Generali, un cassiere del Banco di Napoli o un notaio. Lui, come quasi tutti i jazzmen italiani, ha l’aspetto del signore distinto del piano di sopra, dell’italiano medio, dell’impiegato puntuale, non del trincatore di whisky, fumatore di paglia, hippy per moda, come il jazzista-medio americano od europeo. Le ragioni di questo perbenismo dell’abbigliamento (ma quasi per tutti, oltre alla barba fatta e all’ordine formale, c’è anche un ordine morale altrettanto rigoroso) potrebbe essere spiegato con l’inquadramento orchestrale RAI-TV (cartellino, libro paga, sissignore). Non credo questo basti a spiegarlo: la ragione più vera sta forse nel fatto che non esistendo un mondo del jazz italiano, non esiste la necessità di caratterizzazione tipica dei mondi autonomi. Il personaggio, cioè, nasce come conseguenza del bisogno di affermare (anche sul piano esteriore) l’appartenenza ad un ambiente, che è spesso espressione reazionaria nei confronti di un establishment, al quale tende a contrapporsi per ragioni di ordine sociale, politico e culturale. La camicia bianca e la cravatta dell’Upim degli italiani sono per prima cosa il risultato di una pigrizia costituzionale (o attaccamento alla tradizione) e renitenza (sempre più indebolita dai continui stimoli all’acquisto) a cedere alle mode. Ma più ancora, in questo fatto di avere dei jazzmen asettici, atipici, anodini, anacronistici, conta l’atteggiamento della massa nei confronti del jazz: a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, dove il jazz è molto meno apprezzato di quanto in generale si creda (è musica da negri, si suona per accompagnare le cene rozzamente galanti nelle Steak’s House), da noi il jazz è circondato del rispetto che si deve agli sconosciuti. Non serve, allora, una divisa di gruppo. Per degli rispettati sconosciuti vanno bene le camicie e le cravatte dell’Upim. “Il mio sfogo” (dice Marcello Rosa, ex-trombonista della Roman New Orleans Jazz Band, attualmente leader del New Dixieland Sound, programmatore Rai) “sembrerà quello di un pazzo o di un frustrato. Ma la situazione del jazz in Italia deve essere affrontata di petto, ormai. Per anni io, come tutti, ho resistito alle provocazioni passive di chi, almeno in teoria, dovrebbe rappresentare il potere esecutivo per quanto riguarda il jazz. Il menefreghismo dei dirigenti e funzionari della Radiotelevisione è assoluto. Parlo di questo ambiente perché tutti noi sappiamo quale importanza rivesta, sul piano della ripartizione dei valori da assegnare ai mass-media, la Rai TV. Ho sempre incontrato incredibili difficoltà per qualsiasi proposta di miglioramento dei programmi di jazz. Ho ancora nell’orecchio la risposta di rito: ”Ma Lei, maestro, è sempre cosi intransigente…”. Programmi a 75 lire al minuto, ignoranza completa a tutti i livelli musicali, tacita approvazione per i favoritismi ai programmatori: un’attività commerciale senza alcun riguardo per i gusti del pubblico! Non basta. Oltre all’ignoranza dei funzionari, c’è l’atteggiamento inconscio (eufemismo: potrei dire in molti casi invidia) da parte di tutti gli ex più o meno falliti che ricoprono (grazie al jazz che li ammanta di una sensibilità musicale fuori dell’ordinario) cariche importanti presso le case discografiche, presso la stessa Rai o le redazioni dei giornali. Il loro è un atteggiamento di sufficienza che rende avvilente, non solo difficile, la vita del jazzman che insiste.” Milano. Si cena al Dollaro, tra una prova ed un concerto: pizza e problemi del jazz in Italia. Con Claudio Lo Cascio si parla più di quanto si riesca a mangiare. Palermitano, trentasettenne, pianista e compositore, giornalista e funzionario d’industria gruppo ENI, lo chiamano Acido Prussico (e Polillo ne sa qualcosa della sua acidità, dopo dieci anni di polemiche su Musica Jazz). Lo Cascio, in una Sicilia che rappresenta lo schieramento più avanzato dell’apartheid culturale italiano, si sente un negro bianco e le forme di reazione a questo stato di cose conducono alla più assoluta e totale autonomia. Lo Cascio ha creato, in questa sua autonoma vita da jazzman, un proprio studio di registrazione professionale, una propria società (Jazz Society) che da dieci anni stampa bollettini di informazione, una produzione discografica edita e diffusa in proprio, un proprio complesso musicale che suona del jazz ispirato dal folklore locale, riproposto come musica propria: insomma, tutto in proprio. “La vita di stenti condotta fino ad oggi dal jazz italiano è frutto non soltanto di uno stato di grave arretratezza culturale, generalizzata nel nostro paese (e di cui la colossale ignoranza in campo musicale è solo uno degli aspetti), ma anche dell’ostilità (ieri) e della prevalente indifferenza (oggi) manifestata nei confronti del jazz dalla RAI-TV. La sua progressiva politicizzazione a tutti i livelli, e soprattutto i costi comportati da tale politicizzazione, hanno costretto la Rai a realizzare praticamente quasi tutto il proprio autonomo apparato artistico, cosa che ha messo la Rai inevitabilmente in una condizione di assoluta dipendenza dall’industria discografica nazionale. Questa, che deve obbedire come qualsiasi altra industria alle ferree leggi della creazione e del collocamento di un prodotto industriale, emargina il jazz sia perché questo è, da sempre, una merce povera, sia perché è una industria che manca dell’attrezzatura mentale capace di farle comprendere ciò che il jazz- pur con i suoi limiti- può renderle sotto il profilo commerciale: e ciò per gli stessi motivi per cui l’industria discografica- che non è esente dal gap culturale generale – riesce a creare in Italia solo prodotti il cui consumo, salvo un paio di eccezioni che confermano la regola, non varca le nostre frontiere. Oggi, la situazione sembra, ma sembra soltanto, essersi sbloccata. In realtà il jazz TV non ha fatto passi avanti, semmai il contrario: lo stesso può dirsi della radio dove il jazz è stato pressoché interamente relegato sul Terzo programma che ha indici di ascolto di gran lunga inferiori ai due nazionali.Le nuove leve, poi, non appaiono all’orizzonte in numero sufficiente a garantire un effettivo ricambio dei quadri dei musicisti. L’unica nota lieta viene dai festival: effettivamente un numero crescente di enti turistici locali, opportunamente sensibilizzati da attivisti più o meno disinteressati, si va rendendo conto di potere allestire con il jazz manifestazioni di prestigio a basso costo. Senza l’aiuto di una serie di concause (intervento della RAI-TV alle manifestazioni, apertura seria e costante dei grandi rotocalchi al jazz, ecc.) è presto quindi per concludere che la situazione si sia sbloccata. Nel futuro è ragionevole prevedere una sperimentazione sempre meno ingenua dei mezzi espressivi offerti dalla musica elettronica e dalla musica concreta. Parallelamente, uno studio accurato del folklore musicale italiano (su cui tranne rare pubblicazioni manca un panorama veramente esauriente anche dal punto di vista metodologico) potrebbe offrire spunti e indicazioni originali ai compositori e in genere ai musicisti i quali dovrebbero ricavare solo il senso di certe articolazioni del musicale dei vari Ayler, Shepp, ecc., anziché, come invece purtroppo avviene sempre- ritenersi soddisfatti di una imitazione esteriore dei modelli di oltre Oceano. Una cosa questa, di cui quasi nessuno dei musicisti attivi in Italia, fatta eccezione per Giorgio Gaslini ed Enrico Intra, sembra avvertire la mortificazione duplice: del jazzista imitatore, e del jazz che, in quanto oggetto di riverente ed incondizionata imitazione, viene svilito della sua enorme importanza di espressione di un sentire universale, espressione alla quale tutti hanno tutti il diritto-dovere di apportare il proprio contributo, piccolo o grande che sia. Su questo punto le colpe della critica italiana sono gravi, perché è stata fino ad oggi incapsulata da una forma mentis che è poco definire provinciale e che ha condizionato la quasi totalità dei musicisti: questi, infatti, solo in casi rarissimi (e come tali irrilevanti) hanno avuto la forza di resistere alle prospettive-allettanti anche dal punto di vista promozionale e quindi in definitiva molto prosaicamente professionale – di una o più o meno incondizionata adesione ad una impostazione critica la cui assurdità verrebbe automaticamente dimostrata qualora si potesse calare, per qualche anno, fra noi e gli Stati Uniti- e per estensione il restante mondo occidentale- una specie di cortina di ferro con relativo embargo discografico e radiofonico.” Sulla Nuova Rivista Musicale (n. 4, 1968) in un brano di “Diario e viaggio musicale” Leone Piccioni afferma: “ Conosco molti bravi jazzisti italiani d’oggi: quelli che seguono il genere tradizionale (in modo forse un poco anacronistico, specie qui in Italia e non sulle grandi barche del Mississippi); quelli che hanno assimilato il be-bop, il cool jazz ed il new sound, che sono andati avanti nella loro ricerca avanzata ma in un ambito di struttura melodica (e per tanti altri nomi, mia sia consentito da nominare almeno Nunzio Rotondo, non fosse altro perché l’ho ascoltato proprio quando incominciava e so che specie di “orribile fanatismo”, per dirla con Leopardi, usi contro se stesso in questo suo amore della pura musica jazz); quelli infine che si sono collocati nella strada di free jazz, capitolo a parte. So in quali difficili condizioni lavorino in Italia: non incidono dischi, i locali da ballo non vogliono jazz, scarsi sono i circoli e i concerti; le possibilità di lavoro si riducono alle scarse richieste radiofoniche e televisive (si pensi al naturale modo della radio di far programmi con dischi e, per il jazz, al parco dischi stranieri di cui può far uso quotidiano). Lo so bene anche io che non depongo, in alcun modo, l’idea di programmare in radio molti appuntamenti musicali fissi con il jazz, anche se il cosiddetto – e certamente attendibile- indice di gradimento, per questo genere, proposto a “recinto chiuso”, raramente superi il 50%. Pessimo indizio”. Jazz più radio uguale Adriano Mazzoletti. Andiamo a prendere il tè in un bar dei Prati, al termine di una giornata in via Asiago. Chiedo a Mazzoletti un confronto tra il numero delle ore di jazz programmate nelle altre nazioni europee rispetto all’Italia. “La nazione che trasmette più jazz è l’Inghilterra, seguita dalla Germania. Ma un confronto di questo tipo non è possibile senza aver chiarito prima il sistema radiofonico degli altri paesi, molto differente dal nostro. In Germania, ad esempio, esiste la Comunità delle Radio Tedesche, nove stazioni legate tra di loro, ma autonome come programmazione, anche dal punto di vista economico. Così in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Spagna. In sostanza, al di fuori degli stati dell’Est europeo, il sistema di ente radiofonico unico quale quello esistente in Italia lo si trova soltanto in Scandinavia, in Grecia e in Irlanda.” “Nelle nazioni con più enti radiofonici la concorrenza porta il livello culturale dei programmi su piani più elevati? “No, assolutamente. La radio italiana assolve questo compito, nel senso che soddisfa le esigenze culturali di un determinato tipo di pubblico, a mio avviso molto bene, con il terzo programma. Per ritornare comunque al problema del jazz, in Italia la radio ne trasmette tre ore alla settimana; più specificamente: tre ore sotto l’etichetta jazz, più i programmi che contengono del jazz per scelta dei programmatori, più ancora le trasmissioni del tipo di quella di Nunzio Rotondo ed altre.” “Quindi in generale, di più o di meno delle altre nazioni europee?” “Di meno. Sai, l’indice di gradimento del jazz è piuttosto basso, inferiore al 50 %.” “Quindi la radio dà al pubblico ciò che il pubblico vuole.” “Non esattamente: la radio dà al pubblico certe cose e poi chiede al pubblico se le ha gradite.” “In ogni caso le trasmissioni tengono conto, vengono anzi modellate, sull’indice di gradimento. Ora vorrei chiederti, non senza sottolineare il fatto che la radio in Italia agisce in regime di monopolio ed ha quindi una precisa responsabilità sul piano formativo e informativo nei confronti del pubblico, se non ti pare curioso che le programmazioni, con le loro “ implicazioni” didattiche, vengano impostate chiedendo al pubblico cosa preferisce. Un po’ come un insegnante che depenni dal programma didattico, se non graditi agli alunni, i nomi di Sofocle, Eurìpide, ecc.” “Giusto, ma la radio non ha mai escluso dalle programmazioni nessun fenomeno, musicale o no, soltanto perché l’indice di gradimento era basso.” “Per quanto riguarda il jazz ed il suo futuro alla radio, sei ottimista o no?” “Sono ottimista, certo. In particolare io sono per il jazz italiano, al quale è dedicata la stagione in corso. Io spero si possa arrivare ad avere un’ora di jazz al giorno, di alta qualità, inteso come programma di cultura, ricco di informazioni. Non è un’utopia. Penso ci si possa arrivare molto presto. Il jazz è entrato nell’atmosfera generale, ormai, molto più di quanto non fosse un tempo. Ventidue anni fa il jazz dovevi davvero andarlo a cercare, e con fatica. Oggi lo senti alla radio (poco, forse, ma è sempre qualcosa), lo senti nella filodiffusione, nei negozi di dischi, al cinema, in una infinità di festival. A Roma, Milano, Torino, Genova esistono locali esclusivamente dedicati al jazz, aperti tutte le sere. Il problema è semmai quello di riuscire a dare al pubblico un jazz di