GIORNALE ITALIANO DI PSICOLOGIA DELLO SPORT P S ICOPATOLOGIE FEMMINILI NELLO SPORT E DIFFERENZA DI GENERE Alessandra Parroni Marta Corazzi Lucia Corazza Comitato Regionale Umbro per il Gioco e lo Sport RIASSUNTO Nonostante la presenza femminile sia sempre più massiccia anche in ambiti sportivi un tempo considerati prettamente maschili, come la boxe, il calcio, il rugby, scarseggiano ancora studi e letteratura scientifica in merito alle differenze sessuali. L’importanza attribuita dalle atlete alla mediazione maschile nella valutazione dei propri successi o insuccessi è rilevante nella pratica sportiva, poiché gli allenatori sono prevalentemente uomini, mentre difficoltosi appaiono l’affidamento ad una donna ed il riconoscimento dell’autorevolezza femminile. Anche come modelli ideali, con i quali confrontarsi nelle discipline agonistiche, vengono più spesso indicati dalle donne i campioni del sesso opposto. Da un rapporto tutto “di genere” con il proprio corpo sessuato scaturiscono poi non infrequenti patologie e disagi psichici, fra i quali i più evidenti sono i disturbi del comportamento alimentare, il controllo ossessivo e l’eccessivo sfruttamento dell’efficienza fisica e della “performance”, il desiderio, talvolta esasperato,di mantenere un “corpo da bambina” o ritornare ad una androginia preadolescenziale, tramite la cancellazione dei cicli mestruali. Anche l’elevata statura o un particolare sviluppo della massa muscolare, entrambe caratteristiche essenziali in sport quali, ad esempio il basket, possono indurre dismorfofobie e problematiche di accettazione della propria immagine fisica. PAROLE CHIAVE Genere; Differenza sessuale; Psicopatologie femminili specifiche ed aspecifiche da sport; Dismorfofobie; Androginia ABSTRACT Despite the increasingly presence of women in sport, especially in those usually practiced by male, such as boxing, football, rugby, there are still insufficient studies and literature on sexual differences. The importance attributed to masculine mediation in evaluating successes or failures from the athletes in competitive settings remains significant, because coaches and trainers are mostly men. Male champions are then more often viewed by women as ideals models. Psychical diseases and psychopathologies are not infrequent. The most frequent are eating disorders, obsessive control, and exploitation of physical efficiency and performance, namely, the desire to maintain a “child body” or to return to preadolescential androgyny through the control or elimination of the menstruations. Even height or muscle development, which are important characteristics in sports such as basket, can lead to dismorfofobie and problems of acceptance of individual physical image. KEY WORDS Gender; Sexual difference; Specific and aspecific psychopathologies from sport; dismorfofobie; androgyny Con il termine “genere” (dall’inglese “gender”) si intendono le aspettative sociali e culturali riguardo all’appartenenza biologica ed anatomica di ciascun individuo al sesso maschile o femminile. L’identità di genere è il nucleo organizzatore dell’esperienza psichica e della relazione con il mondo esterno. Chi si occupa di psicologia sa che le dimensioni interne del femminile e del maschile sono labili e complesse, spesso fluttuanti, e non si inscrivono nel dualismo rigido della struttura biologica ed anatomica. In pari modo può comunque constatare senza alcun dubbio una specificità nei processi di costruzione della soggettività femminile ed una differenziazione, rispetto al maschile, nel percorso di sviluppo psicologico. Gli “studi di genere” (“gender studies”), volti a verificare le effettive differenze fra uomini e donne in vari settori, sono completamente assenti dalla ricerca psicologica internazionale sino all’inizio degli anni ottanta. Per più di un secolo le teorie psicologiche si sono basate esclusivamente sul soggetto maschile. Significativo è che Freud sia giunto a formulare una teoria dello sviluppo infantile unica per entrambi i generi, pur essendosi basato soprattutto sull’osservazione e l’ascolto di donne. Del resto fu il primo a parlare di “indicibilità” dell’esperienza femminile, soprattutto per quanto ne concerne la sessualità e