qualità, sfrondato di tutti i bluff e le falsità che oggi più di prima esistono. Un tempo si avevano due nette separazioni, di qua poniamo, Duke Ellington e di là, dico a caso, Perez Prado. Oggi hai una musica molto meno definita nella quale si nasconde tanta impurità. Non è poi da dimenticare il fatto che la Rai è stata la prima tra gli enti radiofonici europei ad organizzare un programma come la “Coppa del Jazz” (idea che è poi stata raccolta dalla RTF francese) programma dal quale sono emersi nomi come quelli di Dino Piana, Franco Tonani, Antonello Vannucchi, Giovanni Tommaso e molti altri. Ha poi organizzato cinque stagioni di concerti jazz nelle quali sono passati i nomi dei più grandi jazzmen americani, da Ornette Coleman a Max Roach, da Lionel Hampton a Barney Kessel, da Slide Hampton ad Art Farmer, ed in questi concerti il 53% era rappresentato da musicisti italiani. Cinquantatre musicisti italiani su cento non italiani: il calcolo lo feci a suo tempo per via di una polemica sorta su Musica Jazz nella quale si lamentava una troppo massiccia presenza degli stranieri in confronto a quella dei nostri musicisti. La stagione 1971 la Radio l’ha dedicata esclusivamente ai musicisti italiani, proprio per permettere una specie di censimento delle forze nazionali. Questa è quindi la situazione del jazz alla radio. I programmi sono curati da Roberto Nicolosi, Francesco Forti, Marcello Rosa e Nunzio Rotondo, oltre che da me. Inoltre la radio partecipa a delle manifestazioni internazionali di jazz, esattamente due ogni anno: una è un concerto internazionale, l’altra uno spettacolo di quiz sul jazz. I concerti vengono fatti, a turno, in ogni città europea. Nelle ultime stagioni la Radio RAI ha inviato Sergio Fanni, Dino Piana, Franco D’Andrea, Enzo Scoppa, Giovanni Tommaso, Cicci Santucci. “Come avviene la scelta di questi musicisti?” “Viene fatta secondo la segnalazione della radio straniera che organizza il concerto, la quale richiede determinati strumenti, pianificando tali richieste in modo uniforme, allo scopo di evitare la presenza, poniamo, da cinque batteristi. La Rai interpella alcuni musicisti che rientrano nella suddivisione strumentale che ha ricevuto. Ad esempio, se si tratta di una tromba: Rotondo, Valdambrini, Fanni, Santucci. I più conosciuti, in pratica, e chi decide di andare, va.” “Bene. Come giudichi il jazz italiano, in generale?” “Io sono un grande estimatore del jazz italiano. Vedi, io trovavo nel nostro jazz un grande entusiasmo, una grande modestia, strumentisti con grandi possibilità…” “Scusa, usi il tempo passato intenzionalmente?” “Si, volutamente, perché oggi trovo (anche se continuo ad essere estimatore del jazz italiano, sia ben chiaro) che queste doti di entusiasmo, di modestia, sono un po’ diminuite. Non lo so perché. Certo trovo adesso molta presunzione. Gli italiani hanno ancora moltissimo da imparare, nel jazz. Vi è da dire che il jazz italiano è ancora molto giovane. Soltanto dagli anni ’50 in poi si è avuto un regolare svolgersi di concerti dei grandi jazzmen americani. Si tratta quindi, tutto sommato, di un jazz molto giovane. C’è da augurarsi che cresca ritrovando lo stesso entusiasmo (un entusiasmo enorme, assolutamente enorme) degli anni ’50, con la stessa modestia, ma, naturalmente, con una diversa maturità.” Gli strumenti già dentro agli astucci, infilati sotto il piano. Un disco di Coltrane che gira, qui al Blue Note, con la voce raschiata dei dischi ascoltati troppo, un ultimo whisky e il pensiero “Serata gradevole”, quello che si pensa quando si è delusi, per non ammetterlo, con un Jean Luc Ponty che, qui a due passi, è meglio che a teatro, ma non riesce a trovare la scintilla, perché non può convincere soltanto girando le manopole del megageneratoresuperamplificato. Prima, il locale scoppiava di folla (Pepito Pignatelli rideva con gli occhi), tutto ribolliva dello swing nato dalla poliritmia di Aldo Romano inanellata con le sincopi di Michele Graillier, suono forte, pulito, un basso deciso, un pulsare viscerale: Ponty (occhi chiusi, gambe strette e piegate ad inseguire le fasce sonore che l’archetto non fa in tempo a finire, tensione, volto da monello capellone) crea ondate di scale, frasi musicali formate dalla somma di periodici e non di note: il volume cresce (ginocchia strette), la spirale diventa ossessiva (è tutto contratto), il ziz zag dell’archetto è al parossismo (è quasi inginocchiato a terra)! Poi tutto sfuma, ci si accorge di respirare di nuovo, lo stomaco si decontrae (“Una sigaretta, per piacere”), Jean Luc posa il violino e ridiventa un ragazzino con gli occhi guizzanti. Locatelli, il chitarrista, nella “cave” gremita, con meno spazio sonoro, meno bisogno di generare suoni apocalittici, suona quasi bene. E’ così per un’ora (poi ancora intervallo, con il fruscio dei dischi immortali sentiti tante volte), dopo Ponty di nuovo. Alle due e mezza (i rimasti sono sette, più il barman) uno pensa: “ serata gradevole”, per non dire chiaro a se stesso che questo Ponty ( adesso) procede per linee stereotipate, che crea delle immagini belle, ma vuote, molto sonore ma insignificanti, calde ma gelide; che suona per formule, lui! Il numero 1 del jazz europeo. Il dubbio allora incomincia a prendere forma. In breve si avvia a divenire consapevolezza: “Siamo noi ad essere fuori dal giro, non possiamo opporci alla moda, la potenza sonora ha un significato, il lavorio delle manopole è il nuovo codice.” L’ultimo whisky mette quasi tutto a posto, colloca in ordine la confusione delle idee, quasi non c’è più da pensare al problema, ormai è risolto: viva il rumore! Gli strumenti già dentro agli astucci, qualcuno reclama la jam ( “Dai, è ancora presto”). Giovanni Tommaso sfodera il contrabbasso, il chitarrista capellone dorme come un orso a bocca aperta, Graillier passa al pianoforte a coda, Aldo Romano torna alla batteria e butta fuori il suo uragano percussivo (uno swing, implicito, formidabile) e Jean Luc, il monello di Avranches, arriva saltellando, riapre la custodia dei violini, imbraccia quello rosso, regola al minimo le manopole e manda all’aria, frantuma, fa a pezzi l’ordine nuovo che si era appena dato alle cose. Non è più rumore, è jazz di livello fantastico, pieno di frasi così fitte di idee che ognuna ne genera altre venti (che poi si spaccano, fuchi artificiali, mille luci in tutte le direzioni); il free jazz dei quattro è un discorso ricco di stimoli. Sale il volume solo per portare a galla un significato. Il calore è autentico, la bellezza indiscutibile, lo swing trascinante. Ponty è quasi inginocchiato, si sfibra in una donazione totale di ogni briciola di energia; l’onda che sale (si va al parossismo) non è più frutto di un cliché, è jazz autentico, è carica emotiva liberata dal peso delle formule, un tappo di bottiglia che sbatte sul soffitto: questo è Ponty alle tre del mattino, in sette a sentirlo, monello felice, insensibile alle mode, grande jazzman, ragazzo con la scintilla. Si va a casa credendo ancora al jazz, a quello che viene fuori nei club quando i metronotte infilano i biglietti nelle saracinesche, le ore giuste per non aver più voglia di bluffare con il mondo e con se stessi. Poi, giorni dopo, ne parlo con Giovanni Tommaso, di questo Ponty new look. Tommaso ha suonato in America per quattro anni, dal ’60 al ’64, ha inciso con Lee Konitz, Chet Baker, Barney Kessel. Con John Lewis ha registrato la colonna sonora di Una storia milanese. Si è formato con Antonello Vannucchi nel Quartetto di Lucca. Lui pensa, che il monello Ponty abbia suonato in modo diverso soltanto perché inseriti in una jam session con una atmosfera già tratteggiata, classica. Ponty (il discorso è su lui, ma parlando del suo jazz ci si riferisce soprattutto al jazz europeo in generale ed, in sostanza, al jazz tout-court) sente di dover mandare avanti un discorso e lo fa procedendo per sintesi nate dalle esperienze della musica dei giovani del mondo. Su una cosa siamo d’accordo: che Ponty (e per lui il jazz) si avvale di questa piattaforma sonora come di un ponte per scendere in un punto che nessuno conosce ancora. Se questa nuova forma (l’etichetta, già pronta, è di pop jazz, ma vogliamo proprio incollarla?) è un mezzo per andare avanti, bene: in marcia. Franco Fayenz, Padova, 1930, musicologo, dall’immediato dopoguerra si interessa di musica classica e di jazz. Dal 1951è redattore della rivista Musica Jazz e collaboratore di numerosi giornali e riviste. Nel 1962 ha pubblicato il volume I grandi del jazz, nel 1970 Il jazz dal mito all’avanguardia e nel 1971 Anatomia elementare del jazz. “Caro Cogno, la richiesta di una testimonianza sul jazz italiano mette un poco imbarazzo chi, come me, s’interessa al jazz ormai da molti anni, e quindi si sente, in qualche modo, corresponsabile della situazione. D’altra parte mi offri un’occasione di parlare con franchezza, e te ne ringrazio. Il nostro jazz, in Europa, occupa una posizione di retroguardia, su questo non c’è dubbio, quantunque in questi ultimi tempi il quadro clinico sia andato migliorando. Le cause sono numerose. In ordine di tempo ci sono il fascismo e la seconda guerra mondiale. Gli amatori più anziani si ricordano bene di quando ascoltare un disco di jazz tra amici equivaleva, pressappoco, a girare la manopola su radio Londra. L’atmosfera era la stessa. I nostri governanti in orbace avevano cominciato durante gli anni trenta ad opporsi alla diffusione del jazz, la musica di una razza inferiore, per di più proveniente dalla plutocrazia americana, e comunque dall’estero, avrebbe potuto fuorviare la coscienza granitica dei giovani fascisti. Erano i tempi in cui ci si dava del voi, il bar era diventato il quisibeve, lo sport si chiamava il ludo. E’ troppo facile riderne, oggi. Deve trattarsi di un tarlo sotterraneo dell’anima nazionale, visto che si diletta ancora di simili argomenti. Anche le poche etichette di jazz ne soffrirono. St. Louis Blues, per esempio, fu italianizzato come Le tristezze di San Luigi, On The Sunny Side of The Street, fu ribattezzato, non senza preteste poetiche, Dal lato aprico della strada: Honeysuckle rose divenne Pepe sulle rose, ma la sfortuna maggiore toccò a un brano del Quintetto dell’Hot Club de France, HCQ Strut, che evidentemente pose agli acuti traduttori dei problemi insolubili: ogni preoccupazione di fedeltà all’originale venne messa da parte, e il titolo italiano fu Signor commendatore pazzerellone. Il nome di Louis Armstrong fu tradotto in quello di Luigi Braccioforte e quello di Benny Goodman in Beniamino Buonuomo. I cinque anni di guerra e di separazione dalla fonte primaria del jazz, gli Stati Uniti, fecero il resto. Fino al 1945, il jazz italiano è stato sporadico, pionieristico, quasi eroico. Scontiamo dunque una partenza ritardata, sia nel suonare il jazz che nel giudicarlo. Ma questo spiega solo in parte lo stato delle cose. Anche la Germania è partita dal medesimo start, ma si trova a un punto ben più avanzato del nostro. La verità, caro Cogno, è che malgrado i luoghi comuni in contrario l’Italia non è un paese musicalmente educato. Dalla nostra scuola, a causa dell’apprendimento globale e nozionistico suggerito dall’idealismo, che guarda con diffidenza le tecniche settoriali, la musica è stata esclusa per lunghissimo tempo. Mi chiedo che cosa accadrebbe se da noi, come si è potuto fare senza difficoltà in Inghilterra, venisse programmata la commedia musicale di Crozier e Britten “Facciamo un’opera“, nella quale- è Giorgio Pestelli, che ce lo ricorda- “Ad un certo punto a fare l’opera partecipa anche il pubblico, il pubblico nuovo e occasionale di tutte le sere, che canta la musica leggendola semplicemente su un foglio distribuito all’ingresso del teatro” Meglio non pensarci. E’ chiaro di ciò ha sofferto e soffre anche il jazz. Attualmente la musica è materia obbligatoria d’insegnamento per un solo anno nelle scuole medie, ma non ha influenza sul profitto. Pertanto l’ora di musica è analoga a quella che ai nostri tempi era (e mi si dice sia tuttora) l’ora di religione. Non oso prevedere che il miglioramento in atto nel jazz diventerà travolgente, a breve scadenza, per l’apporto delle nuove leve avviate all’amore per la musica della scuola dell’obbligo. La nostra ineducazione musicale ha avuto i riflessi più clamorosi, per quanto riguarda il jazz, nel corso negli anni cinquanta, durante l’esplosione europea del dixieland revival. Salvo eccezioni, le peggiori orchestre di dilettanti sono state quelle italiane, e il jazz suonato male, com’è noto, è insopportabile, fa una pessima propaganda a se stesso, aiuta la missione a rovescio della radiotelevisione. Purtroppo nello stesso periodo la critica specializzata ha commesso un errore tattico, comprensibile ma non lieve: dopo aver aiutato, direttamente o indirettamente, perfino la più sprovveduta delle bande paesane, ha perso la pazienza, ed ha avuto parole dure per tutti i musicisti, sia dilettanti che professionisti. Al jazz italiano è venuto a mancare il terreno sotto i piedi, un terreno che in ogni caso non è mai stato piano e praticabile. Ci sono stati anni oscuri, caratterizzati dall’estrema difficoltà di organizzare concerti con musicisti nazionali, e ci sono state orchestre anche pregevoli che non hanno potuto farsi luce per il solo fatto d’esser nate in una città di provincia, anziché a Milano o a Roma. Molti musicisti hanno assunto posizioni polemiche ed hanno additato ad esempio il comportamento della critica francese, che ha sempre sostenuto oltre misura i propri jazzisti. Si deve a questo, essi affermano, se nella Francia degli anni settanta ci sono Martial Solal, Jean Luc Ponty e un pubblico vasto, reattivo e cosciente, con tutte le conseguenze del caso. D’altronde, se questo è vero, la ragione, come spesso succede, è ben lontana dall’essere tutta da una parte. Ognuno di noi può segnare a dito dei jazzisti italiani che studiano poco, non si tengono informati, e accompagnano questo atteggiamento con una presunzione sconfinata e irritante, che fa scappar la voglia di dargli una mano. Nel recente passato, più d’una volta ci siamo fatte delle illusioni, smentite dal primo confronto con un solista francese, tedesco, jugoslavo. I più seri fra i nostri professionisti lo ammettono apertamente. Ho già accennato che oggi la situazione sembra stia per uscire dall’impasse. La critica è predisposta per davvero a rinnovare la cambiale ai jazzisti di casa, mentre i musicisti si stanno impegnando maggiormente; viene alla ribalta qualche nome nuovo e le possibilità obbiettive sono migliorate, grazie a numerose tournèe di artisti americani, che hanno spiantato la strada. Non esito a dichiararmi fra i più convinti fautori del nuovo corso. Da un buon jazz italiano abbiamo tutto da guadagnare. Certo è che una nuova delusione sarebbe irreparabile: me per mio conto ripongo molte speranze in Giorgio Buratti, contrabbassista e leader trascinante, del quale ho ascoltato cose splendide ancora inedite: nel pianista e compositore Enrico Intra, che in questi ultimi tempi mi par cresciuto a vista d’occhio; nei bravissimi Cicci Santucci, Enzo Scoppa, Franco D’Andrea; in Giorgio Gaslini, compositore di ampie vedute e pianista eccellente: nei sempre validi Oscar Valdambrini, Gianni Basso, Giorgio Azzolini e in altri che mi permetto di non citare, perché i loro nomi non direbbero ancora nulla. Per quanto riguarda l’originalità o meno del jazz italiano (se sia preferibile, cioè, che esso si ispiri ai modelli americani, e si aggiorni secondo i medesimi, oppure se sia da incoraggiare la ricerca di un’autonomia e di un linguaggio che, in qualche modo, si proponga come europeo) ti confesso che il problema mi interessa poco. L’importante mi pare, è che si faccia del jazz di qualità. Nondimeno, al limite, preferisco il ricalco degli americani, dal quali non vedo come si possa prescindere, piuttosto che la ricerca di un’originalità a tutti i costi e di punti di riferimento europei che porti ad elaborazioni ibride, discutibili e inutilmente complicate. Tuo Franco Fayenz” “Il Buratti è uno che dà fastidio a tutti”. Me lo dice non appena entro nel suo superattico elettronico, pareti acustiche, piano, basso, batteria, dieci bass- reflex, camera di regia per le registrazioni, pipe, tabacco e whisky. Un regno. Qui si può jazzisticamente, nascere, vivere e morire. Giorgio Buratti ha fatto una decina di concerti, sempre ottenendo ottime recensioni. “Pochi; vorrei farne di più. Questo mi permette di maturare tra un concerto e l’altro e di presentare cose sempre nuove, ma rinuncerei volentieri a questo vantaggio pur di poter suonare di più in pubblico. L’atmosfera del concerto è irrepetibile. Per me poi è tutto. Quando dico tutto, forse non riesco a dare realmente l’idea di cosa significhi per me fare del jazz. Mi sono costruito le apparecchiature” (Buratti è un tecnico di automazione elettronica) “per lavorare come voglio io, per vivere immerso nel jazz in ogni momento. Non ho voluto, per non scendere a compromessi, vivere professionalmente di musica e mi sono scelto il mestiere più vicino. Ora posso lavorare come voglio io. Da tre ore di registrazioni, ne tiro fuori, se è il caso, venti minuti. La composizione è a posteriori. Lavoro di forbici. I miei dischi sono frutto di mixage, sovrapposizioni, effetti sonori. Io ad esempio giro con il registratore per le fabbriche, fermo i rumori della natura. Adesso, noi, parlando, stiamo creando, senza accorgercene, delle modulazioni, dei salti di tono. Io registro sempre, anche le voci degli amici qui dentro, quando proviamo. Poi prendo degli spunti meravigliosi: sto preparando un disco di musica elettronica, una specie di concerto nato dagli stimoli sonori di una conversazione di gruppo.” Giorgio Buratti è un personaggio. Di lui mi hanno detto molto bene e molto male. Franco Cerri, che gli ha insegnato le prime posizioni sul contrabbasso, dice che è un bravo elettronico. Giorgio Azzolini (ma bisogna cavargli il giudizio in bocca, ha rispetto per tutti) mi ha detto che il solo guaio è che non sa suonare il basso. Io credo che a musicisti come Buratti non si possa mettere davanti una forca caudina fatta di prime e seconde posizioni sulla tastiera, di passaggi con l’arco, di pizzicati a 600 battiti di metronomo. Buratti è genuinamente, un uomo di jazz. E’ un trascinatore, un istrione produttivo. Mi stordisce di whisky e di fumo di pipa, con una Milano molle di caldo che tremola di fuori, sotto di noi. Ha messo in azione la stanza dei bottoni e siamo avvolti da un’onda di suono apocalittica. E’ inutile discutere. E’ il titolo del disco che sta girando. L’ha registrato in questo studio nel ’68. La note di copertina, di Daniele Ionio, sono stimolanti: “Bisognerebbe cominciare con il chiedersi perché si fa del jazz. O forse, addirittura, perché lo si ascolta. L’oggettivazione è infatti la carta segreta dei musicisti europei che non vogliono cadere nell’imitazione. Il linguaggio jazzistico viene in questo caso usato e ricondotto all’atteggiamento musicale tipico della cultura europea. Oggi questo modo ha finito per dimostrare il fondo di alterità di chi lo pratica nei confronti del linguaggio jazzistico e di quella realtà e cultura che gli stanno dietro. L’altra strada, tutto sommato, è ancora più facile, se ci si limita al puro gioco: l’adozione del linguaggio jazzistico finisce pur sempre per essere una sua più plateale utilizzazione e ovviamente , l’alterità rimane. E’ la strada seguita da Giorgio Buratti, non senza coraggio, adesso che è svanito anche l’alibi della musica proibita. Buratti ha scelto il jazz non per funzionalizzarne il linguaggio né per farsi funzionalizzare: ha rinunciato al compromesso con la musica che gli sta alle spalle per virtù di generazioni e abitudini d’ascolto. E’ europeo, e il suo atteggiamento culturale non è aggirabile. Fin dai primi passi, ha buttato nel linguaggio, che pur s’era scelto, non una equivoca immedesimazione nell’altra realtà, ma una sua inquietudine esistenziale di europeo che, nel jazz, cerca una continua verifica…”. Buratti mi parla della scelta dei titoli. Lato A : Cadenza per una rivoluzione, “E’ il ritmo, lo schema, il sistema integrante. Infatti qui puoi sentire la cadenza del tema tradizionale sul quale viene, prima gradualmente, poi sempre più in evidenza, il rovescio di tutto quanto: io sovrappongo il violoncello, Pat Neuburg il solo bocchino del sax, Barney Martin una seconda batteria: la rivoluzione! La rivoluzione crea Il problema, che esiste, innegabilmente, non lo si può risolvere soltanto a parole, E’ inutile Discutere, bisogna agire, anche se non vuoi, devi arrivare alla Violenza, Facciata B: a questo punto ci si chiede Cosa si può fare. Bisogna rifare qualcosa. Si torna allora ad una Situazione d’inizio, la quale porta a Nuove idee, le quali, inesorabilmente, portano a Nuove violenze.” Il fondo del discorso è amaro. E’ l’utopia spiegata al popolo. Fuori è sempre più sera. Copio la biografia: nato a Milano il 21 maggio 1935. Nell’ottobre è al Festival del jazz di Bologna con Enrico Intra e Franco Mondini, poi incide il primo disco sempre con Cuppini, partecipa l’anno seguente al Festival del jazz di Sanremo e nel giugno ’60 vince la Coppa del Jazz. A settembre dello stesso anno è a St. Vincent, nel ’61 nuovamente a Sanremo e sempre con Cuppini prosegue l’attività nei festival principali sino al ’62. Forma il suo primo complesso, con Al Korvin, Enrico Rava, Gato Barbieri, Angel Pocho Gatti e Jimmy Pratt, che riduce a quartetto nel ’63 con il quale, oltre a girare in Jugoslavia, vince il 1° Festival del Jazz Contemporaneo di Foligno. Nel ’64 suona a Bologna prima del suo idolo Charlie Mingus. Nel ’66 sperimenta un nuovo sestetto, con Valdambrini, Fasoli, Piana, Barigozzi e Cuppini; nel ’68 incide con Pat Neuburg e Barney Martin, per arrivare al ’69 in cui scopre Sante Palombo (o meglio, Palombo dimentica di aver accompagnato per anni Tajoli e scopre il jazz): sono con lui Eraldo volontà e Carlo Sola. Nel ’70 incide e si esibisce a Lerici e Padova con il nuovo quintetto formato da Fanni, Volontà, Palombo e Liguori. Nella primavera del 1971 pubblica la registrazione effettuata con i musicisti di Charlie Mingus durante il Festival del Jazz di Milano del 1970. Ora l’orgia di suoni si spegne e nel suo regno al nono piano il megamusicista Buratti deposita pipa e whisky. Dixie, il cane jazzofilo, ci segue triste per le scale. Per lui senza musica, come per Giorgio Buaratti, non c’è vita. Eraldo Volontè (figlio d’arte, cinque anni di violino poi abbandonato per il sax, anni di giri nelle balere dell’hinterland milanese) è dalla vecchia guardia. Quando nacque si sparavano le ultime fucilate sul Carso, nel ’18 ma ancora sembra, perché lo è dentro, un ragazzo. I dischi, nel ’64 l’avventuroso My Point of View, nel 1966 Jazz (now) of Italy premiato con l’Oscar della critica quale miglior disco dell’anno, ed il recente Free and Loose, fanno pensare ad un personaggio grintoso, provocatorio. Quando lo scopro timido, dolce, introverso, mi chiedo chi è Eraldo Volontè? L’uomo timido o quello deciso dei dischi, dei concerti? Il Volontè vero è solo il musicista. In questo caso l’Uomo è solo un’immagine sviante, che non serve a chiarire il personaggio. Lui farebbe a meno di parlare (sarebbe una fatica risparmiata) perché le cose che vuol dire le fa passare attraverso l’ancia dello strumento. Nel 1966, da mesi in ospedale per una grave affezione renale, e clinicamente quasi morto, si rimise per la solo idea fissa di ricacciarsi in bocca il sassofono. Quando i medici vollero impedirglielo, pensò realmente di farla finita. Suonò invece, meglio e più di prima. Il primo concerto lo diede proprio in ospedale e fu il suo grazie alla gente in camicie bianco. Suona ore su ore alla Rai, poi, quando torna a casa, studia ancora almeno un’ora al giorno. Nauseato dal Cantagiro, rimpinzato di stupida musica televisiva (“di jazz si muore, ma per fame”) ascolta Coltrane e Rollins con la cuffia per notti intere. Così dal 1947, quando formò la sua prima big-band con Gil Cuppini, Impallomeni, Boneschi, Ceroni, De Serio; poi con Pino Calvi e Giorgio Gaslini. Nove festival del Jazz di Sanremo: conteso in tutte le sezioni delle grandi orchestre, compresa quella di Bill Russo che, parlando di strumentisti italiani, indicò come strumento meglio suonato il sax-tenore a aggiunse: “Volontè ne è un esempio.” La frase ha voluto che la leggessi io, riportata su un vecchio fascicolo di Musica Jazz, per quel pudore che Volontè ha del parlare di sé. Ora sto pensando che a Eraldo Volontè (e con lui molti altri) sarebbe bastato nascere in America per ottenere una diversa valutazione. Qui dobbiamo conservare nell’album dei ritagli le frasi di elogio di un Bill Russo (il buffetto di incoraggiamento del papà quando gli mostriamo un nove sul compito in classe); mi sto chiedendo se è giusto buttare una vita per il jazz, mettersi la cuffia agli orecchi per purificarsi, dare anche i visceri in quei chorus in cui si cerca di condensare le convinzioni, le esperienze, il motivo vero per cui si tira avanti: mi chiedo se è giusto. Volontè, e con lui moti altri, è in credito di un riconoscimento che non è venuto, per tanti motivi, nella misura giusta. Giorgio Gaslini ha firmato le note di copertina di Free and Loose ed è indicativo che si sia espresso con affermazioni di simile chiarezza: “Riuscire a iniziare un discorso lirico e a proseguirlo per anni ad anni come ha fatto Eraldo Volontè sin dal 1945 ad oggi, è un fatto decisamente importante. Perché di lirismo si tratta, di lirismo vero, passato attraverso un’attenta, fedele e dotata natura di musicista, filtrato da una autentica spiritualità di uomo. Nella musica di Volontè vi sono sia le ragioni sociologiche, sia quelle del personaggio, sia quelle della ricerca. Quelle sociologiche, perché esprimono la condizione che la società impone al musicista italiano; quelle del personaggio, perché dalla sua musica, Eraldo Volontà traspare con quella delicatezza umana che lo contraddistingue e che lo rende caro; le ragioni della ricerca, perché, specialmente nei soli, vi è uno studio sugli intervalli melodici del tutto contemporaneo e sorprendente nel panorama del jazz italiano, così dotato, ma anche così poco ricercatore. Volontà raggiunge un livello validissimo di ricerche jazzistiche musicali. E vi arriva attraverso le vie giuste del jazzman moderno.” “Enrico Maria Salerno” (è lui a dirmelo, nel camerino del Quirino a Roma, in vestaglia a righe, in relax pre-spettacolo) “ non sarebbe quel attore conosciuto che è se non ci fosse stata la televisione. Io penso che il jazz debba essere strumentalizzato, cioè accostato al grossissimo pubblico. Mi pare di che consideriate il jazz come un fatto di èlite, invece è una musica altamente, profondamente popolare.” Un fatto di èlite? Quali le cause? “Non si può dimenticare che i rotocalchi (penosi!) tendono a