l’affettività, tanto che le definì “un continente oscuro”. Anche i contributi femminili al pensiero psicoanalitico, come quelli di Anna Freud, Marie Bonaparte, Helene Deutsch, Karen Horney ed altre, riconducono comunque la donna ad una mancanza: ella è non-uomo, definita per negazione. Il nostro contributo consiste in una rassegna critica degli studi inerenti la specificità dei disagi e delle psicopatologie femminili nelle discipline agonistiche. Premettiamo che riguardo alle differenze di genere e le loro implicazioni nella psicologia dello sport, la disamina accurata della letteratura e delle ricerche esistenti fa riscontrare una forte carenza. Lo sport è tradizionalmente un dominio maschile, ma negli ultimi anni si sono verificati notevoli cambiamenti, includendo una sempre più massiccia presenza femminile anche in discipline un tempo considerate prettamente maschili come la boxe, il calcio, il rugby, il ciclismo agonistico. Cann (1991) ha identificato fra i fattori sociali che hanno limitato la partecipazione femminile allo sport principalmente la rappresentazione estetica del corpo femminile, secondo la quale, fino agli anni cinquanta, l’assenza di sviluppo muscolare era una caratteristica desiderabile. Le attività motorie considerate appropriate per le donne erano la danza, il pattinaggio artistico, il tennis e l’equitazione, poi gli sport individuali o che comunque non implicassero contatti fisici. Ricordiamo che la prima squadra di ginnastica preparatoria femminile fu fondata a Torino dall’istruttore svizzero Rudolph Obermann nel 1867. Nella prima metà del novecento iniziano le discipline olimpioniche ed aumenta la partecipazione delle donne a sport di squadra e di contatto, mentre l’educazione fisica diviene materia scolastica anche per le ragazze. Nel periodo fascista in Italia lo sport viene associato alla virilità, mentre le donne devono praticare attività che ne esaltino i movimenti aggraziati. Con l’accesso femminile al voto ed il diffondersi del Giornale Italiano di PSICOLOGIA DELLO SPORT Numero 1 – 2008 31 RASSEGNE GIORNALE ITALIANO RASSEGNE DI PSICOLOGIA DELLO SPORT concetto di parità, il divario fra i sessi nella possibilità di accesso alle discipline sportive sembra essere annullato, ma, se questo è vero per le attività ricreative e di fitness, non lo è altrettanto per lo sport professionistico, poiché l’agonismo e lo “sport spettacolo” sono ancora territori maschili. I giornalisti sportivi sono prevalentemente uomini e la stampa offre più spazio allo sport di squadra maschile. A tutt’oggi le atlete italiane sono discriminate sul piano economico rispetto ai colleghi (Ricerca Regione Lazio, 2007) tanto che il 77% di coloro che praticano attività sportiva a livello agonistico non raggiungono l’indipendenza economica, il 21% afferma di aver subito in prima persona episodi di discriminazione e soltanto il 29% recepisce una retribuzione fissa. Molte di loro considerano lo sport anche agonistico come un’esperienza transitoria nella propria vita e non una possibilità professionale. Le cause sono attribuite alla scarsa presenza di dirigenti donne nelle federazioni e società sportive ed alla mancanza di valorizzazione mediatica degli sport femminili. In base alla legge 91 del 1981 poche atlete in Italia hanno diritto ad essere riconosciute professioniste e di conseguenza non hanno le tutele previste per le lavoratrici in maternità. La maternità è del resto spesso rinviata a fine carriera per vari ordini di motivi. Il Rapporto ISTAT 2007 evidenzia come le donne abbiano sempre meno tempo da dedicare alle attività sportive, anche semplicemente amatoriali. Difficile è infatti conciliare lo sport agonistico con i tempi della famiglia, dello studio e del lavoro. Permangono poi sistemi di credenze stereotipate e aspettative di genere, comportamento, abilità, efficacia e successo ancora legati a parametri maschili che influenzano l’autovalutazione e l’autostima delle atlete al ribasso e possono condizionarne la stessa performance o indurle all’abbandono precoce (“drop out”). Femminilità nello stereotipo significa minore aggressività, ambizione e competitività, maggiore orientamento verso i rapporti interpersonali, capacità empatica, passività e