creare, prima ancora che delle manifestazioni artistiche, dei personaggi. Probabilmente la stampa non ha creato un personaggio del jazz, in Italia. Forse creare, non dico il divo, ma il personaggio, aiuterebbe a sfondare presso quel tipo di pubblico che oggi è assolutamente digiuno di jazz. Eppoi, forse gli Enrico Intra, i Giorgio Gaslini, che sono grandissimi musicisti ma non vivono in una certa maniera, non si dimenano in un certo modo, non si mettono la conchiglia sull’inguine come molti individui della musica leggera, interessano meno, sono forse proprio i meno seguiti da un punto di vista popolare.” La grossa finestra dalla quale far entrare l’ossigeno per il jazz, dove si apre: sul teatro? Sul cinema? Dove? “Sulla radiotelevisione, perché attraverso il teatro il jazz rischia di rivolgersi ancora ad una èlite, quella stessa che oggi frequenta (e non sono più di quaranta, cinquanta, sessantamila persone) il teatro, che è un genere di spettacolo che affascina e spaventa, un po’ medioborghese, quindi una cerchia di pubblico che ha un ricambio ridottissimo.” I giovani non si inseriscono in questo ricambio significativamente? “Si, certo, ma un fenomeno di volgarizzazione, nel senso di rendere noto ad un grande pubblico il jazz, rimane un fatto radiotelevisivo. Come ho detto, Giorgio Albertazzi, io e molti altri attori saremmo noti soltanto a quelle sessantamila persone, senza la televisione. Mi sembra che bisognerebbe trovare il modo di sensibilizzazione i responsabili di questo grosso mezzo, magari facendo uno spettacolo che non sia completamente di jazz, perché probabilmente questo lascerebbe molti spettatori perplessi. Non si può dare un piatto cinese a chi ha sempre mangiato bistecche alla fiorentina. Si può arrivare a gradi, a questo, inserendo il jazz nei grossi spettacoli del sabato sera, non isolatamente, ma contornandolo di un tipo di spettacolo che possa far accettare anche al grosso pubblico. Quanto questo possa piacere, non lo so. In ogni caso manca la prova contraria per bocciare la cosa. Le leve da manovrare e le pressioni da fare, secondo me, sono in quella direzione, proprio per farlo conoscere, per dare almeno alla gente la possibilità di esprimere una opinione. Il jazz a teatro è subito un sinonimo di concerto, e questo è automaticamente un fenomeno selettivo. Anche le presenze televisive dei musicisti che prima ho citato, Intra e Gaslini, hanno sempre avuto un valore di concerto. Forse questo è sbagliato: il jazz io lo vedrei a Studio Uno, a Canzonissima, nel grande spettacolo popolare. Diversamente aumentiamo il culto del jazz come fatto d’èlite.” “Cinema. Prospettive?” “Gli sviluppi in questo senso sono da rapportare alla scelta che i registi e gli autori compiono nell’attimo in cui concepiscono l’opera. Se la scelta include il jazz, piuttosto che l’opera lirica o la canzone napoletana nella tematica che l’autore intende illustrare, allora esistono delle possibilità. E’ un fatto di scelta, quindi. Certo la scelta fatta da questi uomini di spettacolo può venir condizionata dalla loro più o meno buona conoscenza del jazz. Sono convinto che il jazz debba essere proposto con i grandi mezzi di diffusione anche perché non perderà nulla nel diventare un grande fatto popolare. L’approccio deve solo essere dosato con intelligenza, perché l’omino che guarda la televisione ha dalla sua il tasto per il cambio di canale.” Umberto Cesari è entrato nella leggenda. Pianista geniale, pilota di jets, medium, corridore, automobilista, adoratore di Art Tatum, ora vive (uomo triste o felice?) dietro i vetri di una finestra, a guardare il mondo del quale non vuole fare parte. Nel 1950, trentenne, sbalordì l’Italia con la sua tecnica incredibile e venne considerato il miglior pianista italiano. Suonò a lungo alla radio, incise con Pes e Loffredo, in trio, e con il quartetto di Aurelio Ciarallo. Adesso di Cesari si parla come si usa fare per le figure mitiche, con affetto, rimpianto, ammirazione. In un’epoca votata alla divulgazione, al consumo, allo scambio informativo, un pianista che non divulga, non consuma, non scambia informazioni e vive in una stanza guardando il mondo da dietro i vetri ha, in effetti, qualcosa di irreale e magico. E’, anche se vivo, già uomo- leggenda. Chiedere ad un giovane musicista se conosce il nome di Cesari sarebbe tempo perso. Non saprebbe chi è. E’ fuori del mondo. Chiedere a Cesari se conosce il mondo è tempo perso. E’ fuori dalla finestra. Franco Pecori. Redattore di Film Critica. Insegna cultura cinematografica agli studenti di una scuola statale media di Roma. Collabora a Musica Jazz dal 1966. E’ copywriter presso un’agenzia di pubblicità romana. “Caro Cogno, mi chiedi un intervento sulla situazione del jazz in Italia. Rispondo volentieri. Maxicritica e minimusica. C’è da chiedersi quale discorso si possa fare oggi nei confronti di una cultura che a tutti i livelli e in tutti settori (anche quello jazzistico) bada quasi esclusivamente a salvare la faccia e a mantenersi aperte le porte delle corti socialdemocratiche. Da noi si continua a parlare di universalità dell’arte (e del jazz), ma di universale c’è solo il maxicappotto dei critici: questi fedeli servitori, che si allineano ogni volta col nuovo padrone. In termini tecnici (e attuali): inglobamento del free come fatto ormai acquisto e corteggiamento delle ultimissime correnti del free-pop, che a differenza del free, lasciano intravedere qualche spiraglio per un inserimento nel mondo della prostituzione e della pornografia discografiche. Parlo del free perché è il nodo principale della cultura jazzistica degli ultimi tempi. Nel giro di pochi anni il free si è trovato due volte contro la testarda opposizione delle tendenze reazionarie. Un po’ come il socialismo: prima i “ liberal- clericali”, poi la “socialdemocrazia”. E’ una specie di rigurgito periodico delle forze retrive della società. Un libro-inchiesta sul jazz italiano, è in questo momento, una cartina al tornasole per verificare, da un punto di vista eccentrico, ma per molti versi estremamente significativo, l’ottusità, l’arretratezza e lo snobismo di provincia della cultura italiana, sempre a metà tra l’entusiastica, acritica adesione alle nuove ventate e la pregiudiziale, idealistica opposizione ad ogni proposta concretamente rivoluzionaria. Lode a te, Cogno. Temo che, però la situazione non si muoverà. Perché non è questione di correnti, di rinnovamenti, ecc…ma semplicemente di onestà, di autenticità. Dice: ma il jazz non lo fanno i musicisti? E, infatti, questo discorso non è solo per la critica. Però, chi fa il jazz in Italia? Lasciamo stare i tradizionalisti, per i quali è sufficiente ripetere la domanda di Spelman, citato da Leroi Jones nel suo libro Il popolo del blues: “ Chi sono questi signori bianchi che si sentono paladini del blues dell’altro ieri?”.. Ma anche i moderni, chi sono? Sono una cultura? A me sembra che la regola sia il conformismo. Si fanno discorsi di punta in salotto, con tutte le mogli riunite che frattanto si raccontano del parrucchiere (mettere insieme un resoconto significa fare un campionario di pettegolezzi. Sono salotti: ci sono tutti gli elementi più tipici, compresa la compiaciuta accondiscendenza di chi presta il registratore o la tipografia). E poi si fa la musica del conformismo, delle frustrazioni e delle sclerosi di musicisti professionisti mortificati da pesanti turni commerciali. Le pochissime eccezioni non autorizzano a parlare di jazz italiano. Allora invece di stabilire una scali di valori, facciamo un discorso indiziario. Si sa che la funzione dell’arte si è andata sempre più delimitando: dalle intenzioni risolutorie degli anni ’30, alla protesta , alla semplice denunzia ed ora alla testimonianza, all’inizio. Chi ha nostalgie? Ebbene, una cosa è sicura, credo: un’arte indiziaria pone l’artista di fronte a scelte precise, a tutti i livelli. Se queste scelte si fanno in maniera autentica, si hanno prodotti senza significato autonomo; prodotti che non indicano alcuna direzione, perché in realtà manca un’intenzionalità autentica, una vera coscienza della comunicazione come in-tenzione che trasformi la realtà non significativa in realtà con un senso. Ora, per il jazz italiano in genere, il fatto rilevante di questi ultimi tempi è un fatto di ordine organizzativo. Alcuni strumentisti hanno intrapreso una specie di crociata per difendere il loro valore di musicisti e il loro diritto all’attività jazzistica ufficiale in un paese musicalmente sottosviluppato come il nostro. La musica però è rimasta sempre la stessa: ad ascoltare la maggior parte dei jazzisti italiani si rimane profondamente delusi. Non perché non siano bravi strumentisti: alcuni sono degni del massimo rispetto. La loro musica, però, si muove in una dimensione manieristica e la sua debolezza non è che il portato della base retorica (di tipo mistificatorio rispetto ai referenti americani equivocamente modellizzati) su cui poggia. Sicché, non mi pare che si sia differenza tra il jazz italiano del dopoguerra e quello degli anni ’50, tra il cortese adeguamento ai dettami dei grandi post-parkeriani (fino a Coltrane) e il tronfio competitismo di certi avanguardisti, che fanno il free pensando a Firenze e Raffaello (noi che abbiamo Firenze e Raffaello…..sono frasi, che si sentono nell’ambiente). E’ inutile snocciolare la solita decina di nomi, la situazione è sempre la stessa. Con la differenza che oggi i jazzisti pretendono di fare i discorsi teorici e magari anche di punta. Oppure prendono delle iniziative di ordine pratico, come quella a cui accennavo sopra. Intendo dire l’Unione Italiana Musicisti da Jazz, costituitasi il 22 settembre ’69 ( soci fondatori: Gianni Basso, Giorgio Gaslini, Carlo Loffredo, Franco Tonani, Dino Piana, Umberto Santucci, Francesco Forti, Giorgio Azzolini, Oscar Valdambrini, Marcello Rosa, Franco D’Andrea), e l’intento di “valorizzare e promuovere l’attività dei musicisti italiani di jazz, in Italia e all’estero.” Certo una nobile causa. Dal resto, l’iniziativa si giustifica pienamente in riferimento alle condizioni veramente misere in cui la musica è costretta a vivere dalla dittatura schiacciante della canzonette. Un maggior contatto col jazz non potrebbe essere che educativo per il pubblico italiano. Senonchè, a leggere poi lo Statuto dell’Unione, vien fatto di chiedersi se proprio si debba schierare in linea di principio con chiunque tenti di organizzare un’opposizione allo stato attuale. Nessuna arte, e nemmeno la musica, è mai pura; questo è un equivoco idealistico. Altrimenti, non si capirebbe la nascita e la relativa fioritura della dodecafonia proprio nella Vienna degli anni tra le due guerre; e neanche si capirebbe l’esplosione del free negli anni ’60, in un tipo di società impostata sull’imperialismo economico, seriamente minata dall’alienazione dei consumi e lacerata da profondi contrasti razziali. Il jazz in se stesso non esiste: esistono i jazzisti e i jazzisti fanno parte di una società. Questo mi sembra ovvio e l’ho già detto e ripetuto per iscritto (vedi Free come relazione, in Musica Jazz, n.254). Allora, non possiamo accogliere come un fatto semplicemente di organizzazione musicale, come un fatto sociologicamente e ideologicamente neutro neanche lo Statuto dell’Unione. Tanto più che le prime adesioni furono raccolte facendo circolare una lettera-programma scritta in toni apocalittici e con un linguaggio vecchio ormai di trenta anni: “ Ancora una volta l’Italia è giunta impreparata”, “ Caro collega (…), questa è l’ultima occasione “, “Tentiamo (…) di prendere in mano le redini della situazione.” Tra i punti del foglio programmatico si poteva leggere: “Definizione dell’essenza, dei requisiti e della cultura del musicista italiano di jazz”, “Controllo della critica e del giornalismo”,“agganciamento alla cultura ufficiale.” Franco Tonani sembrava il più attivo dei promotori e lo volli intervistare per Musica Jazz (l’avv. Polillo pensò bene di non pubblicare l’intervista). Tonani mi lasciava di stucco con la violenza conservatrice di certe sue dichiarazioni (cordialmente, perché è un amico, voglio ricordarle a lui stesso): “Bisogna cercare di distruggere ciò che non è verità, sia a livello jazzistico, sia a livello di tutte le altre arti, sia a livello della vita in generale”; “La parola reazionario può anche non significare niente. La reazione, in un paese dove ci sia il disordine, non è più reazione, è rivoluzione.” A questo livello, l’azione dell’Unione si inquadra bene come sbocco naturale di una lotta intestina tra due parti dello stesso sistema: il gruppo (che sarà poi appunto dell’Unione) e Adriano Mazzoletti, il più prossimo responsabile della poca considerazione in cui sarebbero tenuti i jazzisti italiani alla Rai. Mazzoletti in verità, è una figura particolare del jazz italiano. Mi ricordo l’intervista che gli feci per Musica Jazz (n. 240), nel maggio ’67. Ad un certo punto venne fuori questa domanda: “Volevamo sapere se ci sono dei segni precisi di una interna corrispondenza tra lo sviluppo della civiltà e lo sviluppo del jazz. Cioè, se siamo giunti ad una certa coscienza dell’appartenenza del jazz alla sfera della cultura.” La risposta di Mazzoletti : “Ma lei parla di civiltà o di cultura? Perché i fatti sono ben differenti. Il jazz è chiaro, fa parte della cultura, è entrato nella cultura. L’ha modificata. Ma civiltà è un’altra cosa. La civiltà è la cultura e tante altre cose messe insieme. Dunque, credo che non c’entri assolutamente niente. Cioè c’entra come ci può entrare la musica beat. Per conto mio, è un fatto di costume e di cultura, e basta. Il jazz e la rivoluzione industriale credo che siano due cose che non c’entrano niente l’una con l’altra.” Ed ora lo Statuto dell’Unione Italiana Musicisti di Jazz: 1) E’ costituita, fra coloro che esercitano l’attività di musicista di jazz, una associazione con denominazione “Unione Italiana Musicisti di Jazz.“ Detta associazione aderisce alla Federazione Europea del Jazz. 2) L’Unione ha sede in Roma; non ha fini di lucro; nell’ambito delle sue competenze si propone quanto segue a) tutelare gli interessi morali e materiali della categoria b) svolgere opportuna azione per una valorizzazione sempre maggiore dell’attività jazzistica, studiando le condizioni in cui tale attività si svolge, e i bisogni e le aspirazioni della categoria, raccogliendo le proposte dei singoli soci e promuovendo gli opportuni provvedimenti da parte delle autorità competenti; c) regolamentare le prestazioni professionali secondo norme precise di carattere nazionale e locale; d) promuovere la creazione o favorire lo sviluppo di istituti o enti a carattere nazionale, aventi per scopo l’istruzione professionale e tecnica e l’utilizzazione professionale dei musicisti stessi; e) tenere un albo aggiornato dei musicisti iscritti all’Unione Italiana Musicisti di Jazz; f) esperire in forma di consulenza azione conciliatrice nelle controversie interessanti la categoria rappresentata e adempiere a tutti gli altri compiti che le derivano da leggi, regolamenti e disposizioni, nonché dal presente statuto; 3) L’adesione alla Federazione Europea del Jazz impegna l’Unione a uniformarsi per quanto possibile allo Statuto della E.J.F. ed a strutturare i propri programmi inserendoli in ambito europeo. 4) Per essere ammessi a far parte dell’Unione come soci effettivi di categoria A è necessario: a) dimostrare le proprie capacità di musicista di jazz o con un’audizione da sottoporre al capo- servizio di consulenza musicale, o con la garanzia di almeno due soci; b) essere cittadino italiano, cittadino straniero di paesi le cui associazioni pratichino la reciprocità, cittadino straniero domiciliato in Italia da almeno un anno; c) versare le quote di cui all’art. 7. Sull’accettazione delle iscrizioni giudica con poteri discrezionali il Consiglio Direttivo. E’ istituita la categoria dei soci Sostenitori, alla quale può appartenere chiunque versi quote superiori a quelle di qui all’art. 7, con un minimo di 10.000 all’anno. 5) Per essere ammessi a far parte dell’ Unione come soci effettivi di categoria B è necessario essere musicisti di jazz anche principianti e avere i requisiti di cui all’art. 4, lettere b e c. I soci di categoria B vengono ammessi alla categoria superiore non appena vengano loro riconosciuti i requisiti necessari di cui all’art. 4, lettera A. 6) L’Albo dei musicisti comprende i soci effettivi di categoria A. L’iscrizione all’Albo avviene automaticamente all’atto dell’iscrizione all’Unione. 7) Tutti coloro che richiedono l’iscrizione all’Unione devono versare un diritto una tantum di L. 1.000 Quote annuali: L. 4.000 per soci di categoria A, L. 2.000 per soci di categoria B. La quota annuale si intende per l’anno solare, a meno che l’iscrizione non avvenga nei mesi di novembre e dicembre, nel qual caso la quota vale per l’anno solare successivo. L’ammontare delle quote di cui sopra viene annualmente fissato per l’anno successivo dall’Assemblea Generale Ordinaria dei soci. 8) L’Unione si riserva il diritto di trattenere una percentuale da 2% all8%, a seconda dei casi, per coprire le spese organizzative, sui compensi ai Soci per lavori procurati dall’Unione stessa. 9) L’Unione gradua i servizi che offre agli iscritti, in modo da riservare i più vantaggiosi ai soci di cat.A, e gli altri ai soci di cat. B. 10) La qualifica di Socio può essere perduta per dimissioni, morosità o radiazione. La radiazione di un socio è pronunciata dal Consiglio Direttivo trascorsi 6 mesi dall’inizio dell’anno solare, senza che egli si sia messo in regola con il pagamento delle quote sociali. La radiazione di un socio è pronunciata dal Consiglio Direttivo quando il Socio abbia contravvenuto alle norme di colleganza che debbono esistere tra i soci e in ogni altro caso di indegnità professionale. 11) L’Unione è retta da un Consiglio Direttivo formato da un Presidente, un Vicepresidente, due consiglieri segretari e due Consiglieri Vicesegretari, che vengono eletti dai soci con voto segreto e durano in carica un anno. Per il funzionamento del Consiglio le liste vanno votate con nomi accoppiati, nel seguente modo: Presidente- Vicepresidente Segretario- Vicesegretario Segretario- Vicesegretario; 12) Il Consiglio Direttivo designa i Capi Servizio relativi a ciascun servizio elencato nell’art. 13. Il Consiglio Direttivo è investiti di tutte le facoltà necessarie per amministrare l’Unione e rappresentarla in tutte le circostanze e altresì del potere di svolgere qualsiasi azione e di prendere tutte le decisioni del caso per il raggiungimento degli scopi prefissi di cui all’art.2. Nel caso di cessazione dalla carica per qualsiasi motivo di uno dei suoi membri, il Consiglio Direttivo chiama a sostituirlo in via provvisoria un supplente. Le deliberazioni del Consiglio Direttivo sono valide se prese da almeno tre membri del Consiglio stesso. 13) Il Consiglio Direttivo, con l’aiuto dei Capi Servizio da esso designati, svolge i seguenti servizi: I. Stampa II. Pubblicità e pubbliche relazioni III. Contatti Rai-TV IV. Contatti concerti e festivals V. Contatti esterno e Federazione Europea del Jazz VI. Conservatori e scuole, Ministero Pubblica, Istruzione, Consulenza, Insegnamento VII. Contatti con associazioni culturali VIII. Servizio sindacale IX. Contatti con autorità governative e Ministeri X. Amministrazione Le cariche di Capo Servizio sono cumulabili. 14) Il Consiglio Direttivo può autorizzare la costituzione di gruppi regionali o provinciali, quando i soci nella regione o nella provincia siano almeno 5. Il tal caso il Consiglio Direttivo designa uno dei soci appartenenti al gruppo regionale come delegato regionale dell’Unione con l’incarico di: a) mantenere i collegamenti con la Sede b) esprimere il proprio parere sulle nuove domande di iscrizione all’Unione di musicisti o sostenitori residenti nella regione; c) promuovere, in accordo con Consiglio Direttivo dell’Unione, lo sviluppo dell’Unione nella regione e le iniziative locali idonee a conseguirlo. Il Delegato Regionale o Provinciale può assistere alle riunioni del Consiglio Direttivo con voto consultivo. 15) L’Amministratore può assistere di diritto alla prima riunione del Consiglio Direttivo o a tutte le riunioni nelle quali si discutono i bilanci preventivi e consuntivi e la situazione finanziaria dell’Unione. La carica di amministratore è incompatibile con quella di consigliere. 16) L’Assemblea Generale ordinaria dei soci viene convocata entro il primo semestre di ogni anno a mezzo di comunicazione personale indirizzata a ciascun socio almeno otto giorni prima della convocazione. L’Assemblea controlla ed approva l’operato del Consiglio Direttivo, discute ed approva i bilanci preventivi e consuntivi presentati dal Consiglio, rinnova ogni anno il Consiglio Direttivo, decide su tutte le questioni portate all’o.d.g. sia dal Consiglio sia da almeno un quarto dei soci in regola con le quote. 17) L’Assemblea Generale straordinaria dei Soci viene convocata quando se ne presenti la necessità dal parte del Consiglio Direttivo oppure quando venga richiesta per iscritto da almeno un quarto dei soci in regola con le quote. 18) Possono prendere parte alle assemblee solo i soci in regola con i pagamenti delle quote e contro i quali non penda un giudizio di radiazione. Per la validità delle assemblee è necessaria la presenza, personale o per rappresentanza scritta di almeno la metà più uno dei soci regolarmente iscritti. I soci impossibilitati a intervenire possono farsi rappresentare da altro socio, che non potrà disporre di più di due deleghe, tranne i rappresentanti dei gruppi regionali e provinciali, che possono rappresentare tutti gli iscritti al gruppo e a loro volta affidare la delega dell’interno gruppo ad altro socio. 19) Le votazioni possono essere fatte o partecipando all’apposita assemblea, o per posta. A tale proposito verrà inviata agli iscritti una scheda con la lista da votare e da rispedire in sede. Gli scrutini verranno fatti da tre capi- servizio uscenti. A parità di voti si proclamerà eletto il socio più anziano per data di iscrizione o per età. 20) Qualsiasi modifica allo Statuto o lo scioglimento dell’Unione , possono essere decisi solo all’Assemblea Generale straordinaria dei Soci, con l’approvazione da parte dei 3/5 dei soci presenti. Questo lo statuto dell’associazione. Rispetto alla lettera programmatica, sono stati attenuati i toni (eliminato accortamente l’articolo circa il controllo della critica) e la denominazione si è trasformata da Unione Nazionale in Unione Italiana. Lo spirito però è quello che è corporativo. La forma rasenta a volte il grottesco, come al numero 4, da cui risulta che si può essere ammessi alla categoria A, dimostrando al capo-servizio di consulenza musicale di essere musicisti di jazz. Ma chi è il capo-servizio di consulenza musicale? In effetti, l’unico modo per essere ammessi all’Unione sembra quello di ricorrere alla formula della garanzia, per cui due soci già iscritti rispondono delle qualità del terzo. Ma validità dell’iscrizione potrebbe venire contestata da chiunque non fosse d’accordo sul significato da dare all’espressione musicista di jazz; fino al punto di poter/dover dubitare sulla legittimità dell’iscrizione dei due stessi musicisti che si offrono come garanti delle qualità del terzo. E cosi via. A meno che, la garanzia, di cui all’art.4°, non debba intendersi sul piano della fede. Ma questo equivarrebbe a ridurre l’Unione a una conventicola settaria. E allora, a che serve questa Unione? Sia ben chiaro che sto cercando solo di mettere insieme alcuni elementi per definire concretamente una situazione. Certo, la botta del free è stata forte e qualche ripercussione s’è avuta anche da noi. Ma su quale piattaforma culturale! In piena esplosione free, Musica Jazz ospita sulle sue pagine un corso propedeutico sul jazz ( ùL’ABC del jazz ), scritto nientemeno che da Livio Cerri. Questo Cerri, nel 1969, pubblica un libro (Jazz in microsolco, Nistri-Lischi ed.) in cui se ne leggono di tutti i colori. Vale la pena di riportare uno o due esempi: “Confesso che ho deliberatamente atteso molti mesi prima di decidermi a prendere in considerazione un disco (This is our music) dell’altista Ornette Coleman, salutato da molti e troppo benevoli critici nordamericani e da alcuni giovani nostrani come l’idolo del jazz d’oggi. Non mi piace esprimere sinceramente un mio giudizio per poi sentirmi dire che un bieco reazionario o peggio, e quindi cerco di evitarlo. Ora che anche i sostenitori di Coleman cominciano a manifestare qualche dubbio e che la ventata di moda sta passando mi sento già un po’ più tranquillo. Una cosa che avevo molto ammirato nel jazzisti del dopoguerra era quella indiscutibile rifinitura tecnica, che non mi faceva sfigurare quando mettevo sul giradischi le loro incisioni per farle ascoltare a musicisti accademici. Ma credo che non farò mai ascoltare un disco di Coleman ad un musicista classico, altrimenti dovrei arrossire dalla vergogna. Infatti, il simpatico Ornette vorrebbe dire cose nuove o crede di dirle, ma manca di ogni preparazione fondamentale per poterlo fare: la sua sonorità al contralto è quanto di più brutto e volgare abbia ascoltato da molti anni.” Questo è Livio Cerri. “Devo premettere che il sassofonista John Coltrane è stato molto gonfiato da alcuni nordamericani ed europei e che io ho espresso molte riserve su di lui sin dal tempo in cui venne in Europa col quintetto di Miles Davis, suscitando molte reazioni fra i cultori più sprovveduti e che credono ciecamente a ciò che viene stampato negli Stati Uniti. Con questo disco (Africa Brass) abbiamo la quintessenza di Coltrane; penso perciò che esso sarà molto ammirato da coloro che ritengono Coltrane una specie di caposcuola del nuovo jazz. Quanto a me, non posso che confermare i miei precedenti giudizi: non voglio dire che non si tratti di jazz, ma se davvero il jazz odierno dovesse prendere questa piega, potete star sicuri che lo abbandonerei decisamente malgrado i trenta anni di costante fedeltà di studio. Pertanto dirò semplicemente che si tratta di musica che decisamente non mi piace e di cui assolutamente nulla mi attrae: né i gargarismi di saxofono-cornamusa (sia nel caso del tenore che del soprano) del titolare, né il modesto pianista Mc Coy Turner (!), né gli assoli di batteria…” Capitolo terzo – “E’ stato un grosso personaggio,Trane: forse (ma, per chi scrive queste note, senza forse) il più grande affermatosi sulla scena del jazz dopo la morte di Parker (…) A certi risultati Coltrane è pervenuto con fatica, gradualmente, attraverso un puntiglioso lavoro di ricerca e di perfezionamento durato anni; e ha penato molto prima di farsi accettare” ( “Musica Jazz”,n. 243- agosto- sett. ’67 ) . Capitolo secondo – “Se John Coltrane suonasse sempre, avesse suonato sempre, come fa nel brano che dà il titolo a questo microsolco, My