facilità di adattamento. Ma questi sono prototipi di personalità assegnati dalla cultura maschile ai quali le donne non sembrano affatto assomigliare, anche quando cercano di aderirvi. Nello sport comunque è certo che gli unici modelli e riferimenti sono quelli maschili e questo sembra avere un peso nella costruzione dell’identità sportiva femminile. Da diversi studi (Bal Filoramo, 2001; Brown, Frankel, e Fennell, 1989; Vaughter, Sadh, e Vozzola, 1994) emergono caratteristiche che vengono interpretate come specifiche del sesso femminile, quali la tendenza ad attribuire a variabili esterne i successi ed alla propria responsabilità gli insuccessi e a spostare dunque il “locus of control” a seconda dei risultati raggiunti. Sappiamo che i giochi dell’infanzia sono i precursori dell’attività sportiva e delle differenze di genere nella scelta delle specifiche discipline. Secondo Giuliano, Popp e Knight (2000) il fatto di aver giocato in gruppi misti o prevalentemente dell’altro sesso è per le bambine predittivo di future possibilità agonistiche in sport tradizionalmente considerati maschili, così come la preferenza accordata a giochi di movimento e competizione e giocattoli “da maschi”. Questo tipo di bambine risulterebbe favorito negli sport definiti maschili a causa della precoce valorizzazione di tratti ed attitudini come la competenza e la coordinazione motoria, la velocità, il controllo del corpo, la resistenza. Una grande influenza è poi esercitata dai modelli e dalle scale di valorizzazione familiari, sociali e del gruppo dei pari. La famiglia può infatti essere elemento di supporto o di disturbo nella scelta agonistica (Antshel e Anderman, 2000). Winnicott (1971) sottolinea il potere ritualizzante del gioco come creazione di situazioni-modello finalizzate all’acquisizione di competenze sulla realtà per mezzo della simulazione. Appare allora evidente che l’esclusione dai giochi cosiddetti “maschili” comporterà per le bambine un mancato apprendimento di tratti, ruoli ed abilità culturalmente e socialmente definiti come caratteristici del sesso opposto. L’identità personale si costruisce e si evolve sin dalla primissima infanzia nella relazione con il corpo e la sua rappresentazione. Se tale rap- 32 Giornale Italiano di PSICOLOGIA DELLO SPORT Numero 1 – 2008 presentazione si sviluppa in modo armonico, la personalità sarà equilibrata, in caso contrario mostrerà sintomi egodistonici e di disequilibrio. L’identità è dunque radicata non solo nella mente, ma anche nel corpo. L’immagine individuale e in seguito quella rimandata dallo sguardo degli altri, quella sociale, determineranno, nella reciproca interazione, l’accettarsi e l’essere accettati, l’autostima ed il senso di efficacia personale. Il corpo e lo schema corporeo (la rappresentazione, cioè, del proprio corpo in movimento, delle sequenze motorie e delle prassie automatizzate) sono dunque parte integrante nella costituzione della consapevolezza della propria identità. Il tutto viene poi fissato o modificato dalle relazioni sociali ed affettive a seconda che la risposta sia di approvazione o meno. Winnicott evidenzia come i primi giochi avvengano con il seno e con il corpo materno e già lì, nell’interazione giocosa con la madre, si abbozzi la prima rappresentazione di sé. Se l’identità si struttura a partire dal corpo, bisognerà tenere presente che ogni corpo è, prima di ogni altra determinazione, biologicamente e culturalmente sessuato. Proporre questo tipo di approccio vuol dire opporsi ad una pericolosa desessualizzazione ed alla pervasiva affermazione di un “neutro” apparente, dietro il quale si cela il “soggetto unico”, in realtà il maschile, che da sempre impera nella cultura occidentale ed anche nella psicologia. La specificità dell’autorappresentazione del corpo femminile è connessa alle trasformazioni che nel corso dell’esistenza esso subisce, al suo dinamismo: pensiamo alla pubertà, le mestruazioni, la gravidanza, il parto, la menopausa, eventi fisiologici a volte vissuti con ambivalenza ed angoscia. Avere a che fare continuamente con il divenire e il nuovo fa sì che ad ogni fase la donna debba imparare a “fare lutto” della precedente. Il mantenimento di un’identità stabile e non