Favorite Things, sarebbe uno dei più grandi solisti contemporanei (…) Il guaio è che Coltrane ha dietro le spalle molti anni di mediocre mestiere (…) Prendete i dischi da lui incisi con Miles Davis fino al 1957, ed anche quelli di poco posteriori (…) : il suo discorso è insignificante e francamente noioso, intessuto com’è dei più bolsi luoghi comuni. E ricordatevi dello schiamazzante sassofonista che si presentò lo scorso anno, a Milano, col quintetto di Davis (…) Che uomo è mai questo, che non ha detto assolutamente nulla di interessante negli anni in cui di solito un musicista di jazz dice le cose migliori e dà tutto se stesso ? E come si spiegano i tonfi che di tanto in tanto fa anche ora (…) ? C’è solo un modo per spiegare tutto questo: che la recente, improvvisa e stupefacente fioritura artistica di John Coltrane sia stata determinata, in grandissima parte, da uno straordinario sforzo di volontà, è che il suo stile quindi il risultato di una scelta arbitraria, fatta con fredda determinazione. “ (Musica Jazz, n. 176 – luglio- agosto 1961 ). Nello stesso numero, rispondendo ad un lettore: “ La verità è che il Nostro non è un artista nel senso pieno del termine: è musicista ingegnoso che dopo infiniti sforzi (ci sono voluti quindici anni!) ha inventato uno stile originale, che però è cosi poco naturale da scivolare spesso nell’assurdo e quindi nel brutto. “ Capitolo primo – “ Davis e Coltrane hanno fatto fiasco, a Milano come nelle altre città europee, anche se non sono mancanti coloro che hanno applaudito con entusiasmo, convinti di aver assistito ad uno spettacolo straordinario, e più precisamente di essere stati i testimoni oculari di una svolta nella storia del jazz (…) Se qualche dubbio di non aver capito bene mi era rimasto dopo l’ascolto dei suoi dischi, esso si è dissolto come neve al sole all’audizione diretta. Vi dirò quindi, senza alcun rimorso, che Coltrane è, a mio sommesso parere, una caricatura di Sonny Rollins, su cui non vale la pena (Dio mi perdoni) di spendere parole. Anziché geniale, il suo discorso solistico mi è parso bislacco e sgangherato, ed anche volgare (…) Come poi si possa, dopo aver sentito per un’ora Getz, prendere sul serio Coltrane, ha costituito per me l’enigma della serata” ( “ Musica Jazz”, n.163 maggio ’60) Ecco, questa la storia ufficiale di Coltrane in Italia. Ci sarebbe anche l’articolo di Umberto Santucci (Jazz + Microstruttura + John = Coltrante, in “ Musica Jazz” n.198 luglio agosto 1963) ma riproporne la lettura non farebbe che aggravare la situazione, visto che si trattava di un dilettantistico tentativo di fusione della cultura scientifica con la cultura estetica su una base di idealismo velato fino al limite del qualunquismo: “Dal Baumagartner al Croce, fino ai moderni teorici dell’estetica (Pareyson, Eco, ecc.) è riconosciuto dell’arte un valore conoscitivo, che si realizza mediante un processo di intuizione-espressione, anziché mediante un processo logico, proprio alle scienze e alla filosofia “ L’equivoco sta tutto in quel ecc… Ma spostiamoci: passiamo da Coltrane a Shepp e compagni. La situazione non sembra delinearsi diversamente. E’ inutile stare a fare anche per il free un’altra storia del cammino della critica. C’è da notare, comunque, che con il free le cose si sono complicate ulteriormente, perché i musicisti che hanno inventato questa musica hanno inteso fin dall’inizio impegnarsi di un discorso ideologico e politici ben preciso: e dunque i giudizi sulla loro musica non possono più essere idealisticamente estetici. E’ l’oggetto stesso che rifiuta una considerazione di questo tipo. L’esigenza di una critica che si assumesse le proprie responsabilità a tutti i livelli fu sentita proprio dal sottoscritto, il quale, nel dicembre ’66 scrisse al direttore di Musica Jazz (n. 235) una lettera, sulla quale penso valga la pena ritornare un attimo, visto che a distanza di cinque anni, risiamo più o meno allo stesso punto. Dunque, rileggiamo rapidamente: “ Premesso che: a) l’oggettualità dell’opera d’arte, in base alla quale l’opera si distingue, è data dalle sue modalità tecnico-linguistiche; b) l’internazionalità dell’opera d’arte, in base alla quale l’opera si diversifica, è data dalla sua qualificazione storico-culturale; e premesso che: nel giudizio estetico le due componenti (distinzione-diversità) sono connesse (un ‘analisi oggettuale, cioè riguardante solo la struttura tecnico-linguistica dell’opera, non ha significato, poiché manca la rivelazione dell’intenzionalità, la quale appunto fa sì che l’opera sia strutturata e non un causale incontro di elementi: né ha un senso un esame solo intenzionale, perché allora si riduce l’oggetto ad un indefinibile fenomeno culturale essendosi perduto ogni carattere di empiricità); si può dire che, con l’allargamento delle sfere d’interesse della cultura, sono venute alla luce, proprio sul piano intenzionale, modalità diverse, le quali hanno imposto una metodologia diversa da quella delle “ arti belle”. (…) Quando si dice: questo non è jazz, ci si deve preoccupare che il giudizio sia frutto di un esame oggettuale-intenzionale e non solo di una analisi empirica (mi riferisco, specialmente ma non unicamente, a certi atteggiamenti che si sono presi nei confronti del free…) Altrimenti, non si ha il diritto di dire: questo non significa niente, questo significa poco. C’è infatti, una stretta connessione tra semanticità e internazionalità. (…) Alla base di un segno istituzionalizzante, quale può essere anche lo scarabocchio sul foglio di carta o la successione di poche note (o suoni) prodotte dal musicista free, si trova sempre una storia di segni che presiede, per così dire, alla nascita di quel segno ed è condizione del suo relativo sviluppo.” Questa lettera oggi avrebbe oggi avrebbe ancora il medesimo valore di attualità sulle pagine di Musica Jazz. Infatti dopo, una serie di articoli, come Le ragioni del free, n.237; Le ragioni del pubblico, n.245; Free come relazione, n.254; Analizzare il contino, n.262, nel 1968 ( n.247 della rivista), l’atteggiamento critico di Polillo (e quindi tutto sommato, di Musica Jazz, le opinioni contrarie vengono democraticamente ospitate…) nei confronti di uno Shepp non è molto diverso da quello di alcuni anni prima nei confronti di Coltrane (ovviamente, dopo quella esperienza, la forma almeno è più pacata). “Da quando l’ineffabile Archie Shepp ha fatto la sua apparizione da choc, come quella di Madama Pace nei pirandelliani Sei personaggi, io ho finito di vivere tranquillamente. Sono infatti diventato inviso sia ai fautori del jazz “regolare” (stavo per dire “perbene”) sia a coloro che sostengono il free jazz senza riserve”. Certo che contrapporre il free al jazz “regolare” o “perbene” mi sembra proprio una bella impostazione metodologica! E’ l’impostazione che porterà il direttore della rivista di jazz italiana (solo per questo sto facendo il discorso: perché il jazz italiano si identifica per forza di cose con questa rivista) a precisare in questi termini le sue idee sull’impegno della critica nei confronti del jazz attuale (sono considerazioni recenti, tratte dal n.278 del nov. ’70): “Noi che vogliamo prima di tutto capire un certo tipo di musica, e valutarne la complessa e cangiante fenomenologia, dobbiamo anzitutto dimenticare l’homo politicus che c’è in ciascuno di noi, e chiederci, prescindendo dal consenso o dal dissenso coi contenuti e con le motivazioni, quali risultati estetici siano stati conseguiti nei singoli concerti, casi in esame.” Siamo in pieno idealismo. Il piano estetico del discorso è contemplato come assoluto e autosufficiente. Nei paradiso degli artisti non c’è posto per i cattivi. E nell’inferno dei cattivi c’è posto per l’arte? Chi fa il jazz in Italia? Tuo Franco Pecori” Mario Schiano è un jazzista perché ha, come il jazz, il coraggio di essere antipopolare. La differenza tra coraggio e incoscienza, ormai lo abbiamo imparato, sta nell’aver paura e vincerla. Schiano ama da morire (mi piace che non faccia niente per nasconderlo) il riconoscimento, la critica lusinghiera, ma non la cerca. Suona a dispetto delle gente, pur non volendo fare. “Voglio stimolare una reazione. Mi hanno detto che sono fuori del mondo, che la musica del mio sax è libera perché non saprei costringerla negli schemi giusti. No, ditemi che non ho tecnica, che la voce non va, che non vi piace quello che suono, ma che non la mia libertà è una scusa. Io vedo le armonie di un chorus come un tunnel, vedo i buchi nei quali mi posso infilare con un movimento che è un’onda, che lo prende di fianco, che si infila di sotto, che esce di lato e ci ritorna se ne ha voglia, ma non per cercarmi degli alibi. Io sono piantato in terra ben più di chi ascolta, quando suono. Vivo la gente, vivo il fumo, i colori alle pareti, la meraviglia di suonare tutto quel mare di cose che ti gonfia dentro sino a ingigantirti. La musica diventa un monte di idee, più grande di quello che puoi concepire con la mente, enorme rispetto a quello che puoi realizzare con le dita. Il fiato non ti basta, mio Dio ti scoppia tutto dentro, un’ora di sfogo da impazzire. Se senti bene la mia musica, dentro c’è il blues, ti giuro, è tutto blues vestito con altri stracci. Ma se non lo vuoi sentire (perché non hai dodici battute, in sibemolle, batto quattro e via con il riff), se non si sovrappone a quello che hai in testa da settanta anni, allora niente da fare. Ti capisce di più l’operaio di Piombino che non sa cos’è un sibemolle però ti segue: non sa cosa diavolo suoni, mi riceve lo stimolo, si eccita. E’ più disposto, più libero dentro: non ha sovrastrutture da abbattere per decodificare il messaggio che gli trasmetti.” Mario Schiano infila il free jazz nei teatrini, nei cabaret, nei dopolavori degli altiforni. Il tatto è di una gazza ladra che nasconde gli anelli (per amore) nei punti oscuri. Per anni ricerca gli accoppiamenti più inquietanti: a Roma nel ’66 mischia il free jazz (Tendenziale Numero Uno) con la poesia di Juke box all’Idrogeno assieme a Marcello Melis, contrabbasso e Franco Pecori, batteria. E’ il Gruppo Romano Free Jazz che nasce, e con una certa elasticità di organico, si instaura al Folkstudio ed al Beat 72. L’anno seguente, con Giancarlo Schiaffini al trombone ed un rinforzo alla percussione portato da Bruno Biriaco, va in onda nel concerto Rai, Addio e Molti Auguri a Rituccia. Nel marzo del ’67, Schiano commenta dal vivo la vernice romana di Ugo Sterpini, uno che il jazz, non sapendolo suonare, lo dipinge. Nel settembre del ’67 è con Gato Barbieri: il sassofonista argentino, dopo le sue perfomances americane con Ornette Coleman, giunge a Roma stracolmo di musica stimolante e nuova. Poi l’anno seguente, con Enrico Rava, anche lui appena sbarcato d’oltreoceano, mette “il free jazz di fronte a quattro realtà del sistema”. E’ uno spettacolo duro, provocatorio, che va in scena a Roma al Beat 72. Quattro modi di morire: per aborto illegale, per fame, sul lavoro e morire credendo di continuare a vivere (il morto-vivo è l’integrato nel sistema). Il jazz è sposato allo stimolo visivo: non si può capire quanto sia la musica a commentare le immagini piuttosto che i segni e i colori a formare le note nella testa dei musicisti. Su una delle pareti della “cave” un proiettore staglia fotografie, titoli di giornali, inserti di pubblicità: vi sono cartelli, segni fatti con il gesso; voci che recitano, luci che prendono a schiaffi. Lo spettacolo è un pretesto per fare del free jazz. Dalla cave sotterranea allo stadio sportivo: nel mese di agosto del 1966 Schiano, con Pecori e Tommaso, crea le musiche del Mutilato di Toller che il gruppo Teatroggi di Bruno Cirino mette in scena al campo sportivo di Pietralata. E’ un teatro coraggioso, fatto con pochi soldi, che va dove il teatro serve di più, tra la gente del Tiburtino, in mezzo ai palazzoni di cemento soffocanti, mostruosi, che gravano sullo stadio con i loro televisori a tutto volume. Ma il jazz è più forte dei televisori, la recitazione è generosa: la gente spegne i televisori , mette la seggiole sui balconi e, uomini in canottiera e donne in sottoveste, segue Toller. Schiano si unisce poi al sassofonista belga Jacques Pelzer e dà concerti dappertutto. In seguito, con Marcello Melis e Marco Cristofolini, esegue la colonna sonora di Apollon, una fabbrica occupata che Ugo Gregoretti ha girato in otto giorni per riprendere dal vero la lotta operaia a Roma. Il film (uno dei primi esempi italiani di cinema parallelo) viene proiettato anche al Modern Art Museum di New York. Nel novembre ’69 Schiano è chiamato a realizzare dal vivo le musiche di Paradise Now che il Living Theatre ha in programma ad Urbino. E’ un’esperienza traumatizzante, un’apparente mancata rappresentazione che è invece ben più teatro di quello che avrebbe potuto essere se lo spettacolo si fosse svolto. Sergio Saviane, su l’Espresso, ne fa una recensione illuminate: “Sono le nove di sera e comincia lo spettacolo. Non sulla pedana, naturalmente, perché non si può entrare a causa della ressa, ma sulle scalette che portano nella cantina-teatro. Gli spettatori non lo sanno ancora che lo spettacolo è già incominciato: nessuno se n’è accorto. Schiano, Pecori e Tommaso riescono a conquistare i primi tre scalini, ma rimangono là bloccati. Non possono né tornare indietro, né avanzare. Gli spettatori protestano per il ritardo; quelli esterni reclamano a loro volta per entrare. Cosa si deve fare? In questo preciso momento si sente intonare un salmo marocchino. Sono gli attori che arrivano coperti di stracci. Ma restano bloccati anche loro sui primi scalini, tra le urla, gli insulti, gli spintoni. Lo spettacolo quindi continua là, fra le scale, la cantina e la piazza, da cui arrivano minacciose proteste. Finalmente Julian Beck riesce a farsi strada con pochi compagni e a raggiungere la pedana. Sulla sua scia, si muovono anche i tre musicisti, che si installano come passeri infreddoliti nel loro angolino di un metro quadrato di spazio. “Piazza, piazza”, gridano gli spettatori “Trasferiamoci tutti in piazza“. “Ci vuole un teatro più grande per fare Paradise Now – dice Beck, rivolgendosi verso gli stessi organizzatori: “Non c’è posto qui … Che impresari siete voi di Urbino che non sapete fare bene le cose. Noi non vogliamo fare lo spettacolo per una èlite…”. “E voi quanto vi fate pagare per queste burattinate?” gridano dalla platea. ”Andiamo in piazza…visto che siete già stati pagati…Ricevete denaro anche dai teatri borghesi, cinquemila lire al biglietto!”. “Ma noi dobbiamo mangiare” risponde Beck. E così, cantina, piazza, scale, lo spettacolo va avanti per un’ora. I tre musicisti suonano con i gomiti degli spettatori sullo stomaco. Sembra impossibile che riescano a soffiare e a battere sui loro strumenti. Nel caos generale si sentono soltanto i sibili del sassofono di Schiano, il quale incurante del groviglio, continua a suonare. E gli studenti di Urbino mostrano ora di preferire il trio agli attori del Living. Nei brevi intervalli alcuni gridano a Schiano: “Buttateli fuori gli attori, suonate voi…soli!” Finalmente tutta la compagna è riuscita a mettere i piedi nel centro della pedana. Agli insulti del pubblico rispondono sorridendo prima e spogliandosi poi. Quindi si mettono in cerchio e fumano la loro pipa gigante della pace. “Non si può fare niente qui” ripete Julian Beck, che non riesce a distendersi per terra con gli altri. Ora c’è una matassa di corpi umani al suolo. “Volete la comunione col pubblico?” gridano gli spettatori, “ora ce l’avete” “Noi la comunione la otteniamo dappertutto, anche dove c’è posto…” “Andate via” - rintuzzano altri spettatori - “vi fate pagare per spogliarvi… un pezzo di sedere maschile non vale tanti soldi…. siamo capaci anche noi di spogliarci e fumare la pipa..” E così va avanti fino all’una di notte, mentre i musicisti continuano a suonare. Lo spettacolo è finito, ma nessuno ha visto Paradise Now. Ora sono tutti nell’unica trattoria aperta, studenti, attori, musicisti. Se ne parlerà fino alle quattro del mattino.” Dopo Urbino e quella notte folle, Schiano accoppia il free jazz al cinema muto napoletano, a Nettuno inserisce un concerto nella Prima rassegna di ricerca teatrale, poi apre le porte agli studenti ed opera al Beat 72, dove sono free il jazz e l’ingresso. Le offerte vanno a favore degli operai della Vegua Stampa. Nel 1971, Schiano incide il suo primo disco: If not ecstatic we refund. Il brano migliore Collage, è una visione antologica della musica del trio. Le marce grottesche, la sonorità sgradevole, il tono dissacrante usato per la citazioni di classici tunes, servono da stimolo a Schiano, Tommaso e Pecori per elaborare nuove proposte musicali. Schiano ha una caratteristica: non suona il sax come si suona il sax. Non ha il perbenismo dei musicisti che strumentalizzano la musica anziché lo strumento: rinuncia cioè, a conservarsi sassofonista. Umberto Santucci, artista, pubblicitario, redattore di Musica Jazz e collaboratore della Nuova Rivista Musicale Italiana, autore del ciclo di trasmissioni radiofoniche “Impariamo cos’è il Jazz” realizzato con Nunzio Rotondo, promotore della U.I.M.J. Unione Italiana Musicisti di Jazz. “Io penso che si debba distinguere fra il jazz in Italia e il jazz italiano. Il jazz in Italia, considera il modo in cui viene presentato e recepito il fenomeno jazzistico nella nostra società. Cioè Armstrong, Parker e Archie Shepp di fronte all’avvocato italiano, al muratore italiano, alla prostituta italiana, all’intellettuale italiano. Il jazz attraverso i dischi, la Rai, la stampa. Il jazz italiano considera i musicisti italiani che suonano jazz, la loro importanza in Italia e in campo internazionale, la possibilità di fare un jazz diverso da quello americano, di fare cioè un jazz italiano. Sul jazz in Italia ci sarebbe molto da dire, ma mi sembra che tutto si può ridurre alla posizione non ben definita che occupa in Italia, una posizione fatta da una serie di negazioni: il jazz non è musica di massa, non è musica tradizionale, non è musica d’avanguardia. Penso che per risolvere questi problemi si debba affrontare un discorso critico che riesca a smantellare con serie argomentazioni tali considerazioni negative. Si può dire che l’unica vera affermazione del jazz nel costume italiano è avvenuta come musica di commento per cinema e televisione. Tutto il resto (concerti, festivals, locali, ecc.) ha avuto un’incidenza talmente marginale da potersi ritenere presso che trascurabile. La situazione sta cambiando negli ultimi tempi, perché il jazz comincia ad entrare nel giro delle attività finanziarie con denaro pubblico, cioè comincia ad essere considerato come una cosa “seria”. Ma non so se ci si debba veramente rallegrare della piega che hanno preso le cose perché questo riconoscimento da parte degli uffici pubblici è avvenuto in ritardo, quando cioè le cose veramente interessati non avvengono più nel jazz che è possibile presentare con l’aiuto dei finanziamenti pubblici. A questo riguardo penso esistano due sole possibilità: o si finanziano tutte le attività che, anche se non hanno una immediata e vasta rispondenza di massa, possono contribuire ad un progresso culturale, o non si finanzia nulla, Io non accetto che l’opera lirica mangi dieci miliardi solo in un teatro, mentre un jazzista deve sentirsi dire che la sua musica non si vende. Sarei piuttosto propenso all’abolizione di ogni tipo di finanziamento culturale, per vedere fino a che punto la cultura può vendersi in una società, e per dare alla società la cultura che si merita. Non sarebbe un gran male la morte dell’opera lirica, o del teatro di prosa, se da questa assenza nascesse il bisogno di proporre una nuova cultura spontanea. Questa è una possibilità. L’altra è quella di aggiornarsi e impadronirsi delle cose più aggiornate che accadono nel mondo (è quello che fanno i giapponesi) per arrivare a competere col mercato internazionale. In questo caso il compito spetterebbe all’industria musicale, statale, parastatale o privata che sia. E penso che una delle prime cose da fare sarebbe quella di combattere il monopolio della RAI. C’è poi un terzo tipo di intervento, che diventa una politica di investimenti a lungo termine. Se si devono spendere soldi, spendiamoli nella scuola per costruirci il patrimonio di domani, come artisti e come pubblico. E veniamo alla scuola musicale e all’insegnamento musicale nelle scuole, che in Italia sono in una situazione pressoché scandalosa. Da noi manca, ad esempio, una scuola di batteria, mentre tutti i complessi dalle orchestrine da balera fino alle orchestre stabili della RAI, hanno bisogno del batterista. Manca una scuola di chitarra elettrica, di basso pizzicato, di arrangiamento, di big band, di sassofono, e così via. Tutte cose che ormai da anni sono normalmente, copiosamente entrate nel costume e nel consumo musicale e che offrono posti di lavoro numerosi e ben retribuiti. Poiché una delle funzioni della scuola moderna è quella di preparare al lavoro, la mia proposta è quella di costituire una scuola professionale di musica, che non abbia la ambizioni puristiche del conservatorio, ma che si preoccupi di fornire alla società gli elementi di cui essa ha bisogno. Si dovrebbe partire dai tipi e dalle possibilità di lavoro, e costituire i corsi d’insegnamento in funzione di questi. E a questo punto si dovrebbero fare le cose in grande, mandando i nostri insegnanti ad addestrarsi presso scuole del genere che già esistono in America, e chiamando a tenere i seminari strumentisti e maestri fra i migliori del mondo. Penso che se si fa sentire in concerto a un giovane animato dai migliori proposti un grosso jazzista americano è quasi certo che egli ne ricavi un’esperienza frustrante, perché gli si fa sentire quanto è bravo quel maestro e quanto non potrà mai esistere bravo lui stesso. Se invece si prende il maestro, e lo si mette a disposizione dei giovani in un seminario di un mese, si dà loro un’esperienza tutt’altro che frustrante perché li si chiama a far parte di un mondo. E qui entriamo direttamente nel secondo argomento: il jazz italiano. Anche questo problema va impostato sotto due aspetti: il jazz italiano come jazz non negro, non americano, e il jazz italiano in quanto linguaggio ben caratterizzato e tipico di un italiano che voglia esprimersi col jazz. Considerando il primo aspetto, il jazz italiano si trova più o meno nelle stesse condizioni del jazz europeo, o giapponese, o australiano. Quando si dice che i musicisti italiani non sono dei colossi, bisogna sempre tenere presente che non lo sono di fronte ai maestri americani, ma più o meno sono alla pari con i loro colleghi non americani. Alcune altre civiltà jazzistiche possono vantare grossi nomi di livello veramente internazionale, ma si tratta sempre di eccezioni rispetto al livello medio, e di casi in cui c’è stata una stretta comunanza con musicisti americani. D’altronde il fatto che un italiano possa essere un grosso jazzista, purché viva in un altro ambiente, è dimostrato dai molti oriundi che hanno detto la loro nella storia del jazz. In realtà il grande handicap è costituito dalla nostra società, o quanto meno dalla posizione nella quale si sono sempre messi i nostri musicisti di fronte ad essa. Tutti i nostri musicisti mirano ad integrarsi nella società, più che contestare un sistema che crea loro una rete di bisogni e di convenzione da cui è difficile districarsi. Il musicista italiano è troppo borghese, troppo rispettabile, e invece di sacrificare tutto alla musica che ama cerca piuttosto di subordinare la musica al benessere, al denaro, alla macchina, alla famiglia, alla bella cena al ristorante. Il nostro musicista vive facendo altri lavori, altra musica, e suona la sua musica solo se deve presentarla in un concerto o inciderla su un disco. Nella maggior parte dei casi, salvo naturalmente qualche eccezione, ne viene fuori una musica ben concepita, ben suonata, ma in un aspetto più o meno latente di in autenticità, che può spiegare la scarsa risposta del pubblico e della società in genere. Considerando la possibilità di un jazz italiano devo dire che è senz’altro possibile la sua esistenza, anche se è molto difficile. Io penso che il jazz sia un linguaggio universale, o meglio internazionale, e che la sua lingua è l’inglese. Il tentativo di tradurre il jazz in lingua italiana non mi sembra molto interessante, mentre è senz’altro giusto quello di tradurre contenuti italiani nell’accademia, non folkloristica, e nemmeno commerciale, con la quale il musicista poteva esprimersi liberatamene, senza sottostare alle costrizioni di una partitura rigida ed alle regole di una tecnica strumentale di conservatorio; al tempo stesso poteva sentire la soddisfazione intima di usare un linguaggio internazionale, che andava oltre i limiti della musica tipica e folkloristica, e di sentirsi libero dalle imposizioni dell’industria e dalle leggi della moda e del consumo. A tale atteggiamento liberatorio partecipava anche l’ascoltatore, direttamente coinvolto nell’azione del musicista che creava la sua musica, e riscatto dalla sua passiva funzione di consumatore, per diventare vivo testimone di fatti unici e irrepetibili, in quanto nati dall’improvvisazione. A ciò è dovuto quel senso di privilegio che il jazzista sente di fronte a chi, non comprendendo e amando il jazz, deve accontentarsi di subire passivamente le imposizioni del mercato. Ma, diciamo dai Beatles in poi, si è venuto man mano configurando un genere di musica, etichettato prima come beat, poi come pop o rock, che pone il musicista e l’ascoltatore nelle stesse condizioni in cui ci si trovava prima con il jazz. Contemporaneamente, il jazz ha imboccato con il free una strada che, da un lato, lo ha portato tanto lontano dallo specifico jazzistico da renderne problematica la possibilità di classificarlo ancora come jazz, dall’altro ne ha chiuso il discorso ad una minoranza negra estremista. I musicisti che non suonano free si sono commercializzati e continuano a suonare più o meno bene la musica che fecero dieci, venti o trenta anni fa. Pochissimi fra i più vivi sono diventati decisamente musicisti pop. Data questa situazione, non c’è da stupirsi se i giovani non si riconoscono nel jazz, mentre è perfettamente naturale che si riconoscano nel pop, e cioè nella musica che attualmente gioca nello stesso ruolo che prima era stato del jazz. Per le ragioni dette, i giovani non hanno bisogno del jazz, mentre hanno bisogno della loro musica. Io sono convinto, e l’ho anche sperimentato, che l’unico modo per proporre il jazz ai giovani sia quello di presentarlo come ascendente del pop, un ascendente che è doveroso conoscere per poter suonare e comprendere meglio il pop, per cominciare a vedere quest’ultimo in una prospettiva storica. Bisogna spiegare a un giovane se vuole suonare la batteria deve studiare Buddy Miles e Ginger