frammentaria è perciò un percorso a ostacoli, mentre non accade altrettanto per la posizione maschile, che, una volta acquisita, è contrassegnata da una certa fissità e mostra maggior agio con l’accrescimento, coerentemente con il tipo di evoluzione corporea che ha attraversato. Per quanto concerne la psicologia dello sport le patologie specifiche ed aspecifiche riferite alle atlete sembrano differire nettamente nella loro espressione da quelle maschili. Dalla letteratura esaminata (Anshel e Delany, 2001; Antshel e Anderman, 2000; Desertain e Wess, 1998; Koivula, 1999) fra le sindromi specifiche da sport la “master sindrome” o “sindrome del campione” sarebbe raramente riscontrabile nella donna atleta (Desertain e Wess, 1998; Koivula, 1999), ovvero si manifesterebbe, più che nella sua totalità, nel parossismo di alcuni dei tratti descritti, non necessariamente accompagnati dagli altri, fino a confondersi con un disturbo di personalità aspecifico rispetto allo sport e forse preesistente. Ricordiamo brevemente che tale complesso di sintomi psicologici consiste nell’adozione di un comportamento trasgressivo delle regole, perdita di controllo emotivo, disforia ed instabilità umorale, bassa tolleranza alle frustrazioni, ricerca di attenzioni e lodi, grandiosità, egocentrismo, atteggiamenti paranoici e recriminatori (Antonelli, 1963; Antonelli e Salvini, 1987). Nel caso della “nikefobia” (o “successphobia”, paura della vittoria), pur ugualmente rappresentata in uomini e donne, le spiegazioni psicoanalitiche che la riconducono al contrasto con l’autorità paterna, al senso di colpa e all’ “angoscia di castrazione”, ovvero al timore inconscio della ritorsione da parte del padre edipico, che l’atleta eviterebbe perdendo o evitando la competizione, mal si adattano ai processi di sviluppo psicologico femminili, contrassegnati da tutt’altre vicende edipiche. La paura di competere e di vincere, la paura del successo nelle atlete può dipendere dall’interiorizzazione di precoci apprendimenti sociali di una corretta educazione “di genere”, ovvero la valorizzazione di tratti ed atteggiamenti ritenuti appropriati al genere femminile come la modestia, l’umiltà, l’oblatività, la rinuncia al conseguimento di obiettivi personali. Un’altra interpretazione, di carattere psicoanalitico, potrebbe stare nel divieto di “competere con la madre” per non susci- GIORNALE ITALIANO RASSEGNE DI PSICOLOGIA DELLO SPORT tarne l’ira annientatrice (Klein, 1957) verso un io ancora instabile e non del tutto separato e definito. Allo stesso modo l’ansia preagonistica (“prestart anxiety”) e la depressione da successo sarebbero riconducibili nella donna a difficoltà di differenziazione e separazione (Aguglia e Sapienza 1988; Preti, Usai, Petretto, Miotto, e Masala, 2004) cioè sostanzialmente alla fragilità dell’io. L’ansia preagonistica e la depressione da successo precedono spesso il “burn out” (disinvestimento emotivo e motivazionale dell’attività sportiva) ed il “drop out”, ovvero l’abbandono precoce della pratica agonistica, frequentissimo nelle giovani atlete. I disturbi del comportamento alimentare, a nostro avviso imprecisamente classificati fra le patologie aspecifiche da sport, sono i più rappresentati nelle atlete e per certi aspetti divengono assimilabili alle condotte dopanti. L’idea monotematica di doversi alimentare solo di alcuni cibi ritenendo che giovino particolarmente allo sviluppo muscolare e all’attività agonistica (ortoressia), l’anoressia-bulimia finalizzate al controllo ed al mantenimento del peso o all’evitamento del menarca, spesso paradossalmente incoraggiate dagli stessi allenatori o dai genitori in particolare delle giovanissime ginnaste, sono temi che sembrano interessare quasi elusivamente le donne. Il quadro si completa poi con l’“exercise addiction”, una compulsione nell’allenamento che spesso accompagna il comportamento alimentare disfunzionale e facilmente si associa a dismorfofobie. Il frequentissimo controllo dei cicli mestruali tramite l’assunzione della pillola contraccettiva senza interruzioni o le iniezioni di ormoni al medesimo scopo, il sovrallenamento, il basso peso corporeo ricercato per favorire la performance, conducono spesso le atlete di alcune discipline a scompensi endocrini e metabolici, che possono avere anche serie ripercussioni psichiche. Ricordiamo la famosa “triade dell’atleta” costituita da amenorrea, alterazioni della condotta alimentare di vario tipo (ad es., dieta iperproteica e chetonica), osteoporosi. Le ricerche evidenziano il diffuso comportamento alimentare disfunzionale nel 74% delle ginnaste, il 47% delle maratonete, il 15,4% delle nuotatrici (Antonelli, Caputo, Grandonico, Tognetti, e Zenobi, 1991; Preti et al., 2004). Sulla base di tali dati si evidenzia senza dubbio la necessità di sensibilizzare manager, famiglie, allenatori ed in generale tutti coloro che strutturano il contesto sportivo al fine di prevenire simili problematiche. Una ricerca di Desertain e Wess (1998) rileva che le atlete androgine presentano minori conflitti e patologie rispetto a quelle molto caratterizzate femminilmente, che vanno incontro più frequentemente a conflitti di ruolo, “burn out” e abbandono precoce dell’attività sportiva. L’androginia è definita come l’interiorizzazione dei tratti sessuali tipici di entrambi i generi ed il conflitto di ruolo avrebbe origine nelle personalità inadeguate a far fronte alle caratteristiche richieste dallo sport (assertività, forza, indipendenza). Secondo gli autori citati il conflitto di ruolo viene risolto generalmente dalle atlete adottando quattro strategie di coping disadattivo consistenti nell’evitamento di ambienti sociali non sportivi, l’adozione di un comportamento androgino anche in contesti non sportivi o, al contrario, l’iperfemminilizzazione ed infine l’abbandono della pratica agonistica. Il contesto sportivo e la rete delle figure che ne fanno parte possono divenire per le atlete una sorta di “claustrum” protettivo rispetto al mondo esterno, generando ed amplificando difficoltà relazionali, affettive e di mantenimento dell’identità personale al di fuori delle sue “mura di cinta”. L’allenamento intenso quotidiano, in oltre, grazie all’iperstimolazione sensoriale e muscolare ed al rilascio di endorfine, può consentire il mascheramento e la riduzione di sensazioni depressive più o meno coscienti. Se praticato in modo compulsivo, lo sport è talvolta sintomatico dell’esistenza di un problema psichico. L’incapacità di accettare una sconfitta o un calo nell’efficienza fisica e nelle prestazioni può motivare anche la donna atleta a condotte dopanti, generando un circolo vizioso incrementato, successivamente, proprio dalle disfunzioni neurobiologiche, endocrine e cerebrali indotte dal doping. Un altro aspetto, che non può definirsi patologico, ma che va comunque rilevato come tema quasi esclusivamente femminile nello sport, è la preponderante non coincidenza, in alcune discipline come ad esempio il calcetto e il rugby, fra sesso biologico ed identità sessuale delle atlete. Questo è un fenomeno, ancora soggiacente a tabù ed omissioni, del quale è difficile valutare la preesistenza alla scelta sportiva. Non sappiamo cioè se preceda ed indirizzi la scelta di sport generalmente definiti maschili o ne sia al contrario condizionato. CONCLUSIONI Le problematiche femminili nello sport appaiono del tutto dissimili da quelle maschili. La scarsa visibilità ed il difficile accesso al professionismo delle donne atlete ne scoraggiano l’imitazione, favorendo invece l’identificazione e l’ammirazione per gli atleti maschi delle analoghe discipline, sostanziando un vuoto di “genealogie” e modelli femminili nello sport. Fortunatamente questo stato di cose sta cambiando. Riteniamo che un’accelerazione verso il cambiamento possa avvalersi del contributo della psicologia dello sport che dovrebbe prefigurare disegni di ricerca volti ad esplorare e valorizzare le differenze di genere nello sport e la specificità della motivazione agonistica nella donna. BIBLIOGRAFIA Aguglia, E., Sapienza, S. (1988). Aspetti della competizione nella adolescenza. Atletica Studi, 2, 165-174. Anshel, M. H., & Delany, J. (2001). Sources of acute stress, cognitive appraisals and coping strategies of male and female child athletes. Journal of Sport Behavior, 24, 329-353. Antonelli, F. (1963). Psicologia e psicopatologia dello sport. 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