Baker, e risalire a Philly Joe Jones, ad Art Blakey, fino ai ritmi africani: il giovane amerà Kenny Clarke, e gli sarà riconoscente, perché sentirà che gli è stato utile per capire e suonare meglio la sua musica. Se invece si affronta il giovane dicendogli che Ginger Baker è un poveraccio di fronte a Max Roach, gli si fa un discorso incomprensibile, perché si pretende da lui che trascuri la musica di oggi per dedicarsi ad una musica di venti anni fa, è cioè di un’epoca in cui non era ancora nato. D’altronde, Ginger Baker non suona né meglio né peggio di Max Roach, così come Max Roach non suona meglio o peggio di Zutty Singleton. Ognuno suona molto bene la sua musica e non suonerebbe altrettanto bene la musica dell’altro. Naturalmente, quando parlo dei giovani, mi riferisco alla parte migliore di essi, perché fra i diciottenni e i ventenni ce ne sono tanti che sono soddisfatti di vedere Canzonissima e di comprare l’ultimo successo, quale che sia. Si tratta sempre di una minoranza, come erano pochi i giovani che dieci anni fa preferivano Sonny Rollins a Tony Dallara, ma è una minoranza più ampia, più appariscente e meno inibita di quanto non fosse stato prima. Se il jazz ha perso, o sta perdendo questa minoranza, la colpa non è dei giovani, ma del jazz, che sta assumendo gli atteggiamenti tipici della cultura di mezza età, intransigente, moralista, incapace di accettare e di comprendere tutto quello che viene dopo. Le esperienze dirette a cui alludevo prima, le ho fatte con due manifestazioni che ho curato recentemente per conto di Centri Servizi Culturali ISES di Lanciano e di Vasto, ambedue in Abruzzo. La prima era dedicata al jazz, e l’ho impostata cercando di sdrammatizzare le incompatibilità fra jazz e pop, facendo constatare ai giovani che la musica di Miles Davis, Charles Lloyd, dei Chicago e di Jimmi Hendrix, appartiene tutta alla stessa realtà e allo stesso mondo: questo discorso per loro è stato pienamente comprensibile e li ha portati a risalire con entusiasmo a Parker, a Errol Garner, fino a Bessie Smith. Purtroppo il mio discorso, che aveva creato un clima di totale confidenza con i ragazzi, è stato smentito da Tonani, che avevo inviato a tenere il concerto di chiusura, seguito da un dibatto. Dopo il concerto, peraltro egregiamente tenuto dai musicisti, Tonani ha aggredito i ragazzi presenti dando più o meno loro degli incolti perché apprezzavano il pop e non conoscevano il jazz. I ragazzi hanno candidamente replicato che la musica di Tonani, di fronte a quella di Santana, Zeppelin o Jeferson Airplane, a loro sembra vecchia, o almeno non attuale. A questo punto non era possibile continuare la discussione con la speranza di un accordo. A Vasto ho impostato la manifestazione tutta sulla cultura pop, nei suoi aspetti musicali, visivi di costume ecc., ed ho portato il “ Brainticket” , un nuovo complesso formato per metà da jazzisti di solida preparazione, e per metà da giovani musicisti pop. Nonostante la musica molto avanzata, il successo è stato strepitoso e i giovani sono rimasti per ore a parlare con i musicisti, mostrando tutta la loro vivacità, curiosità e disponibilità ad imparare. Si sono accorti da soli dell’importanza della preparazione jazzistica dei musicisti e hanno finito col parlare anche di jazz. Ora mi chiedo: è stata più positiva nei confronti del jazz la prima o a seconda manifestazione? Penso che il problema dei giovani per il jazz in Italia sia di primaria importanza, perché al jazz mancano i giovani, sia come musicisti che come pubblico e il jazz senza di loro diventa un fatto nostalgico, inattuale, senza prospettive future. Ma se vogliamo i giovani dobbiamo farci giovani, dobbiamo andare loro incontro, parlando il loro linguaggio, e mettendo umilmente a loro disposizione la nostra esperienza. Un ultimo argomento: i critici e i promotori di attività varie. Quando si parla e si scrive del jazz italiano il discorso è sempre fatto dai critici e sul banco degli imputati vengono messi sempre i musicisti, che sembrano gli unici responsabili di certe situazioni. Per una volta invece facciamo la critica alla critica. Se in Italia non ci sono musicisti di livello mondiale, non ci sono neanche critici di tale livello. Naturalmente ci sono ottimi critici, ma il loro valore dipende più che altro dalle capacità professionali o personali che rifluiscono in un’attività necessariamente episodica e marginale. Da noi i problemi del critico sono gli stessi del musicista: come per il musicista è impossibile trarre dal jazz un minimo per vivere dedicandosi esclusivamente ad esso, così il critico non può assolutamente pensare di vivere solo con il jazz. Inoltre al critico italiano mancano discoteche e biblioteche attrezzate (ognuno di noi si serve dei dischi e delle pubblicazioni personali e di qualche amico) che gli permettano di fare studi sistematici: fatalmente la critica italiana si riduce alle recensioni dei concerti e dei dischi, a qualche intervista e a qualche saggio, tutte cose che si possono fare rubando qualche ora ai programmi serali e domenicali. Ma la caratteristica più preoccupante dei nostri critici è quella di vivere lontano dai musicisti, e quindi di non poterne mai condividere il feeling più intimo e più spontaneo. Anche per i critici si può dire la stessa cosa detta per i musicisti: sono troppo per bene, troppo borghesi, troppo integrati in un sistema sociale che ha pochissimo da spartire con lo spirito del jazz (naturalmente io non intendo ergermi a giudice dei miei colleghi, ma cerco soltanto di individuare alcune circostanze che hanno ostacolato prima di tutto me e poi in misura più o meno marcata gli altri critici italiani). Infine anche i critici non hanno saputo (o non hanno voluto) aprirsi verso i giovani che hanno mancato di impostare una critica rock e al tempo stesso di tessere quei collegamenti necessari fra la cultura jazz e quella rock. Per quanto riguarda i promotori e gli organizzatori vari, vanno distinti in due settori: quelli che hanno in mano il potere politico e industriale e quelli che con il loro entusiasmo e la loro intraprendenza organizzano tutto ciò che possono. I secondi vanno elogiati perché hanno creato in Italia un giro di concerti e manifestazioni che non hanno nulla da invidiare a molte altre nazioni. I primi invece sono fra i maggiori responsabili del provincialismo in cui tutti ci troviamo, perchè non hanno voluto svolgere un’azione di bonifica del pubblico, per operare la metamorfosi dal consumatore passivo al fruitore attivo e consapevole e non hanno voluto puntare su musicisti che non avevano evidenti possibilità di tradursi in un alto e immediato indice di consumo.” Milano di sera mi è estranea, mi mette la paura delle città nelle quali il rifugio è una camera d’albergo senza volto (n.310, terzo piano, letto vuoto, appunti da sviluppare senza voglia, nebbia odiosa). Telefono a degli amici. Gianni Basso e Oscar Valdambrini mi raggiungono alle Tre Gazzelle. Milano, con loro, è di nuovo quella città di luci che conosco. Guida Gianni alla ricerca di una bettola con vini astigiani. La trova a due passi e il Gattinara sul tavolo è un piacere, mi ricorda la polenta mangiata nella stalla con i contadini del pinerolese quando i B59 andavano a bombardare Torino (un pericolo lontano, non per noi che eravamo al caldo tra le mucche e la paglia): il jazz non c’entra niente, bisogna infilarlo tra l’elenco delle annate favolose dei vini piemontesi che Gianni Basso sta complottando con il cameriere. Li ho lasciati che suonavano Ciao Turin alla Shorty Roger e me li ritrovo impegnati nelle suites sui modelli free. “Vedevamo i film di Alan Ladd” Oscar riporta, lievissima, l’ironia dei torinesi del borgo Vanchiglia, che riconoscono nel modo (solo apparente) di parlare come se le cose non fossero importanti “e ci piacevano. Il discorso free lo abbiamo maturato a grandi, lasciandolo decantare. Ci siamo allineati solo per convinzione, non per seguire la moda.” “Per il californiano” si inserisce Gianni Basso “ci siamo passati tutti. Nella storia c’è sempre un periodo nero ma importante. In fondo, il jazz non è una questione di formule, ma di linguaggio e oggi la maniera più libera mi dà il modo di esprimere tutto quello che sento. I giri armonici prestabiliti mi hanno sempre condizionato.” Chiedo se non riusciremo mai ad avere in Europa ed in Italia un linguaggio jazzistico che non nasca in ritardo di dieci anni. E incominciamo, come possono farlo degli amici, a litigare. Oscar Valdambrini mi ricorda come è nato il jazz, certe scale negre con il terzo e quinto tono abbassati, mi inchioda con le blue notes, con il patrimonio ritmico africano, mi rinfaccia che per un D’Andrea o un Ponty che nascono in Europa,oltre oceano sono pronti a vernirci ad insegnare il jazz migliaia di negretti sfornati dai colleges, in cui il jazz si prende nel latte a colazione, nella bistecca a pranzo, nel dolce della sera e nella jam sessions sotto casa. “Non avremo”, mi scandisce , “mai un solista a livello americano: il loro vivaio è troppo ampio.” Si aiuta con gli esempi: 6.000 piscine soltanto in una città come Los Angeles e noi 52 in tutta Italia. Loro migliaia di jazzmen potenziali, depositari alla storia del jazz, pronti a surclassarci come i nuotatori sfrontati dalle loro seimila piscine per città polverizzano i nostri. I negri, decide, sono e saranno sempre superiori nel jazz. Gianni (è una testa calda, cuore grande così) prende fuoco. Lui crede, ha fiducia nei giovani. Lotta con me, Gattinara in corpo, per affermare che il jazz è, ora, figlio del mondo e che i giovani diranno il parola nuova e risolutrice su questo punto. Il disaccordo dilaga rumorosamente sui vicini infastiditi. Oscar rinfaccia ai giovani di imbottirsi di droga, poveri debosciati incapaci di vivere senza stimoli artificiali. I giovani (e qui Gianni è trascinante ) si drogano solo in modo diverso, hashisc al posto delle false demagogie, delle droghe che le religioni ci hanno impartito per secoli. Le cose in Italia, possono andar meglio lottando. Stanno (puntualizza) andando meglio dopo che i musicisti italiani hanno imposto la loro partecipazione ai concerti sulla base di una percentuale di presenze rapportata a quelle degli stranieri. “Dove arriveremo?” chiede Valdambrini, con ironia aperta. “Togli il patrimonio negro, inventiamo un nuovo jazz, sotto le avanguardie, buttiamo via lo swing, largo ai giovani drogati: tra venti anni non lo chiameremo più jazz.” Ma è poi tanto importante chiamarlo così? “Si, jazz italiano! Ma se non esiste una nazione, forse ti abbuono la Turchia, “incalza Oscar ”in cui ci sia una tale apatia tra i musicisti, che sono orchestrali (vestito Facis, 850 Fiat, famiglia, al mare d’agosto alla pensione Ausonia di Cesenatico); se siamo la quart’ultima nazione al mondo in fatto di educazione musicale. Non abbiamo un folklore utilizzabile per il jazz. Il nostro folklore sone le polche.” Ci racconta di un clarinettista da balera tutto fuoco che gli ricordava Gianni Basso quando improvvisa, senza irriverenza per il compagno con il quale suona, con affetto enorme, da quindici anni: vuol significare che quel tipo di linguaggio, anche se genuino, lo stesso di Gianni, non serve al jazz; un folklore fatto di ¾, di 6/8. “Ecco, escluso il 6/8 della tarantella e della monferrina, non abbiamo altro, quando altri popoli hanno tempi pazzeschi, in cui puoi raccogliere lo swing a manciate e buttarlo sulla gente. In Sud America - continua a raccontarci- copiavo per ore, senza riuscire a rifarla bene, la scansione ritmica che gli operai battevano sui tavoli delle bettole con le mani. Se vogliamo basare l’avvenire del jazz sui temi folkloristici, potremo farlo (ma già ho detto a Gaslini, copieremo soltanto Pizzetti, Malipiero e Casella) raccogliendo spunti melodici. Una volta esposto il tema, non ci sarà più folklore. Come una volta i temi erano di Cole Porter o George Gershwin (e quando iniziava l’improvvisazione Porter e Gershwin sparivano) ora ci sarà un tema e uno svolgimento (come a scuola): finito il tema, sarai Coltrane, Rollins, Parker”. Il Gattinara è finito. Abbiamo riscoperto quanto è bello e stupido litigare per il jazz. Per fare pace leggo a Oscar quello che ho scritto sui nostri amici torinesi e lui (troppo buono, è sempre un gentiluomo) lo trova bellissimo. Forse perché così ricorda (con nostalgia) quando tirava i “cartocci” con lo spillo nel sedere delle signore, sui balconi di borgo Vanchiglia, con la cerbottana fatta con i tubi del leggio. E’ bello (anche utile) litigare per il jazz, sentirsi vivi, accapigliarsi, nutrirsi delle idee degli altri. Il jazz è bianco, il jazz è nero, la colpa è vostra, il free, il rock, l’anarchia, ai miei tempi, i giovani, l’universalità, il valore sociale, l’ambiente, discuterne?, finisce tutto in spaghetti, non è vero! Hanno parlato tutti, una jam fantastica, poeti e artigiani, massaie e attori, sul filo del blues. Io testimone e non giudice, ho passato le notti a trascrivere i nastri, ho verniciato lo strumento della tradizione nel colore dei giovani (targato made in Italy, pieno di bucatini) per stimolare una reazione. Lo strumento (dipinto pop non mi disturba) ora l’ho capovolto, ed è vuoto. Per liberarlo dagli spaghetti è bastato voltarlo. Il jazz italiano (verniciato da giovane mi sta bene) ora si è ripulito del sugo della pasta casereccia. E’ figlio del mondo. E’ jazz. Musica. Un patrimonio culturale da salvare. Enrico Cogno l